Rassegna stampa 8 aprile

 

Giustizia: carceri sono bomba orologeria, quando l’esplosione?

di Tommaso Cerno

 

L’Espresso, 8 aprile 2010

 

Detenuti a quota 67 mila. Superata ormai anche la tollerabilità massima. Mentre i provvedimenti del governo continuano ad affollare gli istituti di immigrati e di accusati che restano in cella soltanto pochi giorni.

L’allarme carceri si chiama estate. E sta per diventare allarme rosso. Non c’entra il caldo. Nemmeno l’afa. Le prigioni italiane sono una bomba a orologeria che sta per esplodere. Le celle fatiscenti di nove metri quadrati con quattro detenuti stipati dentro, tavolaccio e latrina alla turca, erano già la vergogna d’Europa. Ma oggi nemmeno bastano più. Gli spazi sono finiti. La polizia penitenziaria è poca. I soldi meno ancora. E così il rischio collasso denunciato dallo stesso ministero della Giustizia sta per trasformarsi in emergenza nazionale: se la capienza regolamentare di 44 mila carcerati è già stata superata da tempo, a marzo s’è sforata anche la tolleranza massima dei nostri 207 istituti di pena. Stringendo le celle e ammassando i detenuti al limite dell’umanità si ricavavano poco più di 66.500 posti. Quando in Italia già il 28 febbraio erano rinchiuse 66.692 persone.

A marzo sono oltre 67 mila e il trend non lascia speranze: ne entrano ottocento in più ogni mese. Il Consiglio d’Europa ha già richiamato all’ordine il nostro Paese. Ma la fotografia anziché migliorare si fa sempre più agghiacciante: da Poggio Reale alla Dozza di Bologna, passando per Brescia, Roma e Palermo la scena è la stessa. Strutture vecchie, poca manutenzione, carcerati costretti a restare venti ore al giorno dietro le sbarre, senza educatori, senza lavorare, senza socializzare. Fra violenze, risse e suicidi.

Poche settimane fa un giovane nel carcere Mammagialla di Viterbo ha tentato di impiccarsi ed è stato soccorso dalla polizia penitenziaria. Una vita salvata per miracolo, a fronte di decine che escono di galera dentro una bara. Come il caso di Sulmona, in provincia dell’Aquila, dove Romano Iaria s’è appeso con un lenzuolo alla grata della cella. È il sedicesimo suicidio dietro le sbarre del 2010. Solo lo scorso anno erano morte 105 persone, una su tre s’è tolta la vita per disperazione. E la colpa è sempre più spesso del sovraffollamento, la tragedia silenziosa che potrebbe far esplodere in Italia una nuova stagione di rivolte nelle prigioni. Col rischio che torni la paura.

Il ministro della Giustizia Angelino Alfano aveva annunciato a gennaio un piano edilizio per costruire penitenziari. La previsione è di investire 1,4 miliardi di euro per 24 nuovi istituti, da realizzare con l’ormai collaudato sistema dell’emergenza, sotto l’egida della Protezione civile di Guido Bertolaso. Proprio com’è stato per il G8 della Maddalena. Si partirà con 700 milioni e nuovi padiglioni per espandere le strutture già esistenti. Edifici che dovrebbero garantire 21 mila posti in circa sei anni. Peccato che, anche se i cantieri partiranno davvero e rispetteranno i tempi, da soli serviranno a ben poco. Basta un viaggio dentro l’inferno quotidiano delle galere stracolme per capire che il problema non è di strutture.

Almeno non solo. È il sistema penitenziario italiano che non regge più l’ondata di ingressi. Quasi metà di quei detenuti, infatti, è ancora in attesa del processo. Sono oltre 30 mila gli imputati che restano dentro solo poche ore e la statistica dimostra che il 30 per cento di loro sarà assolto. Ma intanto intasano le galere, segnando il record negativo dell’Unione europea. Dietro di noi c’è la Grecia, che non arriva a 8 mila imputati in carcere, mentre gli altri paesi stanno attorno a quota 4 mila. Eppure il mal del mattone che già nel 1988 portò allo scandalo delle ‘carceri d’orò resta la strada favorita ancora oggi. Si gridano slogan, si invoca la sicurezza, si agita lo spauracchio dei criminali che rischierebbero di tornare in circolazione, quando in Italia le cose non vanno affatto così: sono solo 10 mila i condannati per crimini violenti e 650 i detenuti che scontano il cosiddetto carcere duro. Significa meno di un carcerato ogni sei.

A dare il colpo di grazia a un sistema già sotto stress è stata la Bossi-Fini. Con il risultato che quasi 25 mila detenuti sono, in questo momento, stranieri. Molti di loro vengono arrestati e spesso rilasciati nel giro di poche ore. Il risultato è che in alcune regioni il numero dei carcerati è doppio rispetto alla capienza delle prigioni, proprio perché la metà sono irregolari in transito. Nel carcere bolognese della Dozza, il più sovraffollato del Paese, si sale al 70 per cento. Ci stanno stipati quasi 1.200 detenuti a fronte di una capienza di 480 posti. In Veneto va anche peggio e si arriva all’80 per cento. "È dovuto al cosiddetto effetto "porta girevole", il turnover di stranieri arrestati perché privi di documenti e poi rilasciati: un viavai tanto oneroso per lo Stato quanto inutile per la collettività", denuncia Donatella Ferranti, capogruppo del Pd in commissione Giustizia. Stranieri che provengono da 140 diversi paesi, solo due dei quali hanno sottoscritto con l’Italia una convenzione bilaterale per il rimpatrio. Significa che le estradizioni, benché previste, sono pochissime, difficili e molto costose. "A sentire il ministro si sarebbe provveduto ad espellere 3.300 detenuti immigrati, ma la situazione è invece molto diversa. C’è stata piuttosto una crescita dell’intervento penale e quindi del carcere, purtroppo proporzionale alla diminuzione delle risorse dedicate ai servizi e agli interventi sociosanitari. Con il risultato che va peggio sia dentro che fuori, perché molti entrano onesti ed escono criminali".

Giustizia: diciottesimo suicidio... e la "macabra conta" continua

 

Carta, 8 aprile 2010

 

Viene mantenuto il più stretto riserbo sul detenuto di 39 anni, Carmine B., napoletano, collaboratore di giustizia, che si è suicidato nella tarda serata di ieri nel carcere di Capodimonte di Benevento. L’uomo, in attesa di giudizio dopo essere finito in una retata contro lo spaccio di sostanze stupefacenti, era giunto a Benevento lo scorso 12 febbraio. Secondo la ricostruzione fatta dagli investigatori, l’uomo si sarebbe impiccato alla porta del bagno con una calzamaglia di nylon nella propria cella del reparto transito della casa circondariale. A soccorrere per primo e inutilmente il detenuto è stata una guardia carceraria con la quale la stessa vittima poco prima aveva scambiato anche alcune parole. Il sostituto procuratore del Tribunale di Benevento, Anna Frasca, che coordina le indagini, ha disposto l’esame autoptico sul corpo della vittima all’ospedale Rummo di Benevento che verrà effettuato nei prossimi giorni.

E con quello di oggi siamo a diciotto: diciotto suicidi in carcere dall’inizio di quest’anno. Nel 2009, secondo il dossier di Ristretti Orizzonti (www.ristretti.it), i suicidi sono stati in tutto 72. A dare la notizia di quello di questa mattina - un detenuto 39enne, napoletano, collaboratore di giustizia, che nella tarda serata di ieri si è impiccato con una calzamaglia - è stato, con un comunicato, Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe): "Abbiamo saputo da pochi minuti di un nuovo suicidio in carcere di un detenuto ristretto ad Alta Sicurezza nel carcere di Benevento, un carcere dove sono presenti quasi 400 detenuti a fronte dei circa 240 posti letto regolamentari".

Scrive il segretario del Sappe: "La carenza di personale di polizia penitenziaria (ben 6 mila unità) e di educatori, di psicologi e di personale medico specializzato, il pesante sovraffollamento delle carceri italiane (oltre 67 mila detenuti in carceri che ne potrebbero ospitare 43 mila, con le conseguenti ripercussioni negative sulla dignità stessa di chi deve scontare una pena in celle affollate oltre ogni limite) sono temi che si dibattono da tempo, senza soluzione, e sono concause di questi tragici episodi".

Solo negli ultimi tre giorni sono state diverse le denuncie e le notizie provenienti dalle carceri italiane, vecchie piene e povere: lunedì una delegazione di deputati radicali ha compiuto una visita ispettiva all’Ucciardone, il carcere di Palermo. Ha denunciato il sovraffollamento e gli altri problemi del penitenziario: poco personale (ci sono 300 agenti invece dei 500 previsti), poca igiene, mancanza di riscaldamento, parenti costretti ad aspettare il loro turno di visita in mezzo ai rifiuti e senza riparo da pioggia e sole.

Martedì 6 aprile una quarantina di detenuti nel carcere di Porto Azzurro, all’isola d’Elba, ha preso in ostaggio due agenti per un paio d’ore. L’episodio è stato reso nato il 7 mattina ancora dal Sappe. Secondo Aldo Di Giacomo, responsabile locale del sindacato, l’accaduto "mette in evidenza le lacune del carcere dell’isola d’Elba e di tutto il sistema penitenziario italiano" ed è la conseguenza "delle drammatiche condizioni di vita in cui i detenuti di Porto Azzurro sono costretti a vivere. Il carcere è sporco, c’è tantissima umidità, i riscaldamenti spesso non funzionano e ci sono topi dappertutto. È impossibile lavorare e vivere con i topi che girano per la prigione".

Sempre martedì, l’agenzia Redattore sociale (www.redattoresociale.it) ha parlato della protesta di venti detenuti nel carcere romano di Rebibbia, all’interno del reparto G14, quello destinato a reclusi malati e infermi. I venti hanno iniziato lo sciopero totale della fame. Chiedono "l’applicazione della legge che prevede l’incompatibilità con il carcere per i detenuti affetti da malattie gravi". "Queste persone hanno sollevato un problema di strettissima attualità - ha sottolineato il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni - Bisognerebbe avere coraggio di investire per creare un sistema alternativo alla detenzione per rendere alla lunga le carceri più vivibili. E nel frattempo che ciò accada, adoperarsi per rendere più umane le condizioni di vita in carcere dei detenuti malati".

Domani dovrebbe iniziare in commissione Giustizia alla Camera l’esame del ddl del governo, che prevede che le pene detentive non superiori a un anno possano essere scontate in casa "o presso un altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza". Fallita per ora l’intenzione dell’esecutivo della "corsia preferenziale" al provvedimento, che fa parte del "piano carceri" presentato dal Guardasigilli Angelino Alfano il lontano 13 gennaio: non è stata trovata l’unanimità dei gruppi, infatti, alla proposta di assegnare il ddl in sede legislativa.

"Prima - spiega la capogruppo del Pd nella commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti - vogliamo verificare la reale volontà di tutte le forze politiche ad avviare un percorso normativo che sia veramente risolutivo e durevole per risolvere le cause primarie del sovraffollamento delle carceri. Una delle maggiori perplessità sull’attuale testo è che, ancora una volta, si vorrebbero affrontare le riforme sulla giustizia a costo zero".

In dissenso con la decisione del suo gruppo la radicale eletta nel Pd Rita Bernardini, che ha scritto una lettera alla Ferranti: "Vogliamo trascinare la discussione per mesi e mesi in sede referente e poi avere chissà quando il passaggio in aula e poi l’esame da parte dell’altro ramo del Parlamento? Arriveremo all’estate con più di 70 mila detenuti senza che nulla di concreto sia accaduto". Secondo le stime del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel settembre 2009 circa il 32 per cento dei detenuti a seguito di sentenza definitiva scontavano pene detentive non superiori a un anno: una percentuale che è costantemente in crescita.

Giustizia: dall'inizio anno una "lunga scia" di suicidi in carcere

 

Redattore Sociale, 8 aprile 2010

 

Il 2010 si è aperto con una lunga scia di suicidi in carcere: nei primi otto giorni dell’anno quattro detenuti si sono tolti la vita a Cagliari, Bari, Verona e a Sulmona. Sono seguiti i suicidi di Eddine Abellativ il 13 gennaio a Massa Carrara e Mohamed El Abbouby il 15 gennaio a Milano San Vittore. Ivano Volpi si è suicidato il 19 gennaio a Spoleto. Ancora un suicidio di detenuto tunisino a Brescia il 22 febbraio. Il 23 febbraio, nello stesso giorno, sono stati registrati due suicidi: a Fermo Vincenzo Balsamo, quarantenne originario del Sud Italia è stato trovato impiccato nel bagno e a Padova si è impiccato Walid Aloui, tunisino di 28 anni. Con loro il numero è salito a 10. Il 24 febbraio si è impiccato con le lenzuola a Vibo Valentia un quarantaduenne di Taurianova, Alessandro Furuli. Il giorno seguente, il 25 febbraio c’è stato un nuovo suicidio di un detenuto italiano di 47 anni, Roberto Giuliani, con fine pena nel 2017, nel reparto G11 di Roma Rebibbia. Giuseppe Sorrentino si è suicidato il 7 marzo a Padova. Un detenuto malato di mente, Angelo Russo, rinchiuso nel carcere di Poggioreale (Napoli) si è tolto la vita il 10 marzo, impiccandosi. Un altro caso a Reggio Emilia il 28 marzo. Il 3 aprile si è tolto la vita Romano Iaria, 54 anni, di Roma, nel carcere di Sulmona, in provincia dell’Aquila.

Giustizia: un errore negare la corsia preferenziale a ddl Alfano

di Riccardo Arena

 

Pagina di Radio Carcere su Riformista, 8 aprile 2010

 

La situazione presente nelle nostre carceri è disastrosa. Vecchie galere, che potrebbero a mala pena contenere 43 mila persone, sono affollate da circa 67.500 detenuti. Un disastro che induce sempre più persone detenute al suicidio. Un disastro penitenziario che non riesce più ad assicurare un’adeguata assistenza sanitaria per chi è malato ed in carcere muore senza cure.

Un disastro che determina maltrattamenti a danno delle persone detenute e che annulla qualsiasi significato alle funzioni proprie della pena. In un contesto carcerario tanto degradato e che necessita di interventi urgenti e sistematici, la politica mostra, ad eccezione dei Radicali, una tradizionale insofferenza nel trattare la questione penitenziaria.

Il governo Berlusconi annuncia riforme, ma poi tarda nell’attuarle, mentre l’opposizione non sembra saper proporre soluzioni costruttive, limitandosi ad una sterile contrapposizione. Un caso è emblematico. Il 13 gennaio, il Ministro Alfano annuncia che il Consiglio dei Ministri ha approvato con il "piano carceri" un disegno di legge che prevede due norme contro il sovraffollamento. La prima vuole far scontare ai domiciliari la pena per quei detenuti a cui manca un anno per finire la condanna e la seconda che prevede la messa alla prova per le persone imputabili per reati con pene fino a tre anni. Dopo l’annuncio, come prassi, è calato il silenzio. Un silenzio interrotto inaspettatamente la sera del 18 febbraio, quando il Ministro Alfano afferma: "Ho proposto ai capigruppo di tutti i partiti la corsia preferenziale, vale a dire l’esame in sede legislativa, delle due norme di accompagnamento del piano carceri". Da quell’annuncio, per giorni e giorni, nulla è accaduto. Ed anzi, diversi capigruppo dell’opposizione nulla sapevano della proposta "serale" del Ministro Alfano. Poi, dopo tre mesi dal primo annuncio, ecco che il disegno di legge viene presentato alla Camera.

È il 9 marzo, il disegno di legge ha un numero, 3291, e un titolo: "Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori ad un anno e sospensione del procedimento con messa alla prova". Domani, giovedì 8 aprile alle ore 13.30, la Commissione Giustizia della Camera inizierà il suo esame, ma non in sede legislativa, come chiesto dal Ministro Alfano, bensì in sede referente, visto il "no" del Partito Democratico e dell’Italia dei Valori che hanno negato al ddl la corsia preferenziale.

Ora sia chiaro, le due norme presentate dal governo non sono la soluzione di tutti i mali penitenziari. Si tratta di interventi pensati per affrontare il contingente e che certamente, anche nella loro funzione più immediata, necessitano di adeguati correttivi. Appare tuttavia sbagliato che l’opposizione non abbia acconsentito a far discutere tali norme in Commissione, investita della funzione deliberante.

Nulla avrebbe impedito infatti di migliorare il ddl proposto da Alfano, anche in sede legislativa. L’opposizione avrebbe potuto dare comunque il suo contribuito per rendere più razionale il testo di legge e allo stesso tempo avrebbe mostrato di condividere quantomeno l’urgenza di affrontare la questione carceraria. Un’urgenza che necessita, non dei "no", ma di idee e proposte dell’opposizione.

Giustizia: Pd ammanettato a Di Pietro, niente "favori" a Alfano

di Dimitri Buffa

 

L’Opinione, 8 aprile 2010

 

Avete presente quel detto secondo cui "il meglio è nemico del bene"? O quell’altro in cui "il marito si taglia i cosiddetti pur di fare dispetto alla moglie" con cui non va d’accordo? Bene entrambi questi due "topoi" sono stati centrati dal Pd con una sola scellerata decisione: non concedere, unico gruppo in Commissione giustizia oltre all’Idv, la sede legislativa al doppio provvedimento studiato dal ministro di Grazia e Giustizia Angelino Alfano per concedere i domiciliari ai detenuti anche recidivi nell’ultimo anno di detenzione o per pene sotto i dodici mesi e per l’istituzione della messa in prova per gli incensurati.

Ciò significa che due provvedimenti, che certo non saranno un amnistia o un indulto e neanche un "indultino", ma pur sempre possono tirare fuori da carceri che scoppiano almeno diecimila persone e non farne in futuro entrare almeno altrettante ogni anno, dovrà seguire il lungo e incerto iter dell’aula. E questo solo perché il Pd, con la propria capogruppo in Commissione giustizia, Donatella Ferranti, ennesimo pm prestato alla politica, ha ritenuto ancora una volta più produttivo politicamente inseguire i giustizialismi dipietreschi invece che ragionare con la propria testa. Per strappare questo duplice provvedimento c’era voluto un lungo sciopero della fame (19 giorni a febbraio) della deputata radicale Rita Bernardini, che poi nelle file di questo Pd è stata eletta. Non solo: anche il responsabile giustizia del Pd, il giovane e intelligente Andrea Orlando era dell’avviso della Bernardini. E persino Adriano Sofri aveva scritto in un articolo della "Piccola posta" del "Foglio" in data 26 marzo 2010 che bisognava concedere la sede legislativa.

Niente da fare: il piacere di mettere i bastoni tra le ruote ad Alfano ha fatto agio sul destino dei poveri detenuti italiani che a fine dell’estate supereranno quota 70mila. In carceri capienti per 44mila. Nella lettera aperta indirizzata ieri dalla Bernardini a questa ex magistrata, si usano parole dure: "nella tua veste di capogruppo del Pd in Commissione Giustizia hai dunque deciso di non accordare la sede legislativa richiesta dal Governo al disegno di legge in materia di "disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori ad un anno e sospensione del procedimento con messa alla prova" (C. 3291).

Da giovedì, infatti, inizierà l’esame in sede referente. Come spero ricorderai, per indurre il Governo ad adottare misure c/o provvedimenti legislativi volti a ridurre la popolazione penitenziaria, ho portato avanti una dura iniziativa nonviolenta di 19 giorni di sciopero della fame nel mese di febbraio (...) non comprendere che i tempi richiesti dalla drammatica situazione di sovraffollamento carcerario devono essere necessariamente rapidi e non rilevare che per la prima volta da quando è iniziata la legislatura a maggioranza di centrodestra, si registra un’inversione di tendenza rispetto alla politica pervicacemente fin qui adottata all’insegna di "più galera per tutti", mi appare poco responsabile e anche un po’ autolesionista visto che i nostri gruppi parlamentari possono tranquillamente rivendicare a loro stessi il merito di questa accelerazione e presa di coscienza del parlamento dopo l’approvazione delle mozioni sulle carceri avvenuta in gennaio sia alla Camera che al Senato".

Per la cronaca sia Pdl sia la lega non si erano opposti alla sede legislativa, e quindi al voto definitivo nella stessa Commissione giustizia per il provvedimento. Ma siccome il Pd ritiene di dovere inseguire Di Pietro per non perdere elettori, anche se la storia finora gli dice che così facendo ne perde sempre di più, i detenuti possono pure morire come sardine. E solo due giorni fa c’era appunto stato l’ultimo suicidio, e sono già 17 e più dall’inizio dell’anno.

La Bernardini però spera, o magari si illude, che ci sia una resipiscenza del Pd, se non della stessa capogruppo Ferranti in Commissione giustizia, almeno da parte degli altri esponenti (visto che la lettera è stata inviata a molti, Bersani in testa). "Non concedere la corsia preferenziale della sede legislativa - prosegue la Bernardini - non mi appare politicamente giusto ed efficace. Vogliamo trascinare la discussione per mesi e mesi in sede referente e poi avere chissà quando il passaggio in aula e poi l’esame da parte dell’altro ramo del Parlamento? Arriveremo all’estate con più di 70.000 detenuti senza che nulla di concreto sia accaduto".

Poi così conclude: "Mi auguro che la sede legislativa sia concessa, considerato che è possibile farlo in qualsiasi momento. Se questo non accadesse mi sentirei in dovere, soprattutto dopo aver rivisitato nei giorni di Pasqua e pasquetta con Marco Pannella le case circondariali di Poggioreale e dell’Ucciardone, di riprendere la lotta nonviolenta informandone la comunità penitenziaria che, sia detto per inciso, è ormai allo stremo delle proprie capacità di sopportazione del dolore inflitto dallo stato di violazione permanente di diritti umani essenziali sia nei confronti dei detenuti che di tutto il personale in servizio".

Giustizia: Cucchi poteva essere salvato, morì per mancate cure

 

Ansa, 8 aprile 2010

 

Fa ancora discutere la morte di Stefano Cucchi il geometra di 31 anni morto dopo 6 giorni dall’arresto, il 22 ottobre scorso all’Ospedale Sandro Pertini. "La vita di Cucchi si sarebbe potuta salvare. Se fosse stata posta in essere un’idonea terapia si sarebbe potuto scongiurarne la morte". Così Paolo Arbarello, direttore dell’istituto di Medicina legale dell’università La Sapienza nel corso di una conferenza stampa in cui ha illustrato le conclusioni di una consulenza elaborata da un pool di esperti da lui guidati per far luce sulla morte di Stefano Cucchi, il detenuto morto il ottobre scorso al Sandro Pertini. "Stefano Cucchi non è morto per disidratazione. La sera prima del decesso aveva assunto tre bicchieri d’acqua ed erano stati fatti dei prelievi di urina da cui è emersa una corretta funzionalità renale". Stefano Cucchi non è morto per disidratazione, ma perché, pur in condizioni cliniche estremamente difficili, non è stato curato. A questa conclusione è giunto il professor Paolo Arbarello, responsabile dell’istituto di medicina legale e a capo di una equipe medica nominata dal pm che conduce l’inchiesta sulla morte di Cucchi. Il fascicolo di 145 pagine è stato consegnato mercoledì ai magistrati.

 

Marroni (Garante Lazio): scenario inquietante di omissioni

 

"La conclusione dei periti secondo cui Stefano Cucchi poteva, con le cure adeguate, essere salvato, creano sconcerto, rabbia e incredulità e confermano uno scenario inquietante di omissioni e di responsabilità su cui, spero, la magistratura faccia celermente luce". Lo dice in una nota il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, commentando le conclusioni dei consulenti incaricati dai magistrati, che si occupano della vicenda del giovane romano deceduto nei mesi scorsi nella struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini.

"La circostanza che un essere umano sia stato privato del suo diritto ad avere cure mediche adeguate - aggiunge Marroni - non deve, inoltre, far passare in secondo piano la violenza fisica subita da Cucchi. Spetta ai giudici scrivere la verità definitiva su questa vicenda, accertando le responsabilità dei medici e ricostruendo quanto accaduto nelle convulse ore dell’arresto di Stefano Cucchi, in quelle della detenzione, del processo e delle visite negli ospedali, per capire quando e dove se fu vittima del pestaggio che lo ridusse nelle penose condizioni che tutti conosciamo".

 

Saccomanno (Pdl): il dramma non divenga uno scoop mediatico

 

"Non vi sono contrasti importanti tra la perizia dei medici legali disposta dalla Procura e la relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta". Lo dice il senatore Michele Saccomanno, capogruppo Pdl nella commissione parlamentare d’inchiesta sull’Efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale. Per Saccomanno si devono tenere presenti "le diverse finalità tra ciò che è richiesto ai relatori della commissione, tenuti a collegare il dato medico non ad un’indagine per la ricerca dei colpevoli ma per rilevare negligenze e omissioni dell’assistenza sanitaria prestata nello specifico a Stefano Cucchi ed, in generale, i percorsi che assicurano la tutela della salute a tutti i detenuti italiani". "Nella relazione a supporto dell’inchiesta - aggiunge l’esponente del Pdl - sono state dettagliatamente rilevate le variazioni cliniche del signor Cucchi e la completezza o meno dell’assistenza sanitaria. Non sembra opportuno che ogni dramma divenga solo uno scoop mediatico pro o contro qualcuno".

 

Di Giovan Paolo (Pd): dare certezze a detenuti malati

 

"Il caso di Stefano Cucchi ci dice che bisogna dare certezze di cure è chi è in carcere. Il detenuto o il fermato, malato, deve avere una pronta risposta dalle strutture sanitarie e il suo controllo non può essere demandato alla polizia penitenziaria. La vivibilità delle carceri deve diventare tra i punti qualificanti della politica del nostro partito". Lo afferma il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, segretario della commissione Affari Europei. "È chiaro che bisogna fare luce sulle omissioni che hanno portato alla morte di Cucchi - continua Di Giovan Paolo -. Di come si vive nelle carceri italiane, dei detenuti malati e delle cure che ricevono chiederò che si parli nella riunione di gruppo martedì col segretario Bersani. Questi sono temi qualificanti per un partito che vuole essere popolare e di massa".

 

Marino (Pd): esito perizia conferma accertamenti Commissione

 

"La perizia dei consulenti della Procura conferma oggi, nella sostanza, l’esito degli accertamenti disposti dalla Commissione d’Inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale che presiedo. Le cure mediche, attraverso il servizio sanitario pubblico, devono essere garantite a tutti i cittadini, anche a quelli che si trovano in stato di detenzione, come d’altra parte prevede l’articolo 32 della Costituzione. Sono soddisfatto del lavoro portato a termine dalla Commissione di inchiesta del Senato della Repubblica che, attraverso il suo lavoro, ha dato dignità al Parlamento". Così il senatore del Pd e Presidente della Commissione d’Inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale commenta la conclusione della perizia effettuata dai consulenti medici incaricati dai pm Vincenzo Barba e Francesca Loy di accertare le cause del decesso di Stefano Cucchi.

"La salute - conclude Marino - è un bene che deve essere assicurato a tutti gli individui e nelle stesse modalità. È intollerabile che di fronte al bene più prezioso che abbiamo ci siano cittadini di serie A e cittadini di serie B. Non è pensabile che ci siano differenze di cure tra detenuti e cittadini liberi, tra immigrati e chi ha invece la cittadinanza. La dignità di una persona non cambia con la perdita della libertà."

 

Pedica (Idv): vero problema è chi lo ha "mandato" in ospedale

 

"La relazione dei medici legali della Procura svela qualcosa che già sapevamo, che Stefano Cucchi non è stato curato come doveva essere fatto ed è morto. Il problema vero però, che si sta pericolosamente mettendo in secondo piano, è chi abbia materialmente mandato Cucchi all’ospedale dal quale non è più uscito vivo". Lo afferma in una nota il senatore dell’Italia dei valori Stefano Pedica. "La malasanità è un problema gravissimo - continua Pedica - ma ancor più grave è che un ragazzo affidato alle forze dell’ordine venga restituito alla famiglia morto. Se non viene affrontato questo problema, se non si scopre come mai Cucchi è arrivato al carcere di Regina Coeli fratturato e contuso, se non vengono fuori i nomi e cognomi di chi ha ridotto Stefano in quel modo, forse è perché lo Stato ha paura di scoprire una verità troppo cruda.

Come rappresentante delle istituzioni mi appello alla magistratura perché non chiuda un caso che è ancora tutto aperto e continui ad indagare sui fatti accaduti prima dell’arrivo in carcere. Arrestare la verità alle sole responsabilità dei medici sarebbe un affronto alla famiglia Cucchi e a tutti i cittadini che ancora credono nella credibilità della giustizia, perché il caso Cucchi rappresenta il simbolo di tutte quelle morti che nelle carceri italiane continuano a verificarsi senza colpevoli".

 

Legale famiglia Cucchi: la verità sabato alla Camera

 

"Adesso la consulenza di Albarello non ce l’ho sotto gli occhi. Tra l’altro non ho mai visto una conferenza stampa durante le indagini indetta da un consulente di parte pubblica nominato dalla Procura, a parte questo non ne conosco le risultanze." Sono le parole del legale della famiglia Cucchi, l’avv. Fabio Anselmo ai microfoni di Radio Città Aperta. "Posso dirvi comunque che la verità sulla morte di Stefano Cucchi - continua il legale - la saprete sabato alle 11.30 alla Camera perché verrà spiegata in maniera chiara e assolutamente incontestabile dai nostri consulenti. Non c’è bisogno di essere professori universitari di medicina per riconoscere quella che è l’evidenza dei fatti: le fratture alla colonna vertebrale sono tutte recenti e determinate durante l’arresto, questo è chiaro perché nella storia clinica di Stefano non c’è nessun trauma e nessuna possibilità di ipotizzare una colonna vertebrale cosiddetta silente, asintomatica e in assenza totale di dolore. In poche parole Stefano è sempre stato bene e i ricoveri precedenti sono tutti ricoveri per problematiche connesse al suo stato di tossicodipendenza da cocaina e con traumi di lievissima natura e tutte datate nel tempo. La seconda verità - incalza l’avv. Fabio Anselmo - è che, è evidente che se Stefano non fosse stato picchiato non sarebbe stato necessario il suo ricovero all’ospedale Sandro Pertini. Quindi se Stefano è finito al Sandro Pertini e li purtroppo è morto - conclude il legale - questa è un azione che da un punto di vista giuridico, e qui conta l’interpretazione giuridica più che la medicina legale, è chiaro che senza quel pestaggio Stefano non sarebbe stato ricoverato al Pertini e quindi non sarebbe morto".

Giustizia: ingiusta detenzione risarcita secondo richieste parte

 

Italia Oggi, 8 aprile 2010

 

Indennizzo per l’ingiusta detenzione legato rigorosamente alle richieste della parte. Va infatti diminuita la cifra eventualmente accordata a chi è stata detenuto ingiustamente dal giudice di merito se nel ricorso questo aveva chiesto una somma più bassa. Lo ha stabilito la Cassazione che, con la sentenza n. 12902 di ieri, ha accolto il ricorso delle Finanze presentato contro la decisione della Corte d’appello di Lecce che aveva accordato a un sospettato di reati di mafia (poi assolto) 60 mila euro di indennizzo per l’ingiusta detenzione, mentre il suo legale, nel ricorso, ne aveva chiesti solo 25 mila. Mettendo l’accento sul fatto che la riparazione per l’ingiusta detenzione è un istituto mutuato dal diritto civile, la quarta sezione penale, ha chiarito che va rispettata la "correlazione fra il chiesto e il pronunciato".

"La natura civilistica della procedura per la riparazione dell’ingiusta detenzione", si legge nel passaggio chiave della breve sentenza (già destinata alla massimazione ufficiale), "comporta che la condanna del ministero dell’economia al pagamento dell’indennizzo consegue necessariamente alla proposizione della domanda da parte dell’interessato". Ora l’uomo, accusato di gravissimi reati di mafia e poi assolto dal tribunale di Lecce, riceverà una riparazione ben lontana da quanto i giudici pugliesi gli avevano liquidato (60 mila euro). Infatti la Corte, decidendo il ricorso nel merito, ha stabilito che l’uomo riceverà dal dicastero i 25 mila euro chiesti dal suo difensore. La decisione ha messo tutti d’accordo al Palazzaccio. Infatti anche la procura generale aveva sollecitato il collegio ad annullare il risarcimento e a farlo ricalcolare dai magistrati di Lecce.

Lettere: per l’emergenza carceri misure alternative o cemento?

 

Il Riformista, 8 aprile 2010

 

Caro direttore, l’emergenza carceri, probabilmente, non si affronta con misure eccezionali, extraordinarie: è sufficiente un impegno diffuso, ordinario, e molto buon senso. I penitenziari scoppiano, sono sovraffollati fino ali ‘inverosimile, sovente i detenuti vivono una quotidianità afflitta e senza costrutto. Costruire carceri di nuova generazione non serve a risolvere alcun problema: vale solo a celare l’inadeguatezza di politiche fallimentari.

Per portar sollievo e maggiore giustizia è errato l’approccio di chi vuole dare sfogo alle anacronistiche manie di ultima cementificazione; alla base di ogni possibile positivo intendimento e ‘è solo l’uomo, con la sua ricchezza e l’imperturbabile ansia di riscatto. Il Parlamento è intenzionato ad approvare una modifica legislativa, che consentirebbe ai tossicodipendenti condannati per spaccio o per traffico di droga di farsi curare fuori in strutture idonee. Più estesamente, vorremmo dire ad alta voce che un tossicodipendente non dovrebbe mai stare in cella. Se le nostre normative prevedono misure alternative alla detenzione per chi è affetto da dipendenze, non si comprende perché molte migliaia di uomini e di donne con problemi legati alle droghe non debbano godere dei loro sacrosanti e sanciti diritti. Quante sono le energie, le risorse, che sono confinate in tanta gente costretta a poltrire e a soffrire fra le sbarre di dura, insensibile ferraglia? Gruppo Abele, Ristretti Orizzonti, Antigone hanno promosso l’iniziativa culturale "Potenziamo le misure alternative, liberiamo i tossicodipendenti". Il nostro Parlamento è obbligato a rispondere, noi cittadini non possiamo osservare passivamente.

 

Marcello Buttazzo

Lettere: il "triste record" del carcere di Sulmona ha un motivo

 

L’Unità, 8 aprile 2010

 

Lettera di Giulio Petrilli (Pd). Un altro detenuto, Romano laria, si è suicidato il 2 aprile nel super carcere di Sulmona, il carcere con il più alto tasso di suicidi. Celle di nove metri quadri in tre persone, venti ore su ventiquattro chiusi. Tanti che si trovano in serie difficoltà psicologiche e psichiche, nessuno psicologo e uno psichiatra part-time.

Risponde Luigi Cancrini. L’ultimo atto del Governo Prodi è stato quello del passaggio al Sistema Sanitario Nazionale del personale sanitario delle carceri e degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Il principio era quello di assicurare ai detenuti i diritti e le cure di cui godono tutti gli altri cittadini. Nel campo delle cure psichiatriche e psicologiche, tuttavia, questo si sarebbe potuto ottenere solo con un congruo impiego di risorse perché tanti sono fra ì detenuti quelli con disturbi di personalità più o meno gravi e perché la disumanità complessiva del regime carcerario determina spesso, oltre che un aggravamento di questi disturbi, dei comportamenti autolesivi (fra cui il suicidio) su cui sarebbe importante intervenire: in termini preventivi, terapeutici e riabilitativi. Che di tutto questo si preoccupi un Governo come quello di Berlusconi o un ministro come Alfano è probabilmente illusorio. Che l’opposizione si faccia sentire per segnalare l’importanza e la gravità di un problema così grave, invece, è possibile ed urgente. Partendo, magari, da una visita a Sulmona dei nostri parlamentari: nel carcere dei record più tristi.

Lettere: Asvope; manca presa di coscienza politico-istituzionale

 

Redattore Sociale, 8 aprile 2010

 

Sulla situazione al carcere palermitano dell’Ucciardone di Palermo interviene Giovanna Gioia, presidente onorario dell’Asvope (Associazione volontariato penitenziario).

"La situazione dell’Ucciardone come di altre carceri dell’Isola è alla deriva - afferma - perché manca sul problema una forte presa di coscienza politico istituzionale. Le carceri siciliane sono trascurate perché finora non c’è stato un interessamento politico forte. Bisogna che le critiche siano operate nei confronti del sistema nel suo complesso. Occorre fare una riflessione forte sull’enorme spreco di risorse a cui abbiamo assistito nel nostro Paese e su tutto il denaro finito nelle maglie della corruzione a tutti i livelli. Risorse che avrebbero potuto essere investite in nuovi carceri, scuole, ospedali, etc.

Se si vogliono aiutare realmente i detenuti è inutile fare periodicamente delle denunce eclatanti che non portano a nulla. Proviamo invece a risolvere i problema a monte, invitando le autorità competenti a porre una soluzione al sovraffollamento - continua con forza Giovanna Gioia -, incentivando le misure alternative alla detenzione e applicando pienamente il contenuto della legge Gozzini. È giusto che si parli dei problemi che affliggono maggiormente il mondo carcerario ma occorre parlarne in maniera costruttiva, andando al nocciolo del problema che ha le sue principali radici nelle responsabilità politiche istituzionali di questo Paese".

"All’Ucciardone ci sono tanti detenuti in estreme situazioni fisiche e psichiche che, completamente soli, preferiscono stare in carcere perché almeno trovano ancora assistenza, sostegno e solidarietà di operatori e volontari. Non sono rari i casi in cui cerchiamo di intervenire soprattutto nei confronti di chi, italiano o straniero, oltre ad essere solo, vive anche uno stato di disagio psico-fisico".

Per quanto riguarda la manutenzione degli spazi esterni al carcere Ucciardone, una petizione per il ripristino dei sedili e degli spazi esterni antistanti il carcere era già stata fatta dall’Asvope nello scorso mese di novembre. "Chiediamo che venga ripristinata l’agibilità dei sedili antistanti la Casa Circondariale e che venga posta una tettoia per proteggere dalla pioggia in inverno e dal sole cocente in estate - si legge nella lettera dell’Asvope -. È pertanto penoso vedere bimbi, donne incinte, anziani e, donne e uomini meno giovani in piedi ammassati dietro la minuscola porta d’ingresso".

"In questi anni abbiamo fatto presente la situazione a tutti i consiglieri di partito. Sappiamo che i tecnici del Prap, tramite il comune, hanno già effettuato un sopraluogo lo scorso gennaio - dice Giovanna Gioia -. Da quel momento non si è saputo più niente ma l’Asvope è intenzionata a sollecitare ancora il comune e, nel caso in cui dovesse essere necessario, sarà pronta anche a raccogliere le firme dei familiari dei detenuti".

L’Asvope, inoltre, si pronuncia anche in merito ad una interrogazione parlamentare dello scorso 17 febbraio di alcuni esponenti parlamentari del partito radicale, in merito ad una nota, inserita sul giornale on-line "Ristretti Orizzonti", del Garante Lino Buscemi, che sosteneva che a Palermo l’Asl avesse impedito ai volontari di portare i vestiti ai detenuti.

L’intervento dell’Asl ha riguardato soltanto la chiusura del reparto di guardaroba della Missione Speranza e Carità di Biagio Conte perché non ritenuto sicura dal punto di vista igienico - sanitario.

"L’Asvope, da quando è presente nelle due carceri Pagliarelli e Ucciardone, indipendentemente da quanto possa provenire dalla missione di Biagio Conte, ha sempre cercato di provvedere al guardaroba dei detenuti, acquistando la biancheria intima e personale e avvalendosi di indumenti in buone condizioni, offerti da privati - continua Giovanna Gioia -. Pertanto, nell’espletamento del nostro servizio, non abbiamo risentito di questo blocco dell’Asl e continueremo a muoverci come finora abbiamo sempre fatto". "Il nostro intento è quello di cercare di fronteggiare le necessità dei detenuti senza deresponsabilizzare l’amministrazione penitenziaria da quelli che sono i suoi compiti - precisa ancora -. Siamo però pienamente consapevoli che quest’ultima, a causa della riduzione del budget economico di questi anni, non riesce a soddisfare tutti i bisogni di chi è recluso".

Lettere: i detenuti, da varie carceri, scrivono a Riccardo Arena

 

Pagina di Radio Carcere su Riformista, 8 aprile 2010

 

Io detenuto per un reato di 15 anni fa. Caro Arena, mi trovo in carcere per scontare una pena di circa 3 anni, relativa a un reato che ho commesso nel lontano 1995. Non dico di essere innocente, dico solo che non è giusto scontare una pena dopo tanti anni dalla commissione del reato. Io infatti dal 1995 mi sono rifatto una vita. Ho smesso di delinquere e avevo un lavoro fisso. Insomma tutto andava bene fino a quando, nell’ottobre del 2009, sono stato arrestato per un reato commesso 15 anni fa. Ora mi trovo in carcere e nonostante che i miei datori di lavoro si mostrino comprensivi, sono terrorizzato di perdere il lavoro. Per quanto riguarda il carcere di Piacenza, le dico che anche qui c’è il problema del sovraffollamento. Infatti in celle fatte per una sola persona, ci siamo rinchiusi in tre. Tre detenuti, costretti a restare in questa minuscola cella per 22 ore al giorno. Tre detenuti che, come gli altri, non hanno nulla da fare durante il giorno. In altre parole qui praticamente siamo destinati all’ozio totale! Infine sappia che da quando sono detenuto rischio di perdere la vista ad un occhio perché nessuno mi cura. Infatti quando ero libero l’oculista mi disse che anche avevo bisogno di un intervento. Beh sono passati tre mesi e ancora aspetto la visita dell’oculista, mentre dall’occhio orami non vedo più.

 

Gianfranco dal carcere di Piacenza

 

Un anno in un manicomio criminale. Cara Radiocarcere, ti scrivo per raccontarti quello che mi è successo. Senza motivo dono stato portato dal carcere al manicomio criminale e poi di nuovo portato in carcere. Una pazzia! Devi sapere infatti che prima ero detenuto nel carcere di Pavia. Lì, anche per l’esasperazione, ho fatto una stupidaggine. Un giorno mi sono ubriacato. La punizione è stata immediata: le guardie mi hanno portato in una cella di isolamento, mi hanno maltrattato e mi hanno lasciato lì solo e senza nulla.

Poi, una volta finito di stare in isolamento, mi hanno trasferito nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino. Una vecchia e tetra struttura a cui hanno cambiato solo il nome. Ora si chiama: Ospedale psichiatrico giudiziario, ma il resto è rimasto uguale. È stato così che io, pur non essendo matto, mi sono ritrovato chiuso in una cella insieme a persone malate di mente. Per un anno sono rimasto lì e ti assicuro che se rimanevo ancora un giorno nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino rischiavo di impazzire davvero! Poi, finalmente, i medici del manicomio criminale si sono accorti che non ero pazzo e sono stato trasferito qui nel carcere di Orvieto. Ora, anche se nessuno mi ripagherà per quello che ho passato, mi domando: perché sono stato sbattuto lì dentro per un anno? Grazie per quello che fate.

 

Veselin, dal carcere di Orvieto

Prato: c’è una "falla" nel sistema di sicurezza, detenuto evade

 

Il Tirreno, 8 aprile 2010

 

C’è una falla nel sistema di sicurezza della Dogaia. Una falla di cui lunedì pomeriggio ha approfittato Abderraman El Asli, il detenuto marocchino di 24 anni che è evaso abusando della fiducia che gli era stata concessa. A differenza di quanto emerso lunedì, e in assenza di conferme ufficiali dai vertici della casa circondariale, si è infatti appreso che non si è trattato di un mancato rientro da un permesso, ma di un’evasione vera e propria.

El Asli ha scavalcato un cancello metallico e forse ha raggiunto un complice che lo aspettava in macchina all’esterno. Il detenuto marocchino, in carcere per reati contro la persona e il patrimonio (sarebbe dovuto uscire il 15 gennaio 2013), era stato ammesso da appena un mese alla semilibertà. Ciò significa che poteva accedere all’area esterna alla cinta muraria, ma comunque dentro un perimetro circondato da alti cancelli. Lunedì pomeriggio è stato incaricato di andare a gettare l’immondizia in alcuni cassonetti e non l’hanno più visto tornare.

Successivamente sono state trovate tracce di scavalcamento su uno dei cancelli, pare nei pressi dell’ufficio del direttore. Sembra che il punto scelto dal detenuto per prendere il volo sia un angolo cieco, cioè non coperto dalle telecamere di sorveglianza. E così non è stato difficile per El Asli scavalcare e allontanarsi indisturbato. Fino a lunedì il marocchino era uno dei pochi di cui la polizia penitenziaria e gli educatori del carcere ritenevano di potersi fidare. Non aveva mai creato problemi. Aveva anche fatto istanza per la semilibertà all’esterno ed era in attesa di risposta. L’unico aspetto positivo della sua fuga è che se davvero c’è una falla nel sistema di sicurezza, ora potrà essere riparata. È vero che nell’area esterna alla cinta non possono arrivare i detenuti più pericolosi, ma anche agli altri dovrebbe essere impedito di allontanarsi.

Belluno: carcere secondo in Regione per detenuti sieropositivi

 

Il Corriere delle Alpi, 8 aprile 2010

 

Il carcere di Baldenich è il secondo in Veneto per numero di utenti sieropositivi. Lo rivela il rapporto sulle carceri della Regione Veneto relativo al secondo semestre 2009. Un dato allarmante, che porta a riflettere, visto che quello bellunese è tra i carceri meno capienti della regione, ma quello forse tra i più problematici. Se si va a guardare i dati sul numero di detenuti affetti da Hiv, al 31 dicembre 2009, nel carcere di Belluno ne erano presenti 14, dietro soltanto a Verona con 29 (ma con 870 detenuti complessivi).

Si comprende, quindi, che le problematicità di gestione di casi sanitari del genere renda complicato il compito sia delle guardie carcerarie che dei medici che vi operano. La situazione si complica se si va a guardare il numero di detenuti che hanno messo in campo azioni di autolesionismo o sciopero della fame per protesta. Per quanto riguarda il primo punto, la casa circondariale di Baldenich è al terzo posto in Veneto con ben 20 detenuti (preceduta da Verona e Padova a pari merito con 45 persone, e Venezia con 32) che hanno tentato di farsi del male, insofferenti alle condizioni per loro troppo rigide dell’ambiente carcerario; 27 quelli che hanno fatto lo sciopero della fame (Belluno è terza dopo Padova e Verona). Sono, invece, soltanto due i casi di ferimenti denunciati nella struttura di Baldenich. A far sentire la propria voce contraria all’amministrazione carceraria sono per lo più stranieri (19 su 20 casi). Dato atteso, visto che la maggior parte dei detenuti non sono italiani.

Immigrazione: la visita nel Cie di Crotone… senza misericordia

di Raffaella Cosentino

 

Il Manifesto, 8 aprile 2010

 

In visita nel Cie calabrese. Dove sono rinchiusi molti migranti "italiani", come il "marocchino di Isola Capo Rizzuto", un ambulante nel nostro paese da oltre 25 anni che tutti conoscevano, fermato perché vendeva cd falsi. Con loro un pugno di vittime della "caccia al nero" di Rosarno e 700 aspiranti rifugiati nel vicino centro per richiedenti asilo, soprattutto kurdi, afghani e iracheni. Le storie e la vita all’interno del centro di detenzione per immigrati più grande d’Europa.

Cinque mesi di reclusione nel centro di identificazione e di espulsione di Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto hanno cancellato la speranza dagli occhi verdi di Maher. Ventitré anni, tunisino. Dell’Italia ha visto solo il Cie. È finito dentro appena ha messo piede in Europa. A novembre del 2009, due giorni dopo lo sbarco in Sicilia. Ha pagato duemila euro per regalarsi questo incubo. Per arrivare sull’altra sponda del Mediterraneo passando dalla Libia. Maher ha rifiutato di chiedere asilo politico. Il suo sogno è andare in Germania dal fratello maggiore, che vive lì da quasi vent’anni. Il nostro paese doveva essere solo un luogo di transito. "Il mio programma è svanito - dice a testa bassa - anche moralmente non ho più forza. Mi sembra tutto un’illusione".

Poche parole in arabo, pronunciate a stento con l’aiuto della mediatrice culturale. Un breve incontro dopo una lunga attesa. La richiesta alla prefettura di Crotone per visitare il Cie di Isola Capo Rizzuto è datata 29 settembre 2009. Tanti mesi per avere l’ok del ministero dell’Interno. Ci vengono concesse quattro ore. Tre delle quali le passiamo nel centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara), scortati da un coordinatore e da un poliziotto.

Negli ultimi preziosi sessanta minuti riusciamo a visitare il Cie. La prima cosa che chiediamo è di raccogliere le storie di alcuni immigrati reclusi. Ci assicurano che è possibile. Prima però bisogna parlare con la direttrice del centro, con il coordinatore, con l’assistente legale e con la mediatrice culturale. Visitiamo con la direttrice il cortile esterno dei due edifici che costituiscono il Cie, ma la polizia non ci permette di avvicinarmi a nessuno.

"Potrebbero scoppiare dei disordini, il nostro lavoro qui è già abbastanza difficile" è la motivazione che danno. Non si può entrare nei dormitori. Al ritorno, per il poliziotto responsabile della sicurezza il nostro tempo è scaduto, dobbiamo andarcene. Solo dopo proteste e molte insistenze, ci permettono di incontrare Maher. Hanno scelto lui "perché è uno dei più tranquilli".

Il ragazzo arriva nell’ufficio della direzione molto scosso. Trema di paura. Il suo disagio aumenta davanti alle nostre domande. Sa che ha davanti una giornalista ma per lui sono soprattutto una donna sconosciuta. L’ennesimo trauma dopo il viaggio che l’ha catapultato dalla Tunisia non in Europa, come pensava, ma in una dimensione senza tempo, di cui non comprende le regole. I giorni devono sembrare interminabili per un ragazzo che quasi non ha ancora la barba e condivide gli spazi di reclusione con altri 47 immigrati di diverse nazionalità, tanti con precedenti penali per spaccio e furto. L’orizzonte quotidiano sono due alte recinzioni. Una è in ferro. L’altra è un muro di cemento. In mezzo c’è un cortile presidiato dalle camionette delle forze dell’ordine. Due palazzine verdi, un tempo alloggi della vecchia base dell’aeronautica militare, poi cpt. Chiuse a maggio 2007 dal Viminale, abbandonate e infine riaperte d’urgenza il 20 febbraio 2009 per trasferirci parte degli immigrati dopo la rivolta e l’incendio nel Cie di Lampedusa.

 

E i posti aumentano

 

Le Misericordie d’Italia, che gestiscono il Cara da anni, hanno coordinato la riapertura nella fase di emergenza e poi formalizzato la gestione anche del Cie vincendo il bando del 26 maggio 2009. I due edifici sono divisi in un totale di quattro moduli. Al momento sono in corso i lavori di ristrutturazione. Una volta completati a fine aprile, i posti aumenteranno fino a 124. Se davvero i detenuti dovessero più che raddoppiare, la situazione potrebbe sfuggire di mano. Già così la tensione è alle stelle come la disperazione. La testimonianza inequivocabile dell’emergenza umanitaria e psicologica è uno squarcio di diversi metri nel muro esterno della prima palazzina. Un buco enorme fatto dai reclusi sbattendo contro la parete i letti e le reti metalliche a ripetizione fino a spaccare diverse file di mattoni. "Ogni giorno è una guerra, abbiamo scontri, feriti, moduli smontati, atti di autolesionismo" è lo sfogo di un poliziotto. Il coordinatore Salvatore Petrocca, delle Misericordie, vuole precisare che "non ci sono stati veri e propri tafferugli". Ma poi ammette: "Le persone soffrono e sfasciano tutto. Ad esempio le televisioni, ne abbiamo cambiate 17 in poco tempo". Al Cie di Sant’Anna le cose sono peggiorate dopo il pacchetto sicurezza. Lo dicono tutti quelli che ci lavorano. "Sei mesi sono troppi per l’identificazione. Gli immigrati accettano perfino l’idea della reclusione ma non così a lungo" racconta Auatif, mediatrice culturale marocchina. "I maggiori dissensi li abbiamo avuti quando sono entrati in vigore i 180 giorni, i detenuti non riescono a capire le ragioni di questa norma" afferma anche la direttrice Rosa Viola.

 

Gli immigrati di Rosarno

 

In un anno dall’apertura, fino a marzo scorso, 631 persone sono state detenute nel Cie di Sant’Anna. Storie diverse, ma una costante: la maggioranza è in Italia da almeno dieci anni. Immigrati italiani. "Il marocchino di Isola Capo Rizzuto", un venditore ambulante da 25 anni in paese e conosciuto da tutti, si è fatto tre mesi in carcere. Ha raccontato di essere stato fermato dopo un controllo perché vendeva cd falsi. Un sessantenne, i cui figli già sposati vivono a Isola. È potuto uscire solo per motivi di salute. Con l’intimazione di lasciare il territorio nazionale entro 5 giorni. Ci sono poi sei immigrati trasferiti da Rosarno ai primi di gennaio dalle forze dell’ordine nei giorni della "caccia al nero" con i fucili a pallini. Lavoratori stagionali sfruttati per 25 euro nella raccolta delle arance, presi di mira da attacchi razzisti e sfuggiti agli agguati delle ‘ndrine con lo sgombero da parte degli agenti.

Una pulizia etnica che ha segnato per sempre la vergogna dell’Italia nel mondo. In carcere non ci sono gli aguzzini, bensì le vittime. Reato commesso: avevano tutti a carico una precedente espulsione. Tre di loro sono richiedenti asilo. Vengono da Liberia, Burkina Faso ed Etiopia. "Con a carico un’espulsione, pur non avendo mai fatto prima la domanda per lo status di rifugiato, devono stare nel Cie" spiega l’avvocato Francesco Vizza. La commissione territoriale deciderà entro la settimana. Altri tre, due mauritani e un maliano, avevano già avuto la richiesta di asilo rifiutata proprio dalla questura di Crotone. "Non possono ripeterla perché non ci sono fatti nuovi" sostiene ancora l’assistente legale del centro. Un iter che contrasta con le richieste per il permesso di soggiorno ai migranti di Rosarno portate avanti da mesi dalle associazioni antirazziste con sit in e proteste come quella delle "arance insanguinate" davanti al Senato.

 

Da sette mesi senza fondi

 

Il centro di Sant’Anna è il più grande d’Europa, con circa 1500 posti. A dieci anni dalla sua apertura, la maggior parte degli immigrati dorme ancora nei container con i servizi igienici in comune. Era una base dell’aeronautica militare, oggi contiene il Cie, il Cara e il Centro di accoglienza. In attesa della decisione della commissione territoriale per l’asilo ci sono al momento 700 aspiranti allo status di rifugiato. Ognuno di loro costa 28,88 euro al giorno alle casse dello stato. Sono oltre ventimila euro al giorno in totale. "Una miseria, una delle rette più basse in Italia. Riusciamo ad andare avanti solo perché si lavora su grossi numeri - afferma la direttrice del Cara, Liberata Parisi - sono sette mesi che il ministero dell’Interno non salda i conti del finanziamento che abbiamo vinto come ente gestore con il bando per il 2009-2012". Soldi che non arrivano neanche per il Cie, nonostante la proroga della permanenza a sei mesi.

"Paghiamo i fornitori facendo mutui e prestiti" dice ancora Parisi. Per avere un’idea dei costi di questa gigantesca macchina che ruota attorno all’immigrazione e ai permessi di soggiorno, bisogna calcolare che in media ogni richiedente asilo rimane dai quattro ai sei mesi prima di avere il responso della commissione, i cui uffici sono all’interno del centro. A riprova che i respingimenti in mare non risolvono il problema, a Crotone ci sono ancora 100 nuovi ingressi al mese. Cambiano le rotte, è diversa l’umanità in fuga che arriva. Non più africani passati dalla Libia ma soprattutto kurdi, afghani e iracheni che transitano dal confine nord est dell’Italia. Amir è un kurdo iraniano arrivato fino a Bari in un camion. È fermo a Sant’Anna da quattro mesi. Hamidullah ha ancora la famiglia a Kandahar. Suo padre ha messo insieme quello che aveva per farlo partire. Afghanistan, Turchia, Serbia, Ungheria il suo tragitto. Un altro afghano dice di avere "forse 30 anni". In Ungheria è stato fermato e deportato indietro in Serbia. Da lì è arrivato a Patrasso e poi sotto un camion in Italia. Anche lui quattro mesi a Sant’Anna in un container. Sono tutti dublinanti e la loro situazione giuridica è ancora più complessa.

Gli alloggi in cemento hanno solo 256 posti, costruiti nel 2008. La precedenza va a chi sta nel centro da più tempo, ai bambini e alle 30 donne, di cui una decina incinta. I minori hanno anche pochi mesi di età. Per gestire la convenzione e tutti i servizi previsti serve un piccolo esercito. Tra gli altri, ci sono assistenti sociali, psicologi, educatrici, mediatori culturali, istruttori isef per le attività sportive, esperti per la banca dati informatizzata. In totale sono impiegati con contratti a tempo e interinali 150 lavoratori delle Misericordie di Isola Capo Rizzuto. A loro vanno aggiunti 70 lavoratori del comune che gestisce i servizi di pulizia e di manutenzione. Militari, carabinieri e poliziotti per la sicurezza. Il personale sanitario dell’Asp di Crotone per l’infermeria in servizio 24 ore. Una vera fabbrica di posti di lavoro con un indotto prezioso in un’area tra le più povere d’Italia, ad altissima disoccupazione. Costi destinati ad aumentare ancora con i lavori in corso per rafforzare la recinzione esterna e per ristrutturare e ampliare i posti delle due palazzine del Cie.

Immigrazione: a Bologna niente asilo nido per i figli di irregolari

di Giusi Marcante

 

Il Manifesto, 8 aprile 2010

 

A Bologna da oggi sono aperte le iscrizioni agli asili nido ma per la prima volta i figli dei genitori stranieri che non hanno il permesso di soggiorno non potranno frequentare il primissimo gradino della formazione scolastica che da sempre in Emilia fa rima con qualità del servizio. L’ha deciso il Comune che da poco più di un mese e mezzo è retto dal commissario Anna Maria Cancellieri. Il vice commissario Raffaele Ricciardi la mette così: "La legge si applica e non si discute, l’asilo nido non è neanche obbligatorio".

Protesta il mondo sindacale bolognese con le Rdb che stanno appoggiando la protesta di diverse lavoratrici dei nidi che chiedono a gran voce che la decisione venga ritirata. Anche Cgil, Cisl e Uil ricordano coralmente che nei comuni dell’hinterland bolognese i sindaci hanno fatto altre scelte e che nessuno ha interpellato le forze sindacali prima di adottare una scelta che va contro "la cultura dei servizi che connota la città e che ha sinora garantito a tutti i bambini risposte e condizioni adeguate alla loro crescita". Protesta anche la responsabile nazionale scuola del Pd, la bolognese Francesca Puglisi, che spera che si levi una voce anche dalla Chiesa.

A Torino la pensano in modo esattamente contrario e a dire che tutti i bambini hanno diritto a frequentare le scuole di ogni ordine e grado non è un esponente politico ma direttamente il prefetto Paolo Padoin. Il prefetto ha risposto ad una questione sollevata dall’assessore all’istruzione della giunta di Sergio Chiamparino e ha spiegato che non solo gli enti locali non hanno nessun obbligo di segnalare la situazione di irregolarità dei genitori che iscrivono i loro figli alla scuola dell’infanzia ma che "il ministero dell’Interno ha concordato con l’avviso espresso da questa Prefettura secondo cui alla luce delle norme vigenti, e in particolare dell’art. 38 del T.U. Immigrazione e dell’art. 45 del Dpr 349/99, i minori stranieri presenti sul territorio, indipendentemente dalla titolarità di un permesso di soggiorno, hanno diritto all’istruzione nelle scuole di ogni ordine e grado". Gianfranco Schiavone, del direttivo dell’Asgi, spiega che "la questione è controversa perché gli asili nido non sono obbligatori ma una serie di considerazioni fatte proprie anche dal Viminale vanno nel senso opposto da quanto deciso dal vice commissario di Bologna". La decisione sotto le Due Torri sembra quindi in contrasto con quello che sta accadendo in altre grandi città nonostante venga motivata dalla necessità di adeguarsi alla legge sulla sicurezza entrata in vigore lo scorso 8 agosto. Il modulo che dovrà essere compilato dai genitori avrà due caselle da barrare: chi non farà la crocetta su "situazione di regolarità del soggiorno nel territorio italiano" sarà fuori. Basta spostarsi a Casalecchio di Reno però per avere una realtà diversa ma chi ha un figlio al nido sa benissimo cosa significhino le parole "lista d’attesa".

Droghe: l’Asia rinchiude i "tossici" nei "Campi di riabilitazione"

di Stefano Vecchia

 

Avvenire, 8 aprile 2010

 

Denuncia dell’Onu e di Human Rights Watch: la repressione preferita alla riabilitazione. Nei centri per il trattamento obbligatorio dei consumatori di stupefacenti anche vessazioni e torture. Sono diffusi dalla Cina al Laos, da Myanmar al Vietnam alla Thailandia.

"Uno degli inservienti usava la fune (di fili d’acciaio intrecciati) per punirci. A ogni colpo la pelle ci restava attaccata". Questo il ricordo peggiore che Choam Chao ha M’noh, 16 anni, conserva del Centro di riabilitazione giovanile del ministero degli Affari sociali cambogiano. La sua colpa, quella di essere stato schedato come tossicodipendente.

Come sottolineato dal recente rapporto di Human Rights Watch, scariche elettriche, frustate, permanenza in catene sotto il sole cocente sono la "cura" che Phnom Penh riserva ai suoi tossicodipendenti, tuttavia in tutto il Sud-Est asiatico, come in Cina, uomini e donne arrestati mentre fanno uso di stupefacenti o sovente anche solo perché sospettati di uso o di spaccio sono rinchiusi i centri di riabilitazione, in condizioni sovente inumane. Sottoposti a tortura, stupri, percossi per il semplice fatto di essere là, ancora peggio se non si adeguano al regime del campo o non si dimostrano sufficientemente produttivi nelle attività di lavoro forzato.

Si potrebbe pensare che nella grande varietà di sistemi politici, livello economico, diversità di stili di vita, culture e fedi il fenomeno tossicodipendenza abbia in Asia un trattamento altrettanto vario. Se è vero che la tradizionale tolleranza ancora oggi non individua nell’utilizzatore di sostanze stupefacenti un pericolo a livello di vicinato, la risposta delle autorità è pressoché quasi univoca: repressione. Con poche sfumature, il continente combatte la tossicodipendenza con strumenti coercitivi.

Ciò può apparire piuttosto scontato in realtà chiuse e sottoposte a regimi poco propensi a lasciare crescere spazi di difformità e dissenso come Myanmar, Cambogia, Laos, Vietnam e la stessa Repubblica popolare cinese, che lo si ritrovi anche in Paesi dal profilo democratico come Thailandia, Filippine, Malaysia è più sorprendente.

Come nel caso della prostituzione o dell’Aids, quanti si impegnano a migliorare la condizione dei tossicodipendenti si trovano davanti a politiche schizofreniche. Da un lato, le agenzie internazionali e gli esperti della salute pubblica a livello nazionale affermano la necessità che questo gruppo di popolazione diventi oggetti di specifici programmi di assistenza compatibili con la loro reale condizione; dall’altro, gli organi di polizia considerano le stesse persone in termini di partecipazione ad attività illegali. In questo caso, i tossicodipendenti - visti come irregolari e non come bisognosi di aiuto - sono sovente isolati, controllati e detenuti.

Ufficialmente, questo può persino essere indicato come un approccio equilibrato, ma è un fatto che in molti Paesi la repressione ha molte più risorse e sostegno politico della riabilitazione. Con costi umani altissimi, come suggerito nei rapporti di Human Rights Watch sui centri di detenzione per tossicodipendenti in Cina e in Cambogia. Iniziative che, come in Malaysia, Laos, Thailandia e Vietnam, sono indicate quali luoghi di cura, ma vengono gestite dai militari e non da personale medico, spesso non offrendo alcun trattamento, se non esercitazioni di stile militare e la ripetizione di slogan come ‘le droghe sono cattive, io sono cattivò. Come sottolineano gli esperti dell’Unodc (Ufficio delle Nazioni Unite per la droga e la criminalità) della sede Asia meridionale- Pacifico di Bangkok: "Queste istituzioni, sebbene identificate come Centri per il trattamento della tossicodipendenza, non forniscono alcuno degli interventi considerati efficaci per tale scopo. In aggiunta, in molti casi non vi è neppure il tentativo di accertare che quanti sono affidati ai centri siano davvero tossicodipendenti.

Dall’ultima statistica disponibile sul numero delle istituzioni "riabilitative", elaborata da Unodc e riferita ai dati del 2006, risultava che nel Laos i centri erano tre con 900 "ospiti"; 66 centri in Myanmar con 1.500 detenuti; 49 centri in Thailandia, nel 2005, per 2.400 ospiti e altri 17 centri per minori con 3.500 giovani; in Vietnam, tra 60mila e 70mila tossicodipendenti risultavano rinchiusi in 80 centri (quasi equivalenti agli 80.414 prigionieri comuni censiti nel 2007) ai quali andavano aggiunti 35mila detenuti tossicodipendenti "Questo tipo di risposta - si dice ancora all’Unodc - indica che i centri sovente rappresentano una risposta ibrida all’uso di stupefacenti (un reato) e alla dipendenza (ovvero un problema di salute). Sfortunatamente, di frequente i centri non sono né un’adeguata risposta della giustizia criminale (quando, ad esempio, non viene seguito un procedimento giudiziario corretto). Per essere in regola con la legge, nessuno dovrebbe essere mandato al centro senza una decisione del tribunale e, secondariamente, senza un esplicito consenso".

 

Più cure, non lavoro forzato

 

Jimmy Dorabjee, tra i pionieri della difesa dei tossicodipendenti dai soprusi in India, è responsabile delle iniziative di recupero delle situazioni di disagio del Centro per la salute internazionale dell’australiano Burnet Institute.

 

Quanto è forte l’influenza della tossicodipendenza nelle società asiatiche?

Da un uso universale e tradizionale dell’oppio, negli ultimi vent’anni abbiamo visto cambiare tante abitudini. Oggi sono 8 milioni i tossicodipendenti da droghe iniettabili in Asia meridionale e sudorientale, la metà del totale mondiale, più altri 3 milioni in Cina. Di questi, il 30 per cento sono sieropositivi. Ricordo che il totale dei drogati nel mondo è di 220 milioni.

 

Per quanto riguarda gli utilizzatori di oppiacei, il 56-60 per cento vivono in Asia.

In Thailandia, Laos, Myanmar, India, Pakistan, Cina, Afghanistan, Vietnam... La cannabis ha avuto un ruolo nella religione, nella società e, come per l’oppio, il controllo sociale bastava a contenere i possibili problemi derivanti dall’abuso. Le cose sono iniziate a cambiare oltre un secolo fa, con la proibizione degli oppiacei negli Stati Uniti. Successivamente, le generazione hippie e la guerra del Vietnam, con il forte accento sull’uso di sostanze psicotrope e allucinogene, e con i problemi conseguenti, hanno spinto gli Usa a premere sui governi asiatici alleati per distruzione del papavero, molte droghe divennero illegali quindi illegali, e con esse i loro utilizzatori si trovarono fuori legge.

 

Come reagisce l’Asia alla tossicodipendenza e ai fenomeni ad essa associati?

Ancora oggi, con una certa tolleranza. Nelle società asiatiche, come detto, alcune sostanze fanno parte dei modi di vita, ma questo non significa mera accettazione. L’Indonesia ha fatto enormi progressi nella cura, ad esempio rendendo disponibili siringhe e metadone, ma anche nelle soluzioni più repressive, con personale eccellente. D’altra parte, a Giacarta stanno elaborando una legge che impegna la famiglia o i figli alla denuncia dei tossicodipendenti, con 1 milione di rupie di multa o fino a sei mesi di carcere. Il modello di riabilitazione in Asia è l’invio non volontario in centri specializzati. L’orientamento è verso la punizione. I centri stanno aumentando, ma in modo da fare sospettare che siano anche usati come centro di lavoro forzato. Non tutti, ovviamente, e non ovunque.

 

Esiste un’alternativa ai campi di riabilitazione?

La maggioranza dei Paesi dell’Asia sudorientale presenta regimi non pienamente democratici e reagisce ai problemi secondo metodi repressivi. Certo, è un grande errore applicare in Asia il solo modello dei campi, ma va detto che è anche quello più facile, meno dispendioso. Si fa strada con lentezza anche la profonda connessione tra droga, Hiv e condotta sessuale più o meno libera e legata alla prostituzione. In un continente dove ogni giorno 2.000 minori entrano nella tossicodipendenza e 500 persone scoprono la sieropositività al virus dell’Aids, attualmente dal 60 all’80 per cento dei tossicodipendenti sono raggiungibili da programmi per la distribuzione di siringhe. Servono soldi, ma occorre essere coscienti che prima dei fondi occorrono persone che abbiano capacità di comprendere e di affrontare i problemi, che siano gli stessi tossicodipendenti o ex tossicodipendenti a portare avanti i progetti. Una grande questione è legata alla legislazione. Ad esempio, in molti Paesi la legge approva la donazione di siringhe per la cura della sieropositività da Hiv, ma le leggi sulla droga lo considerano un reato.

 

In Cambogia Campi di detenzione con abusi e sevizie

 

"Gli individui raccolti in questi centri non sono curati o riabilitati, ma illegalmente detenuti e spesso sottoposti a tortura". Strutture quindi detentive e coercitive "che non devono essere ammodernate o modificate, ma che devono essere chiuse". Così scrive Joseph Amon, direttore della Divisione Salute e Diritti umani dell’organizzazione Human Rights Watch, che ha pubblicato un rapporto dedicato alla situazione dei campi per la riabilitazione dei tossicodipendenti in Cambogia, successivo a uno simile sulla Cina. Nelle 93 pagine del Rapporto "Skin on the cable" (Pelle sulla fune), diffuso poche settimane fa, Human Rights Watch parla di detenuti picchiati, costretti a subire abusi sessuali e a donare il proprio sangue, sottoposti a dure punizioni.

Nel testo si racconta anche di un gran numero di detenuti ridotti in precarie condizioni di salute dal cibo avariato o infestato da insetti, come pure di malattie derivanti dalle carenze alimentari. Oltre a analizzare in dettagli le cure "riabilitative", che consistono soprattutto in esercitazioni, fatiche, privazioni, con la supervisione di diversi enti governativi, inclusa la polizia militare e civile. Alto il numero dei minori e di individui con problemi mentali tra gli "ospiti", senza che si tenga conto delle loro condizioni.

 

 

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