Rassegna stampa 26 aprile

 

Giustizia: i famigliari dei "morti di Stato"; ma noi non archiviamo

di Checchino Antonini

 

Liberazione, 26 aprile 2010

 

"Voi archiviate noi no!". Mentre la destra in commissione Marino prova a tenere nascoste, perfino alla procura, le conclusioni della sua inchiesta sull’omicidio Cucchi, i familiari delle vittime di malocarcere, malasanità e malapolizia si sono incontrati a Pisa.

"Voi archiviate noi no": lo slogan c’è già e Ornella, la mamma di Niki Aprile Gatti, è arrivata a Pisa con una bozza di associazione che ha messo a disposizione di tutti i familiari che sono intervenuti all’iniziativa promossa dai collettivi antiautoritari, di studenti e lavoratori, che lavorano sulle "Zone del silenzio". Spiega Ornella che sarebbe un’associazione di familiari ma aperta a chiunque prenda coscienza della mancata tutela dei diritti umani nelle carceri, nelle caserme di polizia, negli ospedali psichiatrici. Niki è stato trovato morto quattro giorni dopo l’arresto in una cella di Sollicciano. Poche ore prima aveva dichiarato di voler collaborare alle indagini. Era il 28 giugno di due anni fa. Giovedì, a Firenze, il gip s’è preso altro tempo per decidere se riaprire il caso.

Vincenzo Serra è il cognato di Francesco Mastrogiovanni, il maestro ucciso a luglio in un ospedale di Sala Consilina. Racconta del video che mostra Francesco calmo ma legato, che crolla dopo la quarta iniezione e viene legato mentre dorme. La via crucis di suo cognato è un film straziante di 82 ore senza un gesto di umanità da parte di un infermiere, senza la visita di un medico. Morirà di crepacuore. Il 28 giugno inizia il processo ma ce ne dovrà essere un altro perché il Tso che lo ha portato lì era illegale, l’ordinanza del sindaco fu emessa sul territorio di altro comune e, comunque, Mastrogiovanni aveva accettato la terapia e non ebbe colluttazione con i carabinieri.

Vincenzo crede sia importante stare tutti insieme per costruire meccanismi di garanzia contro aguzzini e torturatori come quelli che hanno ucciso suo cognato. "Speriamo di riuscire a essere ancora più uniti", dice anche Francesk Vukaj, che non può credere al suicidio di suo figlio Bledar, promessa del football americano trovato morto nel cremonese.

Il caso è stato archiviato ma da mesi nessuno gli dice perché. Federica Barbieri fa parte di una delle 36 famiglie di lavoratori del cantiere navale Nca morti per amianto. Suo padre c’è stato dal 1966 al 1992. Dieci anni dopo s’è preso l’asbestosi che l’ha fatto fuori nel 2007. L’Inail nega che sia una malattia professionale e, in appello, la sua famiglia è stata condannata a restituire indennizzo con gli interessi. Eppure l’ultimo morto tra gli ex della Nca c’è stato l’altro ieri: Bruno Moscatelli, 63 anni.

"Ci accomuna con le altre madri l’indifferenza dello Stato, il declassamento a persone di serie B. Con loro c’erano Maria Ciuffi, la mamma di Marcello Lonzi, Maria la madre di Manuel Eliantonio, i familiari di Giuseppe Uva, Stefano Cucchi, Stefano Frapporti, Aldo Bianzino e Haidi Giuliani, intervenuta per lettera. I soggetti che hanno dato vita alle "Zone del silenzio" metteranno in rete il dossier: "Verità una, giustizia nessuna".

La prossima settimana dovrebbe chiudersi l’inchiesta sull’omicidio Cucchi e mercoledì si riunirà la commissione Marino dove le destre, da un mese, ritardano l’invio degli atti dell’inchiesta parlamentare sul caso alla Procura. Di cosa avranno paura?

 

Associazione familiari dei ragazzi morti nelle carceri (Il Tirreno)

 

Una riunione privata di due ore, prima di incontrare la città, per decidere "di fare rete, dopo aver ascoltato le lacrime". Così, ieri pomeriggio alla stazione Leopolda, i familiari di dodici ragazzi morti nelle carceri italiane hanno deciso di riunirsi in associazione. Si erano conosciuti a Livorno il 16 gennaio, in un corteo per chiedere la verità sulla morte di Marcello Lonzi. Ieri si vedevano per la seconda volta: un’iniziativa promossa dalla sigla Zone del silenzio, contro le leggi su clandestinità e modica quantità di stupefacenti, "reati" che riempiono i penitenziari; e contro le morti "assurde".

Spiega Ornella, madre di Niki Aprile Gatti: "In questo modo saremo più forti contro il muro di gomma", cioè la scarsa collaborazione delle forze dell’ordine che non aiutano a far luce sugli episodi rimasti senza spiegazione. Maria Ciuffi, madre di Lonzi, condivide lo spirito, ma deve ancora parlare con il suo avvocato e valutare eventuali controindicazioni. Ci sono anche i genitori di Stefano Cucchi e la sorella di Giuseppe Uva; ancora, i familiari di Manuel Eliantonio, Stefano Frapporti, Aldo Bianzino, Francesco Mastrogiovanni e Bledar Vukaj. Ci sono i familiari delle vittime dell’amianto, anch’essi per fare sistema. Haidi Giuliani, mamma di Carlo, manda una lettera di solidarietà.

Giustizia: braccialetto elettronico; 11mln € l’anno e non decolla

 

Adnkronos, 26 aprile 2010

 

Braccialetto elettronico sì, braccialetto elettronico no. L’arcano sul prodigioso strumento che potrebbe liberare i migliaia di detenuti dai disagi del sovraffollamento carcerario, deve ancora essere svelato. Dopo quasi 10 anni dal suo arrivo nel nostro Paese, si continua a dibattere sulla sua utilità e su una possibile adozione a largo raggio. E in prima linea, perché finalmente ne vengano testati i risultati, ci sono i sindacati di polizia penitenziaria.

La politica, in un giro di valzer continuo, pur pensando a piani svuota-carceri, ultimo quello del Guardasigilli Angelino Alfano, non ha ancora fatto decollare il suo utilizzo, poco gettonato. Ma già molti Paesi, come la Gran Bretagna e ora anche la Russia, lo hanno adottato. Nome ufficiale: "Personal identification device".

è arrivato in Italia nove anni fa, presentato come la panacea per risolvere tutti i mali del sovraffollamento. In una stanza blindata del Ministero dell’Interno, di braccialetti elettronici chiusi sotto chiave ce se sono circa 400.

Il Viminale li ha noleggiati dalla Telecom con l’entrata in vigore del decreto legge numero 38 del 2 febbraio 2001. La firma era degli allora ministri all’Interno e alla Giustizia, Enzo Bianco e Piero Fassino, durante il governo Amato. Giusto 400, per vedere come andava.

L’acquisto è stato scritto nero su bianco, con un contratto con la Telecom per una cifra pari a circa 110 milioni di euro e valido fino al 2011. Ma la media di utilizzo non supera i dieci braccialetti l’anno. E i detenuti, cosa ne pensano?

Un sondaggio condotto qualche anno fa da Magazine2, il giornale del penitenziario milanese di San Vittore svelò che il 78% dei detenuti lo avrebbe portato volentieri, perché stare a casa è meglio di "marcire" in cella. Perché risolverebbe il problema dell’allontanamento dagli affetti, e sarebbe più facile trovare, o mantenere un lavoro.

Solo pochi detenuti, avrebbero risposto di non volerne sapere, vedendo lo strumento da polso come "lesivo della propria dignità, una vergogna", o addirittura "anti-democratico, perché i poveri che non hanno casa non potrebbero usufruirne". E ancora, qualcuno avrebbe paura di "ripercussioni sulla propria salute", o non avrebbe voglia di farsi vedere in giro con quel brutto segno di distinzione.

Ma in 366, una maggioranza schiacciante su 46, hanno riferito di dare il proprio consenso a portare quel "gioiello" che costa 11 milioni di euro l’anno. E l’argomento affrontato qualche hanno fa dai detenuti di San Vittore, è ancora forte e attuale, soprattutto perché potrebbe cambiare la vita di una buona parte dei quasi 70mila reclusi che attualmente affollano le celle del nostro paese.

Quello che in Italia è uno strumento che stenta a decollare, in altri Paesi è una realtà consolidata dopo risultati di successo, come il caso della Gran Bretagna. "Noi spingiamo sull’istituto della messa in prova e sull’introduzione in Italia dell’uso del braccialetto elettronico - spiega Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe - al convegno del sindacato di qualche mese fa è venuto un funzionario del ministero della Giustizia inglese che ha mostrato un filmato sull’uso di questo strumento: nel Regno Unito sono 19mila 500 i detenuti che lo indossano fuori dal carcere, con risultati più che brillanti. Ci vuole solo un atto di coraggio dell’amministrazione penitenziaria e del Governo. Perché il braccialetto elettronico - aggiunge - è senz’altro uno dei sistemi deflattivi più concreti".

E in Russia, proprio in questi giorni, sono stati lanciati i braccialetti elettronici con Gps per controllare i detenuti in libertà condizionata. è entrato in vigore il decreto del governo sulla possibilità di usare su larga scala i dispositivi speciali come misura per monitorare i condannati cui è stata concessa la libertà vigilata. Ma i dispositivi non sarebbero pronti, come sottolineano alcuni media.

L’iniziativa era stata lanciata lo scorso anno in via sperimentale in tre regioni russe e applicata a condannati che vi si sarebbero sottoposti volontariamente. Dotati di navigatore Gps, ma in futuro si prevede anche Gsm, e collegati al sistema di comunicazione satellitare russo Glonass cui inviano il proprio segnale con le coordinate del detenuto, i dispositivi in questione erano però di fabbricazione israeliana: la Russia per ora non ne produce.

Ma ora si sta attrezzando: è già stata lanciata la gara d’appalto. I costi non sono bassi, da 1.000 a 2.500 euro a seconda del tipo di braccialetto, ma le autorità locali sono ottimiste: si risparmierà comunque molto, dicono, rispetto alla custodia in prigione. "Secondo le previsioni, nel 2011, circa 150 mila detenuti saranno in libertà condizionata. Tra questi circa il 30%, 45mila persone, verranno dotati di braccialetti elettronici", ha dichiarato Tatiana Nikitina, dirigente ad interim di un dipartimento dell’organizzazione del sistema penitenziario russo non legato all’isolamento.

Dimensioni di un orologio da polso, in plastica nera ipoallergenica, il braccialetto pesa intorno ai 50 grammi ed è alimentato a batteria. Grazie a questo sistema, il detenuto viene controllato 24 ore su 24 dalla centrale operativa della Questura, grazie a un collegamento telefonico che testimonia la sua presenza e i suoi spostamenti.

Un meccanismo per lo più simile a quello utilizzato per controllare a distanza gli allarmi collegati a banche, uffici postali, gioiellerie e lussuosi appartamenti. Per ogni dispositivo esiste un codice di identificazione unico e non riproducibile. Ideato per un uso prolungato è piccolo e facile da nascondere.

Impermeabile, funziona anche in condizioni di attività straordinarie. Lo può indossare un sub per esempio, o un alpinista ad alte quote. Un marchingegno davvero sofisticato. Eppure, già dal suo esordio, si è rivelato un flop.

Il peruviano Augusto Cesar Tena Albirena, 34 anni, dopo una condanna a 5 anni e 8 mesi per traffico di droga, è il primo detenuto a indossare il braccialetto elettronico in Italia.

Succede il 21 aprile del 2001. è il 26 giugno dello stesso anno, quando l’operatore in servizio alla centrale operativa di Milano si accorge che manca il collegamento telefonico con il braccialetto del detenuto. Il peruviano è evaso.

Tutta colpa di quel sudamericano - fa notare Donato Capece - che aveva detto "lo posso mettere anche al collo, pur di non tornare in cella". E invece, è evaso senza salutare moglie e figli, e da quel momento in poi, nessun magistrato si è più fidato.

Eppure, per il segretario del Sappe, il controllo a distanza è l’unica alternativa alle carceri "polveriere" d’Italia, pronte ad esplodere per il numero spropositato di detenuti dentro le celle. "Oggi, il controllo è affidato alla Polizia di Stato - aggiunge Capece - alle centrali operative delle questure. Ma loro da soli non possono gestire la sicurezza a distanza senza fare errori, perché hanno pochi uomini e altre funzioni. Questo è un compito della penitenziaria. Secondo il leader sindacale, la "control room" deve essere nelle sale regia delle carceri. "Noi conosciamo i detenuti - dice ancora - noi possiamo seguirli. Così succede nel resto d’Europa, dove il braccialetto funziona molto bene". Infatti, in Svizzera è in via di sperimentazione, e a quanto pare con buoni risultati.

In Francia è in corso un progetto pilota che, dopo essere stato applicato in tre province ora è esteso a tutto il territorio. Pronti a lanciare il braccialetto elettronico anche Spagna e Portogallo. è già da anni in funzione in Svezia, Belgio e Olanda. In Inghilterra, Paese pioniere nell’utilizzo del "Personal identification device", si è rivelato particolarmente utile per i minorenni condannati, evitando ai ragazzi permanenze prolungate in riformatorio, pur facendogli scontare la pena inflitta.

Altrettanto utile si è dimostrato per la sorveglianza dei detenuti impegnati in attività di lavoro e per favorire il reinserimento sociale al termine del periodo di detenzione. In questo caso, il braccialetto serve a dimostrare la buona condotta. Ora anche l’Italia potrebbe finalmente strizzare l’occhio all’Inghilterra, con il piano svuota-carceri del Guardasigilli Alfano.

Giustizia: Capo del Dipartimento minori; no a smantellamento

di Benedetta Verrini

 

Vita, 26 aprile 2010

 

Bruno Brattoli, in audizione al Senato, valuta come "critica" la riorganizzazione voluta dal Ministero della giustizia, che ridurrà da tre a due le Direzioni Generali. La giustizia minorile italiana? Un fiore all’occhiello anche a livello internazionale. Così il Capo del Dipartimento per la giustizia minorile, Bruno Brattoli, ha illustrato la situazione del sistema penale minorile ai senatori della Commissione Giustizia.

Un sistema che funziona, con numeri sotto controllo:ogni anno i minori denunciati sono circa 38 mila, quelli entrati nel circuito penale circa 18 mila ed infine quelli entrati negli istituti penali per i minorenni circa 500, di cui il 90 per cento di sesso maschile e il 41 per cento di nazionalità non italiana, fra i quali prevalgono i minori romeni e quelli provenienti dall’area maghrebina.

Con riguardo al funzionamento della giustizia minorile italiana, Brattoli ha osservato come sia a livello internazionale che a livello nazionale sia riconosciuta l’efficienza del sistema, tanto che è allo studio l’estensione dell’applicazione di taluni istituti sperimentati nella giustizia minorile, anche al sistema penale ordinario. Al riguardo ricorda il disegno di legge, attualmente all’esame della Camera, in materia di messa alla prova.

 

Le criticità: carenza di personale e un regolamento pronto al Ministero

 

Nel sistema, ha dichiarato Brattoli, si profilano però due elementi di "profonda criticità". In primo luogo lamenta la sostanziale carenza di personale sia civile che di polizia penitenziaria. Sarebbe infatti necessaria l’assunzione di circa 120 unità tra educatori ed assistenti sociali, in quanto l’attività da essi svolta appare fondamentale per il reinserimento dei giovani. Con riguardo al personale di polizia penitenziaria, Brattoli ha osservato come manchino dalla pianta organica circa 150 unità (per assicurare, tra l’altro, una maggiore sicurezza dei detenuti minorenni evitando così anche il rischio di morti nelle carceri. Al riguardo, Brattoli ha ricordato che si sono verificati nel corso del 2009 tre drammatici episodi).

 

Riorganizzazione o de-regulation?

 

Altro tasto dolente, poi, è lo schema di regolamento di organizzazione del Ministero della giustizia, ancora in corso di adozione. Esso prevede infatti la riduzione da tre a due delle Direzioni generali, in particolare prevede il mantenimento della Direzione generale per l’attuazione dei provvedimenti giudiziari; la soppressione delle altre due Direzioni generali; l’introduzione in sostituzione di queste ultime della "Direzione generale per le attività internazionali" ed infine l’incorporazione dei centri per la giustizia minorile nelle costituende direzioni regionali. A parere di Brattoli, considerando che la struttura così come attualmente articolata ha dato buona prova di sé, sarebbe preferibile il mantenimento dello status quo.

 

La giustizia minorile: la struttura

 

Il Dipartimento per la giustizia minorile è stato costituito nel 2001, ed è fra i dipartimenti di più recente istituzione del Ministero della giustizia. Tale Dipartimento presenta un’articolazione amministrativa centrale e territoriale, la quale provvede ad assicurare l’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria minorile, garantendo la certezza della pena, la tutela dei diritti soggettivi, la promozione dei processi evolutivi adolescenziali e perseguendo la finalità del reinserimento sociale e lavorativo dei minori entrati nel circuito penale.

In particolare l’articolazione amministrativa centrale è composta da tre Direzioni generali. La prima, la Direzione generale per l’attuazione dei provvedimenti giudiziari, la Direzione generale del personale e della formazione, la Direzione generale delle risorse materiali, dei beni e dei servizi. Più complessa è invece l’articolazione amministrativa territoriale del Dipartimento. In essa sono ricompresi: 12 Centri per la giustizia minorile; 18 Istituti penali per i minorenni (i quali assicurano l’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria); 29 Uffici di servizio sociale per i minorenni (i quali forniscono assistenza ai minorenni autori di reato in ogni stato e grado del procedimento penale); 25 Centri di prima accoglienza (i quali ospitano i minorenni in stato di arresto, fermo o accompagnamento fino all’udienza di convalida); 12 Comunità (le quali assicurano l’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria nei confronti di minorenni autori di reato).

Giustizia: progetto legge; bonus-detenuti per lavoro autonomo

 

Adnkronos, 26 aprile 2010

 

Un bonus da 30mila euro ai detenuti che vogliono avviare o proseguire in carcere un’attività di lavoro autonomo professionale e imprenditoriale. Lo prevede una proposta di legge presentata alla Camera da Salvatore Torrisi, parlamentare del Pdl e presidente dell’Ordine degli avvocati di Catania.

Un’iniziativa legislativa che riprende una norma già in vigore dal 1999 nella Regione Sicilia e che, sottolinea Torrisi, ha dato risultati apprezzabili. Occorre, argomenta il deputato del Pdl, creare le condizioni perché il recupero del detenuto sia effettivo, privilegiando l’attività lavorativa "come un nuovo modo di espiare la pena, precostituendo le basi per un efficace reinserimento sociale".

Una proposta di legge, dunque, che prevede possibilità alternative al lavoro dipendente, favorendo l’avvio di un’attività di tipo professionale, culturale o di piccola imprenditoria. Il contributo, destinato all’acquisto di attrezzature e di materie prime, può essere concesso una sola volta. Parallelamente, andranno semplificate le procedure burocratiche per consentire l’avvio dell’attività. Il costo del materiale necessario per l’attività lavorativa non potrà comunque superare il 30% del costo complessivo.

Secondo la proposta del Pdl il ministero della Giustizia concede, tramite il Garante regionale dei diritti dei detenuti o le stesse Regioni, agevolazioni finanziarie ai detenuti nel corso dell’espiazione della pena "scontata anche in forma alternativa al carcere".

Per l’avvio dell’attività non è necessario il titolo di studio, ma il contributo è subordinato ad una dichiarazione del beneficiario di impegno a proseguire l’attività per almeno 5 anni e a non alienare per lo stesso periodo le attrezzature, a meno che non si tratti di sostituirle con nuovi strumenti. La sovvenzione, inoltre, è subordinata alla frequenza, da parte del detenuto che richiede il sostegno finanziario, di un corso professionale o di un periodo di apprendistato di almeno un anno.

Ma il detenuto che volesse usufruire del bonus può avvalersi dell’eventuale qualifica professionale relativa all’attività che intende svolgere in carcere. E prevista anche l’assistenza da parte di una o più figure professionali che possono affiancare il detenuto nella fase di progettazione, di realizzazione degli interventi o dell’avvio dell’attività. Le spese relative, però, vengono decurtate dal contributo e non possono comunque superare il 10% del contributo stesso.

Friuli: Uffici dell’esecuzione penale esterna con poco personale

 

Messaggero Veneto, 26 aprile 2010

 

Sulla carta, dovrebbero essere in 24 e occuparsi della popolazione condannata, detenuta e non, distribuita nelle province di Udine, Pordenone e Gorizia. Nei fatti, invece, il personale di servizio sociale dell’Ufficio esecuzioni penali esterne delle tre province lavora da anni con meno della metà delle forze previste dalla pianta organica. Ferma restando, s’intende, l’estensione del territorio di competenza loro assegnato. Una situazione che la Cisl Fp non ha esitato a definire "esplosiva" e che le componenti delle Rsu, in un recente incontro con le organizzazioni sindacali e la direzione, hanno deciso di denunciare e, soprattutto, contrastare.

I dati, stando a quanto riferito dai rappresentanti dei lavoratori, evidenzierebbero un "buco" delle risorse umane pari al 63 per cento: appena 9 assistenti sociali in servizio, a fronte di una mole di lavoro "elevata e in continuo aumento" (le persone in carico all’ufficio, nel 2009, erano 1.502) e della paralisi "da oltre dieci anni, delle procedure concorsuali per l’immissione di nuovo personale". Da qui, la richiesta del segretario regionale Cisl Fp, Enrico Acanfora, e del suo collega territoriale, Guarino Napolitano, a "un intervento deciso e risolutore".

Appello che le Rsu hanno rivolto in primis al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, annunciando, in caso di mancato riscontro alla tutela dell’integrità psico-fisica sollecitata per i lavoratori, "la richiesta del riconoscimento, per quegli stessi lavoratori, della malattia professionale". Tre le aree sulle quali l’ormai cronica situazione di sotto organico è venuta a gravare: quella della sicurezza, quella organizzativo-funzionale e quella del servizio sociale. Sul piano della sicurezza, in particolare, l’effetto più preoccupante riguarda proprio la salute dei lavoratori. "Un elevato stress - denunciano i sindacati - che ha portato a un aumento delle assenze per malattia". Quanto all’organizzazione, la "penuria" di personale ha ridotto a un solo giorno la settimana l’apertura della sede di Gorizia e impedito l’avvio di quella di Pordenone. Le carenze riguardano anche il parco macchine, che dispone di un’auto a noleggio, una di servizio e di un solo autista chiamato a far fronte anche all’accompagnamento del direttore, con cadenza settimanale, all’Uepe di Trento, dove svolge analogo incarico. Negative anche le ricadute sul servizio primario del recupero sociale delle persone condannate: deputato alla costruzione di programmi di trattamento individualizzati, "l’ufficio - sostengono i sindacati - non è più in grado di offrire risposte rapide e adeguate. E questo non può che nuocere all’utenza detenuta, con ripercussioni anche sul sovraffollamento degli istituti penitenziari".

Firenze: detenuto suicida in cella c’è un mistero nei telegrammi

 

Il Mattino, 26 aprile 2010

 

Indagini serrate, a Firenze, per ricostruire le ultime ore di vita di Giuseppe Palumbo e soprattutto per capire i motivi che lo hanno indotto a suicidarsi in una cella del carcere di Sollicciano, dove era detenuto. In attesa dei risultati dell’autopsia disposta dal pubblico ministero del capoluogo toscano, resta un altro mistero.

È quello che si concentra su due telegrammi. Il primo, ricevuto da Palumbo al rientro in cella dopo aver partecipato all’udienza di convalida nella quale il suo fermo era stato convalidato in arresto; il secondo trasmesso dallo stesso detenuto (probabilmente in risposta a quello appena letto) pochissimi minuti prima di annodarsi al collo le lenzuola della branda dove aveva dormito la notte precedente e di togliersi la vita.

Fittissimo il riserbo intorno alle indagini delegate dalla magistratura inquirente alla polizia penitenziaria. Il difensore di Palumbo, l’avvocato Alfredo Guarino, ha spiegato di non sapere niente dei telegrammi che Palumbo ha ricevuto e spedito prima del suicidio: "Notizie di stampa dicono che, se ci sono stati, sono stati sequestrati e io non ho accesso agli atti dell’inchiesta - ha spiegato - Posso solo dire che né io né, credo, i suoi familiari gli avevamo inviato telegrammi. E nemmeno ne abbiamo ricevuti".

Palumbo - prosegue il penalista - "aveva alle spalle una situazione difficile e aveva una personalità fragile. So che in carcere era seguito da uno psichiatra. Il collega che mi ha sostituito durante l’udienza di convalida, però, mi ha detto di averlo trovato abbattuto, ma che, nel suo comportamento, niente faceva presagire quel che poi è successo". Riguardo il fascicolo aperto dalla procura di Firenze: "È un atto dovuto - ha detto Guarino - Per adesso i familiari non hanno sporto denuncia. Si sono limitati a nominare dei propri consulenti per l’autopsia".

Ma se non erano partiti dai familiari, chi ha scritto a Palumbo? L’uomo era finito in carcere con accuse gravissime: era ritenuto il mandante (ed esecutore materiale, con almeno altre cinque persone) del folle raid punitivo contro due sale giochi - la prima a Giugliano e la seconda a Pozzuoli - gestite da un parente. Uno zio, questo hanno ricostruito le indagini della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, la cui colpa principale sarebbe stata quella di accogliere in casa la moglie di Giuseppe Palumbo dopo che aveva preso la decisione di abbandonare suo marito. Palumbo doveva rispondere di tentato omicidio, sequestro di persona, rapina, incendio, danneggiamento, detenzione e porto di armi da guerra. Accuse, queste, aggravate dal fatto di aver agito con il metodo mafioso.

Lucca: un detenuto tenta d’impiccarsi, viene salvato da agenti

 

Agi, 26 aprile 2010

 

Un detenuto extracomunitario ha tentato il suicidio nel carcere di Lucca, a salvarlo sono stati gli agenti penitenziari che si sono accorti per tempo dell’intento dell’uomo. Ne dà notizia Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo Polizia penitenziaria, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri.

"Spesso e ingiustamente la Polizia penitenziaria è stata messa in croce - dice Capece in una nota - con illazioni inaccettabili circa il ruolo che svolge nei penitenziari italiani. La miglior risposta a queste false, ingrate e ingiuste illazioni sono i quotidiani eroici gesti e comportamenti che compie il nostro personale, che nelle carceri rappresenta lo Stato. Gesti e comportamenti che avvengono quasi sempre nel totale silenzio degli organi di informazione. Merita allora il massimo risalto mediatico quanto avvenuto oggi a Lucca dove, solo grazie alla professionalità, alle capacità ed all’attenzione del personale di Polizia penitenziaria, un detenuto extracomunitario è stato salvato da un tentativo di suicidio. A salvare la vita a del detenuto è stato il tempestivo intervento degli agenti penitenziari".

L’uomo - riferisce Capece - stava per appendersi alle sbarre della finestra con un rudimentale cappio. "Parliamo di una realtà, quella lucchese, caratterizzata da un pesante sovraffollamento che aggrava le già pesanti condizioni di lavoro della Polizia penitenziaria. A fronte di 113 posti regolamentari, il 31 marzo scorso erano infatti presenti oltre 200 detenuti mentre ben 50 sono gli agenti di Polizia penitenziaria che mancano dagli organici", segnala il segretario del Sappe, per il quale "l’eroico gesto di Lucca non deve passare inosservato perché è la dimostrazione concreta della realtà quotidiana della nostra professione: rappresentare ogni giorno lo Stato nel difficile contesto penitenziario con professionalità, senso del dovere, spirito di abnegazione e, soprattutto, umanità".

Cagliari: Sdr; urgente bonificare sito di nuova Casa reclusione

 

Adnkronos, 26 aprile 2010

 

"I lavori per la realizzazione della nuova Casa Circondariale di Cagliari, in territorio del comune di Uta, dopo tre perizie suppletive di variante al progetto originario, hanno subito una forte accelerazione e l’ultimazione della struttura è prevista per il 25 giugno 2011. Si registra però un silenzio assordante sulla soluzione dei gravi problemi di bonifica del territorio, anche per la presenza di due discariche prossime al perimetro della struttura, e di allestimento dei servizi esterni all’istituto di pena, comprese le strade di collegamento e le linee di trasporto pubblico. È quindi urgente una conferenza dei servizi". Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, che ha effettuato con alcuni tecnici un nuovo sopralluogo dove sta sorgendo il carcere.

"All’imponente edificio, che prende sempre più consistenza, si contrappone - sottolinea Caligaris - una landa isolata, con gravi problemi di inquinamento e con l’assenza di qualsiasi servizio di supporto per favorire l’accesso ai familiari dei detenuti e alle altre figure professionali che hanno contatti con le persone private della liberta".

"Soltanto la conferenza dei servizi - aggiunge - può consentire di analizzare le diverse necessità per soddisfare le esigenze derivanti dalla collocazione della Casa Circondariale in una zona dell’area industriale di Cagliari-Macchiareddu-Assemini e per verificare la compatibilità tra la struttura residenziale e le discariche".

"La nuova dislocazione dell’Istituto Penitenziario non può prescindere - afferma ancora la presidente di SdR - da una opportuna valutazione della salubrità dell’aria. È noto a tutti che a poca distanza dall’edificio in costruzione è dislocata un’azienda che si occupa di macellazioni. Non solo, lungo le mura perimetrali della struttura sorgono due discariche attualmente ricolme d’acqua in seguito alle piogge delle scorse settimane".

"È evidente - prosegue Caligaris - che non si può pensare che i detenuti, così come gli Agenti di Polizia Penitenziaria, gli educatori ed il personale amministrativo possano sostare costantemente per la durata della pena in un sito dove l’aria è irrespirabile".

"Se non saranno disposti opportuni correttivi e non saranno previsti servizi adeguati con mezzi pubblici è evidente che si ridurranno drasticamente anche gli operatori volontari che a Buoncammino svolgono un importante ruolo socializzante e di collaborazione con gli educatori il cui numero è insufficiente. L’amministrazione penitenziaria insomma - conclude Caligaris - dovrà attivarsi per realizzare una sinergia positiva con gli Enti Locali del territorio e per evitare che la casa circondariale si trasformi in una cattedrale isolata e desolante".

Noto (Sr): 250 detenuti, anziché 180 e arrivano anche dal nord

 

La Sicilia, 26 aprile 2010

 

La Casa di reclusione di Noto è sovraffollata e registra una grave carenza di organico. Nonostante questo gli uffici del Dipartimento amministrazione penitenziaria continuano a inviare reclusi dal Nord, nonostante le vibranti proteste del sindacato. L’ultima denuncia del Sappe (Sindacato autonomo Polizia penitenziaria), senza alcun seguito positivo, risale a tre mesi fa.

Oggi il carcere ospita circa 250 detenuti, invece dei 180 previsti Ciò comporta enormi difficoltà per i reclusi e per il personale. Molti servizi sono saltati o sono stati limitati. Il tempo dedicato ai colloqui, ad esempio, per motivi logistici è stato ridotto, con la conseguenza che i familiari dei reclusi, molti dei quali provenienti da province lontane o da altre regioni, possono incontrali soltanto per un’ora e non due.

Anche gli spazi di passeggio, dato il sovraffollamento, sono inadeguati. In queste condizioni, rilevano alcuni agenti di polizia penitenziaria. quando ai reclusi vengono meno quei pochi diritti di cui ancora loro dispongono, anche per il personale diventa più difficile fare il proprio dovere. E dire che l’apertura della nuova sezione ristrutturata della casa circondariale, inaugurata l’anno scorso, avrebbe dovuto risolvere il problema del sovraffollamento delle celle, garantendo ai reclusi condizioni di vita dignitose in ambienti adeguati.

In realtà, mentre arrivano incessantemente reclusi dal Nord, il Dap non sembra curarsi di incrementare il personale, ormai ridotto ai minimi termini. L’istituto prevede un livello minimo di sicurezza di 184 unità, oggi ridotto a 75, suddivise tra i diversi ruoli. Pochi agenti devono eseguire turnazioni di servizio defatiganti. E il personale è allo stremo.

La situazione di Noto sembra dimostrare che. per rendere le carceri efficienti, non basta aprire nuove sezioni se a queste non corrisponde organico sufficiente. L’istituto oggi ha un servizio serale di vigilanza di sei unità di polizia penitenziaria, mentre i servizi minimi necessari sono garantiti solo parzialmente. Ogni tanto qualche volontario benemerito organizza iniziative varie.

Pavia: i permessi "di necessità", concessi solo in casi eccezionali

 

La Provincia Pavese, 26 aprile 2010

 

Gli spostamenti dei detenuti sottoposti a regime di massima sicurezza impongono misure speciali e un impiego di forze consistente. Il più delle volte i viaggi avvengono in aereo, e questo fa lievitare i costi. Ogni richiesta di permesso del detenuto va quindi verificata con attenzione. Con questo presupposto il Tribunale di sorveglianza ha accolto un reclamo del procuratore della Repubblica di Pavia Gustavo Cioppa, che aveva messo in discussione la concessione di un permesso per un detenuto che sta scontando l’ergastolo per omicidio e criminalità organizzata al carcere di Voghera. Il detenuto aveva chiesto quattro ore di permesso per fare visita alla sorella gravemente ammalata e invalida al 100 per cento, che abita a un centinaio di chilometri di distanza.

Il magistrato di sorveglianza glielo aveva accordato, ma la Procura ha fatto ricorso e ha avuto ragione. Mancavano, secondo il reclamo, le condizioni per l’autorizzazione, rilasciata solo nel caso in cui il familiare del detenuto sia in pericolo di vita. In questo caso, secondo il reclamo, le condizioni della sorella, pur essendo gravi, non erano "eccezionali", perché la donna soffrirebbe di una patologia cronica. Accogliendo il ricorso del procuratore di Pavia il Tribunale di sorveglianza ha manifestato un’inversione di tendenza rispetto alla gestione degli spostamenti dei detenuti più a rischio. In passato il permesso per necessità (che si distingue dal permesso premio) di solito veniva sempre accordato.

Piacenza: salvò vita a detenuto, premiato agente penitenziario

 

Piacenza Sera, 26 aprile 2010

 

L’Ugl ha appreso con grande soddisfazione la notizia che l’altro ieri un Assistente Capo della Polizia Penitenziaria, ha ricevuto dall’Amministrazione Penitenziaria di Roma un solenne "encomio" per aver salvato la vita ad un detenuto che aveva tentato il suicidio in carcere.

L’episodio risale al 17 novembre del 2008 dove un detenuto italiano con tattiche artigianali , si era costruito una corda che poi ha legato ben stretta al collo e fissato alle sbarre della finestra, con evidente intenzione di togliersi la vita. L’Assistente Capo, durante un giro di controllo, se n’era accolto e subito interveniva slegando il detenuto e con un massaggio cardiaco praticato sul detenuto evitava che lo stesso morisse.

A darne comunicazione è il Segretario regionale della Ugl - Gennaro Narducci che con una nota aveva chiesto alla Direzione di evidenziare ai vertici del Dap il gesto compiuto dall’assistente della Polizia Penitenziaria.

"Ringraziamo la Dott.ssa Caterina Zurlo per aversi prodigato verso i vertici del Dap per questo " Encomio " . Salvare una vita umana - spiega Narducci - è una cosa che ti rimane per sempre dentro, e la Polizia Penitenziaria né ha profonda conoscenza di questi tristi episodi che, non sempre tutti si riescono a sventare, soprattutto per il sovraffollamento e la carenza d’organico".

Oggi gli Agenti presenti presso la struttura delle Novate sono circa 150 a fronte di una capienza detentiva di circa 430 detenuti. L’encomio è stato consegnato personalmente dalla Dottoressa del penitenziario Caterina Zurlo all’Assistente Capo. Ciò fa morale alla Polizia Penitenziaria e sprona ancor più il personale in sacrifici che vanno ben oltre ai compiti istituzionali per cui sono chiamati ad operare.

Roma: accusa agenti di averlo pestato, ci sarebbero fotografie

 

Il Tempo, 26 aprile 2010

 

Tutte violenze che sarebbero avvenute di notte. Quando cioè nel carcere di Regina Coeli i detenuti si trovano nelle rispettive celle. E gli agenti penitenziari avrebbero dunque la possibilità di compiere atti di violenza. Una pesantissima denuncia quella presentata quattro giorni fa da un romeno, rimasto rinchiuso nel penitenziario di via della Lungara per due anni, fino a quando è stato poi trasferito nel carcere di Secondigliano.

Lo straniero, Marin Romica Ceausu, di 34 anni che ha puntato il dito contro le forze dell’ordine, è il romeno che è stato condannato a 23 anni di galera perché ritenuto responsabile dello stupro di gruppo avvenuto nel settembre del 2007 a Tor Vergata.

Una volta dietro le sbarre, secondo quanto scritto dal romeno nella denuncia, nei primi giorni di detenzione, fu "oggetto di un terribile e ripetuto massacro da parte di alcuni agenti di custodia. Alla fine di settembre 2007 riportai ferite al volto per le quali fui ricoverato all’ospedale Sandro Pertini. Successivamente ho appreso dalla lettura della cartella clinica che il ricovero era stato necessario a causa di una mia "caduta dalla branda", cosa assolutamente falsa".

Oltre alla denuncia contro alcuni agenti della polizia penitenziaria che lavorano a Regina Coeli, esistono anche due lettere inviate al detenuto nel carcere di Secondigliano, che sarebbero state scritte da un agente che avrebbe anche scattato fotografie durante il presunto pestaggio dei suoi colleghi.

"Queste foto le ho fatte di nascosto - ha scritto l’agente - e documentano il terribile massacro che hai subito, mi dispiace, non ce l’ho fatta più a tenere tutto nascosto, scusa se non l’ho fatto prima. Sono veramente schifato dagli abusi compiuti in carcere contro i detenuti, specialmente stranieri". Lettere che sono state inviate dal difensore del romeno, l’avvocato Francesca Di Nardo, alla sezione consolare dell’ambasciata della Romania lo scorso 31 marzo. Il capo di questa sezione, secondo quanto riportato nella denuncia depositata in procura il 21 aprile, ha inoltrato la pratica al ministero della Giustizia e al ministero dell’Interno sia italiano, sia romeno. "Tale lettera, a detta del capo della sezione consolare romena - spiega il penalista - è stata ritenuta attendibile perché contiene particolari forniti da riscontri".

Pavia: Rita Bernardini al 12° giorno di digiuno visita il carcere

 

Ristretti Orizzonti, 26 aprile 2010

 

È prevista per oggi una visita di sindacato ispettivo della deputata Radicale nel Pd Rita Bernardini al carcere di Pavia, accompagnata da Giuseppe Muscia, Tesoriere dell’associazione "Radicali Pavia".

Rita Bernardini, membro della Commissione Giustizia della Camera, è giunta oggi al 12esimo giorno di sciopero della fame, intrapreso dinanzi all’ormai insostenibile stato di illegalità delle carceri italiane, con l’obiettivo di seguire i tempi di discussione del Ddl Alfano sulla messa alla prova e sull’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive brevi. Partecipano all’iniziativa nonviolenta di digiuno anche i radicali Valter Vecellio, Donatella Corleo, Donatella Trevisan, Lucio Bertè, Claudio Scaldaferri, Michele Capano e Yasmine Ravaglia.

Firenze: detenuto Opg evade durante trasferimento Comunità

 

Ansa, 26 aprile 2010

 

Un detenuto dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo (Firenze) è evaso questa mattina durante il trasferimento in una comunità di recupero di Firenze, dove avrebbe usufruito di un permesso premio di otto giorni. Sono in corso ricerche da parte della polizia. L’uomo, 36 anni, precedenti per furto e rapina, indossava jeans e un maglione blu. Il detenuto, Daniele Ferraro, di Scandicci (Firenze), era in macchina con un’operatrice della comunità "Le Querce", che era andato a prelevarlo poco prima all’Opg: giunti ad un semaforo in via Baccio da Montelupo, Ferraro sarebbe improvvisamente sceso dalla macchina e si sarebbe allontanato.

Terni: per "cantamaggio" detenuti allestiranno carro allegorico

 

Corriere dell’Umbria, 26 aprile 2010

 

L’iniziativa dell’associazione "Arci Ora d’Aria" ha fatto nascere un nuovo gruppo maggiaiolo.

Un carro di maggio tutto realizzato all’interno del carcere di Sabbione. Che sfilerà la sera del 30 aprile aprendo una nuova finestra oltre le sbarre, con i detenuti impegnati in prima persona nella realizzazione di uno dei carri più particolari dell’edizione 2010 della manifestazione. La nascita del Gruppo maggiaiolo Arci del Carcere di Terni non è stata senza difficoltà. Federica Porfidi, presidente dell’associazione Ora d’Aria, da anni impegnata concretamente nel volontariato tra i reclusi, racconta nei dettagli i vari passaggi.

"Da sempre - dice Federica - il lavoro dell’associazione "Arci Ora d’aria" nella promozione dei diritti dei detenuti si è concentrato sulla necessità di ridurre la distanza, fisica e non solo, tra il carcere e la città. Fare in modo che il momento della detenzione non fosse una parentesi buia di separazione e di frattura con la comunità. Un rifiuto reciproco. Bensì che fosse un momento di ricostruzione e di riflessione che si potesse sviluppare mantenendo aperto un dialogo tra chi ha violato le regole e chi, imponendole, ha subito la sconfitta della loro violazione".

Vitale è per le volontarie di Ora d’Aria far "partecipare" il carcere alla vita cittadina. "L’idea di "fare un carro" dentro il carcere - prosegue Federica - ci è venuta quando valutavamo l’ipotesi di realizzare un laboratorio sul riciclaggio e sul riuso dei rifiuti e dei materiali di recupero. Siamo partiti dal riciclo della carta di giornale per farne carta pesta,

quale migliore utilizzo che regalarla alla festa per la primavera, che la città celebra nelle manifestazioni per il maggio? Ci siamo messi in moto, abbiamo letto il bando. Era difficile farlo da soli ma non ci siamo arresi, abbiamo cercato "un complice" per questa evasione assolutamente legale. Lo abbiamo trovato subito. Alfio, del Circolo Arci di Fiaiola, è stato disponibile e ci ha ingaggiato come novelli maggiaioli. Noi dentro, loro fuori, un carro insieme. Il lavoro è stato più impegnativo di quanto si

immaginasse, ma con la volontà di chi vuole raggiungere un risultato e superare gli ostacoli burocratici, tecnici, economici del caso, ci siamo messi in marcia.,Due mesi di mani bagnate, fiori, bozzetti, disegni, l’aiuto ed il sostegno del Direttore, del Comandante, del "capo della Mof" e 200 fiori e 800 spighe e erano pronti". Le difficoltà non sono mancate, come sempre quando si vogliono superare le barriere del carcere e quando si cerca di unire mondi che in realtà sembrerebbero distanti.

"Ma chi vuole, come i volontari del carcere, occuparsi anche di ciò che sembra perso e che invece perso non è, sa che con l’impegno si può tutto - dice Federica Porfidi - che è necessario aprire canali di contatto, offrire occasioni di comunicazione, per svelare alla comunità che c’è una realtà è viva che non va dimenticata. Ora offriamo questo lavoro alla città, sperando che sia solo l’inizio di una futura proficua collaborazione". Ora resta solo da attendere la sera del 30 aprile per vedere dal vivo il carro realizzato dal "gruppo maggiaiolo Carcere di Terni": ovvero da Fabrizio, Sandro, Mimmo, Marco, Fredrich, Alessandro, Erlin, Salvatore, Abdelehani, Said, Marco Velia, Emanuela Bordi, Alfio Barbarossa, Il circolo Arci Fiaiola, con la collaborazione di tutto il carcere di Terni e la disponibilità di Omero Ferranti dell’Ente Cantamaggio.

Genova: mostra "Uomini dentro... l’immaginario di costrizione"

 

Secolo XIX, 26 aprile 2010

 

Realizzata da insegnanti, operatori e detenuti del carcere di Marassi, la mostra intende stabilire un contatto tra la storica condizione detentiva della Torre Grimaldina e quella attuale. Il percorso espositivo utilizza gli spazi della Torre come luoghi di libertà e trasgressione virtuali in cui raccontare il proprio vissuto attraverso la rielaborazione fantastica. Il bisogno profondo degli uomini di esprimersi in qualunque condizione fa affiorare segni ed immagini scaturiti dalla memoria. La mostra inserisce nelle antiche celle i nuovi graffiti dell’era multimediale: frammenti autobiografici affidati non solo alle parole scritte sui muri, ma ai suoni, alle immagini, ai sapori.

Il materiale esposto non è solo il frutto di una produzione straordinaria, ma nasce dalla vita quotidiana del carcere, dal lavoro dei suoi laboratori didattici, dal dialogo di molti anni, non sempre facile, tra gli spazi chiusi dove sembra che il tempo e la vita si fermino nella ripetizione infinita dell’uguale, ma dove invece molti fili si ricollegano a ciò che è venuto prima e a ciò che verrà dopo. Seguire il percorso è come andare altrove, in un luogo separato dove la vita non si ferma e chiede di essere ascoltata.

La Mostra è il risultato di un progetto interdisciplinare nel quale i detenuti coinvolti hanno realizzato materiale delle installazioni ed hanno anche preso parte alla realizzazione grafica del materiale di comunicazione relativo alla mostra.

Alcuni detenuti in possesso dei requisiti necessari svolgeranno, inoltre, il sabato e la domenica l’attività di guida all’interno degli spazi espositivi, mentre magliette equosolidali, serigrafate dal laboratorio curato dai detenuti di Alta Sicurezza, saranno disponibili nel bookshop di Palazzo Ducale.

Uomini dentro. L’immaginario della costrizione. Dal 29 aprile al 16 maggio 2010 Palazzo Ducale presso Torre Grimaldina, Carceri storiche Orario: 10.00 -13.00 / 15.00 - 18.00, tutti i giorni tranne il lunedì Prezzi: biglietto intero € 4, ridotto € 3.

Cina: contro dissidenti aumenta repressione violenza e arresti

 

Ansa, 26 aprile 2010

 

La repressione contro il dissenso e gli attivisti per i diritti umani in Cina nel 2009 è aumentata rispetto agli anni precedenti: secondo un rapporto, ci sono stati più arresti, più condanne e comportamenti più "aggressivi" da parte delle autorità. A sostenerlo è ‘Difensori dei diritti umani in Cinà, un’organizzazione che opera soprattutto sul web che, come ogni anno, ha fatto il punto sulla situazione nella Repubblica popolare.

Nel rapporto vengono citati diversi dissidenti incarcerati nel corso del 2009, come lo scrittore Liu Xiaobao, condannato a 11 anni per avere partecipato alla compilazione di un ‘manifestò in cui si sollecitano riforme politiche. Secondo l’organizzazione, non sono solo gli individui ad essere presi di mira ma anche gruppi organizzati, Ong e studi legali che assistono i dissidenti in carcere.

Nel rapporto, le autorità cinesi vengono invitate a mettere fine alla loro politica nei confronti dei difensori dei diritti umani e a liberare i detenuti politici. Viene inoltre chiesta la chiusura dei cosiddetti campi di rieducazione e delle carceri speciali dove i dissidenti, secondo il gruppo, vengono rinchiusi senza processo.

Intanto gli Stati Uniti hanno annunciato che riprenderanno un dialogo formale con la Cina sui diritti umani il mese prossimo dopo due anni di contrasti. Gli Stati Uniti e la Cina avranno discussioni sull’argomento il 13 e 14 maggio a Washington. Lo ha precisato il portavoce della diplomazia americana, Philip Crowley. Si tratta della prima riunione di questo tipo dal maggio 2008. I due Paesi avevano progettato in passato di avviare un dialogo quest’anno, ma non era stata fissata alcuna data, mentre le relazioni bilaterali avevano subito un congelamento dopo la vendita di armi statunitensi a Taiwan e l’incontro tra il presidente americano Barack Obama e il Dalai Lama.

 

 

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