Rassegna stampa 13 aprile

 

Giustizia: carceri illegali; quando è lo Stato che evade le regole

 

Secolo XIX, 13 aprile 2010

 

Le notizie che giungono dal pianeta carcere sono di una costanza sbalorditiva: il suicidio settimanale è quasi d’obbligo. Con inesorabile puntualità lo scorrere della morte auto inflitta dietro le sbarre porta a ricordarsi di come, in tutta la melma dei problemi italiani, il sistema penitenziario sia rappresentativo di un approccio più ampio dell’apparato statale nei confronti dei cittadini. Totale non curanza dei diritti in sfregio alla legislazione esistente. È ironico, con sordido sarcasmo ammesso, ma proprio il carcere può essere una lente di ingrandimento attraverso la quale comprendere i meccanismi funzionanti nel nostro paese. Meccanismi che per la maggiore poggiano su un corpus di regole evase dallo stesso Stato.

La detenzione è regolata in Italia dall’art. 27 della Costituzione il quale afferma roseo e ben disposto: "L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato."

Roseo, ben disposto e intriso di umanità si dovrebbe insomma applicare una norma che ricorda come la pena di essere privato della propria libertà sia sufficiente a se stessa, e senza doversi caricare di ulteriori privazioni, la galera debba poter far riflettere chi vi è rinchiuso, sempre mostrando il lato umano del diritto: una pena finita, che non nuoce a chi la subisce al di fuori di quanto previsto, ma certa nella sua conformità alla legge si applica con omogeneo rigore . Questa sarebbe la certezza della pena.

Niente di più lontano dalla realtà. In Italia, sottraendo i pochi e si contano con una mano, istituti modello, la stragrande maggioranza degli stabilimenti di pena, che sono oltre duecento, ha perso ogni contatto con quanto prescritto, quindi d’obbligo, dalla Costituzione.

Sorge quindi una domanda di legittimità intorno a uno Stato che si pone ad esempio per quel che riguarda l’aderenza alla legge, per poi essere, al contrario, un attore desposta, che applica quando può o conviene, e invece si riserva di sospendere in altri momenti, quando non può ho non ha interesse.

Lo Stato ha diritto a punire se al di fuori della sua stessa legge? Se non garantisce cioè che la pena sia espiata senza ledere la dignità dei detenuti? Uno Stato del genere non è improntato a una logica monarchica del potere, dove la discrezionalità dell’arbitrio è superiore alle tutele democratiche della legge?

Per dare un senso ai tempi che vive l’apparato penale nazionale basti pensare che attualmente con 67 mila detenuti, il sistema penitenziario ha raggiunto il triste record di presenze nella patrie galere dal dopoguerra ad oggi. Queste sono le dimensioni di un fenomeno ultimamente sempre affrontato a livello mass mediatico con la propaganda della certezza della pena e del tanto in carcere non ci va più nessuno. E meno male se no altro che record.

Se da un lato Pannella, in visita all’Ucciardone di Palermo, può affermare senza timore di smentita: "Le carceri sono una discarica sociale", per una volta invece di ascoltare i politici che ogni tanto si ricordano di dover anche visitare le prigioni (in quanto luogo specifico della violenza statale applicata al cittadino), forse può essere più utile sentire che ne pensa Donato Capece, rappresentante del Sappe, il principale sindacato della polizia penitenziaria.

Ed in primis il sindacalista delle guardie afferma: "Il Corpo di Polizia Penitenziaria, i cui organici sono carenti di oltre 6mila unità, ha mantenuto fino ad ora l’ordine e la sicurezza negli oltre duecento Istituti penitenziari a costo di enormi sacrifici personali, mettendo a rischio la propria incolumità fisica, senza perdere il senso del dovere e dello Stato nonostante vessati da continue umiliazioni ed aggressioni da parte di una popolazione detenuta esasperata dal sovraffollamento e da politiche repressive che non hanno avuto il coraggio e l’onestà politica ed intellettuale di riconoscere i dati statistici e gli studi Universitari indipendenti su come il ricorso alle misure alternative e politiche di serio reinserimento delle persone detenute attraverso il lavoro, siano l’unico strumento valido, efficace, sicuro ed economicamente vantaggioso, per attuare il tanto citato quanto non applicato articolo 27 della nostra Costituzione."

Nonostante il corpo di polizia penitenziaria sia sotto di 6 mila unità, come conferma Capece, si è calcolato che il rapporto detenuto-agente sia fra i più alti di Europa: dove nascono allora queste strutturali mancanze di personale? Sarà per caso che tanti agenti sono impiegati in affari burocratici/istituzionali che niente hanno a che vedere con la vita nelle sezioni? Quanti siano questi probabili agenti imboscati che al lavoro in galera preferiscono le kermesse pubbliche, non ci è dato saperlo, risulta però chiaro come Capece individui la causa delle vessazioni dei suoi colleghi, più nelle politiche repressive, colpevoli di miopia strumentale alla propaganda, che nei detenuti con i quali la polizia penitenziaria condivide la vita quotidiana all’interno delle sezioni detentive. Fra i politici miopi e i detenuti esasperati Capece sembra aver maggior sintonia con i secondi. E questo dovrebbe dirla lunga sul livello di propaganda mediatica intorno al tema carcere, sistema penale e giustizia.

Giustizia: emergenze e segreti, la cricca all’assalto delle carceri

di Alberto Statera

 

La Repubblica, 13 aprile 2010

 

La Bertolasocrazia sopravvive al suo inventore, un po’ barcollante nonostante l’ossessivo fuoco tv di copertura propagandistica, e si arricchisce via via di nuovi capitoli. Tra le tante emergenze vere, presunte o totalmente fittizie di questo paese, ora è la volta dell’emergenza carceri.

Decretata nel gennaio scorso, diventa operativa con l’ordinanza del governo di fine marzo e mette sul tappeto più di 1,2 miliardi di euro, di cui 700 milioni già praticamente spendibili. Nove carceri per le detenzioni brevi, otto per la reclusione normale in città medie, altre nelle grandi città come Roma e Milano, oltre all’ampliamento delle strutture esistenti, dovrebbero se non risolvere almeno alleggerire in tempi umani il problema del sovraffollamento, che si compendia in 67 mila detenuti accalcati spesso in condizioni disumane in 43 mila posti.

Il commissario straordinario Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha poteri assoluti, come nel modello Bertolaso per L’Aquila, il G8 e gli altri eventi di svariata natura commissariati per poter spendere pubblico denaro senza "pastoie". Individua le aree, deroga dalle norme urbanistiche e da quelle degli espropri, sceglie con la Protezione civile i progettisti, gli assegnatari degli appalti, i direttori dei lavori. Cosa questo modello abbia prodotto è ormai noto a tutti: lievitazione stratosferica dei costi, corruzione di politici e alti funzionari dello Stato costituitisi in cricca famelica con imprenditori di pochi scrupoli, nepotismo, come è nell’ormai antica tradizione di familismo amorale di questo paese, vanificazione di ogni regola di concorrenza tra imprese, come ha cominciato a denunciare il presidente dell’Associazione dei costruttori Paolo Buzzetti.

Si spera, naturalmente, che le recenti esperienze siano servite a qualcosa e che la gestione delle emergenze, se proprio ci devono essere, avvenga d’ora in poi con un minimo di trasparenza. Ma le premesse non sono confortanti, anche perché alle deroghe su tutto si aggiunge la segretezza. Per realizzare opere sensibili, come è un carcere, occorre alle imprese un nulla osta di segretezza, il Nos, rilasciato da un apposito ufficio della presidenza del Consiglio. Alcune carceri sarde, come quelle di Sassari, Nuoro e Tempio, sono già in costruzione per un costo di circa 200 milioni.

E sapete chi le sta realizzando? Le stesse imprese della cricca, che naturalmente sono dotate di tutti i nulla osta necessari. C’è Anemone, c’è la Giafi di Valerio Carducci e la Opere Pubbliche di Piscicelli, quello che rideva nel letto la notte del terremoto de L’Aquila, pregustando i nuovi appalti della Protezione civile per la ricostruzione. Questi tre, che si servono ampiamente di subappalti, hanno già incassato 100 milioni, come hanno documentato Guido Melis e Donatella Ferranti, deputati Pd della commissione Giustizia. Risultato: i lavori vanno avanti da sei anni. Con buona pace dell’inumano trattamento dei detenuti.

Giustizia: Comunità Sant’Egidio; sì al ddl Alfano, ma non basta

 

Ansa, 13 aprile 2010

 

Approvazione soprattutto per il provvedimento sulla messa alla prova e l’incremento delle pene alternative. Marazziti. "Pensiamo che sia meglio mandarlo avanti piuttosto che tenerlo fermo in Parlamento". Record di presenze in carcere, calo di reati.

"Il ddl Alfano sul piano carceri va bene e speriamo che il suo iter legislativo proceda, ma non è sufficiente, non è l’unico provvedimento necessario per risolvere l’emergenza carceri". Ne è convinto il portavoce della Comunità di Sant’Egidio, Mario Marazziti, che durante una conferenza stampa nella sede di Trastevere, ha osservato come non ci possa "essere futuro in un sistema Italia, dove l’unica risposta a tutti i problemi è il carcere. Bisogna cambiare il dibattito sulla sicurezza".

Marazziti ha affermato che di fronte a un record storico di presenza in carcere come quello odierno, allo stesso tempo non ci sia un record di crimini: "Ciò dimostra che c’è qualcosa di malato". Secondo il portavoce della Comunità di Sant’Egidio "c’è più sicurezza nell’inventare misure alternative piuttosto che ricorrere esclusivamente al carcere".

Il portavoce ha ricordato che per chi ha scontato tutta la pena in carcere c’è un tasso di recidiva medio del 66%. Tra gli indultati - ha riferito Marazziti - il tasso di recidiva è del 29%, mentre tra i 21 mila che nel 2009 hanno scontato pene alternative il tasso scende al 5%. Tutto questo ci fa sostenere con forza che il carcere non sia in molti casi una risposta adeguata al crimine".

La Comunità di Sant’Egidio ha quindi proposto delle soluzioni al miglioramento delle condizioni in carcere attraverso la creazione di strutture socio-sanitarie per permettere di scontare la pena in misura alternativa ad anziani e disabili, donne con bambini, persone senza dimora e malati oncologici, il potenziamento di posti disponibili per persone affette da disturbi psichici in comunità terapeutiche, l’ingresso direttamente in comunità terapeutiche, senza passare per il carcere in attesa della convalida dell’arresto, per i detenuti tossicodipendenti, il favorimento al ricorso a sanzioni amministrative per reati di lieve entità, l’investimento di maggiori risorse per il lavoro interno ed esterno come primo passo per il reinserimento nella società, il potenziamento di personale e il maggior stanziamento di bilancio statale per garantire il diritto alla salute.

Al 29 marzo 2010 erano 67.271 i carcerati in Italia, contro i 29 mila del 1990. Mai dal dopoguerra - ha commentato - abbiamo raggiunto questi livelli". Di qui l’aggravarsi del sovraffollamento nei principali istituti di pena. Il record alla Dozza di Bologna, con il 139% di presenze rispetto alla capienza. A Roma il sovraffollamento sfiora l’80%. Ma il problema sovraffollamento interessa tutti i maggiori Paesi europei, Germania esclusa: la Francia, dove il tasso è del 30,6%, o la Spagna, con il 57,2%.

Capitolo a parte quello degli immigrati, che rappresentano il 37% della popolazione carceraria. Nell’89% dei casi il crimine loro imputato è la mancanza del permesso di soggiorno. "Dobbiamo sapere quindi - ha concluso Marazziti - che le nostre carceri sono piene di persone il cui unico crimine consiste nella mancanza di documenti".

Giustizia: piano carceri; Cgil non accetta convocazione Alfano

 

Agi, 13 aprile 2010

 

Il Guardasigilli Alfano "si assuma le sue responsabilità e non cerchi alibi o stampelle" in merito alla situazione delle carceri. È quanto ribadiscono Francesco Quinti e Lina Lamonica, responsabili nazionali comparto sicurezza e penitenziario della Fp-Cgil, in vista della riunione convocata per il pomeriggio a via Arenula dal ministro "al fine di acquisire suggerimenti sul piano dell’edilizia penitenziaria e sulle modalità della sua gestione, in particolare all’interno di strutture penitenziarie già esistenti".

Per i sindacalisti, che annunciano la loro decisione di non partecipare all’incontro, quello di Alfano è "un invito singolare" sia "per il tema scelto, già dibattuto lo scorso 26 gennaio senza alcun risultato tangibile, sia per la natura quasi provocatoria che cela: il Guardasigilli - rilevano gli esponenti della Cgil - tenta di indurre l’opinione pubblica e i lavoratori a ritenere che una discussione con le rappresentanze sindacali, peraltro già avvenuta all’indomani della dichiarazione di stato d’emergenza, possa spostare il merito di decisioni assunte in altre sedi dal Governo".

Dunque, aggiungono Quinti e Lamonica, "non ci presteremo alle strumentalizzazioni di chi usa il tema carcerario per ritagliarsi uno spazio di visibilità senza produrre proposte risolutive e senza essere in grado di accogliere una sola delle proposte avanzate dagli operatori. Quindi diserteremo l’incontro". I "nostri rilievi - ricordano - restano i medesimi mossi il 26 gennaio in occasione dell’illustrazione del tanto sbandierato ‘piano carceri’: mancano 1,5 miliardi di euro per realizzare il piano edilizio, manca il personale per gestire l’esistente, figurarsi per l’espansione delle strutture penitenziarie, mancano i 2mila poliziotti in più di cui il ministro Alfano continua a parlare ai mezzi di informazione".

Dal 26 gennaio ad oggi, secondo gli esponenti della Fp Cgil, "al netto della propaganda, il Governo e il ministro sono rimasti immobili mentre i detenuti lievitavano fino a quota 67.000 e il personale diminuiva. Un record negativo assoluto", mentre "per risolvere l’emergenza servono risorse economiche, occorre aumentare di diverse migliaia di unità il personale della Polizia Penitenziaria e delle altre professionalità penitenziarie e, soprattutto, attuare concreti provvedimenti di deflazione delle attuali presenze in carcere: un obiettivo - concludono i due sindacalisti - da perseguire tenacemente, che passa anche attraverso appropriati percorsi di recupero, l’implementazione delle misure alternative alla detenzione e l’affidamento della tossicodipendenza alle comunità terapeutiche. Saremo disposti al confronto solo se correttamente informati e, soprattutto, quando il Governo la smetterà di fare propaganda sulla pelle delle persone e degli operatori che rappresentiamo".

Giustizia: Rdb; il piano carceri di Alfano, progetto inadeguato

 

Adnkronos, 13 aprile 2010

 

"Un progetto inadeguato, incentrato sull’investimento nell’edilizia e sulla funzione puramente detentiva del carcere". Questo il giudizio della RdB Pubblico Impiego, sul Piano Carceri , che il ministro della Giustizia, Angelino Alfano illustrerà oggi ai sindacati della Giustizia Penitenziaria. La RdB Pubblico Impiego sottolinea in una nota che "i punti del documento sono sostanzialmente tre: un piano per l’edilizia penitenziaria; la scarcerazione di tutti coloro che, una volta arrestati, rischiano una pena massima di 1 anno e 3 anni se incensurati; il potenziamento del Corpo di Polizia Penitenziaria".

"Ci risulta che il 30% degli arrestati venga scarcerato dopo massimo 5 giorni di permanenza nel carcere - afferma Giuliano Greggi, della Direzione nazionale RdB P.I. - questo significa che su una popolazione carceraria di oltre 60.000 detenuti ben 20.000 sono solo "in transito", affollando nel contempo gli uffici matricola, le infermerie e le celle di detenzione. L’utilizzo delle caserme dismesse o in via di dismissione del Ministero Difesa potrebbero, a costi contenutissimi, essere trasformate in idonei edifici per gli arresti temporanei. O forse quelle caserme fanno gola agli immobiliaristi?".

Sottolinea ancora Greggi: "Il fatto poi di prendere in considerazione il potenziamento di una sola parte degli operatori che gravitano nell’ambito penitenziario appare una assurdità che nulla ha a che fare con il miglioramento ed il funzionamento di una amministrazione il cui scopo costituzionale è quello della riabilitazione dei detenuti nella sicurezza. Ora, si sa che la Polizia Penitenziaria fa sicurezza e sappiamo anche che, a causa del blocco delle assunzioni del personale "civile", la Polizia viene adibita anche a mansioni d’ufficio sostituendo amministrativi, ragionieri ed uscieri. Ma pensare che possa sostituire assistenti sociali ed educatori ci sembra quantomeno bizzarro da parte di un ministro avvocato che conosce bene di cosa stiamo parlando. Secondo noi è necessaria l’assunzione di questo personale e del personale "civile" mancante per poter finalmente restituire la Polizia Penitenziaria alla sua funzione istituzionale e - conclude il dirigente RdB P.I.- utilizzare le idonee professionalità per specifiche funzioni amministrative, rieducative e di servizio sociale".

Giustizia: la salute in carcere e l’importanza di attuare la riforma

di Antonio Mattone (Comunità di Sant’Egidio)

 

Il Mattino, 13 aprile 2010

 

Carcere e salute. Un binomio che sembra non avere niente in comune. Eppure, chi vive in carcere si trova ad essere sempre di più esposto a rischi sanitari. La detenzione avviene spesso in ambienti malsani e promiscui, dove facilmente si diffondono patologie come la scabbia e l’epatite, accompagnate dall’aumento del disagio mentale dovuto all’alcolismo e alle dipendenze da droghe e farmaci.

Siamo a due anni dall’approvazione del Dpcm del 1° aprile 2008, che prevede il trasferimento delle competenze dell’assistenza sanitaria in carcere dal Ministero di Giustizia alle Regioni, completando così il lungo iter della riforma della sanità penitenziaria definita con il decreto legislativo 230 del 1999.

Questo cambiamento è di grande importanza perché viene così realizzato il principio previsto dalla Costituzione che garantisce a tutti i cittadini pari diritti alla salute. Davanti a questo cambiamento epocale le Regioni (e tra queste la Campania) si sono trovate impreparate. Alle prese con il deficit, i piani di rientro, i commissariamenti, prive di un modello e di modalità organizzative adatte a garantire i livelli essenziali di assistenza sanitaria ai detenuti, hanno sottovalutato l’impatto della riforma.

Una grande criticità è la mancanza di liquidità in quanto sono stati trasferiti dal Ministero dell’Economia solo i fondi relativi al 2008. Quindi anche la Regione Campania e le Asl coinvolte hanno dovuto "anticipare" i soldi per pagare gli stipendi agli operatori e per l’acquisto delle medicine. Molti, di fronte allo "tsunami" della riforma, hanno rimpianto la passata gestione. Non funzionava meglio il vecchio sistema? Io penso proprio di no.

Dopo decenni in cui i detenuti e gli internati sono stati curati con sistemi "borbonici" e strumentazioni sanitarie obsolete, siamo oggi davanti ad una svolta straordinaria che può migliorare la qualità della vita e della dignità delle persone ristrette e degli operatori sanitari. Un aspetto molto importante è che la riforma prevede il graduale superamento degli Opg, gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari nati dopo la legge Basaglia che aboliva i manicomi. In Campania ci sono due Opg sui sei esistenti in tutta Italia. Attualmente sono presenti 1822 internati di cui circa 400 in Campania.

Si calcola che circa 400 internati potrebbero essere dimessi se presi in carico delle Asl di residenza, ma non sono stati ancora approvati i relativi progetti. Per sostenere e monitorare l’applicazione della riforma è nato il Forum per la salute dei detenuti. Il Forum Campano sostenuto tra gli altri da Federsanità, dal cappellano di Poggioreale, dalla Cgil, dalla Comunità di Sant’Egidio, ha rivolto un appello ai candidati alla presidenza della Regione per porre all’attenzione il grave e drammatico problema dell’assistenza ai detenuti. Su questo vedremo come la nuova giunta programmerà la domanda di salute dei detenuti presenti nei 20 istituti campani. Forse quello della salute nel carcere è un tema impopolare. Ma aldilà di un naturale sentimento di giustizia e di umanità una cosa è certa: un carcere "sano" conviene a tutti.

Caserta: detenuto muore nel carcere di S. Maria Capua Vetere

 

Corriere della Sera, 13 aprile 2010

 

Un altro detenuto suicida ieri, domenica sera, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. A denunciarlo è Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe. "Ancora morte in carcere, ancora un detenuto suicida. Ieri sera - si legge in una nota - nella casa circondariale campana di Santa Maria Capua Vetere si è tolto la vita un detenuto italiano di 40 anni, sieropositivo. L’uomo si è suicidato inalando il gas delle bombolette che tutti i reclusi legittimamente hanno per cucinare e riscaldare cibi e bevande, come prevede il regolamento penitenziario". "È l’ennesimo fatto drammatico - sottolinea il sindacalista - che testimonia ancora una volta l’urgente necessità di intervenire immediatamente sull’organizzazione e la gestione delle carceri, dove il numero esorbitante dei detenuti e la carenza di personale non consentono più alla Polizia penitenziaria di garantire i controlli necessari".

"Il modo in cui è morto il detenuto del carcere di Santa Maria Capua Vetere - sottolinea - analogo a quello posto in essere pochi giorni fa nel penitenziario di Reggio Emilia da un altro detenuto suicida, ricorda quello di un altro ristretto morto nel carcere di Pavia qualche anno fa; episodio per cui l’ amministrazione penitenziaria fu condannata a risarcire i familiari con 150.000 euro. Riteniamo che sia giunto il momento di rivedere il regolamento penitenziario, al fine di vietare l’ uso delle bombolette di gas, visto che l’amministrazione assicura il vitto a tutti i detenuti". "Indubbiamente - prosegue il sindacalista nella sua analisi - la carenza di personale di Polizia penitenziaria e di figure professionali specializzate nonché il costante sovraffollamento delle carceri italiani sono temi che si dibattono da tempo e sono concause di questi tragici episodi".

A Santa Maria Capua Vetere sono più di 940 i detenuti a fronte di 547 posti letto e i due terzi dei presenti sono imputati, cioè in attesa di sentenza definitiva. I detenuti stranieri sono circa il 25% dei presenti mentre le carenze di personale di Polizia penitenziaria sono stimate in circa 20/25 unità. "Bisogna - si conclude la nota del Sappe - che sulle criticità penitenziarie si intervenga quanto prima e con estrema urgenza, per evitare l’implosione del sistema. E questo chiederà il Sappe domani a Roma in un incontro programmato con il ministro della Giustizia Angelino Alfano".

 

Angiolo Marroni: ormai è emergenza assoluta

 

"Il trend di suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno segnala un’emergenza assoluta. In quattro mesi sono, infatti, 18 i detenuti che si sono tolti la vita in cella". Lo dichiara in una nota il vice coordinatore della Conferenza Nazionale dei Garanti dei detenuti Angiolo Marroni, Garante del Lazio, commentando il suicidio di un quarantenne nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. "La gravità della situazione - ha aggiunto Marroni - impone che siano adottate immediatamente misure straordinarie e strutturali e che non si ceda all’emozione del momento, che porta ad indicare soluzioni estemporanee che, alla lunga, possono portare al peggioramento delle condizioni di vita nelle carceri. Già in condizioni normali il carcere è un luogo duro che può portare alla disperazione e al suicidio. A questo, oggi, si aggiunge l’esorbitante sovraffollamento e la carenza di risorse umane ed economiche necessarie a gestire un così alto numero di reclusi. Le cause, insomma, sono note: spetta al Parlamento intervenire con urgenza sulle criticità del sistema penitenziario indicando una soluzione duratura a questa situazione".

 

Uil: trend suicidi pazzesco, la politica si interroghi

 

"Sgomento, incredulità, dolore. Questi sono i sentimenti che albergano nei cuori e nelle menti degli operatori penitenziari di fronte alla strage silenziosa che si consuma nelle nostre prigioni degradate, sempre più luogo di supplizio. Ci tocca commentare il ventesimo suicidio in cella di un detenuto di questo 2010. Un trend pazzesco. Chi ha una coscienza, soprattutto i politici e gli amministratori del sistema, dovrebbe seriamente interrogarsi sulle proprie responsabilità e sulla proprie incapacità a porre rimedio ad una ecatombe di cui non si intravede la fine". È dura la reazione di Eugenio Sarno, segretario generale Uil Pa Penitenziari, reduce dalla protesta davanti al carcere di Frosinone, alla notizia dell’ennesimo suicidio in carcere avvenuto ieri nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere.

"Domani incontreremo il ministro Alfano che ci ha convocato per discutere del piano carceri. Diremo con nettezza e chiarezza che prima di costruire nuove carceri occorre ricostruire l’Amministrazione Penitenziaria, le cui incapacità e responsabilità sono certificate dal fallimento totale". La stessa situazione di Santa Maria Capua Vetere, è la denuncia, era stata più volte segnalata al Dap. A fronte di una capienza massima di circa 450 posti, sottolinea ancora il sindacato delle guardie carcerarie, sono "ammassati ben 951 detenuti. Una gravissima situazione - si aggiunge - aggravata dal deficit del contingente di polizia penitenziaria nel carcere sammaritano".

A fronte di quasi 1.000 detenuti (moltissimi di spessore criminale non comune) l’organico conta appena 387 unità! Non parliamo, poi, della sezione femminile Uno scandalo e una vergogna di cui nessuno vuole parlare. Purtroppo in Parlamento c’è ancora chi vuole usare la foglia di fico del giustizialismo per impedire il veloce varo delle norme accompagnatorie al piano carceri. La detenzione domiciliare e l’affidamento in prova non sono solo soluzioni possibili. Sono, soprattutto, soluzioni necessarie. Lo diciamo alla Lega Nord e all’Idv, nella speranza che rivedano le loro posizioni in Commissione Giustizia e favoriscano, concedendo la sede legislativa, il varo delle norme previste dal ddl del Governo. Ma ancora più necessarie ed urgenti sono le assunzioni straordinarie in polizia penitenziaria., annunciate a più riprese dal Ministro Alfano. È chiaro ed evidente - conclude Sarno - che non ci sono uomini e donne per garantire i servizi minimi essenziali. A Santa Maria Capua Vetere, per dire, non sanno come piantonare i detenuti ricoverati all’esterno. Ma nonostante ciò il Dap in questi giorni ha distaccato una unità di polizia penitenziaria alla scorta del Commissario straordinario dell’Ipost, l’ente previdenziale dei lavoratori postelegrafonici. È assurdo, incredibile ed intollerabile! Ma di questo dovrà convincersi il Ministro Alfano che rischia di perdere la sua credibilità per l’inefficienza e l’incapacità del Dap e di chi lo gestisce".

Sulmona: Bernardini (Ri); è illegale, chiudere la Casa di lavoro 

 

Ansa, 13 aprile 2010

 

"La situazione degli internati del carcere di Sulmona è da denuncia penale perché tutti conoscono il problema e nessuno fa niente per risolverlo mentre i detenuti continuano a morire". Lo ha detto l’onorevole radicale Rita Bernardini, al termine della visita effettuata oggi nella sezione internati del carcere di Sulmona, dopo la morte per overdose dell’ultrà laziale, Domenico Cardarelli.

"Così come è strutturata la casa lavoro non può essere tollerata: ospita persone che dovrebbero fare percorsi diversi per un possibile reinserimento nella società. Per questo ribadiamo che deve essere chiusa perché non svolge il compito per cui è stata istituita ma crea solo problemi sia ai detenuti sia alla struttura carceraria". La radicale ha ribadito che c’è bisogno di una legge che intervenga a modificare la figura degli internati.

"I tossicodipendenti non dovrebbero stare nel carcere - prosegue Bernardini - per loro bisognerebbe ripristinare i percorsi sociali e di recupero che negli ultimi anni sono stati praticamente cancellati". Insieme alla parlamentare radicale c’era anche l’esponente regionale del Pd, Giulio Petrilli, che parlando del problema dei suicidi nel reparto degli internati ha affermato che si tratta di un fenomeno legato soprattutto a problemi psicologici perché i detenuti non hanno né la certezza della pena né la portata della misura alternativa.

"Il carcere diventa una discarica sociale se non un manicomio - ha detto Petrilli - dove vengono ristrette persone solo perché non hanno una casa dove poter stare una volta scontata la pena". Nel carcere di Sulmona sono detenuti 200 internati mentre ce ne potrebbero stare solo 75. Solo una minima parte viene impiegata nei vari laboratori presenti nel carcere di Sulmona, mentre tutti gli altri sono costretti a trascorrere la loro giornata all’interno della cella realizzata per poter ospitare una persona ma che nella maggior parte dei casi ne ospita tre.

Porto Azzurro: il direttore; il nostro carcere? non è una topaia

 

Tirreno Elba news, 13 aprile 2010

 

Il direttore replica alle critiche piovute dai sindacati dopo la rivolta dei detenuti di sette giorni fa: "la casa di porto azzurro è sana e all’avanguardia, e esce è affidabile e rispetta le regole".

Non aveva parlato volentieri nei giorni successivi alla rivolta dei detenuti, il direttore della Casa di Reclusione di Porto Azzurro Carlo Mazzerbo.

Qualcuno aveva avuto la sensazione che si volesse minimizzare sull’accaduto, ma non è così. C’è, piuttosto, da parte sua la conferma di una crescente preoccupazione anche fra chi gestisce il delicato equilibrio che c’è dentro le mura spagnole di Forte San Giacomo. I tagli economici pesano, in una struttura che aveva fatto della riabilitazione dei reclusi la propria immagine vincente. "Porto Azzurro rimane sempre un istituto in cui si lavora bene - dice oggi Mazzerbo - si applica completamente la legge per i suoi contenuti rieducativi.

È chiaro che quando una struttura ha meno risorse, i problemi vengono inevitabilmente a galla. La situazione grave che stanno vivendo le carceri italiane inevitabilmente arriva anche da noi. È un campanello d’allarme, che ci deve spingere a far presente che sarebbe grave sciupare il lavoro di tutti questi anni, interrompere il percorso che molti detenuti hanno intrapreso e creare condizioni veramente difficili per chi, a cominciare dalla Polizia Penitenziaria, deve far fronte a questa situazione. Il problema - ricorda il direttore - è semplicemente di uomini, di risorse e di progettualità".

Mazzerbo, poi, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, rispetto a quelle che sono state le critiche - più o meno velate - apparse sulla stampa nei giorni successivi alla "rivolta". "La nostra situazione è molto sana e positiva - attacca - perché il carcere di Porto Azzurro non è né una topaia, né tanto meno mandiamo all’esterno, come ho letto sui giornali, persone che non hanno né lavoro né casa, perché non è assolutamente vero. Chi va fuori ha fatto un percorso, è affidabile, la casa ce l’ha perché torna ‘dentro’ a dormire, e un lavoro ce l’ha perché altrimenti non potrebbe uscire. Mi sembra elementare, ed è giusto che la gente certe cose le sappia. Gli stessi Comuni molto spesso ci chiedono volontari, manodopera, e stiamo molto attenti affinché chi esce segua e rispetti le regole".

Venezia: il pm; i processi per direttissima, i detenuti in caserma

 

Nuova di Venezia, 13 aprile 2010

 

A Santa Maria Maggiore i detenuti sono 340, più del doppio di quelli che potrebbe ospitare: così il cingalese arrestato per omicidio a Venezia è stato spedito nel carcere di Vicenza. E il procuratore Vittorio Borraccetti ha inviato ai pm e alle forze dell’ordine una circolare in cui spiega che le persone arrestate in flagranza di reato vanno processate subito e non devono passare per il carcere.

"Non ho fatto altro che ricordare quello che dice l’articolo 558 del codice di procedura penale: da un lato prescrive il processo per direttissima per le persone arrestate in flagranza di reato, dall’altro afferma che non devono passare per il carcere" spiega il procuratore capo. Naturalmente non devono essere messi in libertà, ma essere tenuti nelle strutture delle forze dell’ordine, nella caserma dei carabinieri o in Questura per la Polizia.

Le linee di Borraccetti per i casi che vanno sottoposti al giudice monocratico indicano una strada che prevede la richiesta del giudizio direttissimo senza passare per il carcere; se il giudice, quel giorno non tiene udienza, la deve fissare entro 24 ore e nel frattempo l’arrestato deve stare in carico alle strutture della polizia giudiziaria. Solo se queste ultime non dovessero essere adatte, il pm può valutare e disporre la rimessione in libertà, sempre che non esistano esigenze investigative o cautelari.

La nota firmata dal procuratore, inviata anche al procuratore generale Calogero e al prefetto di Venezia parte dalla considerazione che il carcere di Venezia è giunto a un livello di sovraffollamento sopra ogni limite. "Non c’è più posto" sintetizza Borraccetti, ricordando che il cingalese fermato in queste ore per l’omicidio di un connazionale ha trovato posto solo a Vicenza.

"Nella nota - spiega - ho richiamato all’osservanza della norma prevista per gli arresti in flagranza di reato di competenza del giudice monocratico risalente al 2000". In sostanza, il procuratore chiede processi per direttissima con l’arrestato che va direttamente davanti al giudice senza passare per la detenzione in carcere. Alle forze dell’ordine il compito della "custodia" in attesa del giudizio.

Da tempo gli agenti della Polizia penitenziaria chiedevano un provvedimento simile, sostenendo che oltre al sovraffollamento per il carcere veneziano il problema era il turn-over dei detenuti la maggioranza di quelli arrestati per furto o per la legge Bossi-Fini, infatti, dopo essere stati condannati a sei o più mesi vengono scarcerati grazie alla sospensione condizionale della pena.

Cinema: i film entrano in carcere grazie a rassegna "Filmspray"

 

Ansa, 13 aprile 2010

 

Dal 15 al 17 aprile la seconda rassegna di cinema indipendente tra Rebibbia, Sollicciano, Santa Maria Maggiore e la comunità fiorentina Il Forteto. Guarducci: "Seguiamo il movimento dell’empowerment".

Il cinema entra in carcere grazie a "Filmspray", la rassegna di cinema italiano indipendente che si svolgerà dal 15 al 17 aprile negli istituti penitenziari di Rebibbia (Roma), Sollicciano (Firenze) e Santa Maria Maggiore (Venezia), nonché nella comunità di recupero fiorentina Il Forteto, nella chiesa sconsacrata di San Jacopo e nella biblioteca San Giovannino a Firenze, dove saranno ospiti anche Leonardo Pieraccioni e Anna Kravos. A fare la giuria dei film in concorso saranno proprio i detenuti. I titoli selezionati concorreranno al premio "Rai Trade".

La rassegna Film Spray è organizzata dall’Istituto Lorenzo de’ Medici di Firenze, diretto da Fabrizio Guarducci, con il patrocinio del Quartiere 1 del Comune di Firenze, della Cassa di risparmio di Firenze, Rai Trade, Banca Ifigest, Cinecittà Luce, Sintagma e Eduitalia.

"Questa iniziativa - ha detto Fabrizio Guarducci, direttore dell’Isituto Lorenzo de’ Medici e ideatore della rassegna - si ricollega al movimento pacifista dell’Empowerment, nato per sviluppare vie alternative per un’economia parallela ed auto-organizzata dai settori emarginati della nostra società basata sulla responsabilizzazione individuale, sulla capacità attiva di ciascun individuo e sulla partecipazione dando a ciascuno ampie possibilità di realizzare il proprio potenziale."

Ecco i titoli dei film in concorso: Butterfly Zone di Luciano Capponi, L’Uomo Fiammifero di Marco Chiarini, Mar Nero di Federico Bondi, L’Uomo del grano di Giancarlo Baudena, Onde di Francesco Fei e La velocità della luce di Andrea Papini.

Teatro: detenuti Pagliarelli recitano il "Pio La Torre" di Consolo

 

Agi, 13 aprile 2010

 

Sabato alle 10.30 dodici detenuti della Casa Circondariale "Pagliarelli" di Palermo reciteranno, sotto la regia di Gabriello Montemagno, l’atto unico di Vincenzo Consolo "Pio La Torre, orgoglio di Sicilia".

L’iniziativa, resa possibile grazie alla collaborazione della direzione della Casa Circondariale, è aperta al pubblico e alla stampa nel rispetto delle procedure di sicurezza. I giornalisti e gli operatori che intenderanno partecipare alla rappresentazione dovranno comunicarci la loro presenza per e-mail (ufficio.stampa@piolatorre.it). Il Centro Studi Pio La Torre provvederà a inoltrare l’elenco dei partecipanti, corredato, per i controlli e le relative autorizzazioni, dai dati anagrafici (nome, cognome, data di nascita).

Libri: un dibattito su "Il Giudice della Pena", di A. Di Giovanni

 

Il Velino, 13 aprile 2010

 

Giustizia, il ruolo del giudice di sorveglianza. Se ne discuterà oggi pomeriggio alle 16 in Campidoglio a Roma, alla luce del libro "Il Giudice della Pena" scritto da Angelica Di Giovanni, ora reggente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, che ha guidato per oltre 8 anni. "La figura del giudice di sorveglianza va rivalutata, serve l’esecutorietà dei provvedimenti per offrire risposte concrete ai detenuti", spiega Di Giovanni nel presentare un argomento complesso quale il ruolo odierno del giudice di sorveglianza. L’autrice ne discuterà insieme al sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Ionta, l’ex presidente della Camera Luciano Violante, il numero uno dell’Ordine degli Avvocati Conte, il consigliere del Csm Giulio Romano e il professore Giuseppe Riccio ordinario di procedura penale avanzata all’Università Federico II di Napoli.

Immigrazione: Asgi; dalla Carta dei diritti… ai "diritti di carta"

di Fulvio Vassallo Paleologo (Asgi Palermo"

 

Melting Pot, 13 aprile 2010

 

Pubblichiamo l’intervento del Professor Fulvio Vassallo Paleologo al Convegno - che si è tenuto il 12 aprile a Palermo - dal titolo "Il Tempo e la Giustizia. Processo penale e crisi della legalità", organizzato dal Centro Siciliano di Documentazione "Giuseppe Impastato", dall’Asgi (Associazione Studi Giuridici Immigrazione) e da Giuristi Democratici.

Diceva Piero Calamandrei nel 1955 in una celebre lezione a Milano, "la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile".

Oggi sembra che quel combustibile sia diventato introvabile ed attraverso le modifiche alla seconda parte del testo costituzionale si attaccano le garanzie fondamentali della persona, e quindi dello stato democratico, previste nella prima parte.

Malgrado sia passato oltre mezzo secolo dal discorso di Calamandrei, che attaccava "l’indifferentismo", e malgrado la Corte Costituzionale abbia cercato a varie riprese di difendere la Costituzione dagli attacchi di un legislatore sempre più insofferente ai principi enunciati dalla nostra Carta fondamentale, quelle parole sono ancora attuali. L’attacco frontale che si sta portando al diritto al lavoro ed al principio di parità, non solo formale ma sostanziale, e poi ad altri principi fondamentali come quelli posti a presidio della libertà personale (art. 13), della libertà di riunione (art. 17), della libertà d’opinione (art. 21), del diritto di difesa (art. 24), del principio di legalità (art. 25), della funzione rieducativa delle pene (art. 27), mette in discussione le fondamenta dello stato di diritto. Sembra a rischio persino il principio di divisione dei poteri e la indipendenza della magistratura, (artt. 101 e 104), mentre la reiterazione delle dichiarazioni di stato di emergenza, connesse a problemi di ordine pubblico, quando non mascherano la necessità di procedure senza controllo per l’affidamento degli appalti, stanno alimentando una pericolosa deriva autoritaria, anche all’interno delle forze di polizia, con una proliferazione di interventi repressivi, e quindi di processi, nei confronti delle più disparate categorie di soggetti marginali, come gli immigrati, i tossicodipendenti, gli homeless, i writers, di recente anche coloro che vengono definiti come "antagonisti". I tempi dei processi si dilatano per alcuni e tendono a contrarsi, fino alla negazione dei diritti di difesa e della presunzione di innocenza, per altri. La prescrizione opera a senso unico, sempre a favore dei più forti.

I diversi pacchetti sicurezza approvati dal Parlamento a partire dal 2008 hanno profondamente stravolto il codice penale ed il codice di procedura penale, introducendo un "diritto speciale" ed un "processo diseguale", che valgono soltanto per talune categorie di persone, magari per quello che sono, non per quello che hanno fatto. La Costituzione rischia così di diventare solo un "pezzo di carta" che viene abbandonato nel vuoto della retorica, come vengono lasciati cadere nel nulla gli istituti che garantivano solidarietà sociale e partecipazione politica. Tutto avviene nella indifferenza di quella pseudo-maggioranza "soddisfatta" che persegue solo l’arricchimento personale ed ha perduto il senso della storia e la dignità dell’appartenenza ad una comunità nazionale. Che si rifugia nell’egoismo sociale del consumo e nella difesa dell’identità e del territorio dal paventato attacco di nemici esterni, che riesce a restare indifferente di fronte alle tante guerre non dichiarate, all’interno ed all’esterno del nostro paese, e trova persino "normale", o comunque giustificabile, il ritorno della tortura,di trattamenti inumani o degradanti, e di pratiche amministrative degne di uno stato di polizia. Difendere i diritti dei migranti e degli "ultimi" è come rimettere combustibile nella "macchina" della Costituzione perché se la "nave" dei diritti affonda, non vi saranno superstiti, ma solo sudditi o proscritti, e sarà la fine della democrazia, di quella democrazia che, dopo la Resistenza al fascismo, i costituenti seppero tracciare nella Carta del 1948, e che non si è ancora compiutamente realizzata, dagli anni della strategia della tensione e delle stragi di stato, fino all’avvento del populismo autoritario di Berlusconi.

I processi che si svolgono a carico dei migranti, e di recente anche contro chi si schiera dalla loro parte, nei centri di detenzione, contro chi li salva o li difende quando vengono arrestati, di fronte al rischio di espulsioni arbitrarie o di un respingimento collettivo, vietato dalle Convenzioni internazionali ma praticato dalle autorità militari italiane, confermano sempre più spesso come il "diritto speciale" dei migranti, un diritto spurio, penale ed amministrativo, ormai si vada estendendo anche nei confronti dei cittadini che dissentono, che si indignano, che denunciano, che riportano notizie altrimenti destinate alla censura, come quelle che provengono dai centri di identificazione ed espulsione (CIE).

La "cattiveria", annunciata orgogliosamente come metodo di governo nei confronti dei migranti, si estende sempre di più verso le fasce socialmente più deboli e le aree di opposizione sociale, e presto a farne le spese saranno gli studenti condannati alla dequalificazione della scuola e dell’università pubblica, i lavoratori, privati delle tutele dello Statuto dei lavoratori del 1970, ed anche, sempre più spesso, del posto di lavoro, gli anziani ed i pensionati abbandonati alle assicurazioni private ed alle logiche perverse del mercato della sanità.

Alla "cattiveria" di governo corrisponde la giustizia negata per anni a quanti si rivolgevano ai giudici per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, come è successo dopo i fatti della Diaz e di Bolzaneto, a Genova nel 2001, ma anche con le diverse forme di giustizia "lampo", come i processi per direttissima nei confronti degli immigrati irregolari e le convalide dei trattenimenti nei centri di identificazione ed espulsione, definite "cartacee" (in quanto non garantiscono neppure il contraddittorio) persino da una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 4544 del 24 febbraio scorso), una sentenza che scopre soltanto la punta dell’iceberg, imponendo la presenza effettiva di un difensore e dello stesso immigrato quando, all’interno dei CIE, si tratta di convalidare i provvedimenti del Questore, di proroga dello stato di detenzione amministrativa dopo i primi sessanta giorni. Una sentenza che nella maggior parte di CIE italiani viene ignorata ancora oggi. E rimane la anomalia di un giudizio che riguarda la libertà personale e che viene demandato alla competenza del giudice di pace, un giudice che non offre le stesse garanzie di indipendenza degli altri giudici togati, con una limitata possibilità di ricorso, soltanto in Cassazione, una eventualità assai remota, considerando che le misure di allontanamento forzato possono essere eseguite dalla polizia anche in pendenza del ricorso giurisdizionale e dell’eventuale ricorso. Ma su questi aspetti la Corte Costituzionale, dopo la "storica" sentenza n.105 del 2001, oggi tace.

Forse una presa d’atto dello strapotere della politica, e dunque del legislatore, che nel 2004 giunse a "sterilizzare" con una "leggina" l’intervento della Corte che aveva sancito come incostituzionali le norme portanti della legge Bossi-Fini.

Si assiste così ad una enorme dilatazione dei poteri della polizia che sembrano andare ben oltre i rigidi limiti dell’art. 13 della nostra Costituzione, una norma che andrebbe diffusa per interno tra gli operatori, all’interno delle carceri e dei centri di detenzione anche nella parte che vieta " ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà". E si vorrebbe ancora andare oltre, affidando alla polizia nuovi compiti di indagine, sottraendo le prime fasi del procedimento penale al controllo ed alla direzione dei magistrati. In questo modo i giudici si potranno pronunciare solo sulle notizie di reato che la polizia deciderà di portare a conoscenza del magistrato. Dopo i casi di Federico Aldovrandi, di Stefano Cucchi e di Giuseppe Uva, e di tanti altri meno noti, o rimasti nascosti, una sorta di garanzia di impunità per tutti gli abusi commessi dalle forze di polizia dopo gli arresti,o nelle prime fasi delle indagini preliminari.

Nel caso degli immigrati queste modifiche legislative potranno solo accrescere il numero delle persone che subiscono violenze, e molte di queste saranno immigrati trattenuti nei centri di detenzione, come lo erano i "ribelli di Lampedusa", il 18 febbraio 2009, i fuggitivi di Caltanissetta, nell’ottobre dello stesso anno, ed ancora come Said Stati pestato all’interno del Centro di Identificazione ed Espulsione di Gradisca d’Isonzo (Gorizia) nella notte fra il 28 e il 29 dicembre 2009, esattamente dieci anni dopo la strage del Vulpitta a Trapani, o come quelle donne che sono private persino del diritto di presentare una denuncia, o come nei casi recentemente verificatisi nel Cie di Milano, in via Corelli e a Roma, a Ponte Galeria. Abusi e violenze senza processo, o con processi tanto brevi da non garantire neppure i diritti di difesa. Non si tratta di episodi isolati, non ci sono "mele marce", ma appare ormai sempre più evidente un sistema violento di detenzione amministrativa, si potrebbe dire una "violenza di sistema", che si basa propria sulla impunità garantita dall’assenza nel nostro ordinamento del reato di tortura, da una legislazione che dilata enormemente la discrezionalità di polizia e dalla durata infinita del processo che rischiano gli autori degli abusi, che in questi casi è facile pilotare verso la prescrizione. Mentre arriva sempre tempestiva la contro-denuncia e la condanna per calunnia o diffamazione.

Oltre il processo troppo lungo, che diventa adesso "breve", almeno nel disegno di legge in approvazione da parte del Parlamento, il processo brevissimo, addirittura lampo, con espulsione immediata, per gli immigrati. Processi che malgrado la loro brevità rischiano di ingolfare comunque la macchina della giustizia, e soprattutto le carceri, anche per le norme sulla recidiva e la incidenza della cd. aggravante di clandestinità, che neppure la Corte Costituzionale ha saputo respingere, malgrado la evidente violazione dell’art. 3 della Costituzione.

Ancora una volta le esigenze degli imprenditori della sicurezza e dei loro adepti contro la dignità della persona ed i diritti fondamentali dell’uomo, un fronte ancora aperto sul quale non basta formulare teorie astratte, ma occorre una presenza fisica assidua, una vera e propria interposizione, per difendere i diritti dei più deboli.

I margini di discrezionalità consentiti alle questure nella valutazione del cd."accordo di integrazione" con il quale i migranti dovranno confrontarsi per mantenere i loro permessi di soggiorno, la moltiplicazione "annunciata" dei centri di detenzione amministrativa, ancora dieci, sembra, da aprire in diverse regioni, ed i vastissimi poteri offerti ai sindaci nella repressione del "disordine urbano", devono costituire occasioni di presenza e di intervento accanto ai migranti ed alle loro associazioni, a partire dai territori dove i conflitti si accendono più aspri. Purtroppo nel silenzio di quelle forze di opposizione che per troppo tempo hanno assecondato le politiche securitarie della destra fino a restarne vittima.

Mentre si va profilando un nuovo ordine sociale basato sulla "differenziazione" degli esseri umani e sulla esclusione, premessa per le forme più diverse di sfruttamento, con una particolare condizione di subordinazione ancora inflitta alle donne, occorre ripartire dalla difesa dei diritti fondamentali, delle tutele sul lavoro, dei diritti sociali, ed avere il coraggio di praticare strade anche impervie, attraverso passaggi giurisdizionali nelle quali il legislatore (l’arbitro) muta continuamente le regole del gioco, tendendo ad avvantaggiare sempre il più forte. Ma proprio per questa ragione occorre collegare la difesa dei diritti delle persone nel processo (breve, o "lampo" che sia) con la difesa delle persone fuori dal processo, e quindi con le realtà associative e con la informazione su quanto avviene all’interno delle aule giudiziarie come nei luoghi di detenzione. Va anche promossa una formazione indipendente, libera, che difenda il senso critico e la capacità di autodeterminazione dei futuri ceti professionali, altrimenti condannati al conformismo ed all’autocensura.

Se non si riuscirà a ottenere, a livello legislativo o nella prassi amministrativa, il ridimensionamento dei reati legati al soggiorno irregolare, il contenimento dei casi di arresto e di esecuzione penale, con prospettive credibili di regolarizzazione e con un maggiore ricorso alle misure alternative, se non si riuscirà ad ottenere un trattamento più umano dei detenuti, siano immigrati o cittadini, ipotesi che sembrano escluse con l’attuale maggioranza di governo, soltanto la capacità di inserirsi nelle situazioni di conflitto, schierandosi dalla parte dei più deboli, potrà contribuire a rimettere in discussione un sistema che, altrimenti, produrrà un disastro sociale dalle conseguenze ancora incalcolabili.

Immigrazione: al Cie di via Corelli continua sciopero della fame

 

Cnr Media, 13 aprile 2010

 

Nel Cie di Via Corelli a Milano lo sciopero della fame continua ormai da oltre un mese. I detenuti chiedono condizioni migliorino all’interno del centro e una revisione del pacchetto sicurezza.

Nel Cie di Via Corelli a Milano lo sciopero della fame continua ormai da oltre un mese. Rinunciano al cibo a turno 14 persone nella sezione maschile, 10 trans e 10 nel reparto femminile. Molti prigionieri, in particolare tra gli uomini, hanno perso in media da 5 a 9 kg. Chiedono condizioni migliori o all’interno del centro e una revisione del pacchetto sicurezza. Ecco la lettera scritta dai detenuti nel Cie.

 

Cari italiani noi siamo dei clandestini

 

Cari italiani noi siamo dei clandestini, siamo detenuti al Cie di via Corelli a Milano e stiamo facendo un sciopero della fame dal 03.03.2010 perché i tempi di detenzione per identificare le persone sono troppo lunghi. Dovete immaginare chiusi e chiuse per 180 giorni, 24 ore su 24, senza aver commesso nessun reato e senza nulla da fare per far passare il tempo. Ma soprattutto, noi clandestini siamo condannati all’ergastolo senza appello. Dopo 180 gg di Cie ti danno un foglio di via con 5 giorni di tempo per lasciare il territorio italiano e se ti beccano per strada, rischi il carcere ordinario (da 6 mesi a 1 anno).

Ma in 5 giorni come fai a trovare i soldi per lasciare il territorio italiano? In questo periodo di sciopero il cibo che porta la Sodexo fa veramente schifo; per le persone malate non ci sono medicine; i bagni sono sempre sporchi e intasati e l’acqua del cesso esce fino al corridoio. Gli infermieri ci trattano male, allo stesso modo dei poliziotti e della croce rossa italiana.

E poi ci dicono che siamo clandestini ed è questo che ci spetta... Ci danno sedativi per stare tranquilli, ma la depressione di chi prende queste gocce é fortissima; sono tanti che piangono disperati, perché non capiscono perché devono subire tutto questo. Noi siamo persone, ma loro non pensano questo e ci umiliano, ridono della nostra situazione, ci picchiano.

Noi rispondiamo continuando a fare lo sciopero della fame. Fino ad ora lo abbiamo fatto in più di 80 persone. Attualmente ci siamo organizzati con uno sciopero a staffetta e siamo in 34 a farlo: 14 della sezione maschile, 10 tra le donne e 10 tra le trans. Abbiamo già perso ciascuno dei noi da 5 a 9 kili. Stiamo stufi di questa vita da clandestini. in tutto questo sciopero non hanno fatto nulla... noi stiamo lottando ma da soli e abbiamo bisogno che la gente sappia quello che lo stato fa con noi.

Immigrazione: imam espulso; Corte Europea condanna l’Italia

 

Adnkronos, 13 aprile 2010

 

La Corte europea per i diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia al risarcimento per un totale di 21.000 euro a un tunisino già residente a Milano, condannato in Italia per l’affiliazione a un gruppo fondamentalista islamico, per la sua espulsione avvenuta il 13 dicembre 2008. L’uomo è Mourad Trabelsi, 40 anni, residente in Italia dal 1986 con la moglie, anch’essa tunisina, e tre figli nati in Italia.

Nel 2003 Trabelsi era stato arrestato con il sospetto di essere legati a gruppi fondamentalisti islamici in Italia e di star tramando azioni criminali, nonché per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Dopo una prima condanna del 15 luglio 2006 a Cremona a 10 anni di carcere con sentenza di espulsione a fine pena, la condanna è stata ridotta a 7 anni da Tribunale di Brescia che ha però annullato la parte relativa all’immigrazione clandestina. La sua pena era stata poi ridotta di circa 15 mesi. Dopo la sua espulsione in Tunisia, contro Trabelsi è stata eseguita una condanna già emessa in contumacia a 10 anni per terrorismo.

La Corte di Strasburgo, il 18 novembre 2008, aveva chiesto all’Italia di non procedere all’espulsione visti i rischi nel suo paese di trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani, e cioè quelli disumani o degradanti. L’Italia aveva ignorato la richiesta, e si è dunque resa responsabile, secondo i giudici di Strasburgo, di violazione dell’articolo 3.

"La Corte - si legge nel comunicato - considera che siano stati mostrati sostanziali motivi per ritenere che il signor Trabelsi rischiava seriamente di essere sottoposto in Tunisia a trattamenti contrari all’articolo 3". Questo, sebbene, poco dopo l’espulsione, l’avvocato generale dello Stato aveva spiegato che l’Italia aveva ricevuto chiare assicurazioni da parte delle autorità tunisine.

Inoltre, si legge ancora, in riferimento ad assicurazioni fornite dal ministero degli Esteri di Tunisi, "tali affermazioni non sono state corroborate da referti medici e non è stato possibile dimostrare che il ricorrente non sia stato soggetto a trattamento contrario all’articolo 3. In tale connessione - aggiunge il comunicato - la Corte ha potuto solo reiterare le sue osservazione sull’impossibilità del ricorrente e del suo avvocato e dell’ambasciatore italiano di visitare il ricorrente in carcere e di verificare che la sua integrità fisica e la sua dignità sia stata effettivamente rispettata". Dunque, conclude il testo, "la Corte ritiene che l’esecuzione dell’espulsione del ricorrente in Tunisia è stata in violazione dell’articolo 3 della Convenzione". L’indennizzo che dovrà pagare l’Italia è di 15.000 euro per i danni morali e di 6.000 euro per i costi e le spese processuali sostenute da Trabelsi.

 

 

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