Rassegna stampa 12 aprile

 

Giustizia: due misure limitate, ma vanno nella direzione giusta

Intervista a Giuliano Pisapia a cura di Ristretti Orizzonti

 

Ristretti Orizzonti, 12 aprile 2010

 

Sono la detenzione domiciliare "quasi automatica" per l’ultimo anno di pena e la messa alla prova, che il ministro Alfano intende inserire nel Piano carceri.

Ne abbiamo parlato con Giuliano Pisapia, avvocato, è stato presidente dell’ultima Commissione per la riforma del Codice penale (subito prima, con il governo di centrodestra, c’era stata la commissione presieduta da Carlo Nordio) che, con il governo Prodi, ha elaborato una riforma di quel Codice, datato 1930, che ancora una volta poi la politica non è riuscita a realizzare. Abbiamo chiesto a Pisapia un parere sulle uniche due misure contro il sovraffollamento, proposte dal ministro Alfano, che non vanno nel senso della costruzione di nuove carceri.

 

All’interno del Piano carceri del ministro Alfano, c’è l’ipotesi della messa alla prova e della detenzione domiciliare "semiautomatica" per l’ultimo anno di detenzione. Qual è la sua opinione su queste misure?

Il progetto del Governo, che prevede poteri straordinari per Franco Ionta, Presidente del Dap, e 700 milioni di Euro per l’edilizia penitenziaria (di cui 150 milioni prelevati dalla "Cassa delle Ammende" e quindi tolti da programmi di reinserimento dei detenuti), suscita forti perplessità. Ancora una volta non si vuole prendere atto del fallimento dell’attuale sistema penitenziario e ci si rifiuta di tener conto del fatto che il carcere non solo non contribuisce al reinserimento dei detenuti ma, anzi, fa aumentare la recidiva e quindi il numero dei reati. Lo dimostrano i fatti, l’esperienza, le statistiche: solo se si pone fine all’attuale panpenalismo, se si finisce col pensare di risolvere con il diritto penale anche problemi sociali, se si esce dalla logica per cui le uniche sanzioni penali possono essere quelle pecuniarie o carcerarie, sarà possibile quella indispensabile inversione di rotta - che potrà portare a una giustizia degna di questo nome e a una situazione carceraria degna di un Paese civile - tanto auspicata a parole, e nei convegni, ma quotidianamente tradita nei fatti e in Parlamento.

Detto questo, si deve riconoscere che il progetto governativo prevede anche due misure sulle quali il giudizio non può che essere positivo e che, se approvate, dimostrerebbero una limitata, ma significativa, inversione di tendenza che potrebbe essere di auspicio per la non più procrastinabile riforma dell’attuale sistema penale, in cui ancora sono presenti norme che mal si conciliano con i princìpi costituzionali.

La detenzione domiciliare per chi deve scontare un anno di carcere, anche quale residuo di maggiore pena, porterebbe alla scarcerazione di migliaia di detenuti con le intuibili conseguenze positive per la vivibilità degli istituti penitenziari. Si tratterebbe di detenuti o responsabili di reati cd. bagatellari (e quindi non socialmente pericolosi), o, se responsabili di reati gravi, che già hanno scontato gran parte della pena. La detenzione domiciliare, del resto - non lo si dimentichi - non significa affatto libertà e impunità, ma solo diversa, e meno disumana, modalità di detenzione. Ecco perché dobbiamo fare quanto possibile affinché una norma come questa possa diventare realtà, anche se non si può essere ottimisti. Come previsto da molti, la proposta governativa già trova una dura opposizione, manifestatasi apertamente in Commissione Giustizia della Camera, da parte (tanto per cambiare!) della Lega e dell’Italia dei Valori, che hanno innalzato barricate a dir poco vergognose. Quasi che non fossero, Lega e I.d.V., con la loro politica sulla giustizia, tra i maggiori responsabili dell’attuale situazione di sfascio, che ha portato alla condanna dell’Italia per le condizioni carcerarie ritenute "inumane e degradanti", anche da organismi internazionali quali il Comitato Europeo contro la Tortura e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

 

È vero che ci sono migliaia di detenuti che potrebbero accedere alla detenzione domiciliare per l’ultimo anno di pena, ma pare che vogliano escludere il 4bis dalla concessione di questa misura. A noi questa sembra un’esclusione pesante…

Personalmente sono sempre stato contrario a esclusioni di carattere oggettivo da determinati benefici. Chi commette un reato grave viene condannato a una pena maggiore e, quindi, quando gli rimane un residuo pena di un anno, ha già subito una lunga detenzione. Per quanto riguarda il numero dei possibili beneficiari, basta far riferimento ad alcuni dati: i detenuti con pena inflitta non superiore a 1 anno sono oltre 3.200; quelli che hanno avuto una condanna non superiore a due anni sono circa 4.000; chi ha da scontare una pena residua non superiore a un anno sono oltre 9.800. Numeri che parlano da soli e che dimostrano quanto questa misura possa incidere, anche con le limitazioni che certamente vi saranno, sul numero dei detenuti, che ormai ha ampiamente superato il livello massimo di tollerabilità.

L’altro istituto di cui si sta occupando la Camera dei deputati è quello della "messa alla prova" per imputati adulti. Anche su questo proposta, peraltro già prevista nel progetto di nuovo Codice penale approvato dalla Commissione che ho avuto l’onore di presiedere, il giudizio è decisamente positivo, anche in considerazione dei risultati che si sono avuti in campo minorile e all’estero, ove la messa in prova è presente da anni. Se diventasse legge, inciderebbe positivamente sia sui tempi processuali, limitando l’attuale ingolfamento dei Tribunali e delle Corti d’Appello, sia sulla situazione carceraria. In presenza di reati non gravi, quali quelli che prevedono una pena massima edittale di 3 anni, il giudice, sulla base di un giudizio prognostico favorevole, può sospendere il processo (e i termini di prescrizione) e disporre la "messa alla prova" dell’imputato. Dopo cinque anni, se l’interessato avrà mantenuto buona condotta, ottemperato alle prescrizioni del giudice - che potranno essere specifiche in relazione al reato contestato e alla personalità dell’interessato o potranno consistere in attività socialmente utili e/o finalizzate al risarcimento dei danni - vi sarà una nuova valutazione e, se sarà positiva, il giudice potrà dichiarare estinto il reato. Si eviterà il carcere, che è scuola di crimine e criminalità, per tante persone che, pur avendo sbagliato, non hanno commesso un reato grave e hanno concreta volontà di reinserirsi pienamente nel contesto sociale e lavorativo.

Per questo è importante far comprendere che misure quali quelle di cui si sta discutendo non sono indice di lassismo, perdonismo, indulgenzialismo, ma sono strumenti per contrastare efficacemente il crimine e la criminalità, in quanto determinano una diminuzione della recidiva, creando così le condizioni per una maggiore sicurezza dei cittadini. É fondamentale, però - onde evitare errori del passato - che riforme di questo tipo, se saranno approvate, siano accompagnate da efficaci e reali misure di sostegno e, se necessario, anche di controllo.

Giustizia: è "allarme suicidi" nelle carceri, 3 tentativi al giorno

 

Adnkronos Salute, 12 aprile 2010

 

Emergenza suicidi nelle carceri italiane. Ogni giorno, nei 206 istituti penitenziari della Penisola, si registrano almeno tre tentativi di suicidio da parte dei detenuti. L’anno scorso sono stati 800 e quest’anno, in poco più di tre mesi, già 250. Grazie al lavoro di vigilanza degli agenti di polizia penitenziaria, la maggior parte di questi tentativi si riesce a sventare, ma in alcuni casi non si fa in tempo a intervenire.

Un "bollettino di guerra" che cresce ogni giorno: dal primo gennaio 2010 ad oggi sono già 19 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere. L’anno scorso, considerato un anno nero, si sono registrati 52 suicidi (ma potrebbero essere di più: per alcune fonti si arriva a 70), praticamente uno a settimana. Se continua così, quindi, il 2010 rischia di essere ricordato come un tragico anno record per le morti in carcere.

Le cause di questo scenario allarmante sono molteplici, ma in primo luogo sembrano esserci le cattive condizioni di vita carceraria dovute al sovraffollamento, ai troppi detenuti: 67.271, di cui 42.288 italiani e 24.983 stranieri, a fronte di una ricettività regolamentare pari a circa 43 mila posti. La conseguenza di questo sovraffollamento è presto detta: "Detenuti stipati in cella come sardine, a volte 3-4 persone in 4 metri quadrati, con convivenze molto difficili".

È la fotografia sulle condizioni di vita nelle carceri italiane scattata dall’Adnkronos Salute, che ha interpellato il segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), Donato Capece, il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, e il coordinatore del Centro prevenzione suicidio dell’ospedale Sant’Andrea della II Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’università Sapienza di Roma, Maurizio Pompili. Secondo gli esperti, questi problemi investono quasi tutti gli istituti di pena, in alcuni casi "vecchi e fatiscenti".

Ma non mancano le "eccellenze", in negativo però. Un carcere dove le condizioni di vita di chi è dietro le sbarre sono assai problematiche sembra essere per esempio quello di Sulmona, dove proprio il 9 aprile si è registrato il 19esimo caso di suicidio del 2010. Ma anche all’Ucciardone di Palermo, al San Vittore di Milano e al Poggioreale di Napoli non mancano le difficoltà.

Per arginare il triste fenomeno dei suicidi in carcere, il Centro prevenzione suicidio dell’ospedale Sant’Andrea della II Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’università Sapienza di Roma, in collaborazione con il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziario), farà partire a giorni un programma di prevenzione ad hoc.

"Il progetto - spiega il coordinatore del Centro, Pompili - si basa su due capisaldi: l’informazione e la formazione attraverso specifici seminari. Rivolti sia ai detenuti che al personale degli istituti, tra cui gli psicologi. Si cercherà di insegnare a riconoscere i soggetti più a rischio e a non sottovalutare alcuni segnali, come ad esempio le comunicazioni di suicidio fatte da alcuni detenuti, che spesso vengono sottovalutate".

Diversi i segnali di malessere possibili campanelli d’allarme. "I più evidenti - dice l’esperto - sono dormire e mangiare poco, o trascurarsi nell’igiene personale". Il progetto, nelle intenzioni, dovrebbe coprire tutti gli istituti di pena del Paese. "Dipenderà dalle risorse che si vorranno investire", precisa Pompili. "L’idea, comunque, è quella di partire con gli istituti per così dire più difficili".

Per migliorare le condizioni di vita in carcere è sceso in campo anche il Governo, che sta lavorando a una riforma del sistema penitenziario. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha presentato un piano mirato, proprio per affrontare e risolvere i problemi degli istituti di pena nazionali. "Due mesi fa - ricorda Capece - il ministro ha presentato un piano-carceri, già approvato dal Consiglio dei ministri. Questo piano prevede risorse per 700 milioni di euro, destinate alla costruzione di 47 nuovi padiglioni detentivi più 17 carceri leggeri. E ancora, l’implementazione di 2 mila unità dell’organico della polizia penitenziaria. Il piano prevede inoltre il potenziamento delle pene alternative come i domiciliari, ma non solo". Nel frattempo, però, la situazione nelle carceri è esplosiva.

"L’anno scorso - continua Capece - ci sono stati 800 tentativi di suicidio, quest’anno in poco più di tre mesi già 250. È necessario intervenire al più presto per aumentare gli spazi e migliorare le condizioni di vita nelle carceri. Abbiamo anche suggerito delle soluzioni, come ad esempio la costruzione immediata di piattaforme galleggianti o sistemi modulari di sicurezza.

Questi ultimi si costruiscono in 6 mesi, sono capaci di contenere circa un migliaio di detenuti e hanno un costo di realizzazione che varia dai 20 ai 25 milioni di euro". Ma non è solo un problema di spazi. "Mancano gli agenti di polizia", osserva Capece. "Ne servirebbero almeno 6 mila in più. Al momento, nelle sezioni detentive lavorano circa 24.300 agenti. A volte un solo agente si ritrova a controllare 100 detenuti. Reclusi che, per mancanza di spazi, vivono in condizioni molto difficili, spesso costretti a restare ognuno nella proprio branda anche solo per poter parlare tra loro. Il sistema, così, rischia di implodere".

A scarseggiare non sono solo gli agenti della polizia penitenziaria. "Mancano anche psicologi, educatori, medici e operatori sanitari", avverte Capece. "L’assistenza sanitaria all’interno delle carceri ora è in mano al Servizio sanitario nazionale. Naturalmente questo comporta che tutti i problemi che affliggono il Ssn si riflettono inevitabilmente anche sul servizio all’interno degli istituti. Da qui la carenza di medici".

Sulla stessa lunghezza d’onda anche il Garante dei detenuti del Lazio, Marroni, che denuncia le stesse problematiche: "L’affollamento all’interno delle carceri produce insofferenza. Molti spazi dedicati al sociale vengono trasformati in celle. Si riducono gli spazi e si riduce la vivibilità per i detenuti". Per Marroni, la carenza degli agenti di polizia penitenziaria è una vera e propria emergenza. "Ne servirebbero almeno altri 5-6 mila. Anche per avere più attenzione nei confronti degli atti di autolesionismo e dei tentativi di suicidio dei detenuti, alcuni dei quali - puntualizza - sono persone con disturbi psichici". Per arginare il problema legato al sovraffollamento, anche per Marroni sarebbe necessario pensare a misure detentive alternative. "Soprattutto - conclude - per le 25 mila persone detenute per piccoli reati legati alla tossicodipendenza. Non dovrebbero stare in prigione ma nelle comunità terapeutiche e nei centri di disintossicazione".

Giustizia: Sappe; riforma intervenga sul sistema penitenziario

 

Ansa, 12 aprile 2010

 

"Abbreviare i tempi della giustizia è fondamentale, se si considera che già oggi nelle carceri italiane abbiamo più di trentamila persone imputate perché in attesa di primo giudizio, appellanti e ricorrenti; ma altrettanto importante è che Governo e Parlamento mettano concretamente mano alla situazione penitenziaria del Paese, ormai giunta a un livello emergenziale". È quanto dichiara il segretario del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, Donato Capece, che avverte: "La situazione di tensione che si sta determinando in molti istituti penitenziari del Paese, fatta di aggressioni a personale di polizia penitenziaria e manifestazioni di protesta dei detenuti, rischia di degenerare". Per Capece, "l’esecutivo e tutte le forze politiche presenti in Parlamento non possono perdere ulteriore tempo e devono prevedere insieme interventi urgenti e non più procrastinabili, considerato anche che il Corpo di polizia penitenziaria è carente di più di seimila unità e che oggi ci sono in carcere oltre 67.000 detenuti, a fronte di circa 42.000 posti letto: il numero più alto mai registrato nella storia dell’Italia".

"È auspicabile una condivisa riforma della giustizia che intervenga anche sul sistema penitenziario": è l’auspicio del sindacato di Polizia penitenziaria Sappe, riferito al recente invito del capo dello Stato Giorgio Napolitano affinché si arrivi a proposte impegnative e confronti costruttivi tra le varie componenti della politica per scelte concrete anche sulla giustizia e all’ intervento di oggi a Parma del Premier Silvio Berlusconi che ha ribadito come la riforma della giustizia sia tra le priorità degli interventi del governo.

"Abbreviare i tempi della giustizia è fondamentale se si considera che già oggi, nelle carceri italiane, abbiamo più di 30mila persone imputate (perché in attesa di primo giudizio, appellanti e ricorrenti) - osserva il segretario Donato Capece -. Altrettanto importante è però che Governo e Parlamento mettano concretamente mano alla situazione penitenziaria del Paese, ormai giunta ad un livello emergenziale. L’Esecutivo Berlusconi e tutte le forze politiche presenti in Parlamento non possano perdere ulteriore tempo ma debbano anzi prevedere, insieme, interventi urgenti e non più procrastinabili".

Giustizia: "parole di parte civile" sulla morte di Stefano Cucchi

di Stefano Anastasia (Presidente onorario associazione Antigone)

 

Terra, 12 aprile 2010

 

La condotta del personale sanitario del Reparto di Medicina protetta dell’Ospedale Pertini di Roma, certamente censurabile per i "gravi elementi di negligenza, imperizia e imprudenza, tanto nelle fasi diagnostiche quanto nelle più elementari regole di accortezza del monitoraggio clinico e strumentale, oltre che nell’assistenza stessa", non basta a spiegare la morte di Stefano Cucchi. Secondo i periti di parte civile, quella morte "è addebitabile ad un quadro di edema polmonare acuto in soggetto politraumatizzato e immobilizzato, affetto da insufficienza di circolo sostenuta da una condizione di progressiva insufficienza cardiaca su base aritmica..., intimamente correlata all’evento traumatico occorso e al progressivo scadimento delle condizioni generali".

L’evento traumatico può essere collocato "tra le 13 e le 14:05 del giorno 16 ottobre 2009", quando cioè Cucchi era detenuto nelle celle di transito del Tribunale di Roma. Questo è quanto reso noto ieri in una conferenza stampa cui hanno partecipato la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, Luigi Manconi e i parlamentari del Comitato per la verità su Stefano Cucchi. Ci fu violenza sul corpo di Stefano; avvenne nel Palazzo di giustizia, a opera delle persone cui la sua persona era istituzionalmente affidata. Lo scandalo di quella morte torna dunque alla casella di partenza: la malasanità si è solo aggiunta alla malagiustizia, in una spirale di degrado di funzioni pubbliche così importanti da far dubitare della lealtà istituzionale delle persone che vi sono preposte. In questi giorni, alcune sigle sindacali della polizia penitenziaria si stanno meritoriamente distinguendo per la denuncia delle condizioni di sovraffollamento.

Intanto, però, un pubblico ministero alza le braccia e, denunciando il clima omertoso che vige nel carcere di Teramo, chiede l’archiviazione della denuncia delle violenze subite dal detenuto che avrebbe dovuto essere massacrato "di sotto", non in sezione, non davanti "al negretto" che avrebbe potuto testimoniare. La verità sulle morti e sulle violenze in condizioni di detenzione sembra impossibile da raggiungere: imbarazzi, reticenze, complicità costruiscono la fitta trama dell’omertà. Ma la verità non è solo un debito collettivo nei confronti delle vittime e dei loro cari, ma anche la sola condizione possibile per distinguere le responsabilità personali dalla affidabilità delle istituzioni. Speriamo che le parole "di parte civile" non restino le uniche chiare su episodi che minano la credibilità delle istituzioni giudiziarie e di polizia.

Giustizia: caso Cucchi; il cuore di Stefano esploso per le botte

di Cinzia Gubbini

 

Il Manifesto, 12 aprile 2010

 

Presentata alla Camera la relazione dei consulenti di parte civile: il decesso è stato provocato dalle conseguenze delle lesioni alla colonna vertebrale.

Ricostruite le ultime ore, minuto per minuto: "Fu massacrato tra le 13 e le 14,05". La sorella: "Ha sofferto a lungo, pensava lo avessimo abbandonato" esploso per le botte" I periti della famiglia Cucchi smentiscono: "Non è morto di disidratazione, ma per i traumi".

Ad uccidere Stefano Cucchi è stato un edema polmonare. Ma quell’ultimo "collasso" arriva da lontano: dal giorno della convalida del fermo, quando venne picchiato, presumibilmente nelle aule del tribunale, riportando due fratture alla colonna vertebrale e gravi ematomi che col passare dei giorni hanno compromesso le terminazioni nervose delle vertebre lesionate e i "riflessi vagali". Il suo cuore ha così cominciato a battere sempre più piano - tecnicamente si chiama bradicardia - e le cose sono peggiorate quando ha cominciato a non bere e a non mangiare a sufficienza in ospedale creando un "ipercatabolismo proteico": tutti fattori che hanno portato a un deficit cardiaco e al fatale "edema cardiaco acuto".

È questa la verità del pool di consulenti incaricati dalla famiglia Cucchi di capire cosa abbia ucciso Stefano, che aveva 31 anni ed è stato fermato la notte del 15 ottobre scorso a Roma con l’accusa di spaccio di sostanze stupefacenti. È morto una settimana dopo nel reparto carcerario dell’ospedale Sandro Pertini, dopo solo quattro giorni di ricovero. La perizia è stata presentata ieri alla Camera dei deputati, per iniziativa del comitato "Verità e giustizia per Stefano Cucchi", composto da parlamentari di tutti gli schieramenti.

Due giorni fa era invece stata presentata nell’Istituto di medicina legale dell’università La Sapienza di Roma la perizia dei consulenti della Procura. I risultati a cui sono giunti i due collegi di medici legali non potrebbero essere più diversi. Aldilà del linguaggio tecnico per descrivere i meccanismi che hanno portato al collasso finale, sono praticamente opposte le interpretazioni sugli eventi che lo hanno determinato: per i periti della Procura, Stefano comincia a morire quando entra in ospedale, perché i medici si disinteressano del suo stato di salute, già compromesso. Gli ematomi sul suo corpo sono considerati lievi e sulla sua colonna vertebrale viene riscontrata una sola frattura recente, dovuta a una caduta sui glutei, che ovviamente potrebbe anche essere stata accidentale. Per i periti della parte civile - i professori Vittorio Fineschi, Giuseppe Guglielmi e Cristoforo Pomara - Stefano invece comincia a morire quando subisce un trauma "di tipo contundente e meccanico-violento" che gli rompe non una ma due vertebre (anche la L3, sulla quale non c’è traccia di formazione del "callo osseo" che ne denuncerebbe l’antichità), posizionate proprio dove ci sono terminazioni nervose importanti.

In questo modo la vescica del ragazzo, per un danno dunque neurologico, comincia a non funzionare: quando Stefano muore ha un litro e 400 centilitri di urina nel sacco vescicale. I consulenti dei Cucchi concordano con i medici legali della Procura sul fatto che il catetere era stato mal posizionato, ma se per questi ultimi era piena perché Stefano aveva bevuto tre bicchieri d’acqua, per i primi il danno è "neurologico".

È chiaro che anche secondo Fineschi, Guglielmi e Pomara le responsabilità dei medici del Pertini sono gravissime. Denunciano una condotta sanitaria viziata "da gravi elementi di negligenza, imperizia ed imprudenza", da censurare oltretutto perché Stefano rifiutava di bere e mangiare a sufficienza - come forma di protesta perché voleva parlare con un avvocato - "e si trattava di un ragazzo molto fragile", ha detto il professor Fineschi. Che però ha aggiunto: "Ma sgomberiamo il campo da tutte le ombre: Stefano era magro, ma stava benissimo, non aveva alcuna malattia prima di essere arrestato".

Tornano insomma in primo piano le responsabilità dei tre agenti penitenziari accusati di omicidio preterintenzionale, oltre alle colpe dei sei medici indagati di omicidio colposo. L’avvocato di parte civile Fabio Anselmo ha voluto ringraziare la Procura "che hanno accolto la nostra istanza di riesumazione del cadavere. Dobbiamo riconoscere il loro impegno, non è scontato". Parole meno riconoscenti per i periti dei pm: "Stefano prima di essere arrestato era sano e aveva la sua vita. Poi subisce un pestaggio, va in ospedale e muore: come si possono scindere questi momenti? Solo violentando la realtà".

"Quello che fa più male oggi è apprendere quanto Stefano debba aver sofferto, nei suoi ultimi giorni - ha detto Ilaria, la sorella di Stefano - e quanto sia stato abbandonato ma soprattutto, e lo dico con grande dolore, che Stefano è morto pensando che noi lo avevamo abbandonato. Sapevamo fin dal primo istante che Stefano non si è spento come volevano farci credere. Ora andremo avanti". 6 ORE Da tanto durano i dolori alla schiena lamentati da Cucchi, quando alle 20:11 del 16 ottobre i medici del Fatebenefratelli lo visitano. La lesione vertebrale perciò è da collocare tra le 13 e le 14,05.

Giustizia: Manconi; su morte Cucchi opera di disinformazione

di Cinzia Gubbini

 

Il Manifesto, 12 aprile 2010

 

Il presidente dell’associazione "A Buon diritto", Luigi Manconi, che si batte sin dall’inizio perché sia fatta piena luce sulla morte di Stefano Cucchi e che segue da vicino molte storie simili, ieri ha lanciato una precisa accusa: "È stata fatta disinformazione, distogliendo l’attenzione dalle violenze subite dal ragazzo".

 

Professore, a chi si rivolgeva?

Parto da un dato: ci sono stati tre avvisi di garanzia nei confronti di agenti di polizia penitenziaria ritenuti responsabili degli atti di violenze nei confronti di Cucchi mentre si trovava nelle celle di sicurezza del tribunale di Roma. Successivamente sono stati inviati avvisi di garanzia a sei medici del reparto detentivo del Pertini. Da questo momento in poi, quindi da mesi, l’attenzione dei media, i messaggi impliciti o espliciti della Procura, i risultati che emergono dalle diverse perizie, convergono nel concentrare l’attenzione sulla fase finale della morte di Stefano. In qualche caso si parla ancora delle violenze subìte ma come se esse costituissero semplicemente un preliminare, scollegato dall’evento morte. È un quadro profondamente falso. Dico di più: ha effetti molto negativi sull’opinione pubblica. Induce a ritenere che "ancora una volta" i colpevoli rimangono impuniti, "ancora una volta" l’ennesimo caso di violenze viene insabbiato. Con due conseguenze: la disintegrazione di un quadro di insieme e l’impossibilità di cogliere il senso di quanto è accaduto. Mentre questa vicenda è basata esattamente su una sequenza micidiale di tappe che corrisponde, ed è un dato politicamente e culturalmente decisivo, a un circuito chiuso di apparati e istituti statuali integrati l’uno nell’altro, dove Stefano Cucchi subisce in successione: violenze, illegalità, omissioni gravi.

 

Chi è incapace di restituire il senso delle vicende: i giornalisti o le fonti di informazione?

L’opinione pubblica da un lato esprime un atteggiamento di sedimentata disillusione, per cui si dà per scontato che tutto sia scontato, anche l’impunità; dall’altro i mass media faticano a ricostruire il senso complessivo. L’informazione è affidata ai quotidiani e ai telegiornali, che hanno un ritmo più che quotidiano. È dunque la struttura materiale dell’informazione a rispettare una sorta di mandato: evidenziare sempre ed esclusivamente l’atto finale, il più recente dei frammenti di notizia. L’"ultima verità". È fatale che la sequenza temporale degli eventi, lo sguardo lungo, la ricostruzione storica, si perdano.

 

E le fonti di informazione, hanno qualche interesse a "spezzettare" gli eventi?

Dal primo momento ho avuto la sensazione che l’agenzia di stampa che trattava il tema "Arma dei carabinieri" fosse assai più efficace dell’agenzia che trattava il tema "polizia penitenziaria". Il risultato è stato che su quanto è accaduto a Cucchi nelle due caserme la prima notte del fermo, non si sono avute né informazioni, né probabilmente indagini adeguate.

 

Ha avuto questa sensazione solo nel caso Cucchi?

Direi di no. Basti pensare alle analogie col caso di Giuseppe Uva: anche qui ci sono due medici indagati, ma nessun carabiniere. E c’è una persona che è incontestabilmente un testimone oculare che il 15 giugno 2008 presenta un esposto mettendosi a disposizione delle indagini. Ad oggi non è stato ancora interrogato dalla Procura di Varese. Mettiamola così: si parla spesso della sudditanza psicologica degli arbitri nei confronti della Juventus, squadra della quale mi onoro di essere tifoso. Ecco, diciamo che molti media e alcuni magistrati sembrano avere una certa sudditanza psicologica nei confronti dell’Arma.

Lettere: quando il carcere fa carta straccia della Costituzione

di Carmelo Musumeci (Ergastolano detenuto a Spoleto)

 

www.linkontro.info, 12 aprile 2010

 

Di recente sul Corriere della sera ho letto che il Presidente delle Repubblica Napolitano, riguardo alla nostra Carta Costituzionale, dichiara: "La Carta si onora rispettando le Istituzioni." Signor Presidente, non sono d’accordo. Non credo che la nostra Costituzione si rispetti solo onorando le Istituzioni quando le stesse Istituzioni non la rispettano. La Costituzione Italiana si onora solo quando si applica ai cittadini, a tutti, anche a quelli cattivi che sono in carcere a scontare una pena. Signor Presidente, mi permetta di ricordare che il dettato costituzionale assegna alla pena una funzione rieducativa e non vendicativa. Invece in Italia il carcere trasforma i suoi abitanti in mostri perché fra queste mura non esiste la Costituzione. Signor Presidente, oltre alle responsabilità istituzionali esistono quelle morali e intellettuali. La esorto, guardi cosa sta accadendo dentro le carceri italiane. Esiste ormai una rassegnazione d’illegalità diffusa, spesso incolpevole, sia per chi ci lavora, sia per chi ci vive. La legalità prima di pretenderla va offerta. Invece in carcere ci sono uomini accatastati uno accanto all’altro, uno sopra l’altro. Detenuti che si tolgono la vita per non impazzire.

Ci sono uomini murati vivi sottoposti al regime del 41 bis che non possono vedere neppure la luna e le stelle dalle loro finestre. Ci sono uomini condannati all’ergastolo ostativo, una pena interminabile che può finire solo quando muori o quando trovi un altro da mettere in cella al posto tuo.

Signor Presidente, come fa il carcere e rieducare se sei sbattuto come uno straccio da un carcere all’altro? Lontano da casa, chiuso in una gabbia come in un canile, privato degli affetti, da una carezza e di perdono? Signor Presidente, ci dia una mano a educare le Istituzioni e a portare la legalità e la Costituzione in carcere. Non siamo solo carne viva immagazzinata in una cella, siamo anche qualche cos’altro. Dietro i nostri reati e le nostre colpe ci sono ancora delle persone.

Le ricordo che il rimpianto Presidente della Repubblica Italiana, Sandro Pertini, che in galera passò lunghi anni, diceva spesso: "Ricordatevi, quando avete a che fare con un detenuto, che molte volte avete davanti una persona migliore di quanto non lo siete voi".

Calabria: celle o magazzini di stoccaggio per materiale umano?

 

Agi, 12 aprile 2010

 

"Quelle che l’ordinamento definisce camere, che in gergo vengono dette "celle", ma che nella realtà superano persino la fantasia dantesca sono ormai veri è propri magazzini di stoccaggio in cui si ammassa materiale umano". Esordisce così Gennarino De Fazio, della Direzione Nazionale della Uilpa Penitenziari, riferendosi all’attuale situazione penitenziaria, caratterizzata soprattutto dall’eccezionale sovrappopolamento che ormai da mesi attanaglia il Paese ed, in particolare, la Calabria. De Fazio poi aggiunge: "La Polizia penitenziaria, allo stremo delle forze fisiche e frustrata e scoraggiata nel morale, è ormai da troppi mesi costretta a fronteggiare l’emergenza in un quadro di desolante inefficienza, incapacità e talvolta indifferenza.

Pressoché quotidiani sono gli interventi necessari per sventare tentativi di suicidio di detenuti, troppo spesso portati anche a termine, e decine, se non centinaia, sono gli interventi necessari per limitare la portata dei numerosissimi atti autolesionistici (tagli, ingestione di corpi estranei, etc.) che i reclusi si infliggono quando la disperazione prende il sopravvento. Senza contare risse, aggressioni e ferimenti pure con armi da fuoco (come nel caso della tentata evasione di Palmi). Tuttavia a questi servitori dello Stato sin dal mese di gennaio 2010 non viene retribuito il lavoro straordinario che sono obbligati a prestare (solo pochi giorni addietro alcuni operatori sono stati trattenuti in servizio ininterrottamente per oltre 24 ore) e, quel che è peggio, nel più profondo disinteresse della dirigenza dell’Amministrazione penitenziaria a tutti i livelli, non viene fornita loro alcuna informazione a riguardo".

"Per senso di responsabilità - continua ancora De Fazio - che non sembra invece dimostrare la dirigenza dell’Amministrazione, ho indirizzato nella mattinata di oggi una nota al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Ionta, ed al Direttore generale del personale e della formazione, De Pascalis, al fine di denunciare per l’ennesima volta lo stato dei fatti nella speranza di ottenere interventi concreti ed informazioni precise che potrebbero in qualche misura contribuire a risollevare quantomeno il morale di operatori di polizia che si sentono bistrattati ed abbandonati dalle stesse istituzioni di cui fanno parte. Senza di ciò, infatti, si teme il rischio concreto di "scollamenti" alimentati dal senso di sfiducia e che potrebbero a breve rendere ingestibili i penitenziari".

Piemonte: Osapp; qui siamo allo sfascio, scenderemo in piazza

 

Apcom, 12 aprile 2010

 

L’Osapp Piemonte e Valle d’Aosta (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria), in stato di agitazione da circa un mese, annuncia che nei prossimi giorni la protesta scenderà in piazza. "La situazione è devastante - dichiara il segretario Gerardo Romano - le carceri sono allo sfascio e il personale di polizia penitenziaria sta agonizzando. Gravissima carenza di organico, turni massacranti anche di 20 ore al giorno con gravissime ripercussioni sullo stato psico-fisico dei nostri colleghi". Inoltre, spiega il sindacato, "non ci vengono pagati i buoni pasto dal mese di gennaio, ci sono stati gravi ritardi a Torino nel pagamento dei fondi incentivanti 2009 e da tempo negli istituti non vengono pagate le missioni".

"La situazione - prosegue Romano - è anche drammatica per tutti i nostri colleghi che svolgono servizio all’interno delle sezioni detentive a fronte del gravissimo sovraffollamento, nonché per i nostri colleghi che prestano servizio ai nuclei traduzioni e piantonamenti che operano sotto scorta e senza mezzi. Chiediamo interventi. nei prossimi giorni scenderemo in piazza per far sentire la nostra voce".

Sardegna: Sdr; trenta audiolibri, a detenuti ciechi e ipovedenti

 

Agi, 12 aprile 2010

 

Le 12 biblioteche carcerarie della Sardegna saranno dotate di audiolibri per detenuti non vedenti e pubblicazioni per ipovedenti. L’iniziativa è dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" che, grazie alla disponibilità dell’Actos Edizioni Multimediali di Cagliari, donerà 30 copie di due opere classiche dello scrittore Enrico Costa ("Il muto di Gallura" e "5 racconti") al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Massidda.

"La lettura - sottolinea Maria Grazia Caligaris, presidente di Socialismo Diritti Riforme - è uno strumento straordinario di emancipazione e di crescita culturale. Per i detenuti è l’unico concreto mezzo di evasione da una realtà spesso insopportabile, specialmente quando anche le condizioni delle strutture detentive non consentono una dignitosa vivibilità. Con questa iniziativa vogliamo richiamare l’attenzione sul problema degli ipovedenti nelle carceri e più in generale della disabilità negli Istituti di Pena. L’intento è anche quello di promuovere la cultura della parità in modo che chi vive una situazione di disagio possa attingere più facilmente alla conoscenza".

Napoli: all’Opg, dove la malattia mentale è rinchiusa in carcere

di Giuseppe Manzo

 

Terre di Mezzo, 12 aprile 2010

 

L’agente di polizia penitenziaria, una donna di mezza età, non usa giri di parole mentre percorre il corridoio buio all’ingresso del carcere di Secondigliano: "solo chi vive dietro queste sbarre sa quello che succede qui dentro". Il "qui dentro" è l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli. Un luogo oscuro e difficile da visitare. Infatti, nonostante l’autorizzazione rilasciata al cronista dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il direttore dell’Opg Stefano Martone, con voce ferma e gentile, è irremovibile: "non si possono visitare i reparti: occorre una richiesta specifica".

Da due anni decine di malati mentali sono rinchiusi nel carcere civile situato nella periferia nord della città. Una vicenda che potrebbe rappresentare l’orgoglio di un Cesare Lombroso redivivo. Infatti, risale al marzo del 2008 il trasferimento degli internati dal vecchio Opg di Sant’Eframo (un vecchio convento del centro storico). Tra le proteste di operatori e opinione pubblica, l’unica alternativa per i sofferenti psichici furono le celle di un penitenziario.

Oggi dietro le sbarre si trovano circa 130 reclusi, su una capienza regolamentare di 100 posti e di una tollerabile di 120. "Per il 30-40 per cento degli internati - dichiara Martone - è cessata la pericolosità sociale, ma non è possibile l’inserimento all’esterno. C’è una mancanza di strutture capaci di accogliere queste persone". Questo spiega in parte il problema del sovraffollamento, che in alcuni casi è un vero e proprio corto circuito del sistema giudiziario.

Dalla stessa voce dei responsabili sanitari e del personale penitenziario emergono le storie degli internati che somigliano a un vero e proprio girone infernale. Per alcuni la misura provvisoria è stata prorogata per ben 28 volte. Come nel caso di A.T. che aspetta da 10 anni un pronunciamento del tribunale. Altri ancora, invece, si ritrovano rinchiusi per reati banali come S.P.: è detenuto da tre anni ed è in proroga per aver tentato di rubare un portafoglio vuoto.

E ancora più inquietante è la situazione dei reclusi che non versano in buone condizioni fisiche. Il caso più grave è quello di V.F. che ha contratto il virus dell’Hiv ed è dentro per un reato minore. O ancora quello di G.B. che è immobilizzato con una arteriopatia diabetica ad un piede ed è a rischio cancrena. Per loro non esistono strutture all’esterno, né la Regione se ne fa carico. Per pochi internati ci sono solo alcune attività o corsi svolti all’interno del carcere, come se la riforma del 2008 non sia un decreto da applicare.

Oltre al sovraffollamento, è piena emergenza anche per il numero del personale sanitario. Gli psichiatri in servizio sono appena 5 e, calcolando il monte ore mensile disponibile per ognuno, il singolo paziente ha a disposizione il medico per meno di 120 minuti al mese. Senza contare che il sabato pomeriggio e nei giorni festivi è di turno la sola guardia medica.

Un altro aspetto critico è costituito dalle stanze di coercizione. Secondo Martone "quella stanza è stata chiusa e ora al suo posto c’è la palestra". Ma su questo punto è arrivata la denuncia di Dario dell’Aquila, presidente campano di Antigone, dopo una visita insieme a un consigliere regionale: "Uno dei casi che più ci ha turbato - ha raccontato Dell’Aquila - è quello di R. H, un ragazzo immigrato di appena 21 anni, che si trovava seminudo (con solo uno slip e un pullover) in una cella liscia priva di ogni cosa, letto incluso e con il blindato chiuso. La cella era sporca di escrementi". Secondo il direttore dell’Opg "si è trattato dell’ultimo caso: siamo passati dai 31 letti di contenzione del 2008 ai 9 dello scorso anno e nessuno in questi primi 3 mesi del 2010". A condurre la battaglia contro questa situazione è anche Francesco Maranta, autore del libro "Vito, il recluso" (sulla vicenda di Vito De Rosa, ndr): "Oggi non sia alza nessuna voce e lo Stato spende 1,69 euro per ammalato e sono 40 anni che tutto è fermo. La strada per sconfiggere lo Stato di Lombroso è ancora lunga".

Sulmona: l’autopsia conferma, detenuto è morto per overdose

 

Ansa, 12 aprile 2010

 

Domenico Cardarelli, il detenuto del carcere di Sulmona trovato morto nella sua cella venerdì scorso per un edema polmonare, è deceduto per un’overdose da stupefacenti. Lo ha stabilito l’autopsia che è stata eseguita oggi dall’anatomopatologo, Ildo Polidoro. Secondo il medico legale l’edema polmonare è stato provocato dall’assunzione di droga: per conoscere la tipologia della sostanza e soprattutto per capire se si tratta della stessa che è stata trovata all’interno della cella di Cardarelli, bisognerà attendere 60 giorni entro i quali saranno resi noti gli esami tossicologici.

Subito dopo l’autopsia la salma dell’ultrà laziale - che si trovava in regime di casa di lavoro perché ritenuto socialmente pericoloso - è stata riconsegnata ai familiari per la celebrazioni dei funerali che si svolgeranno, con molta probabilità, domani mattina a Roma.

 

Nel 2009 un caso analogo, a uccidere un mix di droghe

 

L’ultima morte di un detenuto per overdose da stupefacenti risale al settembre del 2009 quando Daniele Salvatori di 26 anni, anche lui internato, venne stroncato da un mix letale di cocaina e oppiacei. Un caso praticamente analogo a quello di Domenico Cardarelli anche se nel caso di Salvatori fu lui stesso a far entrare la sostanza stupefacente nel carcere dopo essere stato in licenza premio nella sua casa nel beneventano.

Quella volta, Salvatori rientrato in carcere solo il giorno prima, si sentì male davanti agli altri internati che diedero l’allarme. All’inizio gli agenti intervenuti in soccorso del detenuto pensarono si trattasse di un leggero malore. Poi, quando videro che l’uomo non si riprendeva, decisero di portarlo in ospedale, prima al pronto soccorso e poi nel reparto di rianimazione, dove morì nel primo pomeriggio. Anche in quell’occasione si scatenò una bufera sui mancati controlli. Per il resto si è trattato di suicidi: undici negli ultimi 10 anni che aggiunti ai due per overdose, fanno 13. Non si contano gli episodi di autolesionismo, 15 dall’inizio del 2010, con svariati tentativi di suicidio, l’ultimo caso mercoledì scorso. Le vicende del carcere, solo una settimana fa un detenuto si era impiccato al rientro da un permesso premio, hanno spinto il Pd a chiedere al ministro Angelino Alfano la chiusura del reparto internati. L’associazione Ristretti Orizzonti, invece, ha ricordato che dall’inizio dell’anno "sono morti 54 detenuti, uno ogni due 2 giorni", sostenendo che nelle carceri "si muore così spesso perché negli ultimi 20 anni sono diventate il ricettacolo di tutti i disagi umani e sociali, con decine di migliaia di detenuti tossicodipendenti".

Porto Azzurro: i 16 detenuti "rivoltosi" trasferiti in altre carceri

 

Il Tirreno, 12 aprile 2010

 

Trasferiti in altri istituti sparsi un po’ in tutta Italia. Questa la sorte, inevitabile, dei 16 detenuti che martedì hanno sequestrato due agenti della polizia penitenziaria del carcere di Porto Azzurro. Sedici reclusi, perlopiù stranieri, tutti indagati per sequestro, minacce e resistenza a pubblico ufficiale. Ipotesi di reato di cui ora dovranno rispondere di fronte a un giudice. Sono le conseguenze della protesta inscenata per denunciare le pessime condizioni di vita che caratterizzano l’istituto elbano da un po’ di tempo a questa parte a causa di scarse risorse economiche e alcuni guasti a caldaie e lavatrici: niente acqua calda, lenzuola sporche nei letti, nessun genere di prima necessità a disposizione a cominciare da carta igienica e sapone.

A neppure 24 ore dall’accaduto il provveditorato regionale degli istituti penitenziari ha fatto in modo che i soggetti coinvolti nella protesta fossero immediatamente trasferiti in altre realtà carcerarie della penisola, disperdendoli e disseminandoli nelle più disparate e decentrate località. In Piemonte, ma anche nel centro Italia e nel nord-ovest della penisola.

Un’operazione che pare rientri nel codice penitenziario ogni volta che si verificano episodi del genere, ma che avrà almeno per alcuni dei detenuti anche un’altra conseguenza: l’interruzione del percorso di riabilitazione attraverso lo studio e la formazione professionale avviato a Porto Azzurro che rappresenta anche uno dei fiori all’occhiello di questo istituto. Un buon numero di carcerati trasferiti frequentava regolarmente i corsi di formazione professionale e, in alcuni casi, si preparava a sostenere esami di licenza media. Ma il sequestro e l’inevitabile trasferimento impediranno a queste persone di ultimare gli studi. Insomma, niente licenza media a fine corso.

Intanto anche da Firenze il neo presidente della Regione torna a parlare dell’episodio di martedì esprimendo solidarietà nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria in difficoltà a causa di carenze di organico e sovraffollamento. "Ho intenzione di incontrare i sindacati degli agenti di custodia - afferma Rossi - per avere anche da loro suggerimenti. Sul carcere si deve intervenire, lo stiamo facendo e continueremo a farlo: le carceri sono una misura della civiltà di un Paese e noi vogliamo essere una Regione civile".

A Rossi si rivolge anche il sindacato Uil-Pa, penitenziari che invita il neo presidente a vistare Porto Azzurro insieme ai rappresentanti dei lavoratori il prossimo 15 aprile. Un suggerimento che arriva dal segretario nazionale del sindacato, Eugenio Sarno che commenta con favore anche l’intenzione di Rossi di incontrare le rappresentanze della polizia penitenziaria. "L’attenzione e la sensibilità da lui dimostrate - conclude Sarno - assumono significato ancor più rilevante se rapportate all’ignominioso silenzio osservato, nell’occasione, dall’amministrazione penitenziaria ad ogni suo livello".

Porto Azzurro: Velo (Pd); carcere senza risorse, in emergenza

 

Ansa, 12 aprile 2010

 

"Dopo la visita al carcere di Porto Azzurro esprimo la più viva preoccupazione per l’episodio di protesta avvenuto nei giorni scorsi". Lo ha dichiarato Silvia Velo, deputata toscana del Partito Democratico, che si è recata questa mattina in visita nel penitenziario.

"È evidente - spiega Velo - che l’istituto di Porto Azzurro opera in assoluta assenza di risorse, infatti, basta un piccolo guasto alla lavanderia per far saltare tutto. Inoltre, a peggiorare la situazione, il Dap (Dipartimento Polizia Penitenziaria) ha già comunicato che in base alla volumetria del carcere è previsto un raddoppio dei detenuti confermando però lo stesso numero di agenti ed educatori che già ora sono sotto organico. Mancando le risorse economiche a disposizione e senza nessun intervento strutturale questo può rendere la situazione veramente esplosiva. Porto azzurro è il carcere di lunga detenzione che ha al suo interno sezioni artigianali per permettere ai detenuti di svolgere delle attività ma, in assenza del personale necessario e le scarse risorse finanziarie, i detenuti non possono di fatto lavorare. Nonostante il carcere abbia grandi potenzialità - conclude Velo - rischia, in queste condizioni, un degrado inarrestabile".

Roma: domani Comunità di S. Egidio presenta dati e proposte

 

Il Velino, 12 aprile 2010

 

Martedì 13 aprile alle 11, presso la sede della Comunità di S. Egidio, si terrà una conferenza stampa sul tema: "Le carceri in Italia: tra riforma, sovraffollamento e problemi di bilancio, un banco di prova per la democrazia e la civiltà in Italia - Analisi e proposte della Comunità di Sant’Egidio". Si legge nella nota stampa: Dinanzi ai tanti suicidi, mentre torna l’allarme per il sovraffollamento carcerario e primi investimenti segnalano la preoccupazione dell’autorità giudiziaria e la ricerca di soluzioni, la Comunità di Sant’Egidio propone una riflessione sulla situazione del "sistema carcere" in Italia con alcune, iniziali, proposte. Saranno presentati dati, commenti e suggerimenti su salute, pene alternative, indulto, diritti e condizioni dei detenuti. La Comunità è presente da molti anni in diversi penitenziari italiani con i suoi volontari e ha condotto un attento monitoraggio dell’evoluzione della popolazione carceraria, della legislazione in materia e delle problematiche che ruotano attorno alle carceri. Storie in presa diretta saranno messe a disposizione dei responsabili, della stampa e dell’opinione pubblica.

Isili (Ca): Sdr; il progetto "Mai più soli" per i detenuti indigenti

 

La Nuova Sardegna, 12 aprile 2010

 

"Mai più soli" è il progetto che l’associazione "Socialismo Diritti Riforme" ha promosso per i detenuti indigenti della colonia penale di Isili in collaborazione con l’assessorato provinciale di Cagliari alle Politiche sociali. Lo scopo è dare risposte alle necessità di persone detenute che non possono contare sulla vicinanza dei familiari per soddisfare bisogni primari quali l’igiene personale e un abbigliamento decoroso. "In un’epoca in cui si manifesta fortemente la tendenza a pensare a se stessi - ha spiegato Maria Grazia Calligaris, presidente di "Sdr" -, occorre alimentare la cultura dell’attenzione verso chi è in difficoltà". Martedì saranno consegnati ai detenuti bisognosi prodotti per l’igiene personale e dei locali e capi di vestiario.

Salerno: Radicali; riaprire il Reparto ospedaliero per i detenuti

 

La Città di Salerno, 12 aprile 2010

 

Pronti anche allo sciopero della fame, purché venga garantito il diritto alla salute dei detenuti del carcere di Fuorni. Lo hanno annunciato ieri Michele Capano, membro del comitato nazionale Radicali italiani, e Donato Salzano, segretario dell’associazione radicale salernitana Maurizio Provenza. La possibilità di scegliere questa forma di protesta è arrivata in seguito ad una lettera ufficiale, indirizzata nella stessa giornata al direttore generale del "Ruggi" Attilio Bianchi.

"Ci rivolgiamo a Bianchi - ha detto Capano - perché ci fornisca una risposta riguardo la riapertura del reparto, chiuso quattro anni fa. Per quel che ci risulta, i locali sarebbero stati già messi a norma: se persistono ancora cause logistiche, siamo pronti ad impegnarci per la risoluzione". L’esigenza del reparto risulterebbe indispensabile, hanno sottolineato i portavoce del movimento, alla luce delle condizioni in cui verserebbe la casa circondariale, "una delle peggiori d’Italia - ha commentato Salzano - seconda soltanto a Poggioreale, dove le condizioni di sovraffollamento e le carenze igienico sanitarie rendono particolarmente alto il rischio di traumi fisici e psicologici". A invitare ad un’indagine accurata prima dell’eventuale riapertura è stata Margaret Cittadino, responsabile Cgil nell’azienda ospedaliera. "Il degrado igienico e le negligenze dovute ad una evidente mancanza di personale sono stati gli stessi motivi che hanno portato alla chiusura del reparto- ha spiegato- chiediamo che l’eventuale riapertura non avvenga prima che si possa definire un piano di assunzione".

Ferrara: "Arti in Libertà"; nasce Coop. reinserimento detenuti

 

La Nuova Ferrara, 12 aprile 2010

 

Un ponte fra il prima e il dopo carcere, un mezzo per restituire la dignità alle persone che pagheranno il loro debito verso la società attraverso il lavoro, una piccola realtà imprenditoriale in grado di abbattere i muri della diffidenza.

Tutto questo e molto altro ancora è la cooperativa "Arti in Libertà", inaugurata ieri in via Monteverdi 12 (zona via Bologna) dal sindaco Tiziano Tagliani, da rappresentanti delle istituzioni tra cui il vice prefetto Marchesiello, dal vicario monsignor Grandini, monsignor Bentivoglio, don Marco Bezzi, don Bedin e don Zerbini e dai suoi promotori.

Nata sotto il segno della solidarietà verso i reclusi della casa circondariale di via Arginone sin dal 1997 quando un gruppo di persone chiese di entrare in carcere per affiancarsi all’attività del cappellano don Bentivoglio, ottenendo l’autorizzazione, si costituì prima nell’associazione "Noi per loro" (sede in via Adelardi) e successivamente nel 2006 come cooperativa onlus con l’obiettivo di promuovere esperienze lavorative.

"Insieme a tre collaboratori - ha ricordato il presidente Luciano Fergnani - Dario Valentini, Mara Maietti e la straordinaria Paola Camerani che ci ha purtroppo lasciati solo pochi mesi fa senza vedere la realizzazione del nostro sogno, abbiamo fortemente creduto in questo progetto che si sta già sviluppando non solo attraverso questa ampia e spaziosa struttura, ma nell’attuazione di un primo corso di formazione per operatore grafico di stampa che qui lavorerà, ma con un secondo corso che darà le stesse opportunità ad altri detenuti in semilibertà o che hanno già scontato la pena". L’inserimento nel mondo del lavoro è infatti uno degli ostacoli più gravi che incontrano le persone quando escono dal carcere, verso le quali molti provano un sentimento di "giustificabile diffidenza".

La cooperativa invece dotata di moderne ed efficaci attrezzature, eco-compatibili con l’ambiente, acquistate grazie alla generosa donazione di 100 mila euro che l’avvocato Antonietti ha dato in ricordo della moglie Gina Castaldi, diventerà un importante luogo di formazione e integrazione sociale. "Quando mi presentarono il progetto che trovai molto interessante - ha ricordato il sindaco Tagliani - aveva però il difetto di basarsi su parecchi finanziamenti sui quali io non ci avrei scommesso molto. Invece qualcuno la chiama Provvidenza, altri fortuna ma è riuscito a decollare restituendo la speranza e la dignità a molte persone".

Non è mancata in verità la collaborazione da parte della Provincia, Comune, carcere, Uepe, Coperfidi Italia, Emilbanca, Legacoop e Cesvip ma la spinta determinante l’hanno data i fondatori e i volontari la cui umiltà e coraggio sono stati lodati dal direttore del carcere Francesco Cacciola. "È questa un’iniziativa carica di responsabilità per noi perché siamo chiamati ad una selezione dei detenuti, ma non per questo mancherà il nostro sostegno". Sono intervenuti Dario Valentini che ha sottolineato il senso di rispetto che si deve avere verso ogni individuo anche se ha sbagliato insieme all’opportunità di recuperare la propria dignità e Andrea Benini, vice presidente di Lega Coop, che ha definito Arti in Libertà un valore aggiunto e un’occasione di emancipazione.

Udine: "Il piacere della legalità"; carcere e scuola a confronto

 

Messaggero Veneto, 12 aprile 2010

 

Le misure alternative al carcere passano anche attraverso la cultura. Il liceo delle scienze sociali Caterina Percoto porta avanti da tre anni il progetto "Il piacere della legalità. Mondi a confronto", in cui gli studenti del quinto anno incontrano le persone detenute che frequentano la scuola del carcere. "Un modo per vincere pregiudizi e stereotipi sia da parte dei ragazzi sia dei detenuti, per far comprendere la complessità della realtà carceraria e per divulgare l’argomento. I ragazzi ne parlano tra di loro, ma anche a casa e agli amici".

Lo sottolinea la docente Chiara Tempo, che ha ideato il progetto insieme a Liliana Mauro e che ieri lo ha presentato, per voce di una studentessa del Percoto, al pubblico del convegno organizzato in ricordo dello studioso Mario Gozzini, che per primo ha intuito l’importanza della rieducazione, Alternative in carcere e in carcere . "Con questo progetto nel nostro piccolo siamo riusciti ad abbattere le barriere - ha spiegato la Tempo - e a muovere un po’ la rigidità del sistema carcerario". Il progetto sembra rispecchiare in pieno quello che chiedono i detenuti. "Vogliono che si parli di loro, che si conosca la loro situazione - ha continuato la Tempo - e vogliono rendersi utili".

Tra i presenti al convegno, anche due persone detenute nella Casa circondariale di via Spalato, che hanno espresso la loro voglia di lavorare, anche gratuitamente e di prestarsi per lavori socialmente utili. "Il senso della pena è quello di dare un messaggio di ricostruzione del patto di cittadinanza che si è rotto con la commissione del reato - ha detto il direttore dell’ufficio per l’esecuzione penale esterna Antonina Tuscano - la pena deve essere vista in maniera produttiva per dare speranza e risorse alle persone che escono dal carcere".

Attualmente sono circa cento le persone che solo nella provincia di Udine usufruiscono delle misure alternative. "Un numero che sta aumentando negli anni - ha commentato ancora -, ma non ancora sufficiente ad arginare il sovraffollamento nelle carceri". Una struttura che secondo l’organizzatore del convegno don Pierluigi Di Piazza è molto più vicina a noi di quello che pensiamo.""Il carcere è illusoriamente segregato dalla società - ha spiegato - è dentro la società, la stessa in cui nascono le storie delle persone e si commettono i reati".

Napoli: il 17 aprile alta moda nel carcere femminile di Pozzuoli

 

Il Velino, 12 aprile 2010

 

Il 17 aprile sera, presso la casa circondariale femminile di Pozzuoli (Na), avrà luogo la sfilata della collezione Primavera - Estate degli abiti da sposa dello stilista Gianni Molaro. L’evento, unico nel suo genere, prevede la partecipazione in qualità di indossatrici d’eccezione anche di alcune giovani detenute, selezionate e formate dallo stesso Molaro.

Libri: "L’attività motoria nelle carceri", A. Federici e D. Testa

 

Ansa, 12 aprile 2010

 

Portare la ginnastica nelle carceri per ridurre malattie e spesa sanitaria, e prevenire problemi anche in una situazione di sovraffollamento, che nelle Marche vede oggi 1.148 detenuti, a fronte di una capienza di circa 700.

È l’idea propugnata dal libro "L’attività motoria nelle carceri italiane", scritto da Ario Federici, professore dell’Università di Urbino, e Daniela Testa, insegnante ed esperta di ginnastica posturale di San Benedetto del Tronto, con una prefazione di don Luigi Ciotti. Il volume, pubblicato dalla Armando Editore, muove dall’esperienza del progetto innovativo che gli studenti della Facoltà di Scienze motorie dell’ateneo feltresco stanno portando avanti nel carcere di Fossombrone.

Sotto la direzione del prof. Federici, alcuni volontari hanno fatto lezioni di educazione motoria a scopo preventivo e di rieducazione funzionale agli ospiti del carcere, valutando poi i benefici. Ebbene, i risultati hanno evidenziato che i detenuti che praticano attività fisica vengono colpiti meno da patologie quali mal di schiena, dolori cervicali e articolari, ansia.

"Il carcere - spiega Federici - è il logo dell’ipocinesia, ovvero della mancanza di movimento, che porta alla devastazione della persona, abituata a passare 22 ore al giorno in una cella di tre metri per due. Già dopo pochi mesi di carcere i detenuti perdono l’olfatto e l’udito, accusano vertigini e abbassamento della vista, per non parlare delle patologie più gravi, dalle infezioni fino ai problemi cardiaci - sottolinea la Testa -. L’attività fisica può aiutare a far fronte a questi disagi che colpiscono i reclusi e, direttamente o indirettamente, le guardie carcerarie. Quello sperimentato nelle Marche può essere un modello vincente per tutta l’Italia, introducendo la figura dell’educatore fisico negli istituti di detenzione del Paese".

Germania: detenuto uccide amica, durante colloquio in carcere

 

Agi, 12 aprile 2010

 

Un nuovo scandalo investe le prigioni del Nordreno-Westfalia (Nrw), il più industrializzato e popoloso Land tedesco con oltre 18 milioni di abitanti. Il quotidiano "Bild" rivela che ieri durante l’ora del colloquio nel carcere di Remscheid, nei pressi di Colonia, un detenuto di 50 anni ha ucciso la sua compagna di 46 e ha poi tentato di togliersi la vita. L’uomo è stato ricoverato immediatamente in ospedale, ma non versa in pericolo di vita, anche se le sue condizioni sono state definite stazionarie. Le autorità non hanno fornito particolari su come sia avvenuta la tragedia, rivelando solo che il corpo senza vita della visitatrice è stato rinvenuto alle 15,35 di ieri, accanto a quello del suo assassino.

Il ministro della Giustizia del Nrw, Roswitha Mueller-Piepenkoetter, si è detta "sconvolta per quanto avvenuto" e dopo essere andata nell’istituto di pena ha annunciato "un’inchiesta senza alcun riguardo" per far luce sull’accaduto. Uno dei punti chiave da chiarire è come sia stato possibile ad un detenuto uccidere una persona durante l’ora del colloquio, di norma sorvegliato dagli agenti di custodia. Nei mesi scorsi un altro scandalo aveva riguardato il carcere di massima sicurezza di Aquisgrana, dove due condannati all’ergastolo erano riusciti ad evadere con la complicità di un sorvegliante, ma erano stati catturati nel giro di un paio di giorni.

 

 

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