Rassegna stampa 9 settembre

 

Giustizia: in Italia è stata forse reintrodotta la pena di morte?

di Giorgio Ferri

 

Liberazione, 9 settembre 2009

 

Nella carceri italiane è stata forse reintrodotta la pena di morte? La domanda, per nulla retorica, sorge legittima dopo l’ultima raffica di decessi. Un detenuto tunisino, recluso nel carcere Torre del Gallo a Pavia, è morto il 5 settembre scorso dopo un lungo sciopero della fame. L’uomo, 42 anni, aveva smesso di alimentarsi da oltre un mese per contestare una nuova condanna emessa contro di lui per un’accusa di violenza sessuale.

Il decesso è avvenuto in ospedale dove il tunisino era stato ricoverato dopo l’aggravarsi delle sue condizioni. La vicenda ricorda quella di Ali Juburi, un quarantenne iracheno deceduto nell’agosto 2008 dopo 80 giorni di digiuno nel carcere di L’Aquila. Entrambi stranieri, entrambi senza famiglia in Italia e senza denaro per garantirsi una adeguata difesa Juburi era in carcere perché accusato dei furto di un telefonino), entrambi protestavano la loro innocenza rifiutando di nutrirsi.

Diversa la storia di Carlo Esposito, l’uomo astigiano detenuto a Torino, presso il carcere delle Vallette e malato già da tempo di schizofrenia. Il suo decesso sarebbe avvenuto lo scorso primo settembre, ma la notizia è stata divulgata solo ieri e solleva domande su come sia stato possibile ritenere compatibile col regime carcerario una persona ridotta a così precarie condizioni di salute. Esposito aveva più volte denunciato, tramite lettere, dei trattamenti sanitari non idonei, se non addirittura sbagliati.

Aprire subito un’indagine sui decessi che avvengono tra i detenuti delle carceri italiane e che secondo dati recenti, ma sottostimati, solo quest’anno sono stati 126 (di cui 48 suicidi), mentre sono circa 4 mila gli atti di autolesionismo segnalati dall’inizio del 2008. È quanto ha chiesto la deputata radicale-Pd Rita Bernardini, membro della commissione giustizia, che in un’interrogazione ha invitato il ministro Angelino Alfano a fare luce anche sul tipo di assistenza che è stata prestata al detenuto tunisino durante il lungo digiuno e sulla tempestività del ricovero in ospedale. Dal 1980 al 2007 ben 1.371 detenuti si sono tolti la vita. Uno su tre era in isolamento.

Dietro le sbarre la frequenza dei suicidi è 21 volte superiore rispetto al resto della società: ogni anno si registra un suicidio ogni 924 detenuti (uno ogni 283 in regime di 41-bis) a fronte di un suicidio ogni 20 mila abitanti.

Non solo: ogni anno si registra in media un suicidio ogni 70 detenuti, un atto di autolesionismo ogni 10, uno sciopero della fame ogni 11 e un rifiuto delle terapie mediche ogni 20. Sono le fasce di età più bassa che risultano più a rischio, a differenza della società esterna dove invece il suicidio è più diffuso tra le persone in età matura. Sono alcuni dei dati che emergono dal volume, In carcere: del suicidio ed altre fughe, edito da Ristretti Orizzonti e curato da Laura Baccaro e Francesco Morelli.

Giustizia: in 8 mesi 48 detenuti suicidi, 20 in più che nel 2007

di Andrea D’Agostino

 

Avvenire, 9 settembre 2009

 

Un lungo, macabro elenco di uomini disperati che si sono tolti la vita dietro le sbarre: ben 48 dal gennaio di quest’anno fino ad agosto. Numeri che vanno aumentando di anno in anno: i suicidi del 2009 sono infatti 18 in più rispetto ai primi 8 mesi dello scorso anno e 20 in più rispetto allo stesso periodo del 2007. Sono i dati che ha raccolto il Centro studi di Ristretti Orizzonti del carcere Due Palazzi di Padova. Nel 2006 si erano verificati 39 suicidi: il numero minimo - pari a 28 - è stato registrato proprio l’anno successivo, quando con l’indulto molti detenuti sono usciti fuori. Ma di nuovo, con il sovraffollamento delle carceri, il fenomeno è drammaticamente aumentato. Di questo passo, stima il rapporto, a fine anno si rischia di arrivare a un numero che supera i 70 suicidi: un triste primato mai registrato nelle carceri italiane.

Il più giovane dei detenuti suicidi è stato un tunisino di 19 anni, ma altri 17 avevano tra i 20 e i 30 anni, a conferma che i giovani sono i soggetti più "a rischio" in carcere. Gli italiani sono stati 28, gli stranieri 20 e le donne solo due.

La tragica notizia del detenuto tunisino di 42 anni, morto dopo un mese di sciopero della fame a Pavia, ricorda inoltre una vicenda analoga: quella di Ali Juburi, 40enne iracheno morto nell’agosto 2008 dopo ben 80 giorni di digiuno nel carcere dell’Aquila. Sono numerosi i punti in comune nei due tragici casi, ricorda il rapporto: entrambi i suicidi erano stranieri, senza famiglia in Italia e senza denaro per garantirsi un’adeguata difesa. Juburi, inoltre, era finito dentro perché accusato del furto di un telefonino. Entrambi, infine, hanno protestato la loro innocenza rifiutando di nutrirsi.

Giustizia: Pannella; stampa e tv censurano le morti in carcere

di Marco Pannella

 

L’Altro, 9 settembre 2009

 

Cari compagni e amici de L’Altro, consentitemi oggi di abusare del vostro letteralmente straordinario invito (di ieri e fino a qualche ora fa... l’unico) a intervenire sul tema e sull’obiettivo "Amnistia subito!".

Soprattutto in questa Italia dov’è reinstaurata una pena di morte surrettizia quanto certa: 48 suicidi finora nel 2009, più altri 78 morti di prigione italiana. L’ultimo ieri l’altro, un ragazzo tunisino che si è lasciato morire di fame nel carcere di Pavia. Per un po’ di informazione contestuale, e di "propaganda" Radicale, a premessa utile per imputare domani se potete consentirmelo) agli sgovernanti di Governo e di Opposizione, come anche a Tonino Di Pietro, scelte e responsabilità criminogene e criminose, disastrose, che da decenni ormai possono essere compiute e difese solamente censurando ogni dibattito, quindi ogni informazione così realizzando un’ormai sessantennale (in)giustizia di classe, senza precedenti, ivi compreso quello del Regime precedente l’attuale, quello del Ventennio fascista.

Veniamo a bomba: il ministro Alfano ha immediatamente reagito alla nostra ri-proposta (dal 1977 fatta in Parlamento, ribadita continuamente da allora) decretando laconicamente, da Innominato manzoniano: "Questa Amnistia, con gli indulti non s’ha da fare!". A Radio Radicale molti esponenti di destra e sinistra si sono pronunciati, spesso a favore.

Niente da fare, il tema è Verboten! Totale, ma proprio totale su Mediaset, Sky, La7, unica eccezione, da Mineo! Ma quel che è stato più interessante è il black-out di tutti gli Editori e di tutti... Editi, tranne una eccezione qualche ora fa! On-line e off-line: silenzio (siti e audiovisivi Radicali a parte, naturalmente)!

Sull’origine e la causa prima di quest’ultima fase del Regime partitocratico italiano, sul suo autore, sul sistema di monopartitismo sostanziale, sulla sua forma biciclica, sul suo odierno attore principale e quello di scorta, noi non ci troviamo impreparati: abbiamo ormai da decenni costituito una Resistenza politica e sociale di carattere strategico.

Abbiamo infatti combattuto sempre in modo da prefigurare, anche nelle forme delle lotte e dell’organizzazione, i fini e forme di autogoverno democratico, federalista, austero e libertario, nonviolento; gandhianamente, socraticamente, kantianamente, illuministicamente, antropologicamente, forse buddisticamente (mia personale ipotesi) scoprendoci così connotati e alimentati.

Siamo giunti alla conclusione che la nostra Resistenza ha oggi un dovere, un’opportunità straordinaria: è il popolo italiano. Antipartitocratico, anticommistioni fra poteri vaticani o talebani e religiosità di libertà e di liberazione, di responsabilità civile, sociale, virtualmente, ormai, ecologisticamente planetaria.

Sessant’anni di occupazione hanno miracolosamente salvato gli "occupati" e isolato gli occupanti. È un popolo che ha in sé la nostra Resistenza, ha riconosciuto come suoi i nostri caduti, i Coscioni o i Welby, o i vivi, gli Enzo Tortora e , credo, Eluana liberata dall’amore e dalla forza di Beppe Englaro. L’obiettivo, cui, d’ora in poi, daremo animo e daremo corpo è quello di candidarci, in tempi rapidi, politici a promuovere e costituire il governo e la Riforma "americana", in alternativa allo sfascio e al fascio partitocratico, per salvarlo e salvarci dalla sua rovina tragica che sarebbe altrimenti anche quella di tutti gli italiani.

Nell’attuale contesto internazionale, piazzali Loreto et similia, tentati o riusciti sarebbero tragedie non più tremendamente solo domestiche, a cominciare dai loro sciagurati e disperati autori. Siamo, saremo alternativa anche a questo.

Spero, cari amici de L’Altro, che vi saranno individui e "forze" che, ammaestrati anche dal tempo prendano in considerazione, sul serio, questo nostro obiettivo. Sulla lotta immediata per la conquista con l’Amnistia della Grande Riforma per la Giustizia, appuntamento - se L’Altro può a domani.

Giustizia: Giachetti (Pd); carceri fuorilegge, valutare l'amnistia 

 

Il Velino, 9 settembre 2009

 

Roberto Giachetti, deputato del Pd molto attento alla questione carceri, esorta dal suo blog a operare in modo concreto prima che la situazione sfugga di mano. "Il giorno di Ferragosto, aderendo ad una iniziativa lanciata dai Radicali ed accolta in maniera trasversale da molti parlamentari, sono andato - racconta Giachetti - in visita al carcere di Favignana.

Chi conosce il mio percorso sa che il tema mi è particolarmente caro e che purtroppo ogni sopralluogo nella gran parte degli istituti penitenziari italiani non fa che confermare le preoccupazioni diffuse, lasciando addosso le medesime sensazioni. La fatiscenza delle strutture, la carenza di personale, il sovraffollamento rappresentano i comuni denominatori delle nostre carceri e costituiscono solo l’epifenomeno di una situazione che ha radici antiche e che investe tanto il piano della vivibilità delle strutture che, soprattutto, quello della giustizia giusta e della proporzionalità della pena.

È di ieri - prosegue il deputato Pd - la notizia di un detenuto tunisino nel carcere di Pavia che, accusato di violenza sessuale e proclamatosi sempre innocente, si è lasciato morire di fame e di sete (la procura di Pavia ha aperto un’indagine per accertare eventuali responsabilità). Proprio a testimoniare la drammaticità di una situazione strutturalmente votata alla deflagrazione l’avvocato del tunisino ha prima accusato il penitenziario e il dipartimento sanitario di non aver fatto abbastanza per salvare l’uomo e contestualmente ha individuato ulteriori responsabilità in una magistratura lenta che ha impiegato venti giorni per rispondere ad una richiesta di trasferimento, viste le pessime condizioni di salute, in una struttura più attrezzata sul piano sanitario".

Giachetti avverte: "Le conseguenze di questa ennesima morte volontaria in carcere potrebbero assumere contorni preoccupanti nel momento in cui, come sta accadendo, gli altri detenuti di Pavia hanno deciso di imitare Ben Gargi iniziando un digiuno di protesta. Di fronte a questo stato di cose non potranno mai bastare né gli appelli delle varie associazioni né l’impegno dei singoli alle prese con un meccanismo perverso che consente di lasciare per anni in strutture inadeguate a ogni livello tossicodipendenti, extracomunitari o condannati per reati minori.

L’iniziativa di Ferragosto, a seguito della quale è stato prodotto un dossier che certifica dati e condizioni assolutamente allarmanti, pur con tutti i meriti del caso non fa altro che confermare un quadro ormai noto che spinge l’Europa alle critiche e agli inviti continui a fare qualcosa di concreto per cambiare. Ma non può bastare. Se di fronte ad una carenza di personale che costringe a chiudere interi reparti il governo italiano risponde con la litania della costruzione di nuove carceri, ripetuto come un mantra totalmente privo di buon senso ma carico di demagogia, nulla è destinato a cambiare.

C’è bisogno - insiste l’esponente democratico - di una nuova consapevolezza, c’è bisogno di provare vergogna per come il nostro paese amministra la giustizia e per come il principio costituzionale di una pena umanamente tollerabile troppo spesso venga tradito nella più totale indifferenza. C’è bisogno - conclude Giachetti - di iniziative concrete ed urgenti che non possono non passare per una immediata riforma della giustizia, per la depenalizzazione di alcuni reati, per l’utilizzo molto più diffuso delle pene alternative, per una seria valutazione delle proposte lanciate in questi giorni da Marco Pannella per un provvedimento di amnistia".

Giustizia: Petrilli (Pd); affollamento e suicidi, carceri invivibili

 

www.inabruzzo.com, 9 settembre 2009

 

Giulio Petrilli, responsabile Diritti e garanzie del Pd, scrive: "Khole Abib, 32 anni, senegalese, Sami Ben Gargi 41 anni, tunisino. Il primo si è suicidato ieri nel carcere di Teramo, il secondo è morto nel carcere di Pavia dopo uno sciopero della fame e della sete durato trenta giorni. Entrambi accusati di violenza sessuale, entrambi si proclamavano innocenti.

Numeri 49 e 50 nella lista dei suicidi quest’anno nelle carceri italiane, numeri 128 e 129 per i morti sempre quest’anno nelle carceri. Il suicidio nei penitenziari è molto frequente, infinitamente più alto delle persone libere. La vita dentro le carceri sovraffollate è invivibile e alla fine molta gente preferisce lasciarsi morire, evadendo con il suicidio.

Le carceri sono diventate la discarica della società, sono un po’ come i tanti barconi di migranti, dove se una persona muore senza essere soccorsa non interessa a nessuno. Così è il carcere, neanche i suicidi fanno interrogare le persone libere. I rifiuti della società, vanno accatastati, dentro spazi angusti, magazzini fatiscenti, dentro sbarre vere e sbarre di relazione e di comunicazione con l’esterno.

Poi entrambi proclamavano la propria innocenza, Sami Gargi, il detenuto tunisino addirittura dopo la condanna per lui ingiusta ha voluto gridare la sua innocenza, con uno sciopero della fame e della sete totale che lo ha portato alla morte.

In una nazione dove dal 1945 sono stati riscontrati quattro milioni e mezzo di errori giudiziari, questo urlo di innocenza deve far riflettere. Così come deve far riflettere il carcere di Teramo dove si trovano attualmente il doppio dei detenuti che potrebbe ospitare. Due storie, due vite finite, due persone morte, si sempre persone anche se avessero commesso i gravi reati loro contestati, due invisibili che passeranno immediatamente nel dimenticatoio. La civiltà di una nazione si vede dallo stato delle proprie carceri ed è triste constatare che noi di civiltà ne abbiamo poca, molto poca".

Giustizia: Bongiorno (Pdl); il carcere non dev'essere "tortura"

di Donatella Stasio

 

Il Sole 24 Ore, 9 settembre 2009

 

Intercettazioni, processo, carcere: bisogna cambiare, dice Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia della Camera nonché finiana doc. Di Gianfranco Fini, interpreta il pensiero anche quando ricorda che "la povertà non è reato" e che "la clandestinità non è sinonimo di pericolosità". Parole destinate a pesare nelle decisioni che attendono governo e maggioranza nei prossimi mesi. La giustizia è uno di quei "problemi non risolti" di cui ha parlato ieri il presidente della Camera e su cui si misureranno distanze e rapporti di forza tra Pdl e Lega, ma anche tra Berlusconi e Fini. Basta ascoltare la Bongiorno per rendersi conto che su intercettazioni, processo,

carcere e immigrazione i finiani daranno battaglia.

La cautela politica - e la consapevolezza del ruolo avuto dalla Lega soprattutto sulla sicurezza - non fa velo alla schiettezza del ragionamento, che si muove sul terreno giuridico e istituzionale. Sul ddl intercettazioni, rinviato a settembre dopo la moral suasion del Quirinale, la Bongiorno non ha dubbi: "Le indicazioni venute dal Presidente della Repubblica meritano una grandissima attenzione", dice, dopo aver premesso di "condividere "in toto" lo spirito della riforma.

"Ci sono stati, non degli abusi, come spesso si sostiene, ma degli eccessi da parte dei magistrati e dell’informazione. Lo riconosce anche l’opposizione ed è un dato politico importante. Perciò penso che sulle intercettazioni si possa arrivare a una riforma condivisa, a differenza di altre in materia di giustizia". La Bongiorno rivendica, tra l’altro, il lavoro della Camera per "migliorare" il testo del Governo, che strozzava libertà di stampa e indagini.

Su quest’ultimo punto è convinta che si possa fare ancora molto; sulla libertà di stampa, invece, è più cauta: il divieto al diritto di cronaca è caduto, ricorda, e l’unico limite riguarda la pubblicazione delle intercettazioni. "Deve prevalere il principio della maggior tutela dell’indagato, spesso violata dalla pubblicazione di telefonate frammentarie e selezionate solo dai Pm. Ma sono d’accordo chele sanzioni sono eccessivamente rigorose. Su questo va aperta una riflessione".

Il problema delle intercettazioni e quello del carcere sono legati "alla patologia del sistema giustizia", la lentezza del processo, segnalata mesi fa da Fini, ma ancor a priva di risposta. Dovrebbe darla il ddl sul processo penale, colpito da un duro parere del Csm, secondo cui la maggior parte delle norme va in direzione opposta.

La Bongiorno sospende il giudizio (il ddl è in fase iniziale) anche se ritiene che ci siano "spunti interessanti, ma insufficienti" senza interventi finanziari e organizzativi. Ritiene però imprescindibile concentrarsi sui tempi del processo, per dare una "soluzione concreta al problema della sicurezza". "Si parla molto di emergenza carcere, dimenticando che la maggioranza dei detenuti è in attesa di giudizio. La custodia cautelare non va confusa con la pena detentiva. Eppure, così è. Se riuscissimo a velocizzare i processi, quest’anomalia non ci sarebbe. Sono una garantista, non una perdonista: chi è condannato deve scontare la pena, non essere sottoposto a una tortura".

Tema scabroso per una maggioranza che ha scelto la linea della carcerizzazione per qualunque violazione e che ha limitato l’accesso alle misure alternative (i cosiddetti benefici). Una linea imposta dalla Lega, come sul fronte dell’immigrazione. "Mi fa paura che la gente consideri prioritaria la sicurezza sotto casa e accettabile che le carceri siano sovraffollate. Se lo Stato stabilisce che una persona va privata della libertà, la priva della libertà e basta, non anche della dignità e della possibilità di essere reinserita. Il problema sovraffollamento esiste da anni, ma non è mai stato affrontato in radice. Lo si è tamponato. L’indulto aveva solo una funzione svuota-carceri e fu un’altra intuizione importante di Fini. Perciò non lo votammo, pur non essendo contrari, per principio, all’indulto". Basta costruire nuove carceri? "No - risponde -anche se può essere una prima risposta, sempre che arrivi. Occorrono risorse e ridurre i detenuti in attesa di giudizio. Quindi, di nuovo: velocizzare il processo. E poi bisogna riaprire il discorso delle misure alternative". In effetti, anche il ministro Alfano lo ha detto. Ma c’è la Lega: come si fa? "Non bisogna pensare alle misure alternative come a misure svuota carceri, perché fanno parte della pena e danno risultatipositivi (riducono a un terzo la recidiva, ndr). Capisco che politicamente paga di più dire: chiudiamoli in cella e buttiamo la chiave. Capisco che può far aumentare i consensi, ma non è la risposta al problema della sicurezza".

Non lo è neanche la criminalizzazione degli immigrati. Gli stranieri sono il 58% dei detenuti in attesa di giudizio e per loro i benefici sono una chimera. Se mi chiamo Mario Rossi, fuori ho una casa, una famiglia, un lavoro, mi danno un permesso; se mi chiamo Mohammed Ali e fuori non ho neanche il nome, in permesso non ci vado, neppure se in carcere ho tenuto una condotta esemplare e ho lavorato bene. "È vero", risponde. Ricorda che Fini ha rilevato la necessità di fare "un tagliando" alla Bossi-Fini e che sull’immigrazione i finiani stanno portando avanti orientamenti diversi da quelli della Lega. "Anche se finora la linea intransigente del Carroccio è prevalsa, c’è un movimento per modificarla".

Basti pensare al dibattito sulla cittadinanza agli immigrati, ma anche ad alcune modifiche alla legge sulla sicurezza (quella sui medici). "L’immigrazione, come ricorda Fini, è un problema che va affrontato nel segno del rigore ma anche dell’accoglienza. Questo è lo sforzo da fare". E il reato di clandestinità? "La povertà non è reato - risponde - e la clandestinità va sanzionata solo se assume carattere di pericolosità". Il reato, però, è legge. "Anch’io l’ho votato, ma penso ci sia lo spazio per cambiare, anche se bisogna aspettare per fare un bilancio delle nuove norme".

Ultima domanda, di rito. Maurizio Gasparri, altro ex di An, ha detto che se la Consulta boccerà il Lodo Alfano ci sarà un Ghedini o un Ghedoni che troverà un cavillo per evitare che riprenda il processo Mills a Berlusconi. "Trovare un cavillo per risolvere la questione non appartiene alla mia cultura giuridica e istituzionale: il Parlamento dovrebbe fare norme generali e astratte, non trovare cavilli per eludere le sentenze della Corte".

Giustizia: Fp-Cgil; sovraffollamento, emergenza da affrontare

 

Comunicato stampa, 9 settembre 2009

 

"Caduto anche l’ultimo disgraziato traguardo stabilito con la capienza massima tollerabile, ora negli istituti penitenziari italiani con 64.180 detenuti è record di presenze. Un risultato mai raggiunto prima in Italia dal lontano 1946 ad oggi, e non è ancora finita". È quanto afferma Francesco Quinti, coordinatore nazionale della Fp Cgil, che aggiunge: "Tra non molto la tendenza all’aumento degli ingressi in carcere tornerà purtroppo a consolidarsi, come nei mesi scorsi, quando erano circa mille gli ingressi al mese di detenuti in strutture già sovraffollate oltre ogni misura e immaginazione. Ma come e dove questi verranno ospitati non è dato di sapere, considerato che il cosiddetto piano carcere non è ancora stato presentato al Consiglio dei Ministri e che, soprattutto, mancano sia i fondi per realizzarlo che per assumere il personale di Polizia Penitenziaria necessario, già oggi inferiore nel numero di circa 6.000 unità dall’organico previsto e costretto a sopportare una condizione lavorativa divenuta ormai insostenibile".

"Sono mesi ormai - continua l’esponente sindacale - che la Fo lancia continui grida di allarme sulla gravità della situazione, sull’inerzia manifestata dal Governo e dal Ministro della Giustizia sulle politiche penitenziarie e del personale, sull’inquietante assenza di reali misure di contrasto al sovraffollamento degli istituti penitenziari".

Servono soluzioni urgenti e non più ulteriormente rimandabili, occorrono fatti concreti, ci auguriamo venga aperto quanto prima un dibattito parlamentare sull’emergenza carcere, utile anche a valutare gli effetti di alcuni recenti interventi normativi che stanno contribuendo ad affondare il sistema delle misure alternative alla detenzione per i reati meno gravi, l’unica alternativa al sovraffollamento percorribile e compatibile con le finalità della pena e i valori espressi dalla Carta Costituzionale. È ora, conclude Quinti, "che il governo e il ministro della Giustizia la smettano di tentare di scaricare il problema del sovraffollamento sull’Unione Europea; l’emergenza carcere è drammatica e rischia seriamente di produrre l’ingovernabilità del sistema, e come tale deve essere quanto prima affrontata e risolta".

Giustizia: Sappe; servono più misure alternative a detenzione

 

Il Velino, 9 settembre 2009

 

"L’allarmante dato di oltre 64 mila detenuti che sovraffollano le carceri italiane, la cui capienza regolamentare è pari a poco più di 42 mila posti, oltre a rappresentare il triste primato mai raggiunto nella storia d’Italia impone l’adozione di provvedimenti urgenti. Noi ci appelliamo ai ministri dell’Interno Maroni e della Giustizia Alfano perché riprendano dai cassetti in cui inspiegabilmente è stato riposto da sinistre mani maldestre quello schema di decreto interministeriale finalizzato a disciplinare il progetto che prevede l’utilizzo della polizia penitenziaria all’interno degli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) nel contesto di un maggiore ricorso alle misure alternative alla detenzione". È l’auspicio di Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei baschi azzurri.

"Per molti mesi - insiste Capece - abbiamo discusso con l’Amministrazione penitenziaria la bozza del decreto interministeriale Giustizia-Interno, ma inspiegabilmente quel decreto si è arenato in chissà quali meandri pur potendo costituire un importante tassello nell’ottica di una riforma organica del sistema penitenziario e giudiziario italiano. Si era previsto molto chiaramente come il ruolo della polizia penitenziaria negli Uffici per l’esecuzione penale esterna fosse quello di svolgere in via prioritaria rispetto alle altre forze di polizia la verifica del rispetto degli obblighi di presenza che sono imposti alle persone ammesse alle misure alternative della detenzione domiciliare e dell’affidamento in prova. Il controllo sulle pene eseguite all’esterno, oltre che qualificare il ruolo della polizia penitenziaria, potrà avere quale conseguenza il recupero di efficacia dei controlli sulle misure alternative alla detenzione, cui sarà opportuno ricorrere con maggiore frequenza per non rischiare di trovarci ad avere, nel 2011, 100 mila detenuti in strutture che al massimo ne possono ospitare 42mila".

"Efficienza delle misure esterne e garanzia della funzione di recupero fuori dal carcere - prosegue il leader del Sappe - potranno far sì che cresca la considerazione della pubblica opinione su queste misure, che nella considerazione pubblica, non vengono attualmente riconosciute come vere e proprie pene. Per questo motivo auspico che i ministri Maroni e Alfano riprendano in mano quello scheda di decreto interministeriale al più presto". Capece invita in particolare il ministro Guardasigilli a ripartire da questo progetto e a farsi portavoce di questa importante riforma strutturale penitenziaria presso la compagine governativa, in modo tale da prevedere lo stanziamento di adeguati fondi per il corpo di polizia penitenziaria che garantiscano in particolare nuove assunzioni. È infatti opportuno ricordare che gli organici della polizia penitenziaria sono carenti di ben cinquemila agenti".

Giustizia: Osapp; tra 2 anni avremo 85mila detenuti da gestire

 

Il Velino, 9 settembre 2009

 

"L’Italia si appresta entro i prossimi due anni a gestire, male, un sistema carcerario che conterà complessivamente più di 85 mila reclusi". Lo dichiara il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, che torna a lanciare l’ennesimo allarme per il sovraffollamento del sistema carcerario.

"Un certezza però esiste - insiste -: tra due anni avremo lo stesso ministro, lo stesso capo del Dipartimento e soprattutto gli stessi provveditori regionali direttamente coinvolti nelle responsabilità di una situazione che definire fallimentare può essere un insulto per chi lavora ogni giorno a stretto contatto con il recluso. Con gli attuali 64.120 detenuti in crescente aumento a settembre arriveremo facilmente a quota 65 mila, e tra due anni si sentirà la necessità, ancora, di un altro piano carceri: nel 2010 infatti avremo diecimila detenuti in più, nel 2012 saranno 40 mila i reclusi oltre l’attuale quota regolamentare delle 43 mila presenze".

"Consideriamo il piano Ionta la vera foglia di fico - sostiene Beneduci - che svincola le responsabilità ai più alti livelli, in un’amministrazione che non ha più i soldi per provvedere nemmeno alle traduzioni aeree (notizia di oggi) e che per adeguarsi alle nuove norme sul trattamento dei 41 bis impone agli agenti di origliare le conversazioni tra detenuti e riportare le notizie più importanti sul taccuino, perché mancano gli strumenti di registrazione. Un sistema che dimostra chiaramente di aver fatto acqua da tutte le parti, dove però ancora il problema del sovraffollamento viene considerato più una causa che una conseguenza della mala gestione dell’intero complesso, e non solo da adesso".

Giustizia: la "salvezza" delle carceri nel lavoro intra-murario?

di Chiara Rizzo

 

Tempi, 9 settembre 2009

 

64.052 detenuti. Contro una capienza regolamentare delle carceri di 43.262 posti, e una tollerabilità di 63.568 posti: sono gli ultimi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) al 4 settembre. Numeri che segnalano la situazione più grave dal 1946 ad oggi, con quasi la metà dei detenuti (30.491) ancora in attesa di giudizio, cioè presunti innocenti. Gli italiani sono 40.322, ben 23.730 invece sono stranieri.

Numeri che riferiscono di persone che hanno conti aperti con la giustizia o che scontano pene per sentenze già passate in giudicato. Tuttavia persone che affrontano una quotidianità che ha oltrepassato da un pezzo la soglia della dignità (in condizioni che rappresentano comunque un costo per la collettività: quest’estate la Corte europea dei diritti dell’uomo ci ha inflitto una multa proprio per il basso standard del circuito penitenziario).

A Poggioreale, Napoli, si fanno i turni per bagnare le lenzuola da appendere al soffitto per vincere l’afa. Alla Dozza, Bologna, si dorme stipati in quattro in celle da uno (ma la situazione è comune a tutta la penisola). A San Vittore, Milano, al sesto raggio ci sono quattro docce a disposizione per 132 detenuti, e si vive in sei persone in celle da 9 metri quadrati. Normale che sotto la cenere di un’apparente rassegnazione covi il fuoco della ribellione. Insomma, consuete cronache dall’inferno. Che passata l’estate e il ritorno del tritacarne politico rischiano come sempre di finire escluse dall’agenda parlamentare.

Quest’anno, però, qualcosa s’è mosso. Manca giusto quel passo di decisionismo bipartisan che trasformi l’emergenza carceraria in azioni concrete. Dunque? Il guardasigilli Angelino Alfano a fine agosto ha promesso che "non ci saranno nuovi indulti. Puntiamo alla realizzazione di nuove carceri, e sul lavoro in carcere per abbassare la recidiva". In questi giorni il governo dovrebbe annunciare le modalità operative del nuovo Piano per le carceri presentato a maggio. Che prevede la realizzazione di 48 nuovi padiglioni, la ristrutturazione di 2 istituti penitenziari e la costruzione ex novo di 24 case circondariali: 940 posti in più dovrebbero essere garantiti entro la fine dell’anno. Sono stati previsti iter più veloci per l’edilizia carceraria, e recuperate le prime risorse.

Tuttavia il problema della scarsità dei fondi rimane. E il capitolo degli accordi internazionali per consentire ai detenuti stranieri nelle carceri italiane di scontare le pene nei paesi di origine, dopo che fu aperto da una missione in Albania del sottosegretario agli interni Alfredo Mantovano, aspetta di essere ripreso e sviluppato. Le novità più significative sul fronte carcerario, restano le esperienze di recupero, una fioritura di esempi positivi nel campo del lavoro e della rieducazione.

Dalla pionieristica Cooperativa Giotto e dal Consorzio Rebus al Due Palazzi di Padova, con laboratori di assemblaggio per la valigeria (per l’azienda Roncato) e la gioielleria (per la Morellato), laboratori di cartoleria e per la creazione di manichini per l’alta moda; un call center che gestisce la prenotazione delle visite all’Asl di Padova e un’impresa di ristorazione specializzata nella pasticceria (un’eccellenza riconosciuta dall’Accademia Italiana della Cucina). Al caso dell’isola della Gorgona, dove i detenuti lavorano negli uliveti, nei vigneti, negli allevamenti, che assicurano il vitto in carcere e all’impianto di acquacoltura: si pescano 40 tonnellate di orate all’anno, vendute nei supermercati Coop di Livorno e Grosseto, con l’etichetta "Il fuggiasco".

 

L’appello di Treu al guardasigilli

 

Sulle proposte di Alfano, Guido Brambilla, Magistrato di sorveglianza a Milano, spiega a Tempi: "Cosa intende il ministro, quando dice che bisogna favorire il lavoro, se nel bilancio 2009 ci sono già stati tagli? Non si dimentichi che il pacchetto sicurezza, inoltre, ha comportato un aumento delle carcerazioni". Il magistrato indica una via possibile: "Ampliare il ricorso alle misure alternative, con l’affidamento del detenuto ai servizi sociali, formula che prevede comunque stretti controlli. Vanno estese a tutt’Italia iniziative come quella della Rebus di Padova. Il problema è che in genere questo tipo di iniziative si scontra da una parte con la diffidenza degli imprenditori a scommettere sul mondo del carcere, dall’altra con la burocratizzazione e una certa miopia dell’amministrazione penitenziaria, più preoccupata del mantenimento dell’ordine interno che del futuro del detenuto. Si offrono una serie di attività pregevoli, laboratori d’arte e di teatro, ma non si presta attenzione alle reali competenze richieste dal mercato del lavoro. È un peccato: perché è dimostrato che il lavoro stronca il tasso di recidiva".

Non tutti i detenuti che lo vorrebbero oggi possono lavorare. Né tutti quelli che potrebbero accettano questa "nuova vita". Per questo "non è nemmeno il lavoro in sé a redimere il detenuto", puntualizza Monica Calì, magistrato di sorveglianza a Novara. "La rinascita c’è se si dà l’occasione di incontrare qualcuno che aiuta a riprendere coscienza di sé". C’è anche la necessità di percorsi educativi. Ma parlando di pianeta carcere, sono tante le cose da considerare. Continua Calì: "La Finanziaria 2009 ha visto una riduzione della mercede, la paga ai detenuti, del 40 per cento.

E poi: se la metà dei detenuti è in attesa di giudizio, è segno che va rivisto a monte il processo penale, oggi troppo farraginoso, con un uso smodato della custodia cautelare". La revisione del processo penale è già tra le priorità di Alfano. Con la riapertura dei lavori in parlamento, un altro banco di prova delle intenzioni del guardasigilli è il disegno di legge dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà, che così illustra Tiziano Treu (Pd): "Per il momento i detenuti che lavorano con un contratto sono circa 1.500.

Il ddl vuole estendere l’esempio della Cooperativa Giotto di Padova (cioè assunzioni, stipendi e produzione per il mercato reale) alla metà della popolazione carceraria, perché è provato che il tasso di recidiva crolla. Per favorire l’investimento delle imprese su questo capitale umano proponiamo di abbattere i costi del lavoro e recuperare gli incentivi fiscali dal Fondo delle ammende, già esistente. Nel giro di tre anni queste esperienze di professionalità ripagherebbero l’investimento iniziale". Il nodo centrale sono i tempi di approvazione del ddl: "Non basta agire sulla repressione, occorre l’educazione per evitare la recidiva. Se il governo vuol andare al di là delle emozioni e risolvere il problema, lo dimostri. Mi appello ad Alfano, gli chiedo di sbloccare il ddl con finanziamenti, entro due o tre mesi".

Giustizia: la Cassa ammende non spende perché non fa bandi

di Antonello Cherchi

 

Il Sole 24 Ore, 9 settembre 2009

 

Nel 2008 sono stati finanziati 16 progetti, per un totale di poco più di 7 milioni di euro. Una media, dunque, di 450mila euro a piano. Poche iniziative e dai costi non certo astronomici. Eppure il "bacino di utenti" è ben rilevante; 64mila detenuti, il cui dovere è sì scontare la pena, ma anche aspirare a un programma di reinserimento. Invece, solo briciole. E quello che è ancora più strano è che i soldi ci sono, ma restano inutilizzati. A fine 2008 il bilancio segnava quasi 146 milioni di risorse da investire.

E non è storia di oggi. Da anni la cassa delle ammende, gestita dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, incassa ma non spende. Una storia controversa iniziata nel 1932, quando venne istituita, e che prosegue tutt’oggi, fra modifiche normative - l’ultima è del dicembre 2008 - e regolamenti per farla funzionare: ce n’è stato uno nel 2004, uno nel 2007 e adesso se ne attende uno nuovo, che è all’esame dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia.

La sostanza, però, non cambia: i soldi rimangono lì. I rivoli che ingrossano la cassa sono diversi: vi affluiscono, tra l’altro, le somme versate a seguito di sanzioni disciplinari o pecuniarie disposte dal giudice, i proventi ricavati dai manufatti realizzati dai detenuti, gli importi relativi alla vendita dei corpi di reato non reclamati da chi ne avrebbe diritto. Questo è ciò che costituisce il cosiddetto "fondo patrimonio", ma c’è anche un "fondo depositi" dove vengono versate le somme che costituiscono cauzioni ordinate dai magistrati per misure di prevenzione o di buona condotta e dove finiscono anche gli averi che chi esce dal carcere non reclama.

A leggere la relazione che la cassa ha presentato al Parlamento, relativa all’attività svolta nel 2008, si capisce subito il perché di questa propensione al risparmio: a fronte di 104 milioni di entrate, le spese sono state 92 milioni (ci sono, però, da considerare quasi 87 milioni di acquisto titoli, che vengono contabilizzati sia come entrate sia come spese in conto capitale). A fine 2008, dunque, sono rimasti in cassa 12 milioni, che hanno aumentato il "tesoretto" formatosi negli anni, portandolo a 146 milioni.

Soldi che fanno gola al ministero della Giustizia, in sofferenza di risorse, ma che vorrebbe utilizzarli per altri obiettivi: la realizzazione di nuove carceri. E la riforma della cassa varata nel 2008 ha avuto proprio questo scopo: inserire l’edilizia penitenziaria fra i progetti finanziabili con il denaro delle ammende.

"La farraginosità della normativa - spiega Ettore Ferrara, oggi presidente della corte di appello di Potenza, ma capo del Dap, e in quanto tale presidente della cassa quando Clemente Mastella era guardasigilli - di certo non aiuta. Ma c’è anche da considerare che i progetti presentati sono pochi. Il territorio non risponde. Io ho cercato di coinvolgere maggiormente i privati".

Difficoltà che ritorna anche nelle parole di Stefano Anastasia, di Antigone, associazione che si occupa dei diritti dei detenuti: "i progetti sono pochi - commenta - anche perché non se ne dà pubblicità. Che mi ricordi io, quando sono stato al ministero della Giustizia dal 2006 al 2008 come capo della segreteria del sottosegretario Luigi Manconi, che aveva la delega per gli affari penitenziari, non ho mai visto un bando sui progetti finanziati dalla cassa delle ammende".

Giustizia: coppia di disoccupati ruba 2 cetrioli, messi in carcere

 

Ristretti Orizzonti, 9 settembre 2009

 

Italiani, disoccupati - i cosiddetti nuovi poveri - rubano due zucchine e due cetrioli e finiscono in carcere. Lo denuncia il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, denunciando: "È questo inutile tipo di tolleranza zero a rendere invivibili le carceri. Prima di ogni altro provvedimento svuota celle è il caso di stabilire i reati che meritano realmente il carcere".

Il fatto - racconta Marroni - è avvenuto a Pontecorvo, in provincia di Frosinone, e ha come sfortunati protagonisti una coppia di cittadini italiani della zona, entrambi senza un lavoro fisso, i quali sono stati arrestati questa mattina dalle forze dell’ordine in flagranza di reato dopo il furto di due cetrioli e due zucchine da un orto e sono stati subito trasferiti in carcere in attesa di giudizio.

Ora la donna, 37 anni, impiegata saltuariamente con contratti a termine come portantina negli ospedali della zona, è stata trasportata nel carcere di Rebibbia femminile, mentre il compagno è stato trasferito nella Casa Circondariale di Cassino. "Dopo aver passato giorni interi a discutere sulle misure svuota carceri proposte dal guardasigilli Alfano, questo caso emblematico giunge a proposito per spiegare perché le carceri sono sovraffollate", ha detto il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, sottolineando: "Quella di Pontecorvo è una vicenda che se non fosse drammatica sarebbe ridicola e che dovrebbe essere di competenza dei Servizi Sociali del Comune, non di un carcere".

Lombardia: nelle carceri tutto esaurito, 3 mila detenuti in più

di Maria Sorbi

 

Il Giornale, 9 settembre 2009

 

Si è lasciato morire di fame per gridare la sua innocenza. Era dalla metà di luglio che Sami M.S., un tunisino di 42 anni, non toccava cibo. A ferirlo, più che la condanna a otto anni di carcere, erano state le accuse di violenza contro la sua famiglia. Il dolore lo ha portato a rifiutare cibo e acqua. Per solidarietà, i compagni del carcere Torre del Gallo hanno levato una protesta dalle celle, alla maniera dei detenuti: forchette e coltelli picchiati incessantemente contro le sbarre. "La situazione non è mai stata sottovalutata - spiega Luigi Pagano, provveditore agli istituti di pena lombardi - L’uomo era anche stato ricoverato in ospedale per tempo ma rifiutava gli aiuti".

Raramente, se non quando accadono tragedie del genere, dalle celle emergono le storie di vita quotidiana dei detenuti. Ma, stando ai dati, là dentro, in quei pochi metri quadrati, non se la passano granché bene. Basti pensare che le carceri lombarde potrebbero ospitare 5.506 detenuti (con un limite di tolleranza fino a 8.518 posti) ma ne contano 8.607. Tremila in più rispetto alla capienza regolamentare. Una sproporzione che peggiora le condizioni di vita in cella.

Le situazioni peggiori si registrano nelle carceri di San Vittore a Milano (1.300 detenuti a fronte di 800 posti), a Brescia (370 detenuti a fronte di 298 posti), a Varese (150 detenuti per cento posti), a Sondrio. "I detenuti - spiega Luigi Pagano - sono meno per l’indulto, ma il problema del sovraffollamento rimane. E ovviamente colpisce soprattutto le strutture più vecchie e in cui c’è meno spazio, come ad esempio Varese".

Negli istituti più grandi il numero dei carcerati è il doppio rispetto al numero delle celle, ma stare in due dietro alle sbarre forse è anche meglio che stare da soli. Il vero problema è quando a condividere tre metri quadri per quattro si è in più di due. E fuori non ci sono spazi adatti alla socializzazione. La Lombardia non è la sola ad avere a che fare con una piaga del genere: sono dodici le Regioni che hanno superato la capienza tollerabile. Tutte le altre hanno comunque superato la capienza regolamentare.

"Il problema - aggiunge Pagano, ex storico direttore del carcere di San Vittore a Milano - è sempre esistito. Non c’è una ricetta per risolverlo per sempre. Per di più abbiamo il problema degli stranieri, che rappresentano il 60 per cento dei detenuti". Le valvole di sfogo potrebbero essere due: l’ampliamento delle strutture penitenziarie, le ristrutturazioni e tutti i lavori necessari agli stabili per poter rendere più semplice la vita in cella. E strade alternative alla detenzione. Proprio su questo punto insiste Pagano: "La legislazioni lo prevede e sarebbe un bene. Ad esempio, sarebbe estremamente utile far partecipare i detenuti ai lavori per Expo 2015. Stiamo pensando a un piano organico e stiamo lavorando in questa direzione assieme a Don Rigoldi".

Friuli: Sidipe; la situazione è critica, 850 detenuti per 550 posti

 

Ansa, 9 settembre 2009

 

La situazione carceraria in Friuli Venezia Giulia è critica per il sovraffollamento, con 850 detenuti su 550 posti. Lo ha reso noto il segretario nazionale del Sindacato dei Direttori e Dirigenti Penitenziari (Sidipe), Enrico Sbriglia, direttore del carcere di Trieste, commentando le affermazioni del Sappe secondo cui 12 Regioni italiane sono fuori legge perché hanno superato la capienza tollerabile di persone detenute.

Pavia: detenuto muore di fame, per ribadire la sua innocenza

 

La Stampa, 9 settembre 2009

 

Un detenuto tunisino è deceduto tre giorni dopo il ricovero forzato. Aveva perso 21 chilogrammi, ma non intendeva riprendere l’alimentazione.

È morto di fame, lucidamente, per scelta, per protestare contro una condanna che riteneva ingiusta. Il detenuto Sami Mbarka Ben Gargi, 41enne di origine tunisina, è deceduto intorno alle 4 del 5 settembre scorso nel reparto di Chirurgia toracica del policlinico San Matteo di Pavia, dove era ricoverato da tre giorni su ordine del magistrato di sorveglianza, dopo uno sciopero della fame e della sete che andava avanti da oltre un mese e mezzo e che l’aveva ridotto a un fantasma.

Un protesta estrema iniziata da Ben Gargi il 16 luglio scorso, dopo che la prima sezione della Corte d’appello di Milano aveva deciso la misura cautelare per una condanna per violenza sessuale, in vista della sua uscita dalla Casa circondariale di Pavia dopo aver scontato poco più di tre anni e mezzo per associazione a delinquere finalizzata al traffico e allo spaccio di stupefacenti. A denunciarlo per stupro era stata la sua ex convivente, una donna di origine marocchina con cui aveva vissuto 13 anni, in buona parte passati insieme a Milano. Un’accusa che Ben Gargi riteneva falsa e "infamante", inconcepibile, ma che i giudici avevano ritenuto credibile, fino a che in Appello, il 7 luglio scorso alla Procura di Milano, l’uomo era stato condannato a 8 anni e 5 mesi a piede libero. Nove giorni dopo, valutando il rischio del periodo di fuga in previsione di un’imminente scarcerazione per fine pena, la Corte d’Appello di Milano aveva disposto il carcere accogliendo la richiesta del procuratore generale.

Per Ben Gargi è un colpo durissimo: non uscirà dal carcere di Torre del Gallo da lì a qualche mese come si aspettava, non vedrà i tre figli piccoli avuti dalla sua compagna italiana con la quale aveva in programma di sposarsi e dovrà scontare una pena per un reato "bestiale" che lui ritiene di non aver commesso. È troppo, e l’uomo decide di inscenare una protesta clamorosa e inizia a non accettare più i pasti e di smettere di bere, e più passa il tempo e più l’avvocato, le guardie, i sanitari, il direttore del carcere e la fidanzata gli chiedono di interrompere quella protesta che potrebbe rivelarsi suicida, e più in lui cresce la determinazione di non mollare e di gridare la sua rabbia. Settimana dopo settimana le condizioni di salute del detenuto continuano a peggiorare, ma lui non molla, anzi decide di non accettare più le visite dell’avvocato che lo segue da anni e della convivente, la madre di quei figli da cui lui "non riesce a vivere lontano" come continua a ripetere ai suoi compagni di reclusione, insieme alla minaccia "o muoio così o mi do fuoco".

Il 5 agosto l’avvocato chiede la remissione in libertà del suo assistito per l’incompatibilità tra lo stato di salute e quello di detenzione alla Corte d’Appello, la quale dispone una relazione alla direzione sanitaria del carcere a seguito della quale avrebbe preso la sua decisione. La risposta arriva il 25 agosto con un rapporto dei sanitari dell’istituto di pena che, ricordando un infarto al miocardio pregresso al suo ingresso in carcere (e per il quale è stato visitato da uno specialista all’arrivo nel penitenziario) e un idrocele destro con varicocele bilaterale emerso da un’ecografia compiuta il 27 giugno, suggeriscono il trasferimento del detenuto in una struttura detentiva con un centro diagnostico terapeutico o un ricovero nosocomiale di fronte al precipitare delle condizioni di salute a oltre un mese "dall’astensione volontaria da cibi solidi e da liquidi".

Ricordando le due visite cardiologiche e le quotidiane visite mediche di controllo a cui è stato sottoposto il detenuto, i sanitari del carcere di Pavia aggiungono che da una decina di giorni Ben Gargi, che ha perso 21 chili arrivando a pesarne 62, è cosciente e rifiuta qualsiasi cura, è stato trasferito "in modo coattivo" presso l’infermeria. Non solo, i medici sottolineano che l’uomo, che versa in "condizioni oltremodo precarie e deambula cercando sostegno, conserva la capacità di agire e autodeterminarsi ed è conscio dei rischi a cui va incontro e rifiuta categoricamente la terapia" che gli viene proposta, condizioni queste che "al momento non permettono" di procedere con il trattamento sanitario obbligatorio (Tso).

Preso atto della relazione sanitaria, il procuratore generale della Corte d’appello di Milano, nel suo parere, respinge però l’istanza di remissione in libertà, rigettata poi il 4 settembre dalla Corte d’appello. Il 41enne rimane così in carcere, peggiorando a vista d’occhio ma determinato a continuare nella sua estrema protesta, rifiutando qualsiasi cura. Una situazione che a fine agosto precipita, fino a quando il 2 settembre il magistrato di sorveglianza decide il ricovero in ospedale: ma ormai le condizioni di salute del detenuto, presumibilmente ormai incosciente, sono tali da non permettere più di salvarlo.

"È un uomo che ha sempre mantenuto la sua lucidità, l’ostinata voglia di morire e a cui la struttura che dirigo ha fatto tutti gli interventi sanitari possibili" afferma la direttrice del carcere Iolanda Vitale, che spiega come il detenuto il 31 agosto abbia rifiutato il trasporto in ospedale dove era prevista una visita urgente richiesta dai sanitari del penitenziario.

"Il 1 settembre finalmente Ben Gargi ha accettato la visita in ospedale finalizzata ad ottenere una richiesta di Tso dal servizio psichiatrico, che però non l’ha ritenuto necessario" continua la Vitale, ricordando che a questo punto, "il dirigente sanitario del carcere ha richiesto l’intervento del magistrato di sorveglianza che ha imposto il ricovero ospedaliero per il giorno seguente". Sarà ora l’autopsia a chiarire esattamente le cause del decesso, ma è evidente che qualsiasi complicanza abbia determinato la morte è da collegare all’estrema protesta messa in atto per oltre un mese e mezzo dal detenuto, originario di Zaghouan, che il 4 dicembre prossimo avrebbero compiuto 42 anni. Appena saputa la notizia, i detenuti del penitenziario hanno manifestato la loro solidarietà al compagno deceduto, sbattendo le stoviglie contro la sbarre.

La casa circondariale di Pavia registra, come la stragrande maggioranza delle carceri italiane, una situazione di affollamento, è caratterizzato da una maggioranza di detenuti comuni e da un intenso turn-over. "Questa mattina la capienza è di 436 unità - spiega la Vitale - siamo pieni ma ognuno ha il suo posto: c’è una situazione di disagio, ma non raggiunge la gravità che si registra in altre strutture".

 

Onida: per la legge era impossibile costringerlo a nutrirsi

 

Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, da anni svolge volontariato nelle carceri. Com’è possibile che un detenuto possa morire di fame in prigione senza che nessuno lo impedisca?

"Purtroppo il fenomeno dello sciopero della fame è abbastanza diffuso nelle carceri italiane. Un discorso è quello delle ragioni del detenuto, l’altro è di come ci si deve comportare di fronte a chi sceglie questa forma estrema di protesta. Infine, bisogna rilevare che rientra nelle libertà della persona non essere oggetto di alimentazione coattiva".

 

Quindi teoricamente non c’è alcuna possibilità d’intervento?

"Normalmente gli scioperi si riescono a interrompere ma se il detenuto resta lucido fino all’ultimo, nessuno può obbligarlo".

 

Quindi nessun responsabile?

"È evidente che la custodia del detenuto e quindi la sua vita sono nella responsabilità dell’Amministrazione penitenziaria che però non può che fermarsi davanti alla libertà individuale del detenuto. Il discorso, si capisce bene, è ben più ampio e coinvolge l’intero sistema carcerario".

Teramo: detenuto 32 enne si suicida; si proclamava innocente

 

Il Messaggero, 9 settembre 2009

 

Tragedia nel carcere di Teramo. Si è tolto la vita, nel pomeriggio di ieri, Cole Abib, 32 anni, detenuto di origine senegalese accusato di avere usato violenza, a Pescara, nei confronti di una disabile. Accanto al suo corpo sono stati rinvenuti, oltre a dei biglietti di addio, una bomboletta di gas utilizzata dai detenuti per accendere i fornelli e una busta di plastica, usata probabilmente per il soffocamento. L’uomo - sposato e padre di un bambino - era stato arrestato il 3 marzo scorso dai Carabinieri di Pescara per violenza sessuale su una diciottenne affetta da ritardo mentale. Lui però si proclamava innocente. A maggio era evaso mentre si trovava al pronto soccorso, ma dopo quattro giorni di fuga si è costituito ai Carabinieri di Giulianova.

La notizia del suicidio di Abib, che viveva con la moglie a Giulianova, ha colto tutti di sorpresa. Non c’era nulla che facesse presagire, secondo quanto è stato possibile apprendere, un simile gesto. Appena ventiquattro ore prima del rinvenimento del cadavere l’uomo aveva ricevuto la visita in carcere di un sindacalista teramano, e si era mostrato calmo e pienamente in possesso delle sue facoltà, tutt’altro che sull’orlo della disperazione come il gesto da lui messo in atto farebbe invece ritenere. Il suo corpo è stato rinvenuto dal personale di sorveglianza dell’istituto carcerario: non c’era più nulla da fare.

Castrogno torna dunque alla ribalta dopo le proteste di qualche giorno fa, proteste dei detenuti nei confronti delle guardie carcerarie e scatenate probabilmente dalle difficili condizioni di vivibilità nell’istituto di pena teramano, un impianto che dovrebbe contenere non più di duecento detenuti e che invece ne accoglie più di quattrocento, oltre il doppio della capienza prevista.

Cagliari: detenuto in sciopero di fame da luglio, rischia la vita

 

www.reset-italia.net, 9 settembre 2009

 

Ha 31 anni ed è detenuto nel carcere di Buoncammino a Cagliari. Respinge le accuse per le quali è in attesa di giudizio da un anno e quattro mesi. Nel luglio scorso ha deciso di "gridare" la sua innocenza attraverso uno sciopero della fame. Dal 17 agosto rifiuta anche liquidi e acqua.

La consigliera regionale Maria Grazia Caligaris, componente della Commissione Diritti Civili, è andata trovarlo per chiedergli di interrompere la protesta e dopo aver constatato le sue condizioni fisiche ("ha perso 11 chili e non si regge sulle gambe") e psichiche, ha lanciato l’allarme: "È indispensabile che i giudici, in casi come questo, individuino soluzioni alternative al carcere in attesa che il processo accerti le reali responsabilità del detenuto. Restano ora incontrovertibili i rischi per la vita che richiedono immediati provvedimenti".

Dopo la recente morte di un detenuto che conduceva uno sciopero della fame da due mesi in un carcere abruzzese, ci auguriamo che, stavolta, prevalga la solidarietà e il buon senso per evitare che un’altra vita si spenga nel silenzio e nell’indifferenza.

Bologna: doppi turni e stress, in malattia un terzo degli agenti

di Francesco Mura

 

Il Bologna, 9 settembre 2009

 

Che il sistema penitenziario fosse ormai in caduta libera lo sapevano persino i sassi Le continue aggressioni agli agenti" il sovraffollamento e la carenza degli organici ridotti ormai al lumicino sono il sigillo del tracollo. Che si consuma lentamente sotto gli occhi di tutti creando, l’avrebbe capito anche un neonato, malcontento e disagio. Si è giocato duro ma alla fine l’infermeria si è riempita. Un gioco al massacro che ha sconfitto persino la linea dura dei ministro Brunetta. Già. Perché nel carcere della Dozza, uno dei più malandati di tutto il paese, gli agenti in malattia sono (udite udite) più della metà di quelli regolarmente servizio: 65 malati contro il centinaio di

quelli presente nelle sezioni. Quasi un terzo se si aggiungono quelli della Squadra traduzioni. Numeri inquietanti che parlano da soli. "Il numero degli agenti in malattia è molto alto ma - puntualizza, subito, Domenico Maldarizzi, del Coordinamento regionale della Uil Pa - Penitenziari - non si tratta di assenteismo o disinteresse dei lavoratori ma rispecchia il disagio e il malessere diffuso".

Un malessere dettato dalle condizioni di lavoro terzomondiste, che vede giornalmente gli orari allungati di quattro a volte cinque ore per sopperire alle carenze del personale, che hanno aperto una pericolosissima falla nel cuore dell’Amministrazione carceraria. "Non voglio commentare la malattia dei colleghi in quanto la malattia è insindacabile - fa sapere Vito Serra, segretario regionale del Sappe - posso solamente dire che la situazione è drammatica e che comunque tanti agenti in malattia è un brutto segno perché significa che sono sfiniti. Non ce la fanno più ad andare aranti".

Un po’ come dire che la paralisi, salvo provvedimenti immediati, è dietro l’angolo. "Alla Dozza ci sono 350 agenti, con una carenza quindi di almeno 200 unità - continua Maldarizzi - di questi una cinquantina sono nel nucleo traduzioni mentre una cinquantina in servizio ai Prap. In servizio nelle sezioni ne rimangono alla fine circa 250. Se si tolgono gli agenti in permesso. a riposi e soprattutto quelli in malattia".

Già. Se si escludono quelli in malattia si arriva a malapena il numero degli agenti in servizio dentro la Dozza si riducono a circa 100-110 unità. Che devono fare fronte a circa 1.200 detenuti. "In bracci con 400 detenuti - continua Serra -

ci sono tre al massimo quattro agenti durante le ore diurne e due la notte. Un grosso rischio per l’incolumità dei colleghi". C’è solo una strada da percorrere: una riforma strutturale del sistema carcere. "Il Governo - conclude Serra - si deve attivare con una riforma seria e veloce". Magari prima che sia troppo tardi.

Modena: al Sant’Anna quasi il 10% dei detenuti della Regione

 

La Gazzetta di Modena, 9 settembre 2009

 

Quasi il 10 per cento della popolazione carceraria dell’Emilia-Romagna, è detenuta nella struttura modenese di S. Anna, che ormai sta "esplodendo". Dopo gli allarmi lanciati dalla delegazione di esponenti politici e dei radicali che lo scorso ferragosto hanno visitato le strutture detentive modenesi (oltre al carcere, le case di lavoro di Saliceta S. Giuliano e Castelfranco), ora l’allarme "sovraffollamento" (anche 6 detenuti in una cella di 20 metri quadri), è confermato dai dati statistici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria degli istituti penitenziari italiani. Questi dati spiegano come siano 12 le regioni che hanno superato la capienza tollerabile e tra queste l’Emilia-Romagna con 4.652 detenuti.

Di questi ben 528 si trovano nella struttura di via S. Anna. In regione il carcere modenese è secondo solo a quello del capoluogo. Il dato è tanto più preoccupante quando si pensa al limite di tollerabilità massima di S. Anna: 404 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 222 detenuti. Il sovraffollamento ha raggiunto cifre record anche nelle due strutture di Saliceta e Castelfranco. A preoccupare di più è la struttura di via Panni dove a fronte di una capienza di 68 posti con una tolleranza che può al massimo raggiungere le 91 unità, attualmente conta 112 persone internate.

Ma i dati negativi per quanto riguarda Modena non riguardano solo "chi sta dentro", ma anche chi deve sorvegliare. Se la pianta organica della casa di lavoro prevede, infatti, la presenza a turno di 49 agenti di polizia penitenziaria, attualmente ne può contare in servizio solo 37, S. Anna non è da meno. Sui 167 agenti assegnati, ne sono in servizio 147 a fronte di un organico di 226, un numero che deve essere rapportato alla massima tolleranza del carcere e non all’attuale super-presenza. "È il numero più alto di detenuti presenti nelle carceri italiane nella storia della Repubblica", afferma il segretario del Sappe (il sindacato degli agenti penitenziari), Donato Capece, riferendosi non solo alle strutture modenesi.

Venezia: perché l’Istituto a "Custodia attenuata" non riapre?

 

La Nuova di Venezia, 9 settembre 2009

 

Il ministro della Giustizia Angelino Alfano "intende attivarsi per la messa a norma e la riapertura dell’istituto a custodia attenuata della Giudecca"? A chiederlo sono i due senatori radicali Marco Perduca e Donatella Poretti dopo che l’Associazione Veneto Radicale ha organizzato la visita di Ferragosto in molte carceri italiane, tra cui Santa Maria Maggiore dove sono state raccolte le richieste dei detenuti e degli agenti della Polizia penitenziaria.

Anche perché la custodia attenuata della Giudecca potrebbe ospitare 120 detenuti, una bella valvola di sfogo per Santa Maria Maggiore, dove ormai nelle celle sono stipati in 300-330, quando il carcere veneziano potrebbe ospitarne la metà. "L’istituto della Giudecca - si legge nella interrogazione presentata dai due esponenti radicali - chiuso dal 2008, si disse temporaneamente, causa il non rispetto delle norme dei locali cucina.

Un istituto, se riaperto, potrebbe consentire di alleggerire l’esplosiva situazione del carcere maschile veneziano e di realizzare quei percorsi di rieducazione e reinserimento evocati a parole, ma che nei fatti in questi anni sono stati sempre meno praticati". "Vale la pena di ricordare - conclude sul punto il documento - che a Venezia esiste un’importante realtà di cooperative sociali in grado di realizzare attività lavorative di rilievo all’interno dell’istituto, al pari di quanto già avviene con successo nel carcere femminile". Infine, i due senatori chiedono al ministro Alfano di sapere entro quando saranno conclusi i lavori di ristrutturazione in corso al terzo piano di Santa Maria Maggiore.

Volterra: riprendono "Cene galeotte" detenuti diventano chef

di Matteo Francini

 

www.ilreporter.it, 9 settembre 2009

 

Dal 18 settembre al 23 aprile prossimi, per una sera al mese, il carcere di Volterra aprirà nuovamente le porte al pubblico e i suoi detenuti vestiranno gli insoliti panni di chef, maitre e camerieri. Tornano infatti le Cene Galeotte, appuntamento in cui vengono unite solidarietà ed enogastronomia. Ecco il programma dell’iniziativa.

Al carcere di Volterra tornano le "Cene galeotte". Saranno circa trenta i detenuti impegnati nell’organizzazione delle otto cene, che non avranno nulla da invidiare ai ristoranti più blasonati. Una volta superate le porte del carcere, ricavato in una splendida fortezza medicea, i detenuti accoglieranno gli ospiti con un aperitivo consumato all’interno del cortile. La cena sarà invece servita nella cappella sconsacrata del carcere per l’occasione trasformata in una sala da pranzo con tanto di candele, tavole impeccabilmente apparecchiate, camerieri/carcerati sempre attenti e disponibili, sommelier e vini importanti (a cura della Fisar di Volterra).

Promossa da Unicoop Firenze, che come ogni anno fornirà le materie prime e assumerà i detenuti retribuendoli regolarmente, in collaborazione con il Ministero di Grazia e Giustizia, Fisar, Slow Food e la direzione della Casa di reclusione di Volterra, l’iniziativa prevede il coinvolgimento di chef di fama. Le otto cene in calendario saranno infatti sempre preparate e servite dai carcerati, ma in cucina i detenuti potranno contare sull’esperienza e la maestria di un rinomato chef individuato dall’enogastronomo Leonardo Romanelli in collaborazione con lo Studio Umami.

Un appuntamento unico che, nella scorsa edizione, ha permesso a circa ottocento persone di vivere un’esperienza emozionante e formativa come quella di entrare in un carcere e avvicinarsi ai detenuti. Il ricavato sarà integralmente devoluto alla campagna internazionale "Il Cuore si scioglie", che dal 2000 vede impegnata Unicoop Firenze, insieme al mondo del volontariato laico e cattolico. Come accaduto per gli oltre 25.000 euro della passata stagione, il denaro raccolto sarà impiegato in progetti di solidarietà per realizzare scuole e centri di accoglienza, per garantire cure mediche, per creare opportunità di lavoro e per promuovere l’adozione e l’affidamento a distanza dei bambini in otto paesi del Sud del mondo: Brasile, Burkina Faso, Camerun, Filippine, India, Libano, Palestina e Perù.

Non solo. Non bisogna dimenticare infatti che le Cene Galeotte sono un momento importante per molti carcerati, che, grazie anche all’esperienza formativa in cucina con gli chef e in sala con la Fisar di Volterra, sono riusciti ad acquisire un bagaglio lavorativo che in ben otto casi si è tradotto in un vero impiego in ristoranti locali, secondo l’art. 21 che regolamenta il lavoro al di fuori del carcere.

Cinema: docu-fiction di Abel Ferrara con le detenute di Napoli

di Massimo Tria

 

www.nonsolocinema.com, 9 settembre 2009

 

Il regista italo-americano entra in un istituto penitenziario napoletano e si interroga sulle cause profonde del male che attanaglia la città partenopea. Perché "bisogna" delinquere, perché la società sana non risponde e non si ribella? Alle interviste ai detenuti si alternano colloqui rivelatori con alcuni operatori culturali dei quartieri più malfamati, nonché una sorta di simbolica linea fictionale che attraversa tutto il documentario, quella della disgraziata famiglia di Lucia e della punizione di un "infame".

Che Ferrara sia attratto dal male, dal marcio dell’animo umano e dalle deviazioni delinquenziali in tutte le loro possibili declinazioni non è certo cosa ignota a chi ne segue da tempo la succosa carriera. Interessante è invece questo suo tentativo di raffreddare con il genere dell’inchiesta documentaria la materia incandescente e spesso diabolica dei suoi film di gangsters e villain maledetti: qui il buon Abel purtroppo non deve inventare nulla, in quanto il vivo materiale di vari piccoli e grandi orrori quotidiani glielo offre purtroppo quel coacervo di grazia e maledizione, musica e stridore di denti che è la metropoli alla falde del Vesuvio. Sulla base di un progetto locale (vari gli interventi di artisti e protagonisti napoletani, che guidano sapientemente l’italo-americano anche nello script) il regista tracagnotto e apparentemente un po’ spaesato presta la sua visione e il suo volto a questa indagine senza peli sulla lingua, che si potrebbe definire una sorta di riflessione post-Gomorra, in quanto cita nei dialoghi ed usa un attore (Salvatore Ruocco) dell’epocale film di Garrone.

Ferrara inframmezza le interviste alle detenute (le ospiti del carcere di Pozzuoli) con alcuni estratti di repertorio degli anni Sessanta, che testimoniano abbastanza tristemente come il boom economico che all’epoca risollevò buona parte d’Italia non sia invece riuscito a riscattare una terra che fin dalla fine del conflitto mondiale è subito divenuta feudo di mafiosi locali e americani (ricordate Lucky Luciano?) e di amministratori per lo meno incapaci, se non proprio conniventi (ricordate Le mani sulla città?).

C’è poco da fare, Francesco Rosi ci aveva già detto tutto con questi suoi due film succitati (ma anche con altri): Napoli è come segnata, sembra impossibilitata a rialzarsi, si auto-costringe quasi fatalisticamente a una pseudo-vita fatta di sopraffazione e disperazione. Vi si costringono anzi (e sembrano dimostrarlo queste interviste) gli stessi disillusi e demotivati abitanti di Scampia, dei Quartieri Spagnoli, ma anche delle zone bene di Napoli, che arrivano in uno dei colloqui più disperanti a pronunciare una sorta di maledizione sulla città tutta, una sorta di damnatio memoriae pregressa: "Non voglio che i miei figli crescano qui. Napoli non è un buon posto per vivere".

Ferrara e i suoi validi collaboratori partenopei (ai quali certamente si deve buona parte del merito per il lavoro di scelta documentale e di ricerca sul campo) non fanno sconti: se volete vedere il primo film (forse il secondo, dopo Gomorra…) in cui la città di Maradona e Totò non ricorda neanche per un attimo pizza e mandolino e fa quasi venire da piangere, andate a cercarvi questo documento amarissimo, se mai sarà distribuito.

Ci voleva forse il talento disperato di chi ha l’abitudine a trattare i demoni metropolitani per dire una sorta di parola definitiva sulle effettive speranze di riscossa di un tessuto incancrenito e di un metabolismo viziato le cui cause sono così macroscopiche che è fin troppo facile elencarle: non che Ferrara sia un sociologo di professione, ma le voci che i suoi colleghi locali riescono ad inanellare nei vari, "veraci" e dolorosi incontri fra vicoli maleodoranti e celle sovraffollate ci sputano addosso con pragmatismo disarmante le colpe degli amministratori locali, dello Stato assente, ma (forse questa una novità) anche tutte le responsabilità dei napoletani, quasi "etnologicamente" insofferenti e adagiati nei loro vizi generazionali.

Come dichiarato espressamente già nel press-book, questo inaspettato e a suo modo diabolico lavoro dell’autore de Il cattivo tenente risulta un ibrido: la parte più sostanziosa è composta dalle brevi, a tratti imbarazzate risposte delle detenute, altra parte dalle più sociologiche e seriose repliche di assessori, operatori e intellettuali partenopei (che anch’essi non ci fanno sempre una gran bella figura), mentre in misura minore e meno convincente agisce poi la frastagliata linea narrativa cui prestano i propri volti attori professionisti come Beppe Lanzetta o Luca Lionello.

È proprio questo esile filo rosso narrativo a poter essere senza tema di smentite attribuito alla mente di Ferrara, ma è anche quello che risulta meno amalgamato e quasi estraneo alla tragicità naturale e senza fronzoli di una città che sembra essere condannata da questa docu-fiction (senza compiacimento, ma anche senza ipocrisie) a una lenta e inarrestabile autodistruzione. Di una cosa si può star certi: questo film non verrà adottato come materiale pubblicitario dal mercato turistico della Regione Campania e non piacerà moltissimo a chi ha sbandierato ai quattro venti fittizi interventi cosmetici anti-monnezza.

Immigrazione: Sant’Egidio; un Registro su episodi di razzismo

 

www.unimondo.org, 9 settembre 2009

 

Un registro europeo sugli episodi di razzismo: lo ha chiesto la Comunità di Sant’Egidio nel corso del Meeting internazionale interreligioso di Cracovia. La proposta è nata all’interno del workshop sul "Convivere in un mondo al plurale" dove sono emersi i dati sui 65.736 incidenti e delitti di matrice razzista nella sola Gran Bretagna nel 2007.

"È emerso che in alcuni paesi dell’Europa a 27 non viene tenuta nota degli episodi di razzismo, tra cui Italia, Malta, Grecia, Portogallo e Spagna" - ha spiegato il portavoce Mario Marazziti. "È la variante tribale europea" - ha denunciato Marazziti. "Mentre per fortuna esistono consolidati gli anticorpi culturali per riconoscere il rischio di antisemitismo rinascente, non esistono ancora gli anticorpi di fronte all’antigitanismo e al razzismo, mentre crescono le spinte contro l’immigrazione e il richiamo a purificazioni linguistiche e a omogeneità impossibili nella vita delle città europee".

La proposta è stata accolta "con grande interesse" dall’Unar, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali. "Un fascicolo a livello europeo degli episodi di discriminazione, andrebbe ad implementare le attività antidiscriminazione già operative nel nostro Paese. Non posso che condividerne il progetto" - ha commentato Massimiliano Monnanni, direttore generale dell’Unar.

Nel suo intervento alla tavola rotonda Mario Marazziti ha sottolineato con preoccupazione che "per la prima volta al Parlamento europeo sono saliti oltre cento deputati che provengono da formazioni politiche che predicano la "purezza" nazionale, e che raccolgono consensi quando utilizzano parole d’ordine che tendono a descrivere l’altro, per dialetto, lingua, origine, immigrato o nato accanto, come un potenziale nemico". Ma - ha proseguito il portavoce di Sant’Egidio - "la sicurezza si crea producendo contiguità, intreccio, amicizia, conoscenza. Non è raggiungibile con tutte le telecamere del mondo, se non c’è vita, comunicazione e la rappresentazione dell’altro è quella del nemico, se una società spaventata non investe in scuola e in educazione ma in carceri".

Il portavoce della Comunità di Sant’Egidio nella conferenza stampa ha anche offerto i dati della trasformazione già in atto nelle società europee: "Un berlinese su sette non ha passaporto tedesco, 473mila persone. A Francoforte uno su quattro: il 24,3% della popolazione, 164mila persone. A Londra il 27% della popolazione è nata fuori dal Regno Unito, il 22% sono extracomunitari. A Barcellona il 22,7%. A Roma uno su 10, il 14,5 % a Milano. Il pluralismo è un fatto. La sfida è l’integrazione sociale. Trattare come nemici queste persone è autolesionismo e favorisce l’insicurezza" - ha concluso Marazziti.

Aprendo il XXIII Meeting "Religioni e culture in dialogo" dal titolo "Lo spirito di Assisi a Cracovia" organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio e dall’Arcidiocesi di Cracovia a 70 anni dall’inizio della II Guerra mondiale, il Presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, cardinale Walter Kasper ha ribadito che "la pace tra i popoli deve cominciare dalla pace tra le religioni". "Non siamo che all’inizio di un cammino volto a sradicare antiche incomprensioni, profonda sfiducia e pregiudizi ingiusti" - ha affermato Kasper. "Agli scettici e ai nemici del dialogo rispondiamo che la Chiesa cattolica si è definitivamente impegnata su questo cammino".

Nel tavola rotonda sul tema del conflitto a 70 anni dalla II Guerra mondiale, il cardinale Roger Etchegaray ha affermato che "la guerra non è un destino né una fatalità e il lottare contro la guerra è un atto di coraggio". Cornelio Sommaruga, già presidente della Croce Rossa Internazionale, ha sottolineato che dobbiamo mettere in atto "una globalizzazione della prevenzione dei conflitti". "In questo contesto - ha affermato Sommaruga - dobbiamo pensare che la sicurezza umana passa per la lotta contro l’estrema povertà di una parte dell’umanità che non è solo una tragedia ma uno scandalo; la salvaguardia dell’ambiente, in un momento in cui ci accorgiamo degli importanti cambiamenti climatici; il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale e umanitario che deve tornare ad essere una priorità per i governi e per i capi degli eserciti non statali mentre molta più attenzione dev’essere data alla gender issue". Yoshitaka Hatakeyama, Sottosegretario generale della Conferenza Mondiale delle Religioni per la Pace (WRPC) ha richiamato l’importanza dell’eliminazione delle armi nucleari.

Il meeting internazionale si è concluso ieri al campo di concentramento nazista Auschwitz-Birkenau dove i partecipanti provenienti da numerosi paesi del mondo con una cerimonia hanno ricordato le vittime del nazismo e hanno marciato in silenzio lungo i binari della morte sui quali nei carri bestiame viaggiavano le vittime di forni crematori.

Nell’appello finale il Meeting internazionale ha sottolineato che "le religioni non vogliono la guerra e non vogliono essere usate per la guerra. Parlare di guerra in nome di Dio è una bestemmia. Nessuna guerra è mai santa. L’umanità viene sempre sconfitta dalla violenza e dal terrore".

Immigrazione: a Ponte Galeria, manca personale Croce rossa

 

Il Manifesto, 9 settembre 2009

 

"Abbiamo riscontrato un solo caso di maltrattamenti, nei confronti di un cittadino tunisino, Toujani Hanihem di 25 anni. Per il resto i principali problemi riscontrati riguardano la carenza di personale e l’allungamento dei tempi di reclusione".

Lo dichiarano Elisabetta Zamparutti, deputata radicale e Massimiliano Iervolino, responsabile per i diritti umani della Provincia di Roma che ieri mattina hanno visitato il Centro di identificazione e espulsione di Roma, Ponte Galeria. Toujani Hanihem, l’uomo che ha raccontato di essere stato maltrattato, sarebbe stato picchiato dalla polizia dopo aver cercato di arrampicarsi sulle inferriate. Nel Cie sono attualmente presenti 272 persone trattenute, 128 donne e 144.

"L’aspetto critico proseguono - è quello relativo all’organico degli operatori della Croce Rossa. Il Cie, nonostante il nuovo direttore abbia un atteggiamento molto comprensivo nei confronti delle persone trattenute, vive una situazione di sofferenza propria di una struttura nata per far fronte a restrizione della libertà personale di 2 mesi e che ora si è prolungata a 6 mesi. Un prolungamento che rappresenta per molti dei trattenuti una vera e propria tortura.

Usa: la California fa ricorso contro liberazione 46mila detenuti

 

Ansa, 9 settembre 2009

 

Allerta in California per l’imminente rilascio di 46mila detenuti ordinato da un tribunale federale a causa delle celle troppo affollate. Le autorità locali hanno fatto ricorso alla Corte Suprema contro la decisione di liberare i carcerati. All’appello formale per fermare l’iniziativa ha partecipato anche il governatore Schwarzenegger. Nel ricorso si afferma che la liberazione dei prigionieri rappresenterebbe un pericolo per la popolazione.

Nello specifico le autorità californiane hanno preannunciano una richiesta di annullamento della misura e nel frattempo hanno chiesto il congelamento dell’iniziativa decisa ad agosto. Il rilascio dovrebbe cominciare il 18 settembre e, secondo i piani, dovrebbe completarsi in due anni.

La decisione del tribunale federale era stata la risposta alla denuncia di due prigionieri secondo i quali il sovraffollamento delle carceri statali rendeva incostituzionale la loro detenzione. Il verdetto prevede il rilascio di 46 mila detenuti pari al 25% dell’attuale popolazione che vive dietro le sbarre.

Brasile: Battisti; oggi la Corte Suprema decide sull’estradizione

 

Asca, 9 settembre 2009

 

La Corte suprema del Brasile si pronuncerà oggi sulla richiesta italiana di estradizione dell’ex brigatista rosso Cesare Battisti. A renderlo noto il quotidiano O Globo che definisce la decisione del Supremo Tribunal Federal (Stf) "una delle più complesse della sua storia" a causa delle evidenti implicazioni diplomatiche tra i due Paesi.

A gennaio, il ministro della Giustizia brasiliano, Tarso Genro, ha concesso l’asilo politico a Battisti, accusato di quattro omicidi in Italia alla fine degli anni 70 quando era membro dei "Proletari armati per il comunismo" ed attualmente detenuto in un carcere di Brasilia.

Battisti, che ha sempre negato di aver commesso degli omicidi, si è più volte detto fiducioso riguardo la decisione della massima autorità giudiziaria brasiliana. Il governo italiano, che ha chiesto alla Corte Suprema di annullare la decisione di Genro, contesta la concessione dello status di rifugiato politico. Scappato negli anni Ottanta in Francia, dove è diventato un autore di romanzi gialli, Battisti si è rifugiato nel 2004 in Brasile per evitare l’estradizione. È stato arrestato nel 2007 a Rio de Janeiro.

 

 

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