Rassegna stampa 26 settembre

 

Giustizia: "libertà di stampa", perché la verità non diventi lusso

di Luigi Ferrarella

 

Corriere della Sera, 26 settembre 2009

 

I giornalisti che avvertono sempre maggiori ostacoli all’esercizio della libertà di stampa vengono bruscamente liquidati come diffamatori piagnucolanti, che prima devastano le vite altrui e poi pretendono immunità per non ripagare i danni alla reputazione delle persone e aziende che li querelano (nel penale) o chiedono ingenti risarcimenti (nel civile).

Non è un caso. Sia perché per alcuni "cantori" della libertà di stampa è davvero così. Sia - soprattutto - perché è il prezzo, salato, che l’intera categoria paga per aver lasciato che dilagasse il contagio di prassi giornalistiche imprecise e superficiali, obliquamente omissive o dolosamente inveritiere, indulgenti verso lo "spaccio" di falsità in non sempre "modica quantità", a volte sconfinanti nel manganello a mezzo stampa per colpire l’avversario politico o economico dell’editore. Con il risultato che "quando un organo di informazione mente, avvelena la collettività, e anche gli articoli degli altri giornali diventano sospetti - anticipava già nel 1981 il mea culpa del direttore del Washington Post per un falso scoop -: il lettore colpito da una notizia si sente autorizzato a valutarla con sospetto, i fatti non soltanto vengono messi in discussione ma perdono anche il loro valore di realtà".

Parabola che, in salsa italiana, affiorava sin nella parodia che nel 1992 il comico Loche faceva del giornalista "truffa-truffa-ambiguità" che "pare-sembra-forse-non garantisco verità". Ma ora anche le querele e le richieste di danni hanno perso il loro valore di verità. Sempre meno strumenti di ristoro della reputazione calpestata dall’errore colpevole o dal dolo scientifico del giornalista, le azioni legali diventano così tante e sono spesso talmente infondate da essere piuttosto brandite come uno strumento di intimidazione sul cronista ("anche se stavolta hai scritto giusto, attento a riscrivere la prossima volta") e sull’editore, alle prese con rischi di risarcimenti e con spese di difesa tali da mettere in ginocchio il bilancio di un’azienda editoriale medio-piccola. Si dirà: c’è un giudice, e se il giornalista sbaglia, è giusto che vada incontro a pena pecuniaria, reclusione, riparazione pecuniaria, risarcimento dei danni morali e patrimoniali, pagamento delle spese di giudizio.

Certo. Solo che la partita, da quando è divenuto massiccio l’indiscriminato ricorso alle azioni legali, non è più ad armi pari. Non solo perché il giornalista, per non essere condannato, deve dimostrare non soltanto che ha scritto il vero, ma anche che esisteva un interesse pubblico a conoscerlo, e che la forma non era inutilmente aggressiva.

Non solo perché, se diffonde dati personali veri ma senza i quali la notizia sarebbe stata ugualmente completa ed esauriente, incorre nei fulmini del Garante della privacy, del giudice penale, del giudice civile, dell’Ordine. Non solo perché, quando pubblica notizie vere tratte da atti giudiziari non più segreti in quanto già noti alle parti, è schiacciato nella tenaglia per cui se le riporta con precisione letterale si vede denunciare per aver commesso uno specifico reato, mentre se si limita a riassumerle si sente accusare di non essere stato abbastanza preciso da evitare la diffamazione.

A truccare la partita, invece, non è l’azione legale in sé, ma il fatto che chi la intenta contro il giornalista, a differenza sua, non rischi mai e non paghi alcunché, nemmeno se il giudice accerta che le doglianze erano totalmente pretestuose: nel civile il giornalista recupera al più le spese, nel penale l’assoluzione "perché il fatto non costituisce reato" gli impedisce di denunciare per calunnia il querelante e ottenere i danni.

Il sacrosanto diritto dei diffamati (quando siano davvero tali) di rivalersi sul giornalista non deve essere intaccato. Ma forse una modifica normativa potrebbe conciliarlo con la non compressione dell’attività giornalistica: querela pure chi vuoi e per quello che vuoi, ma se poi la causa risulta del tutto campata per aria, allora paghi al giornale denunciato almeno una minima percentuale (anche solo il 10%?) delle maxicifre che pretendevi come risarcimento.

Liberi di scrivere, liberi di querelare. Ma responsabili entrambi. Nella trasparenza. Il contrario del terreno su cui muove il disegno di legge sulle intercettazioni che, dietro il pretesto della tutela della privacy, estende l’area del segreto sugli atti d’indagine, e di ogni "pubblicazione arbitraria " (da 2.500 a 5.000 euro per il giornalista) fa poi rispondere anche l’editore a titolo di responsabilità amministrativa della persona giuridica per i reati commessi dai dipendenti nell’interesse aziendale (legge 231/2001).

Tradotto? A ogni dettagliata pubblicazione di un atto vero, non più coperto da segreto investigativo e riportato in maniera corretta, l’editore pagherà da un minimo di 25 mila 800 a un massimo di 465 mila euro per le testate nazionali. Il modo migliore per fare entrare "il padrone in redazione", visto che a quel punto la decisione editoriale sul "se" e "come" pubblicare una notizia sfuggirà all’autonomia (laddove esercitata) del tandem direttore- giornalisti, per consegnare l’ultima parola all’editore destinato a pagarne conseguenze tali da far chiudere in breve l’azienda.

Giustizia: Cassazione; la stampa può "criticare" un magistrato

 

Ansa, 26 settembre 2009

 

I giornalisti possono criticare anche con toni aspri l’operato di un magistrato, senza andare incontro a una condanna per diffamazione. Loha deciso la Cassazione con una sentenza che ha confermato il verdetto della Corte d’appello di Palermo.

Un cronista de L’Unione Sarda era stato assolto dall’accusa di diffamazione aggravata perché il fatto non sussiste: il giornalista era stato querelato da un pm per un articolo nel quale si ripercorreva la vicenda di un detenuto suicidatosi in cella che si era sempre dichiarato innocente cosa che, dopo la sua morte, era emersa in modo inequivocabile.

La Suprema Corte (quinta sezione penale, sentenza n. 37442) ha rigettato il ricorso presentato dalla difesa del magistrato, parte civile nel procedimento, sottolineando che "va tutelata nel modo più ampio la libertà di espressione, a condizione che l’autore non trascenda in attacchi personali diretti a colpire, sul piano individuale, senza alcuna finalità di interesse pubblico, la figura morale del soggetto criticato".

Infatti, continuano i giudici di piazza Cavour "la continenza formale non può equivalere a obbligo di utilizzare un linguaggio grigio ed anodino, in quanto in essa rientra il libero ricorso a parole sferzanti e pungenti. È stato correttamente osservato che l’esercizio del diritto di critica, nella sua funzione di scriminante può esplicarsi con l’uso di toni oggettivamente aspri e polemici, specie quando abbia ad oggetto un tema di grave interesse pubblico".

Per la Cassazione, "le espressioni usate dal giornalista sono pienamente adeguate alla gravità del fatto narrato e sono dirette non certo ad aggredire la sfera di umanità e moralità del magistrato, ma a richiamare l’attenzione sulla gravità delle conseguenze dell’operato della magistratura, laddove incide sulla libertà dei cittadini".

Giustizia: Berselli (Pdl); depenalizzare reati, c’è rischio rivolte

 

Dire, 26 settembre 2009

 

Per risolvere il problema delle carceri occorre agire con la "depenalizzazione dei reati", se non lo si fa "fra tre anni non solo correremo il rischio di avere carceri che scoppieranno ancora di più di adesso, ma anche di rivolte nei nostri istituti penitenziari". A lanciare l’allarme è il presidente della Commissione giustizia del Senato, Filippo Berselli (Pdl), invitato oggi a Bologna dal Sappe, sindacato di polizia penitenziaria.

E proprio dal capoluogo emiliano, il Sappe denuncia la "situazione drammatica e ormai insostenibile delle carceri" chiamando le istituzioni a parlarne: l’incontro si è tenuto nel penitenziario della Dozza di Bologna, perché, secondo il segretario generale aggiunto Giovanni Battista Durante, "l’Emilia-Romagna è la regione che presenta i maggiori problemi rispetto al sovraffollamento e alla carenza di organico del personale di polizia penitenziaria". Oltre a Berselli a raccogliere l’invito sono stati: Nello Cesari, provveditore alla carceri dell’Emilia-Romagna, Ione Toccafondi, direttrice della Dozza, Desi Bruno, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, Elisabetta D’Errico dell’Osservatorio sul carcere dell’unione penale.

Berselli si dice "molto preoccupato" e lancia un monito al Governo, perché intervenga: "Se oggi è intollerabile, fra qualche anno la situazione sarà ingestibile". E "pensare di risolvere il problema costruendo nuove carceri - prosegue - è come raccogliere il mare con un cucchiaino", perché "il numero dei posti disponibili nelle nuove carceri sarà sempre inferiore a quello che ogni mese si va ad aggiungere alla popolazione carceraria". Senza contare che le carceri di oggi sono "vecchie, obsolete" e il personale di polizia è in numero "inadeguato". Per Berselli c’è solo un modo di intervenire.

L’unica soluzione, per Berselli, è "depenalizzare i reati che destano meno allarme sociale" in modo da arrivare a "mandare in carcere soltanto chi deve scontare pene per reati che provocano allarme sociale", mentre "per i reati cosiddetti bagatellari basterebbe una sanzione amministrativa". Tra l’altro, aggiunge Berselli, "è incivile che i due terzi dei detenuti siano persone in attesa di giudizio e non condannati definitivi, in questo modo la presunzione di innocenza vigente nel nostro paese viene abitualmente calpestata".

L’appello di Berselli al Governo affinché provveda alla depenalizzazione dei reati minori, "trasformando la sanzione penale in sanzione amministrativa", si accompagna a un presagio sinistro. "Questa è l’unica soluzione, tutte le altre sono palliativi. Io sono molto preoccupato, non per la situazione che c’è adesso, ma per quella che potrebbe verificarsi da qui a tre anni se non si affronta il problema alla radice - dice Berselli - fra tre anni, non solo correremo il rischio di avere carceri che scoppieranno ancora di più, ma anche di rivolte, dobbiamo esserne consapevoli. E se avremo delle rivolte, sarà perché il Governo e il Parlamento non avranno affrontato alla radice questo problema".

Il Sappe denuncia la situazione "insostenibile" e lancia l’allarme sulle "patologie dovute a stress" che colpiscono sempre più spesso gli agenti. È necessaria, afferma Durante, "l’immediata assunzione straordinaria di 5.000 unità", per raggiungere l’organico di 44.000 unità previsto nel 2001 (oggi sono 38.549), ma anche "un maggior ricorso alle misura alternative" e l’espulsione dei 5.000 detenuti stranieri (su 25.000) nelle condizioni di essere rimandati ai loro paesi.

Il Sappe, nel chiedere rinforzi di organico, ricorda il risultato ottenuto con le proteste organizzate dal sindacato prima dell’estate. "In Emilia-Romagna arriveranno 91 agenti", annuncia Durante, ma "sono ancora troppo pochi, ne servirebbero 600". I 91 in arrivo saranno così suddivisi: 30 a Bologna, 30 a Modena, 20 a Parma, cinque a Rimini, due all’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, due a Ferrara, uno alla casa di lavoro di Castelfranco e uno a Forlì. I 30 agenti in arrivo a Bologna, spiega Durante, daranno un po’ di respiro alla Dozza, dove al momento lavorano 400 agenti (contro i 550 previsti dall’organico), di cui 108 distaccati in altre sedi per svariate ragioni.

Per il provveditore regionale Cesari sarebbe opportuno pensare a "un allargamento dell’esecuzione" che vada oltre la carcerazione. Ad esempio, "mandare a lavorare chi deve scontare meno di un anno" e smettere di "chiedere carcere per ogni cosa". Per Cesari, però, quello delle carceri è soprattutto un problema di "incapacità gestionale" e, da parte sua, promette impegno per una "razionalizzazione" delle strutture esistenti, per liberare posti. Desi Bruno invece attacca: "Non si può inquadrare tutto in una ricerca spasmodica di spazio in cui inserire corpi; se la visione è questa, io non ci sto. O si fa un progetto complessivo o non si va da nessuna parte".

E aggiunge: "Bisogna smetterla con dichiarazioni e paroloni, servono fatti. C’è da fare una riforma dell’ordinamento penitenziario e va fatta, in modo concreto. Berselli è preoccupato per quello che avverrà fra tre anni? Il punto è che non ce li abbiamo tre anni, magari li avessimo- prosegue Bruno- io sono molto preoccupata per quello che sta succedendo ora, è una situazione drammatica".

Per la Garante dei detenuti di Bologna, insomma, non si può più aspettare. "Se anche il Governo costruisce nuove carceri non si risolverà niente. Il Dipartimento deve prendere atto- dice Bruno- che non si può più andare avanti sperando che la buona volontà di tutti riesca sempre a tamponare. Ora basta, finora la situazione ha tenuto e si è evitato il peggio, ma non è né politicamente né umanamente corretto chiedere sacrifici a chi lavora senza avere un progetto. Si smetta di dire bugie e ci si adoperi per una riforma concreta, perché va bene razionalizzare, ma serve un progetto" conclude Bruno.

"Pienamente d’accordo" con la Garante è la direttrice della Dozza, Toccafondi. "Non faccio politica, sono qui in qualità di amministratore e di cittadino - esordisce - devo dire che provo una profonda vergogna per le condizioni dei detenuti, che si poi inevitabilmente si riverberano sul personale". Toccafondi prosegue: "Quando sono costretta a tenerli a dormire per terra, mi chiedo che trattamento carcerario stiamo offrendo a queste persone e che idea stiamo dando delle istituzioni. Il problema non è solo quello di contenere i detenuti, ma di offrirgli una carcerazione dignitosa".

Ma mancano le risorse. "Non si può continuare così, chi fa politica se ne deve assumere la responsabilità. Spesso sui giornali si parla del carcere in modo distorto, finendo per spaventare l’opinione pubblica, ma poi nessuno sa quanto sia complessa l’organizzazione della vita in carcere", dice Toccafondi che poi fa un esempio dei controsensi sui costi. "Abbiamo tenuto in carcere sei mesi un extracomunitario che aveva rubato un salame. Chiediamoci quanto lo Stato ha pagato quel salame". Per risolvere l’emergenza carceri "occorre ripartire dalle misure alternative".

Giustizia: dopo tre anni la sorpresa "l’indulto ha funzionato!"

di Mattia Toaldo

 

www.wordpress.com, 26 settembre 2009

 

Nel luglio 2006 la maggioranza di centrosinistra, appena eletta, approvò con i voti anche di quasi tutto il centrodestra l’indulto: uno sconto di 3 anni di pena sia per chi era già in carcere che per chi era solo sotto processo. Dopo poco sarebbe iniziato lo scontro sulla "sicurezza" che, come diceva un leader democratico, non era "né di destra né di sinistra".

La destra mediatica e politica era intenta a dare la colpa della nuova emergenza all’indulto che sembrava non fosse stato votato da nessuno, tanti erano i suoi oppositori. Non a caso i Tg di Mediaset cominciarono a parlare solo di criminalità comune e la Rai seguì a ruota. Ora però possiamo guardare i dati e capire quanta mala fede (o cattiva informazione) c’era.

Ci aiutano le ricerche svolte da Giovanni Torrente dell’Università di Torino, dal Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria (Dap) del Ministero della Giustizia nonché gli interventi di Luigi Manconi. Ecco alcune semplici verità:

- il 28,5% degli indultati ha commesso un nuovo reato una volta uscito di prigione. Percentuale elevata, ma di solito più che doppia in chi sconta la pena interamente

- allo sconto di pena non si associò l’amnistia, cioè la cancellazione dei processi: si continuarono quindi a tenere dei procedimenti anche se si sapeva che il colpevole non sarebbe andato in galera. Proprio per questa consapevolezza furono rallentati rispetto ad altri processi col risultato che andarono in prescrizione. Un’amnistia mascherata e affidata al caso.

- se immediatamente dopo l’indulto ci fu un aumento dei reati commessi da chi era stato liberato, la tendenza nel medio periodo fu al declino. Dal 2006 il tasso mensile di recidiva è diminuito costantemente

- stando ai dati del Ministero della giustizia meno si sta in carcere e meglio è per la sicurezza di tutti. Tra gli indultati il 30,3% di quelli che erano in carcere ha commesso nuovi reati, chi invece era soggetto a misure alternative (semi-libertà, arresti domiciliari o affidamento ai servizi sociali) si è macchiato di nuovi crimini nella misura del 21,7%. In tempi normali la differenza è ancora maggiore: circa il 60% di chi viene liberato dal carcere avendo scontato tutta la pena commette nuovi reati, mentre la percentuale è sotto al 20% tra chi viene dalle misure alternative.

- un colpevole destinato a queste misure alternative costa molto, ma molto, di meno rispetto ad uno che viene tenuto in carcere: negli Usa, come ci dice Stefano Anastasia, il rapporto è di 29mila dollari di spesa annua per chi sta in galera a fronte di 1.250-2.750 dollari per chi è in semi-libertà.

- ci si aspetterebbe un’espansione delle misure alternative, visto che sono più efficaci e meno costose. È successo invece il contrario: si è passati dai 50mila partecipanti a queste misure del 2006 ai 10mila circa di oggi. Nel frattempo le carceri registrano 20mila detenuti in più rispetto alla capienza massima. Cioè, meno gente nelle misure alternative e di più in carcere anche se si sa che non c’è posto e che è meno funzionale.

Se vi stavate chiedendo quali effetti avesse la psicosi sulla sicurezza, beh, ora ne avete scoperto uno.

Lettere: sempre meno misure alternative e carceri da scandalo

 

Messaggero Veneto, 26 settembre 2009

 

Scontare la detenzione fuori dal carcere, partecipando alla vita di comunità protette e impegnandosi in lavori socialmente utili. Questa è la proposta più importante emersa dall’incontro della Conferenza regionale volontariato e giustizia promossa, l’altro giorno, nella sede della Comunità Arcobaleno con al centro dell’attenzione la situazione dei detenuti nelle carceri di Gorizia e della regione.

L’assemblea è stata animata dagli interventi di persone molto qualificate, dal magistrato di sorveglianza Cunial alla direttrice dell’Ufficio per l’esecuzione della pena esterna Tuscano, dall’assistente sociale del carcere di Gorizia Sfiligoj al direttore del Sert di Monfalcone Fiore, dal sindaco Romoli alle referenti dei servizi sociali del Comune, dal responsabile del Dipartimento di prevenzione dell’Ass Cavallini al referente del Centro bassa soglia di Monfalcone Capaldo, dalla referente dell’Ater Fermo al referente del volontariato carcerario udinese Battistutta, dal vicedirettore della Caritas Chimera al parroco di San Lorenzo, don Bearzot.

Da un simile "tavolo" non potevano che emergere riflessioni e proposte importanti, suscitate dalla constatazione della crescente difficoltà a considerare la pena inflitta da un tribunale una misura riabilitativa piuttosto che punitiva. La prova più evidente, come con grande competenza rilevato dalla Magistrato di sorveglianza, è la costante diminuzione dell’accoglienza di domande relative all’alternativa al carcere: una situazione non dipendente da una maggior severità dei giudici bensì da un inasprimento progressivo delle leggi.

Cosa poter realizzare nel contesto di un quadro sempre più complesso, caratterizzato dai problemi del sovraffollamento degli istituti di detenzione, da un’impressionante disagio esistenziale e da una presenza sempre più numerosa di stranieri? Per evitare discorsi soltanto formali ci si è soffermati specificamente sull’esempio di Gorizia: constatata da tutti l’insufficienza della struttura di via Barzellini (definita "scandalosa" dal sindaco Romoli che ha proposto come unica soluzione sostenibile quella della ristrutturazione), si è notato come il numero esiguo degli ospiti possa favorire soluzioni alternative originali e per certi versi sperimentali.

Riferendosi, in particolare, alla popolazione italiana ci si è chiesti se non sia possibile ipotizzare una fruttuosa sinergia tra pubblico e volontariato in grado di consentire l’"uscita" dal carcere, l’inserimento in alloggi e comunità protette e un adeguato impegno lavorativo. Per ciò che concerne coloro che hanno già ricevuto la pena definitiva la questione riguarda essenzialmente la disponibilità del territorio dal momento che gli organi a ciò preposti hanno le risorse necessarie a far fronte al reinserimento nella società di parecchie persone.

Per coloro, invece, che sono in attesa di giudizio la questione deve essere presa in carico dai servizi territoriali. Infatti, come ha rilevato con forza la dottoressa Tuscano, "coloro che non sono stati ancora giudicati sono a tutti gli effetti cittadini liberi le cui problematiche devono essere considerate nell’ambito dell’ordinaria assistenza sociale".

La discussione si è spostata quindi sulla mancanza di fondi: la crescente povertà derivata anche dalla perdita dei posti di lavoro rende sempre più difficile trovare risorse economiche indispensabili per inserimenti che prevedano un alloggio, un incentivo del tipo borsa lavoro o lavoro socialmente utile, un’assistenza psicologica di accompagnamento.

I servizi sociali fanno fatica a farsi carico di tutte le problematiche, per cui, come ha ammesso lo stesso Romoli, è necessario un maggior investimento da parte di chi traccia le linee politiche relative alla distribuzione delle risorse. Particolarmente interessante la proposta già in atto dell’Ater, disponibile a mettere a disposizione una quota significativa di appartamenti a canone d’affitto sociale per favorire l’accoglienza temporanea di detenuti sottoposti a pena alternativa o appena usciti dal carcere senza prospettive immediate di alloggio e di finanze sufficienti per pagare un affitto: esperienza questa già sperimentata grazie alla collaborazione con la Comunità Arcobaleno.

 

Comunità Arcobaleno, Gorizia

Lettere: protesta sottovalutata che è costata la vita al detenuto

 

La Tribuna di Treviso, 26 settembre 2009

 

Il due settembre un detenuto tunisino è morto per il protrarsi di uno sciopero della fame, nonostante i suoi legali avessero inoltrato istanza per la sua scarcerazione, motivando la richiesta con i rischi per lo stato di salute del loro cliente, già debilitato per un precedente infarto. Ciononostante il detenuto é rimasto in carcere.

Ritengo che ogni essere umano sia libero di porre in atto anche il gesto estremo di togliersi la vita. Il medico del carcere di Pavia ha dichiarato che "un soggetto già privato della sua libertà, non puoi privarlo della facoltà di poter decidere e quindi di autodeterminarsi". Giusto, la penso anch’io cosi.

Quello che penso diversamente dal medico è che forse qualcosa nelle competenze di chi doveva controllare quell’uomo non ha funzionato, perché uno sciopero protratto nel tempo, 45 giorni, con un calo di peso di 21 chili, dovrebbe porre i medici in allarme, più che farli preoccupare di non violare l’autodeterminazione del detenuto. Una vita umana si è spenta, eppure uno sciopero che dura 45 giorni non poteva essere sottovaluto da nessuno, e in modo particolare da un medico, che è responsabile della salute di tutti quelli che gli sono affidati, anche se si tratta di detenuti, o di clandestini.

 

Maurizio Bertani

Prato: detenuto 30enne si suicida nella Sezione sex-offenders

 

Comunicato stampa, 26 settembre 2009

 

Un detenuto della Sezione "sex-offenders" del carcere di Prato, il tunisino Fersi Walid, di trent’anni, nella notte tra venerdì 11 e sabato 12 settembre si è impiccato nel bagno della cella, usando le lenzuola.

Purtroppo nessuno dei suoi compagni di cella se ne è accorto e lo ha notato solo l’appuntato di turno. Fersi già da tempo aveva messo in atto proteste "autolesionistiche" per protestare contro la dura condanna (9 anni), che riteneva ingiusta. Alcuni mesi fa si era cucita la bocca e a luglio aveva iniziato lo sciopero della fame; in ogni caso aveva esplicitato in più occasioni l’intenzione di togliersi la vita.

Aldilà del giudizio sul gesto estremo da lui compiuto, ciò si inserisce in un contesto in cui le condizioni carcerarie peggiorano di giorno in giorno per cause "oggettive" quali il sovraffollamento e i giri di vite sulla "sicurezza" ma anche chi è preposto alla custodia dei detenuti - non solo in senso repressivo - a volte sembra non recepire i segnali di forte disagio degli stessi.

 

Gian Paolo Marcucci

Roma: muore detenuto 89enne, aveva il "fine pena" nel 2016

 

Il Velino, 26 settembre 2009

 

È morto a 89anni in una clinica di Roma, dove era ricoverato per gravissimi motivi di salute che avevano indotto i giudici a concedere il differimento della pena, nella vana attesa dell’autorizzazione a scontare il resto della pena in Canada, dove risiede la sua famiglia. Protagonista della storia, segnalata dal Garante dei detenuti della regione Lazio Angiolo Marroni, un cittadino canadese di origine italiana, Antonino Patafi, morto il 19 settembre.

Nato in Calabria nel 1921, emigrato negli anni 50 in Canada in cerca di fortuna, l’uomo era stato arrestato nel 1997 per un duplice omicidio, commesso in età avanzata in Calabria, legato a questioni patrimoniali. Patafi è stato detenuto a Rebibbia e Regina Coeli per scontare una pena a 24 anni di reclusione che sarebbe scaduta nel 2016. Senza parenti in Italia, (il figlio Francesco ha sempre vissuto in Canada), dal 2008 Patafi aveva presentato domanda per scontare la pena in Canada.

Vista l’età avanzata a Regina Coeli Antonino aveva una cella con il campanello: negli anni aveva socializzato con i detenuti e con il personale che garantivano anche un controllo sulla sua salute. A febbraio il tribunale ha disposto il differimento della pena per gravi motivi di salute. Fuori dal carcere Patafi si è trovato senza sistemazione, né cure mediche. Con una carta d’identità italiana scaduta nel 1957, per i servizi territoriali era, infatti, inesistente. Per questo il garante si è adoperato per assicurargli un documento d’identità necessario ad iscriverlo al servizio sanitario regionale.

A giugno, dopo vari ricoveri tra Caritas, ospedali, centri di accoglienza e strutture onlus, Patafi entrava in una clinica privata a spese della famiglia. Dal punto di vista giudiziario dopo il nulla osta, lo scorso aprile, del Canada al suo trasferimento, il ministero della Giustizia, sollecitato da garante, ambasciata canadese e avvocato, a giugno dava il suo parere favorevole. Per far tornare Antonino in Canada mancava solo il nulla osta del tribunale di Reggio Calabria. L’udienza è stata fissata il 1 ottobre.

Troppo tardi per Antonino, morto il 19 settembre. "Aveva 89 anni e, nelle condizioni di salute in cui si trovava, non credo potesse più nuocere alla società, eppure a quest’uomo è stata negata la possibilità di morire col conforto dei familiari" ha detto il garante dei detenuti Angiolo Marroni, che ha aggiunto: "Questo ufficio,l’ambasciata canadese, i volontari, hanno fatto di tutto per consentirgli di vivere dignitosamente questi mesi di attesa.

Autorizzarlo a tornare, peraltro in carcere, sarebbe stato un gesto di umana pietà che, purtroppo, le lungaggini burocratiche hanno impedito di compiere. Un finale ancor più beffardo se si considera che, contro il sovraffollamento, si invoca il trasferimento dei detenuti stranieri nei loro Paesi di origine. Qui c’era un uomo che lo aveva chiesto, non sono bastati mesi per accontentarlo".

Verona: in arrivo il Garante delle persone private della libertà

 

L’Arena di Verona, 26 settembre 2009

 

Nasce la figura del "garante dei diritti delle persone private della libertà", che vigilerà sui diritti dei carcerati e sul loro reinserimento nella società. Il bando per la nomina sarà pubblicato in ottobre.

Il Consiglio comunale ha approvato ieri l’istituzione della figura del garante dei diritti delle persone private della libertà. Mansioni ed obiettivi della nuova figura, che verrà individuata attraverso un bando che sarà pubblicato nel mese di ottobre, sono stati illustrati questa mattina dall’assessore ai Servizi sociali Stefano Bertacco. Erano presenti il presidente della commissione per i servizi sociali Antonia Pavesi, firmataria della proposta di deliberazione e i consiglieri Stefano Ederle (An) e Alberto Zelger (Lista Tosi).

"L’istituzione di questa figura costituisce una prova di grande civiltà - ha commentato l’assessore - poiché vigilerà sul rispetto dei diritti dei carcerati, favorendone anche un rientro a pieno titolo nella società civile al termine della pena".

"Le competenze del garante - ha aggiunto Bertacco - riguarderanno la creazione di circuiti virtuosi tra le realtà professionali e le istituzioni affinché si impegnino ad evitare situazioni di degrado tra le persone detenute e il reinserimento di persone soggette a misure alternative alla detenzione". "Questa figura, il cui unico compenso sarà costituito da un rimborso spese, andrà a difendere i diritti delle persone che si trovano in carcere - ha spiegato Pavesi - e a promuovere, con funzioni d’osservazione e vigilanza indiretta, le opportunità di partecipazione alla vita civile e la fruizione dei servizi da parte dei detenuti. Il garante potrà inoltre promuovere iniziative dirette alla sensibilizzazione pubblica e si attiverà nel caso di segnalazioni di gravi violazioni dei diritti fondamentali delle persone private della libertà personale".

Pescara: sì permessi per lavoro esterno anche dopo evasione

di Giuseppe Boi

 

Il Centro, 26 settembre 2009

 

"I detenuti del San Donato continueranno a lavorare all’esterno". Il direttore della Casa Circondariale pescarese, Franco Pettinelli, non cambia politica. La fuga di Charif Azidin, detenuto marocchino di 29 anni evaso sabato, non ferma i programmi di reinserimento lavorativo dei detenuti. E questo nonostante i problemi di sovraffollamento e la carenza di personale e finanziamenti di cui soffre il carcere.

A fronte di novanta posti, sono 167 i detenuti dell’ala giudiziaria con 2,5 metri quadrati di spazio disponibile a testa, molto meno degli standard europei. Gli stranieri ospitati al San Donato sono in aumento: attualmente sono 63 mentre i tossicodipendenti 62. Una situazione esplosiva sfociata nell’evasione di un marocchino.

 

Il carcere è sovraffollato. Perché?

"Il sovraffollamento della Casa Circondariale è dovuto all’aumento della popolazione extracomunitaria. Il carcere è uno specchio di quello che c’è fuori. Guardando i flussi migratori, è possibile capire l’aumento degli stranieri".

 

Quante persone sono ospitate al San Donato?

"In tutto, il San Donato ospita 198 persone. Di questi sono 134 gli italiani, 63 gli stranieri, 62 i tossicodipendenti, nove persone sono in regime di semilibertà e sono ammesse al lavoro esterno, 21 collaboratori di giustizia".

 

A fronte di questi grandi numeri, perché è determinato a non cambiare la sua politica?

"L’errore di uno non può ricadere sugli altri. Non esiste purtroppo una scelta senza rischio. Finché la legge non cambia, il nostro lavoro è anche quello di favorire il reinserimento sociale (vedi box a lato). Non vedo perché togliere questa opportunità in una realtà che offre grandi opportunità di reinserimento come Pescara".

 

Secondo lei perché Azidin è evaso?

"Forse per paura dell’espulsione. La Bossi-Fini è rigida e non prevede una valutazione del percorso svolto in carcere dagli extracomunitari. Tuttavia è scappato dopo il colloquio col fratello. Il sospetto è che avesse delle altre pendenze di cui noi non siamo a conoscenza. Per questo ha deciso di evadere".

 

Su quali basi gli ha concesso l’autorizzazione al lavoro esterno?

"Azidin era una persona riservata, attenta, un grande lavoratore. Era un detenuto modello. Anche l’assistente volontario che lo seguiva non ha mai sospettato nulla".

 

Azidin è pur sempre scappato dal San Donato. Come è stato possibile?

"Lavorava all’esterno e senza scorta. Purtroppo il muro dell’intracinta è alto solo un metro e mezzo, abbiamo già chiesto di alzarlo".

 

E il personale di guardia?

"Gli agenti sorvegliano la cinta muraria, ma ci possono essere delle zone d’ombra. Gli uomini a disposizione non sono sempre in numero sufficiente. Abbiamo 138 persone per 200 detenuti".

 

Perché?

"Non si fanno concorsi per la polizia penitenziaria da anni. Chi va in pensione non è sostituito e a Pescara come in tutta Italia c’è carenza d’organico e di finanziamenti".

 

Come si risolve questa situazione?

"Spesso si fa di necessità virtù. Con un progetto con la scuola edile di Pescara abbiamo ristrutturato la cucina dei detenuti e alcune parti della caserma. Così i soldi spesi per la formazione sono utili anche per il carcere".

 

Dunque i progetti di reinserimento lavorativo servono al carcere.

"Servono soprattutto a loro. In questo momento sono otto i detenuti ammessi al lavoro esterno. Due lavorano all’interno del San Donato, sei all’esterno. Per ora i risultato sono tutti positivi: chi lavora all’esterno è apprezzato dalle ditte. Non possiamo punirlo perché è evaso un compagno di cella".

Milano: Navigare verso l'Expo; il lavoro dei detenuti sui navigli

 

www.imgpress.it, 26 settembre 2009

 

Nell’ambito del Progetto "Navigare verso l’Expo" vincitore del bando "Expo dei territori verso il 2015" promosso dalla Provincia di Milano e da Milano Metropoli, nella giornata di domenica 27 settembre, dalle ore 9.00 alle 18.00, presso l’edicola di viale Gorizia (Ponte dello Scodellino - Darsena), si terrà un’ iniziativa benefica a favore dei detenuti della Casa di Reclusione di Milano-Opera.

La Cooperativa Opera in Fiore, partner del progetto, allestirà uno stand per la distribuzione di prodotti ortofrutticoli provenienti dalle serre del Carcere di Opera, coltivati dagli stessi detenuti e offerti da un gruppo di 4 detenuti del reparto di alta sorveglianza, che per l’occasione beneficeranno di uno speciale permesso di uscita.

Tra i protagonisti dell’iniziativa ci sarà anche "Aiscrim - Prigionieri del gusto", la gelateria pensata da Job Inside per la promozione del lavoro in carcere, che proporrà gelati naturali realizzati dal personale detenuto del laboratorio di produzione artigianale all’interno della Casa di Reclusione di Opera - Milano. Aiscrim è stato reso possibile grazie al sostegno di realtà leader del settore che hanno messo a disposizione la propria professionalità ed esperienza: Carpigiani e Montebianco offrendo attrezzature e corsi di formazione professionale, Coldiretti fornendo materie prime selezionate, italiane e no-ogm.

Tutto questo, seguendo rigorosi standard igienico-sanitari approvati dall’Asl, per garantire la massima qualità dei prodotti. Nel corso dell’evento, ai visitatori dello spazio informativo e ai passanti sarà sottoposto un questionario, preparato dalla società Demoskopea, al fine di avviare le prime indagini conoscitive sulla percezione di Expo 2015, del sistema navigli e dei servizi offerti dal territorio. Il progetto "Navigare Verso l’Expo" si propone di offrire un turismo accessibile cioè aperto a tutti compresi anziani e persone con disabilità.

Tale offerta verrà aggiornata sia per gli aspetti di accessibilità (intesa come riduzione o eliminazione di barriere fisiche) sia per le opportunità di attività ad elevato tasso di inclusione sociale creato con l’organizzazione delle attività ricreative, sociali e sportive. Nell’occasione, insieme al capofila Navigli Lombardi s.c.a.r.l., saranno presenti anche tutti gli altri partner del progetto Navigaexpo: Fondazione Don Carlo Gnocchi Onlus; Associazione Culturale LiveEurope; Cooperativa Sociale Opera in Fiore; Agricoltura Territorio e Mercati S.C.P.A Agrimercati; Demoskopea S.P.A.; Federazione Italiana Sport Canoa e Kayak; Università Cattolica di Milano (Centro Ricerche Orientamento e Sviluppo Socio-Professionale); Politecnico di Milano (Dipartimento di Robotica); Associazione Culturale di Aggregazione Sociale Timanifesta; Casa di Reclusione Milano Opera; AOP Uno Lombardia Sacpa; LiveEurope Onlus; Smart Group S.R.L.

Firenze: detenuta in sciopero fame e sete, chiede cure mediche

 

La Repubblica, 26 settembre 2009

 

Uno sciopero della fame e della sete. Un gesto estremo per denunciare la mancanza di un’adeguata assistenza medica. Lo ha iniziato ieri una detenuta 40enne del carcere di Sollicciano, madre di un minorenne. La donna, che da circa 10 mesi ha perso completamente l’uso della voce dopo un intervento alla gola per un carcinoma, ha inviato una lettera al consigliere comunale di Sinistra per Firenze Eros Cruccolini: "Sono costretto a rendere pubblica questa lettera - ha commentato Cruccolini -. Chi è privato della libertà perché ha commesso un reato non può e non deve essere privato del diritto all’ assistenza e alla salute".

Poi ha aggiunto: "Gli stessi dottori che l’hanno operata sostengono che per poter riprendere la voce la donna deve poter disporre di maggiori ausili medici". Cruccolini, che ha ricordato anche il caso di un’altra detenuta costretta alla dialisi, ha fatto sapere che farà relazione a Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti del Comune, che proprio ieri ha avanzato l’idea di un progetto pilota per trasferire 100 detenuti tossicodipendenti di Sollicciano in comunità terapeutiche di recupero. "Stiamo arrivando a mille detenuti, una quota che simbolicamente segna il confine del disastro" ha dichiarato Corleone, che oggi inizia un digiuno simbolico per richiamare l’attenzione sul sovraffollamento di Sollicciano.

Immigrazione: Maroni attacca i pm; reato non applicare leggi

di Andrea Montanari

 

La Repubblica, 26 settembre 2009

 

Roberto Maroni attacca i magistrati, rei a suo dire di non applicare la nuova legge sull’immigrazione e rivendica i risultati del governo Berlusconi nella lotta alla mafia. "Ogni giorno ne arrestiamo tra gli otto e i dieci - spiega - Per questo sono incazzati con noi e ci minacciano". Ma l’affondo più duro arriva contro le toghe. "La legge sulla clandestinità è chiara, la capisce anche un bambino di sei anni. Non possiamo accettare che i magistrati la interpretino in un modo o in un altro. Non applicare la legge è un reato. Se non interviene il Csm devono farlo altri giudici. Le leggi le fa il Parlamento e la magistratura deve applicarle".

Il ministro dell’Interno ha scelto ieri la platea della festa nazionale del Pdl in corso a Milano per rialzare i toni della polemica sui respingimenti, ribadire la posizione del governo e cercare di far dimenticare le divisioni nel centrodestra sulle candidature per le Regionali. Proprio mentre è in corso la conferenza nazionale sull’immigrazione organizzata dal Viminale che si è aperta ieri e si chiude oggi all’Università Cattolica di Milano.

"La politica dei respingimenti - ha rilanciato - continuerà perché funziona. Gli sbarchi sono diminuiti del 90 per cento. La sinistra prima ci accusava di non avere impedito gli sbarchi e ora che non ci sono più ci accusa di sbagliare politica con i respingimenti. O sono schizofrenici oppure vogliono fare una politica delle porte aperte. Il governo e la maggioranza hanno mantenuto gli impegni".

Ma i magistrati non ci stanno. Il presidente dell’associazione nazionale magistrati Luca Palamara definisce "inaccettabili" le parole del ministro. "Dobbiamo essere liberi di applicare e interpretare le leggi secondo la Costituzione. Questa non è disapplicazione". Sulla stessa linea anche il responsabile della giustizia del Pd Lanfranco Tenaglia che rilancia: "Maroni attacca per coprire la farraginosità e le incongruenze del suo provvedimento. Lasci perdere i magistrati e si concentri sul fatto che la norma sugli immigrati è tecnicamente inapplicabile. Si aggredisce per nascondere la pochezza dell’ennesima porcata".

Duro anche Gianclaudio Bressa, vicepresidente dei deputati del Pd: "Il ministro mente, i veri clandestini lavorano nelle nostre case". Mentre la vice presidente della Camera Rosy Bindi sceglie l’ironia: "Ogni studente del primo anno di giurisprudenza sa che qualunque legge per essere applicata va interpretata. Forse l’avvocato Maroni è da troppo tempo lontano dai banchi dell’università e da un’aula del tribunale". Il segretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero invita piuttosto il ministro degli Interni "a sciogliere per infiltrazioni mafiose i consigli comunali di Fondi e Paternò invece di continuare a riempirsi la bocca attaccando i magistrati". Anche per l’Udc Gianpiero D’Alia "le minacce di Maroni ai magistrati sono inqualificabili".

Già nei giorni scorsi erano volate parole grosse tra gli esponenti del centrodestra e il sindacato dei magistrati, che aveva reagito all’accusa della maggioranza di "politicizzare e voler boicottare" le nuove norme sull’immigrazione.

A confermare le divisioni nel centrodestra, l’uscita ieri del presidente del Senato Renato Schifani, anch’egli ospite della festa del Pdl, che sembra prendere le distanze dalla proposta di dare il voto agli immigrati del presidente della Camera Gianfranco Fini che arriverà oggi con Giulio Tremonti alla kermesse del Popolo della Libertà sotto i tendoni del Lido di Milano. "Non ne farei una questione di numero di anni di residenza - precisa Schifani - Occorre che si identifichino con i nostri valori e la nostra storia. Non basta conoscere la propria lingua, ma occorre sentirsi italiani". Ma Maroni insiste: "Non credete a quello che scrivono i giornali. C’è una grande unione tra Lega e Pdl. Tra noi c’è alleanza e accordo su tutto e non solo sulla sicurezza. Anche sulle regionali saranno spazzate via le polemiche. Andremo uniti e vinceremo in tutte le regioni".

Immigrazione: Maroni, contestato, attacca la Commissione Ue

 

Corriere della Sera, 26 settembre 2009

 

È agitato il giorno successivo a quello delle accuse di Maroni ai giudici di non applicare la legge sul reato di clandestinità. Il ministro prende un po’ di fischi a Milano, le toghe chiedono l’intervento del Csm e lui attacca la politica della Ue. Maroni è stato contestato da alcune persone all’università Cattolica di Milano. "No ai respingimenti" è stato il grido che una mezza dozzina di persone ha rivolto a Maroni durante il suo intervento alla seconda conferenza sull’immigrazione in corso nell’ateneo milanese. Fra di loro anche la consigliera comunale del Prc Patrizia Quartieri. "Avete fatto il vostro show, grazie per il contributo" è ciò che ha risposto Maroni prima di riprendere il suo intervento.

"La Commissione Europea ha agito poco e male": non ha usato mezzi termini il ministro dell’Interno Roberto Maroni nel suo intervento alla seconda conferenza sull’immigrazione, dove "grande assente" seppur invitata è proprio l’istituzione di Bruxelles. In materia di immigrazione, ha detto il ministro Maroni, "l’Unione europea ha sempre avuto una voce flebile e poco autorevole, lasciando ai singoli Paesi l’onere di gestire per conto loro la questione". Così "i paesi di confine - ha proseguito - hanno dovuto definire politiche nazionali inefficaci e sempre in ritardo di fronte a un fenomeno in crescita". "Ma soprattutto, ed è più grave - ha aggiunto - in competizione fra loro".

Intanto il togato di Magistratura democratica, Livio Pepino, dopo le accuse del ministro Maroni ai magistrati di non applicare la legge ha chiesto al Csm l’apertura di una pratica a tutela dei magistrati.

Le dichiarazioni del ministro Maroni costituiscono un’"indebita pressione tesa a turbare il sereno e indipendente esercizio della giurisdizione" scrive il consigliere del Csm, Livio Pepino nella sua richiesta di apertura di una pratica a tutela dei pm che hanno eccepito la costituzionalità del reato di immigrazione clandestina e dei giudici che sulla questione dovranno pronunciarsi.

Immigrazione: rivolta nel Cie di Gradisca, polizia fa pestaggio

 

Redattore Sociale - Dire, 26 settembre 2009

 

È successo lunedì scorso, dopo un tentativo di fuga. Su internet il video girato con un telefonino all’interno del Centro di espulsione. Un tunisino ha il volto tumefatto. Ma la Prefettura smentisce tutto.

I fatti risalgono a lunedì scorso, 21 settembre. Ma le prove sono arrivate soltanto ieri. Si tratta di un video girato di nascosto all’interno del centro di identificazione e espulsione di Gradisca d’Isonzo (Gorizia) che ieri è stato diffuso su You tube. Il video (le cui sequenze sarebbe montate al contrario) inizia con un primo piano sul volto tumefatto di un detenuto tunisino. Vive in Italia da meno di un anno e nel poco italiano che conosce ripete "Guarda il polizia, va bene così?", indicando l’ematoma sull’occhio. I pantaloni sono ancora imbrattati di sangue. E le gambe segnate dagli ematomi delle manganellate. Le ferite sulla gamba destra e sul braccio sinistro sono bendate.

Il video prosegue mostrando le gabbie dove sono rinchiusi in attesa di essere espulsi, in alcuni casi già da oltre tre mesi. Ma il pezzo forte arriva alla fine. Sono le immagini della carica di una squadra di poliziotti e militari in tenuta antisommossa. Per terra si vede un uomo esanime col volto sanguinante, il sangue ha macchiato anche il pavimento. Intanto fuori si prepara un’altra carica.

Le immagini mostrano i militari e i poliziotti prepararsi con gli scudi alzati. Dalle camerate si alzano forti grida. Ma alla fine riescono ad entrare. E il video finisce così, mentre i detenuti scappano nelle camerate gridando "No, no!". In quella camerata si trovava anche il ragazzo tunisino colpito sull’occhio. "Quando sono entrati lui dormiva - ci ha raccontato telefonicamente un testimone - e si sono accaniti contro di lui, gli hanno dato un calcio in faccia. Ci hanno picchiato come degli animali". Il video in effetti mostra anche le tracce dei colpi di manganello sui corpi dei detenuti, sulla schiena, sulle gambe, sulla testa.

Ma la Prefettura smentisce. "Al Cie di Gradisca non c’è stato nessun pestaggio - dice il capo di Gabinetto della Prefettura Massimo Mauro -, al contrario l’unico a essere stato ricoverato è stato un operatore di polizia che si è preso un calcio in una gamba". Qualche tafferuglio dunque c’è stato, ammette Mauro. La versione della Prefettura parla di un tentativo di fuga la notte del 20 settembre, sventato dal personale di vigilanza che in tarda serata ha bloccato una trentina di detenuti già saliti sui tetti del centro di espulsione.

Rientrati nelle camerate all’alba, senza particolari tensioni, a pranzo un gruppo di trattenuti avrebbe rifiutato di rientrare nella camerata dopo il turno della mensa, "inscenando una protesta e lanciando bottiglie di plastica vuote contro il personale di polizia" che avrebbe quindi provveduto a farli rientrare in camerata. Sul video diffuso su You Tube, Mauro dice che si dovrebbe verificare se effettivamente è stato girato a Gradisca e quando è stato girato. Redattore Sociale ha provato a farlo.

Abbiamo raggiunto telefonicamente uno dei detenuti del Centro di identificazione e espulsione, di cui per motivi di sicurezza non possiamo svelare il nome e la nazionalità. Non soltanto ci ha confermato che qualcuno aveva girato un video - senza che noi gliene avessimo parlato - ma ci ha anche descritto il tipo di ferite che si vedono nelle riprese. Che sia girato a Gradisca poi è evidente, perché Redattore Sociale aveva visitato il centro di identificazione e espulsione nel 2008 e lo sappiamo riconoscere. Qual è dunque la versione dei detenuti?

Secondo quanto ci hanno raccontato, tutto sarebbe cominciato la notte di domenica - come ci hanno detto in Prefettura - quando una trentina di trattenuti, tra cui il nostro testimone, sono saliti sul tetto tentando la fuga, per poi essere bloccati dalla polizia. Per protesta contro il prolungamento a sei mesi della loro detenzione in attesa dell’espulsione, scattato con l’entrata in vigore del pacchetto sicurezza lo scorso 8 agosto, i detenuti sono rimasti sul tetto fino all’alba. Quando sono scesi, intorno alle sei del mattino, non ci sono stati scontri con la polizia. La situazione è rimasta tranquilla fino alle tredici. Quando è cominciata una perquisizione nelle camerate. Secondo il nostro testimone, quella perquisizione è stata la scintilla. "Hanno rotto i caricabatterie dei telefoni, ci hanno strappato dei vestiti, e in una camerata hanno strappato le pagine di un libro del Corano".

Un gesto quest’ultimo che avrebbe provocato l’ira dei detenuti che hanno cominciato a inveire contro la polizia. La tensione sarebbe salita fintanto che in una camerata i reclusi avrebbero rotto dei vetri e cominciato a lanciare oggetti contro gli agenti. Finché polizia e militari hanno deciso la carica. Nelle camerate tre, due e sei.

Alla fine della rivolta, secondo il nostro testimone, circa dodici persone sono state portate in ospedale. E in ospedale tornerà il detenuto tunisino con l’occhio tumefatto. Lunedì ha un appuntamento per un’operazione, all’ospedale di Udine. I detenuti vittime delle violenze si dicono pronti a sporgere denuncia contro gli agenti. Intanto 15 algerini sono stati trasferiti al Cie di Milano, da dove probabilmente saranno presto rimpatriati. Non si sa se tra di loro vi siano anche dei feriti.

Gran Bretagna: detenuti per ubriacarsi bevono il disinfettante

 

Ansa, 26 settembre 2009

 

Una prigione britannica ha messo a disposizione dei detenuti un detergente disinfettante a base d’alcol per prevenire l’influenza A, ma ha dovuto rimuoverlo dopo pochi giorni perché i carcerati si erano ubriacati bevendolo e avevano scatenato una rissa.

Il fatto è successo nel penitenziario The Verne, situato a Portland, nel Dorset. Il detergente era stato scelto perché è il più economico sul mercato, nonostante che alcuni membri dell’Associazione delle autorità carcerarie lo avessero sconsigliato. Il gel infatti è formato per il 70% da alcol e in passato si erano già verificati casi di clochard che lo avevano bevuto e poi si erano sentiti male.

Dopo alcuni giorni le guardie carcerarie hanno trovato tre o quattro uomini intossicati e altri due ubriachi che si stavano prendendo a pugni. Conseguentemente è scattata un’indagine interna e si è scoperto che alcuni detenuti avevano bevuto il disinfettante così com’era, mentre altri lo avevano distillato artigianalmente. Prima lo avevano fatto evaporare, poi lo avevano filtrato e quindi lo avevano mescolato con acqua zuccherata e pezzi di frutta. A questo punto è stata inevitabile la rimozione del distributore di gel.

In passato casi simili si sono verificati anche in alcuni ospedali, dove dei dispenser contenenti il disinfettante erano stati collocati all’ingresso del pronto soccorso a disposizione di tutti. I sanitari li hanno dovuti rimuovere perché due clochard sono morti dopo aver distillato e bevuto il detergente, mentre molti altri sono stati più volte sorpresi a bere la sostanza direttamente dal distributore.

Taiwan: carcere rifiuta condannato 96enne ma lui vuole entrare

 

Ansa, 26 settembre 2009

 

Da Taiwan arriva notizia delle traversie del Sig. Sun Hsin-ming, un operaio a riposo di 96 anni, recentemente condannato a una pena detentiva di tre mesi. L’uomo si lamenta della "giustizia ingiusta" del suo Paese perché il carcere di Taichung, dove dovrebbe scontare la pena, si rifiuta di accoglierlo in quanto non sarebbe "autosufficiente". Sun era stato trovato colpevole dalla Corte dell’occupazione abusiva del dormitorio del suo ex datore di lavoro, le ferrovie dello stato taiwanesi. Evidentemente ci teneva alla nuova sistemazione in galera perché ora dichiara, a proposito del rifiuto di rinchiuderlo: "Sono veramente arrabbiato. Non ho fatto niente di male".

 

 

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