Rassegna stampa 24 ottobre

 

Giustizia: il tentativo di dialogo sulla riforma è già naufragato 

di Antonella Rampino

 

La Stampa, 24 ottobre 2009

 

Mentre indiscrezioni riferiscono di un disegno di legge che taglia ulteriormente i tempi di prescrizione dei processi, a cominciare da quello Mills in cui è imputato Berlusconi, e mentre si calendarizza di corsa in commissione al Senato il provvedimento sulle intercettazioni, l’avvocato e parlamentare Niccolò Ghedini, che è il deus ex machina di entrambi, allunga un ramoscello d’ulivo all’opposizione. Che ovviamente nota la patente contraddizione, e rispedisce al mittente l’invito. "Al Senato l’ordine del giorno dei lavori è stato stravolto" dice Casson del Pd segnalando l’accelerazione.

L’invito per giunta, un lungo documento firmato dalla "Consulta del Pdl sulla giustizia" guidata appunto da Ghedini, propone all’opposizione una Bicamerale, o anche una "bicameralina" che potrebbe arrivare a trattare la materia anche sotto la fattispecie costituzionale. E lo fa proprio quando il Pd ha, da tempo, già rifiutato persino di prendere in mano le riforme istituzionali, per le quale il capo dello Stato ha fatto un appello nei giorni scorsi, così come uscirono proprio dalla Bicamerale del 96-97, quella guidata da D’Alema e che portò il testo sin sulla soglia dell’Aula, prima che Berlusconi e la Lega rovesciassero il tavolo.

Niente "inciuci sulla giustizia", per discutere della materia c’è il Parlamento, ci sono le adeguate commissioni, dicono sostanzialmente in coro Bersani, Franceschini, Finocchiaro. Il responsabile giustizia del Pd Tenaglia chiede a Ghedini "se sia vero quello che si legge sui giornali, che è allo studio una nuova legge tagliata su misura del capo del governo nel processo Mills, e più grave perfino della vecchia taglia-processi".

L’Italia dei valori è assai più dura, la proposta per Di Pietro è "semplicemente indecente". Casini dell’Udc è più sottile, ma non meno affilato, "il dialogo non si rifiuta mai, ma l’importante è essere fermo sui principi e non fare pateracchi". Come dire, al Pd, che rifiutare l’invito serve a nascondere le tentazioni "induriste" interne allo stesso centrosinistra, e qualcosa di vero dovrà esserci se, a fine di lotta interna per le primarie, Franceschini aggiunge "se io sarò segretario non si farà mai nessuna bicameralina".

Se essa non si farà, tuttavia, sarà anzitutto per le contraddizioni interne allo stesso Pdl, e per il sommesso dissenso che le iniziative di Ghedini provocano. Per dirne solo una, quel documento non è firmato da Giulia Bongiorno, che è sul fronte giustizia per conto di Gianfranco Fini. Il presidente della Camera notoriamente, pur consapevole che senza lo scudo Alfano c’è un problema che Berlusconi considera primario, è contrario a forzature, anche sulle intercettazioni.

E non a caso si propone una bicameralina, o addirittura una Bicamerale, ma non si è ancora deciso se il taglia-prescrizioni verrà inserito nella riforma del diritto penale, o presentato come un disegno di legge a parte. L’invito di Ghedini all’opposizione è per il 4 novembre, e nel testo si precisa che il metodo sarà anche quello di ascoltare giudici ed avvocati. L’Associazione nazionale magistrati considera lodevole l’intento evidentemente "non punitivo per le toghe". Ma su tutto è calato poi il monito di Napolitano: "Riforme di corto respiro sono rischiose", occorre "allontanare il rischio di interventi legati alle contingenze".

Giustizia: Alfano; riformare l'art. 11 Cost. sul giusto processo

 

Ansa, 24 ottobre 2009

 

Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha rilanciato l’intenzione del Governo di attuare una riforma della Giustizia nel corso di un suo intervento pubblico all’università di giurisprudenza di San Pietroburgo, prima tappa di un suo viaggio di quattro giorni che lunedì lo porterà a firmare alcuni accordi bilaterali con il suo collega russo Alexander Konovalov.

Dopo aver illustrato ad una platea di circa 250 giovani studenti il funzionamento e l’organizzazione del sistema giudiziario italiano, il guardasigilli ha spiegato che la bussola ispiratrice dell’attività del Governo sarà la riforma dell’articolo 11 della Costituzione, attuata una decina di anni fa per garantire il principio del giusto processo. "Ora si tratta di attuarne alcuni principi, come la ragionevole durata del processo e l’effettivo contraddittorio delle parti sulla base della loro effettiva parità". In particolare, Alfano ha insistito sulla necessità della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, sulla riforma del sistema disciplinare ed ha annunciato anche una "riflessione sul principio della obbligatorietà dell’azione penale". Al termine della lezione, durata circa un’ora, il ministro ha effettuato una visita all’interno dell’università prima di recarsi alla Corte costituzionale per un incontro con il suo presidente Valeri Zorkin.

 

Separazione carriere, contro distorsione

 

Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, in visita ufficiale a San Pietroburgo, ha ribadito la volontà del Governo di procedere alla separazione delle carriere per garantire l’effettiva parità delle parti. "Intendiamo far sì che giudice e pm, che noi vogliamo chiamare avvocato dell’accusa, abbiano carriere separate, con organi e modalità di funzionamento differenti", ha spiegato in un intervento pubblico all’università di San Pietroburgo.

"Oggi, delle tre parti processuali, due appartengono allo stesso ordine: giudice e pm fanno lo stesso concorso, hanno la stessa carriera, appartengono allo stesso Csm", ha sottolineato. "Tutto ciò è agevolato anche dalle elezioni del Csm, che consentono alle così dette correnti di essere organismi capaci di eleggere soggetti allo stesso Csm: è una commistione non funzionale al buon andamento della gestione delle questioni disciplinari ed all’indipendenza interna", ha sostenuto il guardasigilli. "È una distorsione che intendiamo correggere", ha aggiunto. Alfano ha annunciato che il Governo vuole intervenire anche sul sistema delle sanzioni disciplinari: "La giurisdizione del Csm non ha assicurato una dose indispensabile di giudizio obiettivo sui singoli casi", ha osservato il ministro.

Giustizia: Grosso; riforma è contro uguaglianza e democrazia

di Carlo Federico Grosso

 

La Stampa, 24 ottobre 2009

 

Dopo alcuni mesi di stallo sembra che le riforme progettate dal governo in materia di giustizia subiranno, di qui a poco, una grande accelerazione. Stando alle recenti dichiarazioni del presidente del Consiglio parrebbe, anzi, che presto vi saranno ulteriori novità. Si vorrebbe affrontare rapidamente anche il tema della riforma costituzionale della giustizia.

Che la giustizia italiana debba essere riformata costituisce quasi un luogo comune. Chiunque frequenta i tribunali è costretto a fare ogni giorno i conti con le disfunzioni: processi rinviati a causa delle omesse notifiche, tempi eccessivi fra una udienza e l’altra, processi che non si celebrano perché un giudice trasferito non è stato tempestivamente sostituito, processi che saltano a causa del riscontro tardivo di situazioni di incompatibilità. Per tacere dei casi, non frequenti ma comunque riscontrabili, di sciatteria, di prepotenza, di inaccettabile gestione burocratica del servizio.

Costituisce pertanto esigenza prioritaria predisporre una riforma in grado di restituire efficienza alla macchina arrugginita: una riforma che tocchi alcuni profili della legislazione penale, che incida sui meccanismi dell’organizzazione giudiziaria, che sia caratterizzata da interventi coordinati diretti a rimuovere le cause principali del cattivo funzionamento. Di fronte a quest’esigenza, le riforme pendenti in Parlamento e quelle che sono state ulteriormente prospettate in questi ultimi giorni lasciano peraltro insoddisfatti.

Preoccupano, innanzitutto, le modalità del dibattito politico. Nei mesi che hanno preceduto la sentenza della Corte Costituzionale sul "Lodo Alfano", nessun politico di maggioranza ha più parlato di riforma della giustizia: non si voleva, probabilmente, alimentare discussioni nell’imminenza di una decisione giudiziaria molto importante per il premier.

Quando si è avuta la notizia della clamorosa bocciatura, la polemica è invece riesplosa con violenza. Con un palese atteggiamento punitivo, si è gridato che entro dicembre le riforme pendenti in Parlamento devono essere approvate e che entro l’anno devono essere anche impostate le riforme costituzionali. Fra le priorità: separazione delle carriere, trasformazione dell’ufficio del pubblico ministero, spaccatura in due del Csm, riforma dei criteri di selezione dei giudici costituzionali.

Ma preoccupano, soprattutto, molti contenuti delle riforme progettate. Faccio alcuni esempi. Approvare la riforma delle intercettazioni nel testo votato dalla Camera, che subordina il loro impiego all’acquisizione di gravi indizi di colpevolezza e circoscrive la loro durata, significherebbe ridurre la possibilità di utilizzare con efficacia tale importante strumento di investigazione. Approvare la parte della riforma del processo penale in forza della quale si sottrae la polizia giudiziaria al controllo diretto del pubblico ministero, rischierebbe di indebolire ulteriormente l’incisività delle indagini. Consentire di citare i testimoni senza possibilità di controllo da parte del giudice, significherebbe concedere agli avvocati di allungare a dismisura i tempi dei processi attraverso la presentazione di liste di testi strumentalmente gonfiate.

Si pensi, d’altronde, a cosa accadrebbe se dovessero essere introdotte misure volte a consentire a ministri e parlamentari di opporre senza ritegno impegni politici alla celebrazione dei processi. O se, per preservare comunque il premier, si ritenesse di accorciare oltre misura i tempi della prescrizione anche nei confronti di reati gravi come la corruzione. Ben altre dovrebbero essere, come è evidente, le riforme della giustizia penale nell’interesse dei cittadini.

Quanto alle riforme costituzionali, per ora soltanto minacciate, per esprimere giudizi occorre ovviamente attendere la loro specifica formulazione. Già ora è, comunque, possibile procedere ad alcune considerazioni di metodo. Le proposte di cui si è sentito parlare nei giorni scorsi hanno una chiave di lettura comune: si vuole indebolire il potere giudiziario sul presupposto che la magistratura sarebbe progressivamente diventata una forza senza controlli nel panorama dei poteri dello Stato. Essa, si sostiene, ha acquistato nel tempo un peso esorbitante, ha prevaricato le sue funzioni, è diventata, nei fatti, una scheggia che è necessario riequilibrare.

Il problema non è di poco conto. Talune preoccupazioni possono anche avere un certo fondamento. Poiché una società democratica non può comunque rinunciare ai capisaldi dello Stato di diritto, preoccupa che una questione di tanta delicatezza sia affrontata nella concitazione di un momento di difficoltà del premier, con il rischio di soluzioni punitive elaborate al solo scopo di assicurare coperture ed immunità a politici che hanno commesso reati.

In astratto l’antidoto potrebbe essere un progetto di riforma costituzionale sul quale convergano maggioranza e opposizione. Il presidente del Consiglio, nei giorni scorsi, ha tuttavia già dichiarato che le riforme che verranno progettate dalla sua parte politica si faranno comunque, anche contro l’eventuale parere delle minoranze.

In questa prospettiva la notizia, battuta ieri dalle agenzie, secondo cui la "Consulta Giustizia del Pdl" avrebbe chiesto, invece, di cercare soluzioni concordate, muovendo dal progetto elaborato a suo tempo dalla commissione Bicamerale presieduta da D’Alema, fa soltanto sorridere. A parte il fatto che, come si ricorderà, tale progetto non era condiviso da una parte consistente di coloro che fanno oggi parte della minoranza politica che dovrebbe concordare.

Giustizia: un "pentito" della mafia accusa Dell'Utri e Berlusconi

 

Corriere della Sera, 24 ottobre 2009

 

"Sono tutte grandi cazzate di cui, per fortuna, riesco ancora a ridere. È tutto un teatrino che mi fa divertire. Lo faccio passare, altrimenti il danno sarebbe maggiore di quello che viene dalle sentenze". Così, il senatore del Pdl Marcello dell’Utri ha bollato le nuove accuse a suo carico del pentito Gaspare Spatuzza che lo ha definito "referente politico di Cosa nostra".

Il processo - Il parlamentare è a Palermo per assistere all’udienza del processo d’appello in cui è imputato di concorso in associazione mafiosa. Giovedì la procura ha trasmesso alla procura generale, che sostiene l’accusa in secondo grado, i verbali con le dichiarazioni del collaboratore di giustizia che potrebbero avere un effetto dirompente sul processo. Se il pg, che oggi avrebbe dovuto concludere la requisitoria con la richiesta di pene, ritenesse rilevanti per la decisone le parole del pentito, potrebbe chiedere alla corte la sospensione della discussione e l’esame di Spatuzza. "C’è tutta un’organizzazione - ha aggiunto Dell’Utri - per dare rilevanza mediatica a delle banalità: evidentemente ci sono obiettivi superiori". "Quando tutto sarà finito - ha proseguito - ci sarà da fare una riflessione su come sono state condotte alcune inchieste nel nostro Paese. Perché i magistrati, invece di perdere tempo con me, non indagano su chi ha fatto le stragi? I tre processi per l’eccidio di Borsellino pare siano stati un fallimento e non potrà passare sotto silenzio. E invece se la prendono con me e con i carabinieri".

L’assoluzione - "Cosa mi aspetto da questo processo? Tutti gli imputati si aspettano di essere assolti". Il senatore Dell’Utri, condannato a 9 anni di reclusione in primo grado, aggiunge: "Sono venuto qua - dice - per rispetto della Corte e perché oggi c’è la fine della requisitoria del pg e credo che sia un mio dovere di imputato partecipare al processo anche se lo ritengo assolutamente ingiusto", ha concluso.

Berlusconi - Il contenuto del verbale di Spatuzza consegnato oggi è relativo all’interrogatorio reso il 6 ottobre scorso al procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia e ai pm Lia Sava e Antonino Di Matteo, e fa riferimento ad un presunto incontro con il boss mafioso Giuseppe Graviano nel gennaio del ‘94. "Incontrai Giuseppe Graviano all’interno di un bar in via Veneto (a Roma, ndr). Graviano era molto felice, disse che avevamo ottenuto tutto e che queste persone non erano come quei "quattro crasti" dei socialisti. La persona dalla quale avevamo ottenuto tutto era Berlusconi e c’era di mezzo un nostro compaesano, Dell’Utri". "Io non conoscevo Berlusconi -aggiunge Spatuzza nelle dichiarazioni- e chiesi se era quello di Canale 5 e Graviano mi disse sì. Del nostro paesano mi venne fatto solo il cognome, Dell’Utri, non il nome. In sostanza, Graviano mi disse che grazie alla serietà di queste persone noi avevamo ottenuto quello che cercavamo "ci siamo messi il paese nelle mani", mettendo in evidenza la mancanza di serietà dei socialisti negli anni precedenti. A quel punto abbiamo avuto via libera all’attentato all’Olimpico che poi fallì e non si riprogrammò perché i fratelli Graviano vennero arrestati e non se ne fece più nulla".

Spatuzza nel suo interrogatorio rivela quindi alcuni retroscena della presunta trattativa tra Stato e Cosa nostra. Così, racconta di un altro incontro avvenuto a Campofelice di Roccella, nel palermitano, dopo la strage di Firenze nel 1993. "Quell’incontro - ha detto ai magistrati - doveva essere finalizzato a programmare un attentato ai carabinieri da fare a Roma. Noi avevamo perplessità perché si trattava di "fare morti" fuori dalla Sicilia. Graviano, per rassicurarci, ci disse che da quei morti avremmo tratto tutti benefici, a partire dai carcerati. In quel momento io compresi che c’era una trattativa.

Lo compresi perché Graviano disse a me e a Lo Nigro se noi capivamo qualcosa di politica e ci disse che lui ne capiva. Questa affermazione mi fece intendere che c’era una trattativa che riguardava anche la politica. Da quel momento io dovevo organizzare l’attentato ai carabinieri e mi mossi in questo senso. Individuai quale obiettivo lo stadio Olimpico. Mentre preparavo l’attentato mi venne detto che dovevo potenziarne gli effetti lesivi e ,intanto, dovevo aspettare un nuovo incontro con Giuseppe Graviano a Roma che in effetti avvenne". Alla domanda sul perché non avesse riferito tutto subito sul presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, Spatuzza ha risposto: "Perché intendevo prima di tutto che venisse riconosciuta la mia attendibilità su altri argomenti e poi riferirne, sia per ovvie ragioni inerenti la mia sicurezza sia per non essere sospettato di speculazioni su questo nome nella fase iniziale, giá molto delicata della mia collaborazione".

Ghedini - Sulle dichiarazioni di Spatuzza si registra anche l’intervento di Niccolò Ghedini (Pdl), legale del presidente del Consiglio: "Le dichiarazioni rilasciate da tale Spatuzza nei confronti del presidente Berlusconi sono del tutto prive di ogni fondamento e di ogni possibile riscontro. L’autorità giudiziaria ha già ampiamente indagato sulle assurde accuse che nel passato erano state mosse nei confronti del presidente Berlusconi e ne ha accertato, come era ovvio, la più totale estraneità a qualsiasi ipotesi di connessione con la mafia, fenomeno che i governi presieduti dall’on. Berlusconi hanno sempre fortemente ed efficacemente contrastato". "Tale linea di condotta - prosegue - è la migliore dimostrazione della inconsistenza di qualsiasi ipotesi in tal senso. È davvero incredibile che vi sia ancora qualcuno che può dar credito a dichiarazioni siffatte, la cui portata antigiuridica è evidente e per le quali si procederà in ogni sede".

Giustizia: Quagliariello (Pdl); non perdiamo anima garantista

 

Ansa, 24 ottobre 2009

 

"Di fronte alle ultime inchieste giudiziarie il partito si è mostrato troppo timido. Di questo passo rischiamo di perdere l’anima garantista, proprio ora che dobbiamo rispondere colpo su colpo": è il richiamo che il vicepresidente vicario dei senatori del Pdl, Gaetano Quagliariello, indirizza agli esponenti del suo partito.

"Ci stanno servendo una polpetta avvelenata, e non dobbiamo dare per scontato questo chiacchiericcio", dice Quagliariello, che in un’intervista a Libero cita il caso Cosentino, ma anche il divieto di dimora deciso dal gip per Sandra Leonardo Mastella e "il nuovo tentativo per accreditare il vecchio teorema secondo cui le stragi del 1992 avrebbero un’intelligenza comune: Dell’Utri e Berlusconi".

"Nel partito tutti devono capire che il tema della giustizia, dopo la sentenza della Corte Costituzionale sul lodo Alfano, è tornato centrale. Basta con questa sindrome di sudditanza culturale", dice l’esponente del Pdl. "Abbiamo notizia, e lo faremo presente nelle sedi opportune, di intercettazioni telefoniche in cui tra gli interlocutori vi sono alcuni parlamentari", denuncia Quagliariello. "Intercettazioni trascritte e inserite in atti giudiziari senza che nessuna richiesta di autorizzazione sia pervenuta alla giunta della Camera di appartenenza".

Giustizia; in Campania la camorra va alla conquista dei partiti

di Roberto Saviano

 

La Repubblica, 24 ottobre 2009

 

Quando un’organizzazione può decidere del destino di un partito controllandone le tessere, quando può pesare sulla presidenza di una Regione, quando può infiltrarsi con assoluta dimestichezza e altrettanta noncuranza in opposizione e maggioranza, quando può decidere le sorti di quasi sei milioni di cittadini, non ci troviamo di fronte a un’emergenza, a un’anomalia, a un "caso Campania". Ma al cospetto di una presa di potere già avvenuta della quale ora riusciamo semplicemente a mettere insieme alcuni segni e sintomi palesi.

Sembra persino riduttivo il ricorso alla tradizionale metafora del cancro: utile, forse, soprattutto per mostrare il meccanismo parassitario con cui avviene l’occupazione dello Stato democratico da parte di un sistema affaristico-politico-mafioso. Ora che le organizzazioni criminali decidono gli equilibri politici, è la politica ad essere chiamata a dare una risposta immediata e netta. Nicola Cosentino, attuale sottosegretario all’Economia e coordinatore del Pdl in Campania, fino a qualche giorno fa era l’indiscusso candidato alla presidenza della Regione. Nicola Cosentino, detto "l’americano", è stato indicato da cinque pentiti come uomo organico agli interessi dei Casalesi: tra le deposizioni figurano quelle di Carmine Schiavone, cugino di Sandokan, nonché di Dario de Simone, altro ex capo ma soprattutto uno dei pentiti che si sono rivelati fra i più affidabili al processo Spartacus.

Per ora non ci sono cause pendenti sulla sua testa e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono al vaglio della magistratura. Nicola Cosentino si difende affermando di non poter essere accusato della sua nascita a Casal di Principe, né dei legami stretti anni fa da alcuni suoi familiari con esponenti del clan. Però da parte sua sono sempre mancate inequivocabili prese di distanza e questo, in un territorio come quello casertano, sarebbe già stato sufficiente per tenere sotto stretta sorveglianza la sua carriera politica. Invece l’ascesa di Cosentino non ha trovato ostacoli: da coordinatore provinciale a coordinatore regionale, da candidato alla Provincia di Caserta a sottosegretario dell’attuale governo. E solo ora che aspira alla carica di Governatore, finalmente qualcuno si sveglia e si chiede: chi è Nicola Cosentino? Perché solo ora si accorgono che non è idoneo come presidente di regione?

Perché si è permesso che l’unico sviluppo di questi territori fosse costruire mastodontici centri commerciali (tra cui il Centro Campania, uno dei più grandi al mondo) che sistematicamente andavano ad ingrassare gli affari dei clan. Come ha dichiarato il capo dell’antimafia di Napoli Cafiero de Raho "è stato accertato che sarebbe stato imposto non solo il pagamento di tangenti per 450 mila euro (per ogni lavoro ndr) ma anche l’affidamento di subappalti in favore di ditte segnalate da Pasquale Zagaria". Lo stesso è accaduto con Ikea, che come denunciato al Senato nel 2004 è sorto su un terreno già confiscato al capocamorra Magliulo Vincenzo, e viene dallo Stato ceduto ad una azienda legata ai clan. Nulla può muoversi se il cemento dei clan non benedice ogni lavoro.

Secondo Gaetano Vassallo, il pentito dei rifiuti facente parte della fazione Bidognetti, Cosentino insieme a Luigi Cesaro, altro parlamentare Pdl assai potente, in zona controllava per il clan il consorzio Eco4, ossia la parte "semilegale" del business dell’immondizia che ha già chiesto il tributo di sangue di una vittima eccellente: Michele Orsi, uno dei fratelli che gestivano il consorzio, viene freddato a giugno dell’anno scorso in centro a Casal di Principe, poco prima che fosse chiamato a testimoniare a un processo. Il consorzio operava in tutto il basso casertano sino all’area di Mondragone dove sarebbe invece - sempre secondo il pentito Gaetano Vassallo - Cosimo Chianese, il fedelissimo di Mario Landolfi, ex uomo di An, a curare gli interessi del clan La Torre. Interessi che riguardano da un lato ciò che fa girare il danaro: tangenti e subappalti, nonché la prassi di sversare rifiuti tossici in discariche destinate a rifiuti urbani, finendo per rivestire di un osceno manto legale l’avvelenamento sistematico campano incominciato a partire dagli anni Novanta. Dall’altro lato assunzioni che garantiscono voti ossia stabilizzano il consenso e il potere politico.

Districare i piani è quasi impossibile, così come è impossibile trovare le differenze tra economia legale e economia criminale, distinguere il profilo di un costruttore legato ai clan ed un costruttore indipendente e pulito. Ed è impossibile distinguere fra destra e sinistra perché per i clan la sola differenza è quella che passa tra uomini avvicinabili, ovvero uomini "loro", e i pochi, troppo pochi e sempre troppo deboli esponenti politici che non lo sono. E, infine, è pura illusione pensare che possa esistere una gestione clientelare "vecchia maniera", ossia fondata certo su favori elargiti su larga scala, ma aliena dalla contaminazione con la camorra. Per quanto Clemente Mastella possa dichiarare: "Io non ho nessuna attinenza con i clan e vivo in una provincia dove questo fenomeno non c’è, o almeno non c’era fino a poco fa", sta di fatto che un filone dell’inchiesta sullo scandalo che ha investito lui, la sua famiglia e il suo partito sia ora al vaglio dell’Antimafia. I pubblici ministeri starebbero indagando sul business connesso alla tutela ambientale; si ipotizza il coinvolgimento oltre che degli stessi Casalesi anche del clan Belforte di Marcianise. Il tramite di queste operazioni sarebbe Nicola Ferraro, anch’egli nativo di Casal di Principe, consigliere regionale dell’Udeur, nonché segretario del partito in Campania. Di Ferraro, imprenditore nel settore dei rifiuti, va ricordato che alla sua azienda fu negato il certificato antimafia; ciò non gli ha impedito di fare carriera in politica. E questo è un fatto.

Di nuovo, non è l’aspetto folkloristico, la Porsche Cayenne comprata dal figlio di Mastella Pellegrino da un concessionario marcianisano attualmente detenuto al 416-bis, a dover attirare l’attenzione. L’aspetto più importante è vedere cos’è stato il sistema Mastella - un sistema che per trent’anni ha rappresentato la continuità della politica feudale meridionale - e che cosa è divenuto. Oggi, persino se le indagini giudiziarie dovessero dare esiti diversi, non si può fingere di non vedere che Ceppaloni confina con Casal di Principe o vi si sovrappone. E il nome di Casale qui non ha valenza solo simbolica, ma è richiamo preciso alla più potente, meglio organizzata e meglio diversificata organizzazione criminale della regione.

Per la camorra - abbiamo detto - destra e sinistra non esistono. Il Pd dovrebbe chiedersi, ad esempio, come è possibile che in un solo pomeriggio a Napoli aderiscano in seimila. Chi sono tutti quei nuovi iscritti, chi li ha raccolti, chi li ha mandati a fare incetta di tessere? Da chi è formata la base di un partito che a Napoli e provincia conta circa 60.000 tesserati, 10.000 in provincia di Caserta, 12.000 in quella di Salerno, 6.000 ciascuno nelle restanti province di Avellino e Benevento? Chiedersi se è normale che il solo casertano abbia più iscritti dell’intera Lombardia, se non sia curioso che in alcuni comuni alle recenti elezioni provinciali, i voti effettivamente espressi in favore del partito erano inferiori al numero delle tessere. Perché la dirigenza del Pd non è intervenuta subito su questo scandalo?

Che razza di militanti sono quelli che non vanno a votare, o meglio: vanno a votare solo laddove il loro voto serve? E quel che serve, probabilmente, è il voto alle primarie, soprattutto nella prima ipotesi che fosse accessibile solo ai membri tesserati. Questo è il sospetto sempre più forte, mentre altri fatti sono certezza. Come la morte di Gino Tommasino, consigliere comunale Pd di Castellammare di Stabia, ucciso nel febbraio dell’anno scorso da un commando di cui faceva parte anche un suo compagno di partito. O la presenza al matrimonio della nipote del ex boss Carmine Alfieri del sindaco di Pompei Claudio d’Alessio.

L’unica cosa da fare è azzerare tutto. Azzerare le dirigenze, interrompere i processi di selezione in corso, sia per la candidatura alla Regione che per le primarie del Pd, all’occorrenza invalidare i risultati. Non è più pensabile lasciare la politica in mano a chi la svende a interessi criminali o feudali. Non basta più affidare il risanamento di questa situazione all’azione del potere giudiziario. Non basterebbe neppure in un Paese in cui la magistratura non fosse al centro di polemiche e i tempi della giustizia non fossero lunghi come nel nostro. È la politica, solo la politica che deve assumersi la responsabilità dei danni che ha creato. Azzerare e non ricandidare più tutti quei politici divenuti potenti non sulle idee, non su carisma, non sui progetti ma sulle clientele, sul talento di riuscire a spartire posti e quindi ricevere voti.

Mentre la politica si disinteressava della mafia, la mafia si è interessata alla politica cooptandola sistematicamente. Ieri a Casapesenna, il paese di Michele Zagaria, è morto un uomo, un politico, il cui nome non è mai uscito dalle cronache locali. Si chiamava Antonio Cangiano, nel 1988 era vicesindaco e si rifiutò di far vincere un appalto a un’impresa legata al clan. Per questo gli tesero un agguato. Lo colpirono alla schiena, da dietro, in quattro, in piazza: non per ucciderlo ma solo per immobilizzarlo, paralizzarlo. Tonino Cangiano ha vissuto ventuno anni su una sedia a rotelle, ma non si è mai piegato. Non si è nemmeno perso d’animo quando tre anni fa coloro che riteneva responsabili di quel supplizio sono stati assolti per insufficienza di prove.

Se la politica, persino la peggiore, non vuole rassegnarsi ad essere mero simulacro, semplice stampella di un’altra gestione del potere, è ora che corra drasticamente ai ripari. Per mero istinto di sopravvivenza, ancora prima che per "questione morale". Non è impossibile. O testimonia l’immagine emblematica e reale di Tonino che negli anni aveva dovuto subire numerosi e dolorosi interventi terminati con l’amputazione delle gambe, un corpo dimezzato, ma il cui pensiero, la cui parola, la cui voglia di lottare continuava a prendersi ogni libertà di movimento. Un uomo senza gambe che cammina dritto e libero, questo è oggi il contrario di ciò che rappresentano il Sud e la Campania. È ciò da cui si dovrebbe finalmente ricominciare.

Giustizia: Casellati; sì a incontri detenuti con mogli e compagne

 

Ansa, 24 ottobre 2009

 

Il sottosegretario alla Giustizia Elisabetta Casellati è favorevole, a titolo personale, "alla possibilità che i carcerati possano incontrare periodicamente mogli o compagne, anche per evitare che ci siano contatti innaturali tra loro dietro le sbarre". "Da studentessa - ha detto Casellati a Klauscondicio - ho fatto anche una ricerca sulla situazione delle carceri in Italia e le questioni sessuali risultavano essere molto importanti e quindi, rispetto a pulsioni che sono naturali, poi si possono creare, per mancanza di incontri con la propria moglie o compagna, dei contatti innaturali, o che uno non vorrebbe mai sostenere". Ma le sue parole provocano la reazione degli educatori penitenziari che chiedono al ministro della Giustizia Alfano: "esterna su tutto, la fermi subito".

Sardegna: carceri regione insicure, mancano settecento agenti

 

La Nuova Sardegna, 24 ottobre 2009

 

La "vertenza Sardegna" inaugurata oltre un anno fa dai sindacati di polizia penitenziaria per denunciare l’invivibilità delle carceri isolane e la cronica mancanza di organico è tutt’altro che risolta. Per questo ieri i sindacati hanno alzato il tiro e hanno deciso di manifestare sotto gli uffici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in via Tuveri.

In Sardegna - ha detto Bruno Melis, segretario regionale della Federazione sindacati autonomi/Coordinamento nazionale polizia penitenziaria - lavorano circa 1300 agenti che devono far fronte a 2600 detenuti. Crediamo, al contrario, che per garantire livelli standard di sicurezza l’organico debba essere incrementato di almeno 700 unità.

Da oltre un anno parliamo di vertenza Sardegna, ma ancora non abbiamo ricevuto risposta né dal provveditore regionale, Francesco Massidda, né dai vertici del ministero di Grazia e giustizia. Per questo - ha aggiunto Melis - chiediamo al consiglio regionale di intervenire con forza al nostro fianco e siamo pronti a ritornare in piazza fino a quando i nostri interlocutori non ci daranno risposte chiare sui problemi del settore.

Per i sindacati, la situazione di emergenza che da diverso tempo sta caratterizzando il sistema penitenziario sardo non è più sostenibile e, anzi, va ogni giorno aggravandosi "anche a causa dell’assenza del provveditore regionale del Dap Francesco Massidda - si legge in una nota distribuita ieri - che non convoca i sindacati e neppure si premura di rispondere alle istanze dei lavoratori". Il responsabile regionale della Federazione nazionale Ugl polizia penitenziaria, Alessandro Cara, ha sottolineato come "le aggressioni agli agenti da parte dei reclusi sono continue e spesso sono dovute all’invivibilità delle carceri, stipate all’inverosimile". Per il rappresentante dell’Unione generale del lavoro, il confronto con i rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria deve tener conto anche di altri aspetti, "come la mancata applicazione delle direttive sugli straordinari e la distribuzione del personale nelle varie sedi carcerarie dell’isola, ora inadeguata". Infine, i sindacati si dicono contrari all’apertura di nuovi bracci nelle strutture di Is Arenas, Nuoro-Mamone e Oristano, così come ventilato nei giorni scorsi.

Modena: alla "Casa di lavoro" contrasti tra agenti e direzione

di Valentina Beltrame

 

Il Resto del Carlino, 24 ottobre 2009

 

Ispezione alla casa lavoro di Saliceta San Giuliano. Nei giorni scorsi i funzionari mandati dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria hanno portato a termine un’indagine di carattere amministrativo relativa alla richiesta di trasferimento d’ufficio della dirigente, Federica Dallari, da parte di alcuni agenti.

I poliziotti della penitenziaria chiedono che la direttrice cambi sede per incompatibilità ambientale. La accusano di aver pronunciato una frase offensiva nei confronti delle guardie carcerarie dopo che due operatori avevano messo a segno un arresto in un bar, di fatto denigrando il loro lavoro all’esterno della casa lavoro. La Dallari si è sempre detta "tranquilla e serena", rispedendo le accuse al mittente.

Informato del caso, il provveditore delle carceri dell’Emilia Romagna, Nello Cesari, si è attivato immediatamente mandando gli ispettori a Saliceta per un’indagine amministrativa. Lo scopo è quello di capire se davvero i rapporti tra la dirigente a parte degli agenti siano ormai deteriorati e se, in particolare, la direttrice abbia o meno offeso le guardie dopo quell’arresto. "Dei poverini che valgono meno di niente". Sono

queste le parole che, secondo i sindacalisti di Cgil e Uil, sarebbero state pronunciate dalla Dallari e che hanno fatto infuriare gli agenti della penitenziaria spingendoli a scrivere direttamente al capo del Dap a livello nazionale, Franco Ionta.

La relazione degli ispettori è in fase conclusiva e deve ancora essere valutata dal provveditore regionale Cesari, che potrebbe vedersi costretto a prendere provvedimenti nel caso si accerti un’incompatibilità tra la direzione della casa lavoro e gli agenti. C’è un altro problema, inoltre, che i sindacati avevano sollevato nei giorni scorsi. La carriera del personale di sorveglianza sarebbe ostacolata dai cattivi voti sui rapporti informativi che la direttrice della casa lavoro deve attribuire ogni anno agli agenti: "Il voto finale spetta alla direttrice - dicono i sindacalisti - Negli ultimi anni le votazioni si sono abbassate drasticamente. Alcuni agenti esperti sono passati in due anni da un 30 a un 12, cioè a un’insufficienza. Questo compromette le nostre carriere".

Modena: il Pd chiede ispezione al carcere e invio nuovi agenti

 

Il Resto del Carlino, 24 ottobre 2009

 

L’invio immediato dei 41 agenti promessi; lo spostamento in altre carceri di 150 detenuti del S. Anna; la modifica della legge Cirielli, della Fini-Giovanardi e l’abolizione del reato di clandestinità. È quanto chiede l’ordine del giorno presentato dal capogruppo del Pd in Consiglio provinciale Luca Gozzoli e dai consiglieri del Pd Cècile Kyenge e Fausto Cigni.

I rappresentanti democratici sollecitano anche ispezioni nelle carceri per verificare il trattamento dei detenuti; lo stato dei fabbricati; l’organizzazione del lavoro; le condizioni igienico-sanitarie degli edifici. Chiedono inoltre il recupero delle risorse non stanziate per il potenziamento delle forze di polizia.

A sostegno delle loro richieste i tre consiglieri forniscono alcune cifre significative sugli istituti penitenziari modenesi: nel carcere di Castelfranco ci sono 149 reclusi mentre la capienza dell’istituto è di 82 unità e gli agenti sono 39 a fronte di un organico di 59 unità. Analoga situazione nella Casa di lavoro di Saliceta San Giuliano con 109 detenuti e 38 agenti, a fronte di un organico di 50 unità. La situazione peggiore è nella Casa Circondariale di S. Anna, con 550 reclusi in uno spazio che potrebbe ospitarne solo 230.

"Questa situazione di sovraffollamento - si legge nell’Odg del Pd - è determinata dall’introduzione del reato di clandestinità e da leggi come la Cirielli (che prevede la detenzione in caso di recidivo di reati comuni) e la Fini-Giovanardi (che ha eliminato la dose di stupefacenti per uso personale)". Detenuti condannati a pene da uno a 4 mesi di carcere - sostengono i tre consiglieri - potrebbero invece scontare la pena con misure alternative. I tre consiglieri lamentano infine il degrado dei fabbricati, dei sistemi di sicurezza e dei mezzi di trasporto causati dai "forti tagli alle risorse economiche da parte del governo".

Roma: conferenza su "misure alternative" e sovraffollamento

 

Adnkronos, 24 ottobre 2009

 

Venerdì 30 ottobre, alle 11 a Roma, nella Sala del Mappamondo della Camera dei Deputati, in via della Missione 4, la Conferenza nazionale volontariato giustizia terrà una conferenza stampa sul tema, "Sovraffollamento carcerario: le alternative possibili".

Le associazioni che costituiscono la Cnvg (Arci Ora d’Aria, Antigone, Caritas Italiana, Comitato Telefono Azzurro, Comunità Papa Giovanni XXIII , Libera, Società San Vincenzo De Paoli, Seac, Rete nazionale del volontariato giustizia) chiedono che "vengano urgentemente messe in atto serie misure per rispondere al sovraffollamento nelle carceri e intendono formulare in sede di conferenza stampa serie proposte per arrivare ad una detenzione giusta ed umana e per rispondere con soluzioni concrete e razionali ai reati che si compiono".

Alla conferenza stampa, alla quale è stato invitato il presidente emerito della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, interverranno, tra gli altri, Elisabetta Laganà, presidente Conferenza nazionale volontariato giustizia, Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, Paolo Beni, responsabile nazionale Arci e Don Andrea La Regina, della Caritas Italiana.

Brasile: per incendio in carcere, sono morti almeno 7 detenuti

 

Ansa, 24 ottobre 2009

 

Almeno sette detenuti, ma fonti non ufficiali parlano di almeno 15, sarebbero bruciati vivi nell’incendio di un’ala del penitenziario di Joao Pessoa, capitale dello stato brasiliano di Paraiba. Lo ha detto l’emittente televisiva Globo, affermando che sarebbero stati gli stessi detenuti a dare fuoco a materassi. Le fiamme si sarebbero poi propagate uccidendo alcuni detenuti prima che gli agenti carcerari riuscissero ad aprire tutte le celle. Altre 40 persone sono ricoverate in ospedale con ustioni e intossicazione da fumo. Sono stati poi altri detenuti a spegnere le fiamme con secchi d’acqua. L’ala dell’incendio era quella dei detenuti più pericolosi, condannati per omicidi e stupri.

 

 

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