Rassegna stampa 23 ottobre

 

Giustizia: questo più che un piano-carceri è un piano criminale

di Giacomo Russo Spena

 

Terra, 23 ottobre 2009

 

"Un nuovo modello Abruzzo, per creare 20mila posti in 3 anni". Con queste parole il ministro Alfano spiega il Piano carceri. Che per molti fa acqua da troppe parti. Dalla copertura finanziaria, al sovraffollamento.

Berlusconi ha sbandierato il suo Piano carceri ai quattro venti. Il responsabile del Dap, Franco Ionta, l’ha vagamente enunciato in commissione Giustizia alla Camera parlando della costruzione di 24 case circondariali. "Un nuovo modello Abruzzo, per creare 20mila posti in tre anni", ha specificato il ministro Angelino Alfano. Al momento, solo parole.

Il progetto, tanto invocato, è infatti in alto mare. "Di cosa stiamo parlando?", si domanda la Radicale Rita Bernardini che aggiunge: "Manca la copertura finanziaria pari a 1,3 miliardi di euro e la costruzione di nuovi istituti prevede tempi lunghi, non risolve l’emergenza attuale". La situazione è arrivata al collasso. I detenuti sono 65mila (superiori alla fase pre indulto), in spazi che potrebbero ospitarne 43mila.

Persino 4.000 in più secondo la situazione di emergenza prevista dal ministero della Giustizia. Gli immigrati rinchiusi sono 23.423, pari al 36,85 per cento del totale, con il sovraffollamento che riguarda 11 regioni. Solo quest’anno sono morte in carcere 100 persone, 35 delle quali per suicidio.

"È evidente che ormai si evade così - aggiunge Bernardini - un’uscita silenziosa". E il governo, stralciato il vecchio Piano sull’edilizia carceraria di Ionta (mai presentato in Consiglio dei ministri), punta adesso sulla costruzione di nuove case circondariali. Per fare ciò verranno dati superpoteri proprio al capo del Dap, sul rimpatrio dei detenuti stranieri e sul passaggio da galera ad arresti domiciliari per chi deve scontare l’ultimo anno della pena (riguarda 18mila persone).

"Sarebbe un buon provvedimento, si avallerebbero misure alternative di detenzione", afferma l’avvocato ed ex parlamentare Giuliano Pisapia, il quale si dice convinto, però, che "alla fine questa norma non passerà". "L’esecutivo marcia in senso contrario - spiega -. Solo con il pacchetto sicurezza sono stati introdotti 6 nuovi reati e 14 aggravanti".

Anche sul rimpatrio, il giurista solleva dei dubbi ritenendolo "non attuabile". L’unica soluzione, per Antigone, è depenalizzare alcuni reati e abrogare le tre leggi che maggiormente creano carcerazione: la Cirielli sulla recidiva, la Fini-Giovanardi sulle droghe e la Bossi-Fini sull’immigrazione.

"La popolazione nelle celle continua a crescere, con tutte le relative valenze di pericolo e di trattamento", denunciano invece i sindacati degli agenti penitenziari costretti a lavorare in condizioni sempre peggiori (così come gli educatori e gli psicologi consulenti). Per Francesco Quinti della Fp-Cgil sono in aumento gli attacchi al personale che ormai è "demotivato, stanco e malpagato". Gli uomini in servizio sono diminuiti di 5.000 unità, mentre i detenuti crescono di almeno 800 al mese.

"Al di là dell’approvazione e della successiva fase organizzativa ed edificatrice, il Piano carceri esplicherà i suoi effetti tra non meno di due anni. Nel frattempo occorre ragionare e confrontarsi sull’immediato", sentenzia Eugenio Sarno della Uil Pa che sottolinea come circa 800 agenti sfuggano alla gestione ordinaria essendo impiegati in imprecisati compiti in varie strutture: "L’immobilismo e la mancanza di risposte da parte dell’amministrazione penitenziaria - continua - alimenta depressione, rabbia, frustrazione e demotivazione". Tanto che da Asti a Bologna, da Sulmona a Lecce, da Ferrara a Rieti, da Modena a Perugia, da Lanciano a Trapani è tutto un fiorire di manifestazioni di protesta".

Contro il governo. Leo Beneduci, segretario dell’Osapp, elenca tutti i suoi fallimenti: "La sperimentazione del braccialetto elettronico, il riallineamento delle carriere, gli aumenti di stipendio negati dal ministro Brunetta, gli straordinari mai veramente garantiti". E aggiunge che "per il momento sono disponibili soltanto 350 milioni di euro, 150 dei quali della Cassa delle Ammende".

Giustizia: Uil; emergenza senza precedenti, il ministro ci incontri

 

Comunicato stampa, 23 ottobre 2009

 

Lettera al Ministro della Giustizia Alfano. È comunemente e tristemente noto, purtroppo, lo stato in cui versa il sistema penitenziario italiano. Un sistema che non riesce più, semmai lo avesse fatto, a garantire una detenzione nei canoni della civiltà, improntata alla rieducazione e al reinserimento sociale delle persone detenute.

Certamente la storica, atavica, disattenzione verso il carcere della politica e di chi ha assunto la guida del Ministero della Giustizia ha contribuito ad affermare l’attuale emergenza, che non ha precedenti nella storia repubblicana: un surplus di circa 22mila detenuti (65mila presenti a fronte dei 43mila possibili);una deficienza organica del Corpo di polizia penitenziaria di circa 5mila unità cui si coniuga la riconosciuta penuria di operatori del trattamento intra ed extra moenia; la gran parte delle strutture penitenziarie fatiscenti, obsolete e non adatte.

Queste, per dire, sono solo alcune delle criticità che investono quel mondo verso cui si preferisce non volgere lo sguardo. Evidentemente, ci si accontenta di fare spallucce e guardare altrove. Se proprio necessario un bell’annuncio di piani carceri e di assunzioni, tanto per tacitare, per poi far precipitare velocemente nell’oblio i problemi e gli eventi critici che rappresentano la quotidianità dell’operatore penitenziario. Ma, si obietterà, la Giustizia ha altre priorità. Ciò non giustifica nessuno, però!

Lo scorso Ferragosto è stato caratterizzato dalle visite di tantissimi parlamentari e politici presso gli istituti penitenziari a sostegno dell’iniziativa che Marco Pannella, Rita Bernardini, il Partito Radicale e la Uil Pa Penitenziari hanno denominato "Ferragosto in carcere". Avevamo fortemente creduto che, alimentando la conoscenza e favorendo la consapevolezza, nel Parlamento avrebbe potuto radicarsi una coscienza sul dramma che ogni giorno si consuma all’interno delle nostre prigioni. Dolorosamente prendiamo atto che così non è stato. Il Parlamento resta insensibile e distante, mentre nelle nostre carceri si continuano ad ammassare esseri umani alla stregua di bestie all’ingrasso.

Le nostre carceri. Luoghi dove persino l’aria e il respiro libero rischiano di trasformarsi in privilegio. Luoghi dove si perpetua, ogni giorno, la sopraffazione del diritto soggettivo e collettivo. Luoghi in cui si è costretti a lavorare in ambienti malsani, puzzolenti, insicuri. Ogni giorno ci si deve affidare alla fede o allo stellone per superare indenni i turni di servizio, che si allungano sempre più e senza nemmeno l’adeguata remunerazione.

Il costante depauperamento degli organici della polizia penitenziaria ha determinato l’allucinante condizione per la quale ogni agente addetto alla sorveglianza ha sotto il proprio controllo non meno di 100 detenuti nelle ore diurne; dai 200 ai 450 nelle ore notturne. A questo personale si negano ferie e riposi perché "costretto" ad assicurare servizi essenziali. Di contro nulla gli si concede in termini di diritti o di semplice attenzioni. Gli si nega persino la disponibilità all’ascolto!

Una Amministrazione silente, immobile, lontana. Incapace di rispondere alle istanze, ai bisogni, alle elementari esigenze non può non ampliare demotivazione e sfiducia. In periferia si ha la sensazione di essere solo numeri. Nulla più! Per giunta numeri inadeguati ed insufficienti. Eppure nei "palazzi del potere" è possibile incrociare persone che appartengono al Corpo di polizia penitenziaria il cui lavoro e i cui compiti non sono, per ricorrere ad un eufemismo, ben definiti. Abbiamo quantificato tale contingente, senza smentita di sorta, in circa 800 le unità impiegate in "compiti indefiniti" in strutture "indefinite" e diverse dagli istituti penitenziari.

Noi della Uil Pa Penitenziari, Signor Ministro, abbiamo piena convinzione che, prima o poi, le annunciate assunzioni straordinarie arriveranno a fornire un po’ di ossigeno alle prime linee . Intanto, e nelle more delle agognate assunzioni, non comprendiamo, anche in nome dei principi dell’efficienza, efficacia ed economicità, perché ci si ostina a negarci un confronto sul recupero di queste unità.

Analogamente abbiamo difficoltà, ma saranno nostri limiti, a comprendere qual è la ragione per cui pur disponendo di circa 500 dirigenti penitenziari, una sessantina di istituti penitenziari sono privi di un Direttore/Dirigente titolare.

Non abbiamo dubbi che il Governo, come annunciato dal Pres. Berlusconi, a breve varerà il piano carceri, ed in relazione a ciò sentiamo parlare di un piano d’edificazione sul modello new town. Forse sarebbe bene e necessario pensare anche alle old house. Non per comprimere l’ambizione al bello e al nuovo, quanto per adeguare e ammodernare il presente e il disponibile. Credo che per illustrare il nostro pensiero ben calzi una citazione del Santo di Assisi "Cominciale col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile".

Di tutto ciò avremmo voluto parlarne con Lei Signor Ministro, in quanto nostro interlocutore naturale ed istituzionale. Perché siamo convinti che il confronto sia da preferire allo scontro. Perché siamo consapevoli del grave momento e intendiamo esercitare il nostro mandato con responsabilità, confrontandoci tra responsabilità e con persone responsabili.

Ma dobbiamo prendere atto che ogni invito al confronto, da qualunque parte pervenga e a prescindere da chi lo ha formulato, da qualche tempo ha trovato come unica risposta il suo silenzio. Non possiamo, quindi, che invitarla nuovamente a convocare ed incontrare le rappresentanze del lavoratori penitenziari, come pure si era ripromesso di fare. Almeno ciò ci aveva detto. Perché il personale ha bisogno di soluzioni, ma anche di speranze. Perché il Paese non merita questo sistema penitenziario che trasforma la pena in supplizio e il lavoro in tortura.

Perché lei ha il dovere di intervenire e noi abbiamo il dovere di provare, con lei, a ricercare quelle soluzioni possibili che, benché non esaustive, possano alimentare la speranza e ridare fiducia. Siamo ancora in tempo a fermare la deriva del sistema carcere prima che naufraghi, infrangendosi, sugli scogli del silenzio, dell’ipocrisia e dell’insensibilità. Allora nessuno potrà invocare innocenza. Ognuno sarà consegnato, condannato, alla storia per la propria incapacità a frenare questa folle corsa verso il baratro.

 

Uil-Pa Penitenziari

Il Segretario Generale

Eugenio Sarno

Giustizia: stretta alla prescrizione, migliaia di processi a rischio

di Liana Milella

 

La Repubblica, 23 ottobre 2009

 

Pur di eliminarne due chi se ne importa se vanno al macero altri centomila tra dibattimenti e inchieste. Era la logica del famoso emendamento blocca processi del giugno 2008, è la stessa dell’ennesima norma "ad Berlusconem" che sta studiando il suo avvocato e consigliere giuridico Niccolò Ghedini. Pensa che ti ripensa (lo sta facendo da settimane prima ancora che il lodo Alfano, sua creatura, fosse bocciato dalla Consulta), ecco che la soluzione è saltata fuori, tanto da portarla al ministero della Giustizia per un consulto con gli esperti. Un colpo alla prescrizione, per togliere dalla strada del Cavaliere i processi Mills e Mediaset che con le udienze ormai sdoganate gli stanno per rovinare la legislatura.

Un colpo ben mirato stavolta: togliere di netto, dal calcolo dei tempi di prescrizione, gli anni in più che sono frutto di quello che, nei codici, viene definito un "atto interruttivo", un’interruzione per via di un interrogatorio, di un rinvio a giudizio, di una sentenza di primo grado. Un aumento stimato in un quarto in più e che può essere applicato solo una volta anche se gli stop processuali sono ovviamente più d’uno. Un esempio? Tanto vale, per intenderci bene, capire che succede con i processi del premier: nel caso Mills Berlusconi è imputato di corruzione, la prescrizione è calcolata in otto anni, cioè il massimo della pena, che passano a dieci per via delle interruzioni. E poi Mediaset: l’accusa di frode fiscale porta la prescrizione a sei anni, che passa a sette e mezzo per via degli "atti interruttivi" compiuti. E che s’inventa Ghedini? Via quei due anni per Mills, ed ecco che il processo anziché cadere in prescrizione nel 2012 arretra all’anno prossimo. E siccome va rifatto dall’inizio dopo la separazione da quello dell’avvocato David Mills (già condannato a quattro anni e mezzo) per via del lodo Alfano, si può considerare defunto. Idem per Mediaset anche se con un po' di sofferenza in più: la prescrizione sarebbe scaduta nel 2013 ma con la "ghedinata" ecco che arretra al 2011.

Dopo il regalo della ben nota ex Cirielli, votata nel dicembre 2005 dal precedente governo Berlusconi, il premier si fa un altro dono. Prima di quella legge gli anni in cui un reato "moriva" erano maggiori, il massimo della pena aumentato della metà. Con l’ex Cirielli quella metà calò a un quarto. E adesso, per i reati commessi fino a maggio 2006, quando fu approvato l’indulto, quella metà addirittura sparisce. E sarà interessante capire con quale motivazione Ghedini potrà proporre (non risulta che l’abbia fatto) un simile taglio alla Lega, da sempre partito delle manette e per antonomasia contro l’indulto. Bossi sarà pronto a sottoscrivere la "morte" di centinaia di processi pur di salvare Berlusconi? Un fatto è certo. Diceva ieri Bossi che "anche sulla giustizia c’è un accordo con Berlusconi, un accordo su tutto". Anche sulla prescrizione cortissima? È un interrogativo pari alla reazione dei finiani che con Giulia Bongiorno hanno sempre contrastato norme che si risolvono in un danno ingiustificato all’esercizio dell’azione penale.

Ma la modifica annunciata fino a che punto è un terremoto? Un pre-sondaggio tra le toghe ne rivela l’effetto devastante. "Sarebbe un’amnistia, una strage tra processi giunti all’ultimo stadio in Cassazione". "Allora meglio l’indulto che è revocabile se commetti un nuovo reato e si applica una sola volta". Perché l’assurdo del nuovo taglio alla prescrizione è che a goderne potrebbe essere lo stesso imputato in 50 processi. Tutti verrebbero potati. E che dire del calendario della Cassazione che, per il prossimo anno, ha fissato le udienze in base alla prescrizione? Tutti i processi cadrebbero. Ma vale lo spirito della blocca-processi. Un anno fa se ne volevano fermare centomila, così stimò l’Anm, pur di congelare i due di Berlusconi, ora la prescrizione cortissima ne taglierà altrettanti con lo stesso obiettivo. Allora Napolitano bloccò la norma. Ma il dopo lodo del Cavaliere è già cominciato. Commenta una toga: "Non sarebbe meglio fare una legge per dire che i processi del premier vanno cancellati?".

Giustizia: la "durata eccessiva" dei processi e l'incubo di Alfano

 

Il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2009

 

Nella relazione al Parlamento sullo stato della giustizia, Alfano ha detto che aveva un incubo: la lunghezza dei processi. È intollerabile, ha detto, e la riforma che sto preparando vi porrà fine. Poi i progetti di riforma sono venuti fuori: separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati (che è già prevista), no alle intercettazioni, no alla Polizia giudiziaria nelle procure, divieto di utilizzare le sentenze definitive in altri processi per gli stessi fatti e furbate del genere.

Queste riforme non accorciano i processi, li allungano. Per far capire quello che servirebbe davvero, racconto un processo che si è tenuto qualche giorno fa ad Ivrea, cittadina a 36 km da Torino, dove c’è un Tribunale, una Procura, un ufficio Giudici di pace e una Corte d’Assise. Qui è stato condannato all’ergastolo Domenico Agresto per l’omicidio di Giuseppe Trapasso; una storia di traffico di stupefacenti e di concorrenza tra bande rivali.

Con Agresto erano processati Vincenzo Solli e Maxwell Caratti, tutti accusati di omicidio, porto d’arma e distruzione di cadavere perché, dopo aver sparato a Trapasso, lo hanno bruciato. Perché questi due non sono stati processati? Agresto ha chiesto un processo abbreviato, sperando in una diminuzione di pena: in effetti l’abbreviato è un po’ più rapido e semplice perché il giudice può utilizzare le prove raccolte dal pm senza rifarle tutte, come invece succede nel processo normale.

Gli altri invece hanno deciso per il processo normale; e quindi il lavoro è raddoppiato. Ma la parte drammatica arriva adesso. Agresto, nel suo processo, ha depositato un memoriale in cui racconta che lui ha sparato a Trapasso, che Solli gli ha procurato l’arma ed era con lui quando questi è stato ucciso e che Caratti è arrivato dopo e li ha aiutati a bruciare il cadavere. Se tutti e tre fossero stati processati insieme, Agresto e Solli si sarebbero presi l’ergastolo e Caratti sarebbe stato condannato agli anni di galera che gli toccavano.

Ma ora per Solli e Caratti si deve fare un altro processo con altre regole. E queste prevedono che Agresto, che dovrebbe raccontare quello che ho scritto nel suo memoriale, possa rifiutarsi di rispondere: il nostro geniale legislatore, ha inventato una figura particolare, l’imputato testimone che ha, sì, l’obbligo di testimoniare sugli altri imputati ma solo se il suo processo si è concluso con sentenza definitiva; se no, può dire "mi avvalgo della facoltà di non rispondere".

Come ho detto, Agresto è stato condannato, però ci sono ancora Appello e Cassazione (e c’è da giurare che ci andrà, visto che si è beccato l’ergastolo); dunque la sua sentenza di condanna non è definitiva; e quindi è ovvio che non accuserà i suoi complici (che sempre fieri delinquenti sono e gliela farebbero pagare): se ne starà zitto e nessuno potrà farci nulla.

Ma c’è il memoriale, in cui Agresto ha raccontato come si sono svolte le cose; quello si può acquisire. Sì, ma solo con "il consenso delle parti" (così dice la legge). E, secondo voi, gli avvocati di Solli e Caratti daranno il consenso per l’acquisizione di una prova che li incastra?

Adesso, visto che Alfano ha il diritto di dormire in pace, gli suggerisco alcune riforme vere. Prima di tutto abolire i tribunali piccoli e trasferire tutte le loro risorse nei tribunali grandi. Si chiama riforma delle circoscrizioni giudiziarie, da 30 anni si dice che si deve fare ma, chissà perché (e gli avvocati che hanno i loro studi nelle città piccoline? e i magistrati capi degli uffici soppressi?), non se ne fa niente.

Poi stabilire che tutti i processi si facciano come si fa il processo abbreviato, quello che ha permesso di dare presto e bene l’ergastolo ad Agresto. Poi abolire tutte le norme che vietano di utilizzare prove che permetterebbero di condannare un sacco di delinquenti. Solo che così Berlusconi sarebbe stato già condannato per corruzione dell’avvocato Mills... Capisco che Alfano preferisca tenersi i suoi incubi.

Giustizia: a Rignano va in scena "l’assoluzione" delle maestre

di Alessandra Arachi

 

Corriere della Sera, 23 ottobre 2009

 

Il teatro è pieno pieno, non si trovano posti a sedere. Verrebbe da dire che Rignano Flaminio è tutta qui, se soltanto fuori non fosse rimasta l’altra metà di questo paese ferito. Va in scena un processo al contrario oggi pomeriggio al teatro Palladino. Va in scena l’Innocenza della maestre di Rignano, per la regìa dell’associazione Ragione e giustizia.

Lo ricordate? Successe tutto tre anni fa. Il 12 ottobre 2006, per l’esattezza. Nella scuola materna di questo paesino alle soglie di Roma entrano i carabinieri con l’indice puntato contro le maestre Silvana, Marisa, Patrizia: avete molestato vostri bambini dell’asilo. C’erano venti mamme e venti papà sul piede di guerra. Gli accusatori? Proprio i piccoletti. Soltanto loro, però.

"La testimonianza più assurda: si sa che i bambini sono gli unici esseri al mondo che mentono senza davvero sapere di mentire. E lo fanno con facilità, soprattutto se stimolati dagli adulti". Modesto Mendicini è un pediatra: Spetta a lui l’arringa di questo processo. Il sottosegretario alla famiglia Carlo Giovanardi ci è venuto apposta da Roma, per seguirlo, insieme ad altri parlamentari del Pdl. Dirà poi Giovanardi, in un fuori onda: "Gesù, non vorrei mai finire in una simile trappola giudiziaria. Queste maestre condannate soltanto dalla testimonianza di piccoli".

Nel suo intervento sul palco il sottosegretario ce l’aveva messa tutta per paLcificare gli animi di questo paese che da quando i carabinieri sono entrati nella scuola materna non è stato mai più lo stesso: "Ma non è fantastico se qualcuno finalmente capisse non tanto, e non solo, che queste maestre non sono dei mostri. Ma, soprattutto, che questi bambini non hanno subito degli orribili soprusi che si porteranno dietro tutta la vita?". Inutile.

Nelle ultime file le mamme e i papà dei bambini denuncianti mormorano. Imprecano. Vogliono soltanto giustizia. La loro giustizia. Anche le maestre colleghe delle accusate per tutto il pomeriggio si sono affannate a proclamare l’innocenza di queste donne, inutilmente. Inutilmente, perlomeno, per i genitori dei piccoli e di chi ancora vuole credere soltanto a loro, alla storia delle maestre pedofile e di tutti quegli orribili abusi.

"Ma è assurdo: si sa che la pedofilia al femminile non esiste". Tocca alla maestra Maria, Maria Onesti, la sintesi di questo psicodramma di provincia: "Lo sappiamo chi è stato a trasformare queste tre povere donne in mostri e streghe. Sono stati quelli venuti da fuori: da Formello, da Sant’Oreste, l’onda anomala di Saxa Rubra".

Loro, i genitori forestieri, dalle file in fondo alla sala, ora ascoltano muti. Ma la tensione in sala è palpabile, in tanti hanno paura che esploda. Per questo nel piccolo teatro sono arrivati molti carabinieri, sono tre anni che questo paese si è trasformato in una pentola a pressione.

Adesso siamo arrivati alla resa dei conti. Il prossimo 30 ottobre sarà il giudice dell’Udienza preliminare a decidere se rinviare a giudizio oppure no le maestre di Rignano. Loro, gli imputati (c’è anche il marito di una maestra fra loro) oggi pomeriggio hanno preferito non esserci. Hanno mandato un messaggio, piuttosto. Lo ha letto per loro Emanuela Scatolini, una collega. Un’autodifesa accurata, ma non certamente esaustiva.

In quel messaggio non c’era scritto, ad esempio, che nei loro racconti i piccoletti di Rignano Flaminio avevano puntato le loro accuse contro un "uomo nero". E che per questo il benzinaio cingalese Khelum Weramuni Da Silva si era trovato dentro un carcere, senza nemmeno il tempo di capire perché. Adesso è fuori, Khelum. Fuori dal carcere e da un incubo. Da sempre gli uomini neri sono i cattivi dei sogni dei bambini, eppure in prigione ci era finito senza alcuna remora. Suggerisce il pediatra Mendicini: "Succede che storie simili si montino per isteria collettiva: ricordiamoci di Me Martin, in California. Vennero tutti assolti, ma dopo sei anni di tragedie".

Friuli V.G.: proposta per istituzione Ufficio Garante dei detenuti

 

Agi, 23 ottobre 2009

 

Assicurare i diritti fondamentali di chi, per un periodo della sua vita, si trova in carcere, in qualche struttura psichiatrica, oppure vive nei centri di prima accoglienza, è trattenuto nei centri di assistenza temporanea per stranieri o, ancora, di tutti coloro che sono sottoposti al trattamento sanitario obbligatorio. Perché spesso, a queste persone, lavoro, salute e formazione sono diritti dimenticati.

È per questo che Giorgio Baiutti, Giorgio Brandolin e Sergio Lupieri per il Pd, assieme a Piero Colussi di IdV-Citt e Igor Kocijancic di Sa-Prc, hanno presentato e illustrato alla V Commissione (presieduta da Roberto Marin, Pdl) una proposta di legge che intende costituire l’Ufficio del garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale.

Un organo esterno e indipendente (peraltro già sperimentato in Austria, Danimarca, Ungheria, Norvegia, Olanda, Portogallo, Finlandia, Inghilterra, oltre che in dieci regioni italiane), perché la pena in carcere sia davvero rieducativa, perché il reinserimento nella società sia reale e - in generale - perché i diritti siano davvero diritti. Con, in più, una funzione di raccordo con le istituzioni e il mondo dell’associazionismo e del volontario che già opera soprattutto nelle carceri.

La cronica precaria situazione delle strutture penitenziarie, il sovraffollamento (in Friuli Venezia Giulia a fronte di una capienza di 493 posti, i detenuti sono stati, molto spesso, oltre 700 e di questi un terzo ancora imputati) e il conseguente aggravamento delle condizioni di reclusione - ha spiegato Baiutti - ostacolano il perseguimento della finalità riabilitativa della sanzione penale, ma anche l’esercizio dei diritti civili e sociali dei detenuti.

La presenza dell’Ufficio del garante e la collaborazione con il magistrato di sorveglianza contribuirebbe invece ad assicurare un canale continuo di corretta informazione tra i detenuti e l’autorità giudiziaria e agevolerebbe la rappresentazione delle istanze dei soggetti carcerati più deboli (stranieri, tossicodipendenti, minorenni).

Il garante, ha ancora spiegato, verrà eletto dal Consiglio regionale e scelto tra chi ricopre incarichi istituzionali di responsabilità in ambito sociale o conosce a fondo le problematiche di queste persone. Di certo non potrà essere parlamentare, consigliere o assessore regionale, provinciale e comunale, amministratore di un ente pubblico, azienda o società a partecipazione pubblica, né amministratore di un ente, impresa o associazione che riceva contributi dalla Regione. Un lavoro esclusivo, che però offre ampia autonomia gestionale e operativa. Ogni anno, poi, il garante dovrà presentare al Consiglio una relazione sull’attività svolta, sui risultati raggiunti, sulle criticità riscontrate e sulle misure da adottare.

Così, per favorire l’attività lavorativa dei detenuti, il garante, d’intesa con i direttori delle carceri del Friuli Venezia Giulia, promuoverà la creazione di cooperative sociali formate da detenuti e favorirà la stipula di contratti per acquistare da loro beni e servizi. E per assicurare il diritto all’assistenza sanitaria, invece, verranno sottoscritte convenzioni tra Aziende per i servizi sanitari e Amministrazione statale per l’utilizzo delle strutture e del personale del servizio sanitario regionale.

Varese: da tre anni senza manutenzione il carcere cede a pezzi

di Lidia Romeo

 

La Provincia di Varese, 23 ottobre 2009

 

I detenuti continuano ad aumentare, nonostante gli sfollamenti che si susseguono uno dopo l’altro, a ciclo continuo. Otto su dieci sono persone in custodia cautelare, in attesa di una sentenza del tribunale, ma più aumentano e più sono le risse, le tensioni e le occasioni di litigio. Spetta alla polizia penitenziaria, costantemente e pesantemente sotto organico, risolvere ogni controversia senza mai intervenire sulla vera causa scatenante: una struttura, quella dei Miogni di Varese, piccola, vecchia e fatiscente tanto da rendere soffocante la vita in cella e impossibili le attività di rieducazione e riabilitazione sociale.

Una struttura che cade a pezzi (tutto transennato il muro di contenimento che divide i detenuti dagli uffici amministrativi) senza che un solo euro sia stato speso negli ultimi 3 anni per la manutenzione: "Investire qui sembra inutile dato che il nuovo carcere è annunciato come imminente - spiega il direttore Gianfranco Mongelli - peccato che ad oggi non abbiamo ancora ricevuto alcuna comunicazione ufficiale neppure su quale sarà l’area destinata alla sua realizzazione. Tanto meno si è parlato di tempi".

Che il carcere dei Miogni sia uno dei peggiori della Lombardia lo ha recentemente dichiarato anche il provveditore agli istituti di pena lombardi, Luigi Pagano, riconoscendo nel sovraffollamento e nella carenza strutturale i principali fattori scatenanti di disagi e proteste dietro le sbarre. In questo il primato varesino è disarmante: 2 giorni fa la popolazione carceraria era di 132 persone, il triplo della capienza regolamentare (44) e oltre misura anche rispetto alla soglia di tollerabilità, di 99 detenuti.

Significa che in una cella di 12 metri quadrati (14 il minimo per una camera matrimoniale) vivono per almeno 16 ore al giorno 3, a volte anche 4 persone, cui spettano 2 metri quadri ciascuno. Le celle poi sono dei corridoi di 6 metri per 2 con due letti a castello che lasciano a mala pena lo spazio per passare rasenti al muro. Un letto a destra e uno a sinistra, leggermente sfalsati con un tavolino in fondo che non ha delle sedie, ma solo 4 sgabelli e dove si fanno pranzo, cena e colazione.

Alle 8 del mattino, le celle si aprono e i detenuti possono uscire nel cortile, un piazzale di solo cemento, grosso come un campo da basket con un piccolo porticato, senza un albero e senza orizzonte. L’unico contatto con l’esterno è una telefonata di 15 minuti a settimana, 6 ore al mese per le visite dei familiari e la tv. Ma per il controllo del telecomando ogni giorno è una guerra. In cortile d’inverno fa freddo, ma almeno si può camminare, o giocare a calcetto con tornei che sembrano "mondiali" dato che quasi la metà dei detenuti non è italiana. "Cerchiamo di creare camere omogenee per lingua - spiega l’ispettore Rosario Arcidiacono, vice comandante della polizia penitenziaria - ma quando sono in tanti le tensioni aumentano". Il 29 sarà presentato un volume con la prima raccolta di poesie dei detenuti.

Ferrara: carcere al collasso, protestano gli agenti penitenziari

 

www.estense.com, 23 ottobre 2009

 

Le condizioni del carcere di Ferrara sono drammatiche. È quanto sostengono gli agenti di polizia penitenziaria, in fermento in vista della manifestazione di protesta prevista per il 28 ottobre. Ieri le sigle sindacali di categoria capeggiate da Riccardo Sarti (Fpa-Cnpp) hanno incontrato l’amministrazione provinciale di Ferrara (presenti l’assessore Caterina Ferri e il capo di gabinetto Manuela Paltrinieri) per far presente i problemi della casa circondariale di via Arginone, stretta in una morsa tra sovraffollamento e carenza di personale.

I numeri esposti da Sarti bastano a fotografare la situazione: 535 i detenuti ospitati a fronte di una capienza regolamentare di 265 e tollerata di 466, con il personale costituito da 166 unità "quando per legge - sostiene Sarti - dovremmo essere 232 e gli operativi in effetti sono solo 80". L’organico sottodimensionato unito al sovraffollamento rappresentano per i sindacati un problema di sicurezza rispetto al quale intervenire subito. Da qui l’appello alle forze politiche. La Provincia si è impegnata a rendere note le esigenze del carcere al dipartimento di amministrazione penitenziaria di Roma e al ministero della Giustizia.

Udine: Radicali; carcere "a norma", poco lavoro per detenuti

 

Messaggero Veneto, 23 ottobre 2009

 

Una visita in via Spalato Sabato 17 ottobre abbiamo accompagnato la parlamentare radicale Rita Bernardini nella sua visita al carcere di Udine. La popolazione carceraria è costituita per buona parte di stranieri e molti sono i soggetti provenienti da altre carceri, soprattutto dal Veneto. L’edificio, recentemente ristrutturato, è abbastanza buono: ciascuna cella ha una propria doccia e un angolo cottura. E nonostante la nostra fosse una visita a sorpresa, abbiamo trovato una notevole cura della pulizia dei locali.

Per quanto riguarda la polizia penitenziaria, c’è un leggero problema di sotto organico. Le risorse economiche sono davvero scarse (e si preannunciano ancora inferiori con i tagli previsti dalla Finanziaria) con conseguenze facilmente immaginabili sulla disponibilità di generi di prima necessità (farmaci compresi).

I detenuti hanno a loro disposizione tre educatori, che sarebbero pochi rispetto alla popolazione carceraria, ma c’è anche da considerare che le richieste per usufruire del servizio sono basse ed è difficile stabilire se il fenomeno sia da attribuirsi a una carente informazione o a un senso di rassegnazione.

Fortunatamente, rispetto al problema della scarsità di risorse, un importante aiuto, anche se non risolutivo, arriva dall’associazionismo sia cattolico sia laico. La struttura, di dimensioni particolarmente ridotte, non offre grandi possibilità di creare attività lavorative. Nonostante la buona volontà della dirigenza del carcere, i detenuti che hanno un impiego sono davvero pochissimi e questo numero potrà essere conservato solo se il Comune deciderà di rinnovare lo stanziamento di borse lavoro.

Per quanto riguarda la questione più clamorosa del nostro sistema carcerario, quella del sovraffollamento, a Udine il problema è di gran lunga inferiore rispetto a quello di molte altre città italiane. Ciò non toglie che anche in questo caso non ci sembra che tutte le celle rispettino le dimensioni minime previste dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Quella del sovraffollamento è una situazione che molto probabilmente non sarà risolta dal misterioso "piano carceri" del governo.

Un piano che presenta molte incognite. Senza tener conto del problema del reperimento delle risorse finanziarie per la costruzione, ci si chiede come farà lo Stato a gestire un numero maggiore di strutture quando la polizia penitenziaria ha un organico già incredibilmente inferiore a quello necessario a gestire le carceri esistenti.

Ci si chiede anche come si possa pensare di risolvere la questione del sovraffollamento costruendo nuovi penitenziari, quando il numero di detenuti cresce a un ritmo tale che è assolutamente impossibile costruire un numero di edifici sufficiente a poter ospitare adeguatamente l’intera popolazione carceraria. Francamente, ci sembra di essere di fronte a un caso di mera propaganda.

 

Elvis Pavan e Stefano Barazzuti

Radicali Italiani, Udine

Trento: interrogazione carenze assistenza sanitaria ai detenuti

 

Trentino, 23 ottobre 2009

 

L’assistenza sanitaria nel carcere di Trento è oggetto di un’interrogazione del consigliere provinciale del Trentino Bruno Dorigatti al presidente della Provincia autonoma e all’assessore competente. Dorigatti chiede di conoscere a che punto sia l’organizzazione del nuovo servizio in carico all’Azienda sanitaria di assistenza sanitaria nelle carceri, conseguente alla promulgazione di un decreto del presidente del Consiglio, lo scorso 1 aprile, che stabiliva le modalità e i criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria.

Il consigliere chiede poi informazioni specifiche sui servizi notturni e sui finanziamenti provinciali. "L’organizzazione del servizio - sostiene Dorigatti - è ancora in alto mare tanto che l’assistenza notturna e nei giorni festivi è affidata ai medici di continuità assistenziale, le cosiddette guardie mediche. Si tratta di una situazione evidentemente insostenibile. L’assistenza sanitaria in carcere ha delle particolarità e richiede una professionalità specifica per gli aspetti tipici legati all’ambiente in cui si opera, alle patologie ad esso legate e alla situazione del paziente".

Oggi, intanto, il carcere di Trento diventerà per un giorno protagonista di una conferenza stampa nella quale verrà presentata l’iniziativa che - con il sostegno della Provincia e del Mart - ha portato i detenuti a cimentarsi con la realizzazione di alcuni murales all’interno del perimetro del carcere.

Firenze: interrogazione su "custodia attenuata" di Solliccianino

 

Asca, 23 ottobre 2009

 

I Consiglieri provinciali Erica Franchi, Nicola Nascosti e Guido Sensi (Pdl) viste le dichiarazioni rilasciate dalle rappresentanze sindacali della polizia penitenziaria del Carcere cosiddetto "Solliccianino" e preso atto che in tali dichiarazioni si esprime profonda preoccupazione per l’ipotesi di notevole aumento dei detenuti.

Visto ancora che tale struttura è nata come custodia attenuata a basso regime di sicurezza e attualmente ospita una sessantina di detenuti hanno presentato una domanda d’attualità dove interrogano il Presidente della Provincia e l’assessore competente per sapere se la Provincia intende ascoltare in sede ufficiale le rimostranze del personale della polizia penitenziaria. Quali iniziative la Provincia di Firenze intende intraprendere per garantire che tale struttura non sia ridotta al sovraffollamento e per elaborare eventualmente delle soluzioni che garantiscano la natura di custodia attenuata a basso regime di sicurezza.

Pesaro: corso per arbitri calcio; diploma a diciassette detenuti

 

Comunicato Uisp, 23 ottobre 2009

 

La Direzione della Casa Circondariale di Pesaro e la Lega Calcio del Comitato Uisp di Pesaro ed Urbino hanno organizzato un corso per direttori di gara che si è concluso con la consegna dei diplomi ai 17 detenuti che vi hanno partecipato. I neo - arbitri convocati nella sala teatro della struttura di reclusione hanno ricevuto i complimenti da parte della direttrice, Dott.ssa Clementi, e gli auguri per le competenze acquisite che verranno presto sperimentate nell’ambito di un torneo interno.

Il dirigente dell’amministrazione penitenziaria ha ringraziato i vertici dell’ente di promozione sportiva apprezzandone la sensibilità dimostrata verso un utenza particolare e ha sottolineato l’importanza della pratica calcistica come elemento educativo ed aggregante, ricordando che "il calcio è solo un gioco " e come tale va vissuto.

Il Prof. Ariemma - presidente del Comitato Uisp - ribadendo lo slogan della Lega Calcio "il calcio è solo un gioco " ha fornito un’ampia spiegazione delle caratteristiche dell’abilitazione conseguita che prevede una validità in ambito europeo (negli enti di promozione collegati all’Uisp). Il torneo che si svolgerà a novembre con la supervisione della Dott.ssa Vilella - Responsabile dei servizi educativi - e dei massimi dirigenti del Calcio Uisp il Sig. Molinelli (presidente di Lega) ed il dott. Alessandrini (responsabile arbitrale) sarà occasione per mettere in pratica gli insegnamenti acquisiti.

È previsto anche uno staff organizzativo creato dai reclusi stessi ed un servizio divulgativo ed informativo gestito da un neo - arbitro che avrà anche funzione di responsabile della comunicazione. "A nome dei colleghi di corso intendo ringraziare l’Uisp per l’opportunità così importante che ci ha riservato" riferisce lo stesso alla nostra redazione.

La collaborazione tra la "casa" e lo sport per tutti ha permesso di ben operare nei campi della ginnastica femminile prima e del calcio poi e continuerà con l’auspicio di poter organizzare Vivicittà in carcere - kermesse podistica che ha già importanti precedenti quali Rebibbia, Verziano e Sollicciano - in cui i comuni cittadini si fondono con la popolazione carceraria e insieme competono rispettando le regole condivise.

Firenze: Roberto Benigni recita Dante nel carcere di Sollicciano

 

Ansa, 23 ottobre 2009

 

L’attore toscano Roberto Benigni ha effettuato, ieri, una visita privata nel carcere di Firenze, rispondendo così ad una lettera che gli stessi detenuti gli avevano inviato invitandolo tra le mura del carcere fiorentino.

Benigni, che si è intrattenuto con alcuni detenuti per circa due ore e mezzo, ha recitato il V canto del Purgatorio che descrive l’incontro tra Dante e Pia dè Tolomei, la nobildonna senese uccisa dal marito per una presunta infedeltà. L’attore comico toscano è stato tra l’altro avvicinato da un detenuto che gli ha raccontato i suoi sforzi per scrivere la sceneggiatura di un Pinocchio al femminile. "Vabbè, allora la chiameremo Pinocchia", ha detto Benigni. Non è la prima volta che l’attore noto per la sua Lectura Dantis visita le carceri: aveva infatti già effettuato alcune letture de L’Inferno sia nel carcere di Opera che in quello di Sulmona.

Roma: a Rebibbia la premiazione del concorso "Una luce nel buio"

 

Adnkronos, 23 ottobre 2009

 

L’associazione culturale "Gruppo idee" ha organizzato, con il patrocinio del Ministero della Gioventù, dell’Assessorato alle Politiche Culturali e Comunicazione del Comune di Roma e delle Biblioteche di Roma, presso la Casa Circondariale di Rebibbia, la cerimonia di premiazione del concorso letterario "Una luce nel buio". La premiazione delle opere realizzate dai detenuti ha visto la partecipazione del Vice Presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, Paola Frassinetti.

"La promozione di tali eventi culturali rappresenta un momento unico di arricchimento del senso civico, è la dimostrazione che anche le carceri sono luoghi di civiltà e aggregazione", ha affermato Frassinetti, aggiungendo che "la cultura e l’arte rendono ogni individuo davvero libero; ammirando le opere proposte ci si rende conto che la differenza di luce tra dentro e fuori il carcere svanisce".

Immigrazione: nel Cie di Torino, tra pestaggi e rimpatri forzati

 

Redattore Sociale, 23 ottobre 2009

 

Dopo Modena, Roma e Crotone, continua l’inchiesta di Redattore Sociale sui centri di identificazione e espulsione. Mentre Torino si prepara al raddoppio del Cie, ecco le storie delle vittime del giro di vite contro gli irregolari.

Famiglie spezzate in due da provvedimenti di espulsione. Rimpatri forzati che colpiscono minori non accompagnati. E poi storie di evasioni, di pestaggi e di proteste estreme di chi vuole tornare in libertà. Continua il viaggio di Redattore Sociale dentro i centri di identificazione e espulsione (Cie) italiani, teatro di crescenti tensioni dopo l’entrata in vigore del pacchetto sicurezza, che ha portato da due a sei mesi il limite del trattenimento nei centri. Dopo Modena, Crotone e Roma, abbiamo visitato il Cie di Torino.

Il centro è aperto dal 1999. Si trova nell’area di una vecchia caserma di addestramento del genio ferroviario e dei bersaglieri, tra Corso Brunelleschi e via Santa Maria Mazzarello. Dal maggio 2008, i container del vecchio centro sono stati sostituiti da tre sezioni appositamente progettate e costruite. Ogni sezione ha 30 posti, due sezioni sono per gli uomini e una per le donne. Ogni sezione consiste di un’area recintata da gabbie metalliche alte sei metri, al cui interno si trova un modulo con cinque camerate da sei posti, con annessi due bagni e una doccia, e un secondo modulo usato come mensa e sala comune. Ma il centro si sta per allargare. Sono infatti stati ultimati i lavori di costruzione di altre tre sezioni e di un campo di calcio. Dal 2010 la capienza del Cie raddoppierà a 180 posti, dagli attuali 90.

Sin dalla sua apertura, la struttura è gestita dalla Croce rossa italiana (Cri), e in particolare dal corpo militare della Cri di Torino. A fine 2009 ci sarà una nuova gara d’appalto. Il direttore Antonio Baldacci, ha una formazione militare. È uscito dall’esercito col grado di maggiore. Ed è entrato nel corpo militare della Croce rossa, dove oggi ha il grado di colonnello. Ha partecipato a molte delle emergenze nazionali, dall’alluvione di Firenze al terremoto del Friuli. La Cri incassa dalla Prefettura 72 euro al giorno per ogni trattenuto. Nel centro operano anche Tampep e il Gruppo Abele con due progetti di rimpatrio forzato assistito.

Il prolungamento a sei mesi del trattenimento, entrato in vigore col pacchetto sicurezza l’8 agosto 2009, ha aumentato le tensioni. Una rivolta a agosto, una tentata evasione a settembre, e continui e ripetuti atti di autolesionismo e scioperi della fame. A sostenerlo è la stessa Raffaella Fassone, dirigente dell’ufficio immigrazione della Questura di Torino. "Con alcuni Stati c’è muro, e anche portando a sei mesi il trattenimento l’identificazione non si sblocca. E il rischio - ammette - è di occupare inutilmente i posti e di bloccare il turn-over nei Cie".

I rimpatri effettuati nel 2009 sono leggermente in calo. Sono 290 in dieci mesi, contro i 650 dell’intero 2008. A pesare sul bilancio delle attività della polizia c’è stato sicuramente il trasferimento al Cie di Torino di 78 tunisini nel mese di febbraio, dopo la rivolta al Cie di Lampedusa. 78 presenze che hanno paralizzato il centro, visto che - come riferito dalle forze di polizia - la Tunisia non ammette più di 5 rimpatri al giorno da tutta l’Italia. Circa il 40% dei trattenuti arriva dal carcere a fine pena. Ogni mese 2 o 3 persone sono però espulse direttamente dal carcere di Torino. L’altro 60% arriva dal territorio. Una metà da altre regioni, in particolare Liguria, Toscana e Val d’Aosta, dove non esistono Cie. L’altra metà da Torino e Piemonte. I militari in turno sono Alpini, ce ne sono 70 al giorno, distribuiti in turni da 18, ma il responsabile della vigilanza è un ispettore di polizia. Rispetto agli episodi documentati di pestaggi, il direttore Baldacci smentisce categoricamente. La Questura invece conferma che c’è stata una denuncia contro due alpini e che ci sono delle indagini in corso.

 

Parlano gli immigrati che tentarono la fuga il 28 settembre

 

Fuga, pestaggio e denuncia per resistenza a pubblico ufficiale. Si potrebbe sintetizzare così la vicenda dell’ultimo importante tentativo di evasione dal centro di identificazione e espulsione (Cie) di Torino. È il 28 settembre 2009. Sono da poco passate le 23.00, e durante il trasferimento dalle sezioni all’infermeria per la distribuzione degli psicofarmaci, un gruppo di una ventina di reclusi riesce a scappare dai cancelli delle sezioni. Solo quattro di loro però riescono a avvicinarsi al muro di cinta, dal lato di via Monginevro. E di loro soltanto uno riesce a scavalcare. Gli altri vengono presi dagli alpini di guardia al Cie, tratti in arresto e denunciati per resistenza a pubblico ufficiale. Fin qui la versione ufficiale. A tre settimane di distanza dai fatti però, Redattore Sociale è riuscito a parlare con i tre protagonisti della fuga, che nel frattempo sono stati scarcerati e riportati al Cie di Torino. Quella sera - raccontano - furono ammanettati e pestati dai militari di guardia al Cie. Loro sono un ragazzo tunisino, Adel, un algerino, Amin e un senegalese nato in Francia, Mustafa.

Adel è alto un metro e novanta. Ha 32 anni, è cresciuto a Hammamet e vive in Italia da quando aveva 20 anni. È arrivato qui nel 1997, sbarcato senza documenti sull’isola di Pantelleria. Abitava a Milano da cinque anni, dove lo hanno fermato durante un banale controllo dei documenti. Non ha precedenti penali. Lavorava come carpentiere per un connazionale, Ahmed Mansour, in nero. Mi mostra i calli sulle mani. Poi tira su i pantaloni per mostrarmi i lividi delle manganellate, ormai sono quasi scomparsi, ma ancora si intravedono, sulla coscia e sulla caviglia. Racconta che quella sera li misero con la faccia a terra e le manette ai polsi dietro la schiena. C’erano una decina tra militari e poliziotti. "Ci hanno picchiato come le bestie". Chiedo agli altri detenuti. Confermano la versione. Hanno visto tutti, il pestaggio è avvenuto di fronte alla sezione blu. Ma a pagare non saranno i militari protagonisti delle violenze, bensì loro tre. Adil e gli altri infatti, dopo quattro giorni di carcere, sono stati denunciati per "resistenza a pubblico ufficiale". Il processo per direttissima è già partito. L’udienza è fissata per il 20 novembre. Tuttavia i provvedimenti di espulsione non sono stati sospesi, e i tre potrebbero essere rimpatriati da un momento all’altro.

 

Cie Torino: reclusi anche due minorenni

 

La legge italiana sull’immigrazione vieta le espulsioni di minori. Eppure nei centri di identificazione e espulsione (Cie) i minori continuano a finirci. Anche al Cie di Torino. Nell’ultimo mese è successo due volte, a due ragazzini marocchini. Entrambi arrestati in flagranza di reato e trasferiti a Corso Brunelleschi con una denuncia a piede libero. Il primo si chiama Mahdi, 17 anni e una denuncia per false generalità. Il secondo è Yosief, 15 anni, una denuncia per spaccio e un’altra per furto. A difenderli è l’avvocato Pier Franco Bottacini. Che è riuscito a far uscire Mahdi e ci sta provando con Yosief.

Sono entrambi ragazzi soli, arrivati in Italia da adolescenti e finiti in giri di microcriminalità più grandi di loro. Mahdi l’hanno arrestato il 19 agosto scorso, per aver fornito false generalità. Al momento dell’arresto, il test del polso, che consiste in una radiografia che verifica lo stato di calcificazione delle ossa, ha sancito la maggiore età del ragazzo, che quindi è stato scarcerato, con un processo pendente, e inviato al Cie torinese. L’8 settembre l’avvocato Bottacini ha depositato il ricorso contro l’espulsione. Il giudice di pace ha accettato di rifare il test del polso soltanto dopo che la difesa - in collaborazione con l’ufficio minori del Comune di Torino e con il Consolato marocchino - è stata in grado di farsi inviare dal Marocco i documenti che certificavano la minore età del ragazzo. E il nuovo test ha contraddetto il precedente. Mahdi non mentiva, ha davvero 17 anni, come peraltro risultava dai suoi documenti. Il 23 settembre Mahdi è tornato in libertà, e il 2 ottobre il giudice di pace ha annullato il provvedimento di espulsione nei suoi confronti. Nessuno però annullerà nella sua memoria e nel suo vissuto i 35 giorni di ingiusta detenzione a cui è stato sottoposto.

La storia di Yosief è diversa. È un ragazzo di 15 anni, viene da Tangeri. In Italia è arrivato nascosto sulla nave di linea per Genova, sei mesi fa. E in pochi mesi si è guadagnato una discreta serie di precedenti penali. Il primo arresto risale al giugno 2009, per spaccio. In quel caso la polizia fece fare la radiografia del polso e vista la minore età, il fascicolo venne affidato al tribunale dei minori, che ne ordinò la scarcerazione. Un mese dopo, a luglio 2009, subì un altro arresto, e in quel caso il tribunale dei minori lo affidò a una comunità d’accoglienza per minori a Savona, in Liguria. Comunità da cui Yosief scappò presto per tornare a Torino. Di nuovo da solo, trovandosi in mezzo a una strada, tornò a delinquere. E fu di nuovo arrestato. Il 17 agosto, per furto: aveva strappato una collanina d’oro al collo di una passante. Stavolta però gli accertamenti radiografici lo dettero per maggiorenne. "Ma come? - dice l’avvocato - A giugno era stato accertato minorenne, a luglio era stato accertato minorenne, e un mese dopo diventa maggiorenne?". Ad ogni modo, Yosief fu scarcerato e inviato al centro identificazioni e espulsioni di Torino. L’avvocato ha fatto ricorso al giudice di pace e al tribunale, che ha accettato di disporre una perizia presso l’Istituto di medicina legale di Torino. I risultati degli esami dovrebbero arrivare a fine ottobre. Nel frattempo, in attesa dell’esito del ricorso, l’espulsione è stata sospesa.

 

Ingoia cinque pile per tornare in libertà. Protesta estrema di un algerino

 

Hammami non è uno stinco di santo. Vive in Italia da 10 anni, tre dei quali li ha passati al carcere di Pavia con una dura condanna per spaccio. Dieci anni in cui non ha mai avuto un permesso di soggiorno. Al centro di identificazione e espulsione di Torino l’hanno portato il 22 agosto scorso, all’uscita dal carcere di Pavia, a fine pena. Dice di essere algerino, di Annaba. E sa che le probabilità di essere rimpatriato sono molto scarse, a causa della mancata collaborazione del consolato algerino. Delle due una: "O mi rimpatriano, e non ho niente in contrario, oppure mi rilasciano, io qua dentro sei mesi non resisto, ho già fatto tre anni di galera, ho diritto alla libertà". E ingoia una pila. La mette sulla lingua per lungo. Poi chiude la bocca e la butta giù. Poi ne ingoia un’altra. "Guarda giornalista, guarda". E poi una terza. Se non avessi appena visto le lastre in infermeria penserei a un gioco di prestigio. Il medico gli ha fatto fare una radiografia dello stomaco. Sotto le costole, si vedono le sagome di una vite autofilettante di cinque centimetri, due pile, di quelle di 1,5 V e un accendino, di cui però si vede solo la parte metallica. Ma le radiografie sono di ieri. E nel frattempo Hammami si è mangiato altre cinque pile, un tassello di plastica e un pezzo del cellulare. Davanti ai miei occhi. É iniziato tutto ieri. Con la notifica della proroga del trattenimento di altri 60 giorni.

"Io vado avanti, ingoio tutto ogni cinque minuti. O mi rimpatriano o mi fanno uscire, altrimenti m’ammazzo". In infermeria però non lo porta nessuno. Chiamo un operatore della Croce rossa, ma è lo stesso Hammami a rifiutare: "È inutile, ci sono già stato. Il dottore qui mi visita e mi chiede se voglio un antidolorifico. In ospedale non mi ci portano". Oltre a ingoiare pile e ferraglie, da due giorni ha anche smesso di mangiare. È in sciopero della fame e dice di essere pronto a andare avanti ad oltranza. Costi quel che costi.

 

A Torino ha una figlia di sette mesi e la moglie. Ma rischia il rimpatrio

 

Alla fine la vittima sarà lei. Una splendida bambina di otto mesi. Si chiama Maleika, che in arabo significa Angela. È nata a Torino, dove fino al 30 settembre viveva felice con la mamma e il papà. Poi però è successo che hanno portato via il padre. È successo a un posto di blocco all’uscita dell’autostrada a Torino. Il papà non ha il permesso di soggiorno e allora l’hanno portato al centro identificazioni e espulsioni (Cie) di Torino, da dove sarà presto rimpatriato. Lui si chiama Raffa, viene da Khouribga, la capitale dell’emigrazione marocchina in Italia. Ha 35 anni, e in Italia vive qui da quando era un ragazzo. È arrivato a Torino nel 1997, dodici anni fa. Nel 2007 si è sposato con J.I., una ragazza di Casablanca (che ci ha chiesto l’anonimato). E poi è arrivata Angela, Maleika. Una bambina innocente che adesso rischia di essere separata dal padre.

Il primo permesso di soggiorno Raffa lo ottenne nel 2002, con la sanatoria Bossi-Fini. Due anni dopo però, il permesso gli venne ritirato per una condanna che ha pagato con due anni di carcere. Con la nascita della bambina Raffa avrebbe sistemato anche i propri documenti. Sua moglie infatti aveva trovato un datore di lavoro per la sanatoria delle badanti. Fece la domanda il 7 settembre. Mi mostra le carte mentre sorseggiamo un tè alla menta a casa della sorella e del cognato, dove vive da quando hanno portato dentro Raffa. Suo marito avrebbe potuto richiedere il permesso di soggiorno per la coesione familiare e farsi fare un contratto dalla ditta dove stava lavorando in nero come imbianchino. Ma le cose sono andate diversamente e adesso è tutto molto più difficile.

A spiegarmelo è il suo avvocato difensore. Ha presentato ricorso contro l’espulsione chiedendo la coesione familiare con la moglie. La partita però si gioca sul filo di lama. Per chiedere la coesione familiare con il marito infatti, la signora J.I. deve avere un permesso di soggiorno. E il marito deve aver avuto un documento di soggiorno valido nell’ultimo anno. Ora, la signora J.I. non ha un permesso di soggiorno. Però ha fatto richiesta di sanatoria e ha la ricevuta in mano. Una ricevuta che la rende inespellibile e quindi in qualche modo regolarmente soggiornante. Dal canto suo Raffa nell’ultimo anno non ha avuto un permesso di soggiorno, ma aveva diritto ad averlo, essendo il padre di una bambina neonata. E infatti a suo tempo aveva chiesto alla Questura di Torino un permesso di sei mesi per cure mediche, che in questi casi è il permesso che si dà ai padri nei primi sei mesi dalla nascita del figlio. La Questura ha accettato la sua richiesta, ma non ha mai stampato il permesso, che nel frattempo è scaduto. Adesso tutto si gioca sull’abilità dell’avvocato e la sensibilità del giudice. Intanto però il giudice non ha sospeso l’ordine di espulsione in attesa del giudizio. E ogni giorno che passa, Raffa rischia sempre più di essere espulso e separato dalla propria famiglia e da tutto quello che ha costruito in 13 anni di vita a Torino.

 

Cie di Torino: un militare gli spezza un dente, lui lo denuncia

 

Mimì dorme sul letto, nell’ultima camerata della sezione blu del centro identificazioni e espulsioni (Cie) di Torino. Ha 25 anni, ma parla con un filo di voce: "Non sono un animale, siamo clandestini è vero, ma siamo persone, io non ho fatto niente di male, non dovevano massacrarmi". È in sciopero della fame da 13 giorni. È recluso da quattro mesi. Chiede di essere liberato. E chiede giustizia. Il 13 settembre 2009 infatti è stato pestato da due alpini di guardia al Cie di Torino. Prima di iniziare il suo racconto mi mostra i denti. Gli manca un premolare. Gliel’hanno spaccato con un pugno in bocca quella sera. Sul caso sta indagando la Procura di Torino. Perché Mimì ha avuto il coraggio di denunciarli.

La sua storia comincia nel 2005, quando riesce a sbarcare via mare in Sicilia. Dopo qualche anno in giro per l’Italia, trova lavoro in un benzinaio a Porcari, in provincia di Lucca. Il 16 giugno 2009 la polizia lo ferma durante un controllo di documenti alla stazione di Porcari. Dalla questura lo spediscono in Calabria, al Cie di Lamezia Terme. Doveva uscire il 16 agosto. Ma una settimana prima, l’8 agosto, entra in vigore il pacchetto sicurezza che prolunga da due a sei mesi il limite del trattenimento nei Cie. Contro la nuova legge, il 14 agosto esplode una grossa protesta nel Cie calabrese, che viene messo a ferro e fuoco. Mimì si beve un barattolo di bagnoschiuma e si taglia le braccia con una lametta. Vuole essere portato in ospedale, ma l’unico risultato che ottiene è un trasferimento al Cie di Torino.

Secondo il suo racconto, confermato dai suoi compagni di sezione, la sera del 13 settembre, durante la distribuzione degli psicofarmaci, Mimì viene portato per ultimo in infermeria. Lo vengono a prendere due militari. Uno un pò più grosso, soprannominato Ciccio, e l’altro più magro, con l’accento napoletano. Appena entrano nel corridoio che porta all’infermeria, lontano da sguardi indiscreti, uno dei due gli dà un calcio da dietro e l’altro inizia a colpirlo a manganellate sulla spalla destra e sulle gambe. Un operatore della croce rossa, presente alla scena, si dilegua senza intervenire. Preso dal panico, Mimì scappa nell’ufficio dell’ispettore e si infila sotto la scrivania. Piange, dice "basta!basta!". Ma i due militari continuano. Lo prendono a calci da una parte e dall’altra del tavolo. Lo colpiscono sul ginocchio destro, dove ha ancora una placca di ferro e le viti per una brutta frattura subita in un incidente nel 2008. Alla fine lo tirano su di peso e lo mettono sulla sedia davanti all’ispettore in turno. L’ispettore dice di fare il bravo e di prendere la terapia.

Uno dei militari gli dà uno schiaffone con entrambe le mani sulle due orecchie, mentre lui continua a piangere. Poi lo portano in corridoio. E il militare gli porge il bicchiere di plastica con gli psicofarmaci. Mimì sostiene che fosse almeno il doppio della terapia di psicofarmaci che normalmente assume per dormire. Almeno 60 gocce dice, di Rivotril. Rifiuta di bere. E a quel punto uno dei militari si infila il guanto di pelle e gli dà un rovescio in bocca. Un dente premolare si spacca a metà per la violenza del colpo. Mimì beve la terapia e rientra zoppicante in sezione.

Il giorno dopo, finito l’effetto degli psicofarmaci, si sveglia con forti dolori. I compagni di stanza confermano il suo racconto. "Era pieno di lividi, sulla spalla e sulle gambe". Mimì decide di sporgere denuncia. Il suo avvocato difensore, Barbara Cattelan, ricorda di averlo incontrato sulla carrozzina, non riusciva a camminare dai colpi che aveva preso. Mimì sostiene che, due giorni dopo, uno dei militari gli propose dei soldi per ritirare la denuncia. Ma lui è andato avanti. La denuncia è stata depositata il 25 settembre 2009 e l’indagine è partita. L’accusa, per il momento contro ignoti, è di lesioni personali semplici.

I militari rischiano al massimo una multa. Gli elementi a favore di Mimì sono pochi. Oltre alla sua versione dei fatti c’è soltanto un generico certificato rilasciato dal pronto soccorso dell’ospedale Martini il 16 settembre 2009 che parla di "trauma contusivo al ginocchio destro" e di una "riferita aggressione". Il pubblico ministero ha sentito Mimì e sta identificando i due militari. Nel frattempo però rimane alto il rischio di un rimpatrio di Mimì.

È detenuto dal 18 giugno 2009. Pochi giorni fa ha ricevuto la notifica della proroga del trattenimento di altri trenta giorni. Da un momento all’altro potrebbe essere rimpatriato in Marocco. E l’inchiesta insabbiarsi. Mimì lo sa. E per questo ha cominciato uno sciopero della fame a oltranza. Da 13 giorni. Niente cibo, solo acqua e caffè, psicofarmaci e sigarette. È l’unico modo per rimanere in Italia.

Ridursi in fin di vita e farsi rilasciare per motivi di salute. Passa le giornate allettato. Ha già perso 9 chili. Pesa 55 chili. Non ha smesso invece di imbottirsi di psicofarmaci: 30 gocce di Minias la mattina e 60 di Valium la sera. Non gli restituiranno la libertà che questo paese gli ha tolto. Né diminuiranno l’onta dell’espulsione, di un ritorno da perdente in Marocco, dalla madre e dai fratelli più piccoli. Tuttavia medici e psicologi del Cie non hanno trovato altri rimedi migliori per sostenerlo.

 

Nel 2008 la Croce Rossa ha incassato 1.680.000 euro per la gestione

 

Quanto costa allo Stato italiano il mantenimento della macchina dei rimpatri forzati? La risposta arriva da Torino, dove la Prefettura ha pagato 1.680.000 euro nel 2008 soltanto per le spese di gestione del centro di identificazione e espulsione (Cie) in appalto alla Croce rossa. Il tutto per rimpatriare circa 650 dei 1.095 emigrati detenuti nel Cie lo scorso anno. E questa è solo una parte delle spese. Negli ultimi anni infatti, il Ministero dell’Interno ha investito molte risorse per rinnovare e ampliare il Cie di Torino, che dal 2010 raddoppierà la sua capienza, da 90 a 180 posti. A raddoppiare però sarà anche il giro d’affari per l’ente gestore.

Con l’attuale convenzione, firmata dalla Prefettura di Torino dopo gara pubblica, l’ente gestore Croce rossa italiana incassa 72 euro al giorno per ogni trattenuto. I conti sono presto fatti. Secondo dati della Croce rossa, nel 2008 sono transitate dal Cie 1.095 persone per una permanenza media di 21 giorni a testa. Fanno 1.680.000 euro. In linea con gli oltre 15 milioni di euro incassati dalla Croce rossa di Torino dall’apertura del Cie nel 1999 a oggi. Dieci anni di gestione in cui 15.914 persone sono state trattenute in quella struttura (in maggioranza marocchini, rumeni, nigeriani, albanesi e tunisini).

Ma per i rimpatri quanto paga lo Stato? In tutto il 2008 dal Cie di Torino sono stati effettivamente rimpatriate circa 650 persone, secondo dati della Questura. Dividendo i costi di gestione del Cie per il numero di espulsioni effettive, fanno 2.600 euro a espulsione. A cui però vanno aggiunte le spese dell’udienza di convalida del trattenimento, dell’avvocato d’ufficio, del biglietto aereo di ritorno, e della scorta della polizia a bordo dell’aereo. E nel 2009 i costi sono in aumento. Dall’inizio dell’anno al 20 ottobre, le persone trattenute nel Cie sono state 771, con un tempo medio di permanenza di 27 giorni. Ma i rimpatri effettivi sono stati soltanto 290. Fanno 5.100 euro a persona. Quasi il doppio del 2008.

Francia: entro l’anno legge "castrazione chimica" sex-offenders

 

Apcom, 23 ottobre 2009

 

Braccialetto elettronico, divieto di soggiorno nei pressi delle abitazioni delle vittime, castrazione chimica. Il ministro della Giustizia francese, Michelle Alliot-Marie presenta un ventaglio molto vasto di misure punitive nei confronti dei criminali sessuali. In un’intervista su Figaro Magazine, in edicola domani, la Guardasigilli francese spiega i contenuti del progetto di legge sulla recidiva che verrà presentato in Parlamento fra qualche giorno.

"È necessario che i responsabili di violenze sessuali possano essere sottomessi, dopo aver scontato la loro pena, a un obbligo di trattamento medico della loro libido", spiega il ministro, precisando la proposta avanzata alcuni giorni fa dal presidente francese Nicolas Sarkozy sulla castrazione chimica. "Si parla di castrazione chimica, ma il termine è improprio, poiché si tratta di un trattamento medico reversibile, sugli ormoni, che diminuisce le pulsioni sessuali".

Il trattamento presuppone l’accordo del soggetto in questione. Oggi, in Francia, è possibile effettuarlo in carcere durante l’esecuzione della pena: solo così i detenuti possono beneficiare, ad esempio, di sconti di pena o di permessi di uscita. Se il progetto di legge in questione sarà approvato, lo stesso trattamento potrà essere imposto dopo la scarcerazione e se i soggetti lo rifiutano dovranno restare in carcere solo dopo aver scontato l’integralità della pena.

Grecia: Msf; nei Centri per gli immigrati "condizioni inaccettabili"

 

www.medicisenzafrontiere.it, 23 ottobre 2009

 

Da due mesi Medici Senza Frontiere è tornata a fornire supporto psicologico e sociale agli immigrati irregolari e ai richiedenti asilo detenuti a Pagani, nell’isola di Lesbo. Nel settembre 2008, Msf aveva sospeso le attività nel centro per l’impossibilità di assistere liberamente i pazienti.

Per chi vive nel centro di detenzione la realtà quotidiana è fatta di ristrettezze estreme, povertà e incertezza per il futuro. Nelle ultime settimane la popolazione reclusa ha intensificato le azioni di protesta contro le condizioni sanitarie e di vita nel centro. A scontare le conseguenze di questo clima di tensione, e a soffrire per lo stato disumano in cui sono costretti i trattenuti, sono i soggetti più vulnerabili come donne, bambini, adolescenti e le persone che hanno bisogno di cure mediche particolari. Inoltre i disordini hanno reso estremamente difficile anche all’équipe di MSF di continuare il lavoro di supporto psicologico e sociale a questi gruppi particolarmente vulnerabili.

"Le tensioni all’interno del centro di detenzione stanno creando seri ostacoli al nostro lavoro. Ogni giorno mi trovo ad operare in una situazione a rischio, perché i migranti stanno raggiungendo il limite massimo di sopportazione," riferisce Martha Falk, psicologa di MSF che lavora a Pagani.

La psicologa, coadiuvata da due interpreti, fornisce sostegno psicologico, attraverso consultazioni individuali e di gruppo. Le richieste di sostegno psicologico e sociale sono sempre in crescita. L’équipe di Msf incontra quotidianamente persone fuggite da paesi dilaniati dalla guerra come l’Afghanistan, l’Iraq e la Somalia.

I pazienti hanno vissuto esperienze traumatiche nel loro paese d’origine ma anche durante il viaggio che li ha condotti in Europa. Alcuni soffrono di stress post-traumatico, attacchi di panico e angoscia. Queste condizioni di disagio psicologico vengono enormemente aggravate dallo stato di detenzione e dalle terribili condizioni igienico sanitarie del centro. Il sovraffollamento delle celle e il peggioramento delle condizioni di vita sono una seria minaccia alla salute mentale di molti ospiti del centro.

Il numero delle persone recluse nel centro si aggira intorno alle 800 unità, ma qualche settimana fa vi erano 1.200 trattenuti. Secondo le autorità locali, la capacità ricettiva del centro è di 300 unità. Molti sono minori non accompagnati, donne con bambini sotto i 5 anni, donne incinte e immigrati irregolari con patologie che richiedono cure specifiche.

"Mercoledì scorso, nel corso della mia visita al centro di detenzione di Pagani, ho verificato che nella cella destinata alle donne, larga più o meno 200 metri quadri, vivono circa 211 persone, 140 donne e una settantina di bambini. Molti dei quali sotto i 5 anni o più piccoli, inclusi neonati. Le condizioni di vita nelle celle sono terrificanti, considerato che gli unici due gabinetti e le uniche due docce sono fuori servizio e il pavimento è allagato. La maggior parte delle donne e dei bambini dorme su materassi sporchi appoggiati direttamente a terra, che tappezzano completamente il pavimento della cella," racconta Micky van Gerven, capo missione di Msf in Grecia.

Le condizioni di vita nel centro di detenzione di Pagani, che continuano a essere estremamente dure, richiedono un immediato intervento da parte delle autorità locali e nazionali, chiamate ad occuparsi dei bisogni dei migranti, con particolare attenzione per le categorie più fragili.

Dall’inizio del settembre 2009, Msf sta fornendo sostegno psicologico e sociale agli immigrati trattenuti in altri due centri nel nord della Grecia, a Fylakio (Evros) e Venna (Rodopi), dove sono al lavoro due psicologi e tre mediatori culturali. Msf si occupa inoltre di monitorare la situazione in questi centri di detenzione e verificare che siano garantiti i bisogni essenziali della popolazione reclusa.

 

 

Segnala questa pagina ad un amico

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 349.0788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

Precedente Home Su Successiva