Rassegna stampa 17 novembre

 

Giustizia: Canevelli; in Italia la pena significa solo "reclusione"

di Massimo Cavoli

 

Il Messaggero, 17 novembre 2009

 

La pena e i suoi molteplici aspetti, un tema che ha avuto come relatore Paolo Canevelli, presidente del tribunale di sorveglianza di Perugia, in passato già pretore di Poggio Mirteto e Rieti, una parentesi non lunga (1989-1991), ma sufficiente per guadagnarsi l’apprezzamento dell’avvocatura che, per ascoltarlo, si è data appuntamento a palazzo Bonaccorsi di Castel S. Pietro di Poggio Mirteto.

Canevelli, da un anno alla guida del tribunale di sorveglianza (tra il 1991 e il 2008 ha lavorato alla procura di Roma, ha diretto il casellario giudiziario a piazzale Clodio, è stato quattro anni all’ufficio studi del Csm) ha risposto a tante domande, a partire da quelle sulla concessione di misure alternative al carcere, aspetto che lo ha visto nei mesi scorsi finire sotto i riflettori per aver concesso la libertà a Gianni Guido, responsabile, insieme ad Angelo Izzo e Andrea Ghira, della strage del Circeo del 1975.

Quella decisione suscitò molteplici reazioni nell’opinione pubblica e nelle famiglie delle due ragazze vittime dei massacratori, salvo poi dimostrarsi corretta nella sua applicazione sul piano procedurale. "Ci sono dei criteri di ammissibilità, che prevedono innanzi tutto la mancanza di pericolosità sociale e la buona condotta, di fronte ai quali, trascorso un certo periodo, si può valutare una misura alternativa alla detenzione" ha chiarito il magistrato, per poi rispondere a chi sostiene che in Italia è più facile concedere un permesso premio a un assassino che a un ladro di auto.

"Sembra paradossale - ha detto - ma un detenuto condannato per omicidio a una lunga condanna, all’interno del carcere risulta "visibile", viene cioè seguito nel suo comportamento, attraverso gli anni, da un gruppo di osservazione che comprende educatori sanitari, cappellani, assistenti sociali. Se dopo un certo periodo viene ritenuto idoneo, può ottenere i benefici previsti dalla legge e così la sua uscita dal carcere, anche se temporanea, dopo pochi anni, può determinare sconcerto. Diversamente, il ladro condannato a uno o due anni, è un soggetto "invisibile" che sconterà per intero la sua pena stando in carcere, perché non c’è il tempo materiale per il gruppo di osservanza di concludere il suo lavoro". Il presidente Canevelli ha poi constatato, non senza rammarico, come ormai in Italia la pena sia solo quella della reclusione. Risultano abbandonate altre strade, come la sostituzione della detenzione con la pena pecuniaria, almeno per certi reati.

"In molti stati moderni questa alternativa va scomparendo in quanto è difficile applicarla proprio in virtù della crisi economica, per cui il condannato non paga quasi mai la cifra stabilita dalla sentenza" ha chiosato il presidente. E ancora, tra le alternative "non sfruttate" da ricollegare alla crisi economica, c’è quella di sostituire la condanna penale con un periodo di lavoro di pubblica utilità: "Certi imputati, anziché andare in carcere, potrebbero essere destinate a lavori da svolgere alle dipendenze di amministrazioni pubbliche, ma serve che gli enti stipulino un’apposita convenzione con il ministero dell’Interno per sostenere i costi.

Questo, però, avviene in pochissimi casi, come pure non è frequente la domanda da parte di chi viene condannato per violazione dell’articolo 73bis della legge sugli stupefacenti, di sostituire la detenzione con lavori in comunità. In questo caso non c’è bisogno di rivolgersi al tribunale di sorveglianza, ma ugualmente trova poca applicazione". Il magistrato non ha mancato di evidenziare mali endemici della giustizia come i ritardi nell’aggiornamento dei casellari giudiziari ("Lo stesso soggetto, già condannato, continua a ottenere la sospensione condizionale della pena perché non risultano precedenti a suo carico") e di alcune paradossali contraddizioni del sistema ("Esiste una banca dati che si occupa delle sentenze definitive, ma non dei carichi pendenti").

C’è poi il grande lavoro che il tribunale di sorveglianza deve affrontare in tema di esecuzioni da quando (1998) è in vigore la legge Simeone (niente carcere fino a tre anni) che non consente più al pubblico ministero di ordinare l’arresto dopo una sentenza. Su tutto c’è un pianeta giustizia dove anche il sistema carcerario non è immune da appunti ("Solo una minima parte dei detenuti lavora" - dice il presidente) mentre mancano le risorse per riforme necessari e importanti. Una lezione, quella di Canevelli, più che una semplice relazione, frutto di anni di esperienza vissuta lavorando intensamente sul campo.

Giustizia: Margara; la Polizia tende a violenza verso gli inermi

 

Ansa, 17 novembre 2009

 

"Da parte di tutti gli organi di polizia c’è la tendenza alla violenza, soprattutto verso gli inermi": il pesante atto di accusa viene da Alessandro Margara, che per anni ha guidato il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, cioè la struttura che sovrintende alle carceri italiane. Pestaggi negli istituti penitenziari, come quello di cui sarebbe stato vittima Stefano Cucchi, "non sono certo la norma - dice Margara - ma una cosa che purtroppo rientra nell’ordinaria follia di quello che è il carcere oggi. Al personale manca una guida che indichi percorsi diversi. Ci sono state più raccomandazioni da parte del Consiglio d’Europa per evitare che succedano queste cose".

Margara evidenzia comunque che sul terreno dell’accertamento delle responsabilità c’è stata "da sempre una mancanza grave da parte della gerarchia penitenziaria". L’ex capo del Dap è critico anche con i sindacati di polizia penitenziaria: "Devono cominciare a fare il mea culpa - dice - per essersi riconosciuti in una politica che ha reso rigido il carcere".

Giustizia: la Polizia Penitenziaria; ci stanno criminalizzando...

 

Il Tempo, 17 novembre 2009

 

"Da parte di tutti gli organi di polizia c’è la tendenza alla violenza soprattutto verso gli inermi". Il pesante atto di accusa viene da Alessandro Margara, che ha guidato il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, cioè la struttura che sovrintende alle carceri italiane. Pestaggi negli istituti penitenziari, come quello di cui sarebbe stato vittima Stefano Cucchi, "non sono certo la norma - aggiunge Margara - ma una cosa che purtroppo rientra nell’ordinaria follia di quello che è il carcere oggi".

Le parole di Margara "non meriterebbero né attenzione né risposta", se non fosse per il fatto che ci sono "similitudini tra quello che accadeva 10 anni fa e quello che accade oggi nelle carceri italiane" afferma Leo Beneduci, segretario dell’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp), che in una nota denuncia "l’inadeguatezza" del vertice del Dap, ora comandato da Franco Ionta. All’epoca di Margara - afferma Beneduci - "benché i detenuti non superassero le 50.000 presenze, l’Amministrazione penitenziaria tra sprechi ed inefficienze dimostrava la propria inadeguatezza verso qualsiasi tipo di emergenza di cui poi, negli istituti, facevano le spese esclusivamente i poliziotti Penitenziari.

Dopodiché - aggiunge - la politica provvedeva alla nomina di un nuovo e ben remunerato Capo del Dipartimento, e i problemi aumentavano perché, come ai giorni nostri con l’ennesimo magistrato Ionta, chi comanda l’Amministrazione, nei fatti, della stessa non si occupa minimamente".

L’Osapp ha denunciato l’arrivo di telefonate anonime con insulti rivolti alla polizia penitenziaria e lettere minatorie al direttore e al comandante del carcere di Regina Coeli da almeno un paio di giorni, da quando cioè tre agenti dei baschi azzurri risultano indagati per omicidio preterintenzionale nell’ambito dell’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi. "L’avevamo previsto - afferma Beneduci -.

D’altronde se viene criminalizzato l’intero corpo di polizia penitenziaria gli insulti sono la prima diretta conseguenza. Rispetto a tutto questo il ministro Alfano come al solito si preoccupa di ben altro, e il capo del Dap Ionta pronuncia la solita formula di rito, visto che non gli rimane altro.

Ionta è un magistrato che ha fiducia di quella magistratura che speriamo, assai presto, tornerà ad esercitare". L’Osapp lamenta "che il carcere, così come funziona in Italia, con 65.000 detenuti e 41.000 posti disponibili, è violento di per sé, non per volontà o inefficienza dei poliziotti penitenziari".

 

La lettera di Angelo De Iovanna, Generale di Brigata

 

Affermazioni severe e gravi, quelle del Presidente Margara (che stimo come Magistrato e come giurista) che forse troverebbero più giusta collocazione sulla scrivania dei Magistrati delle Procure della Repubblica che non sulle pagine dei quotidiani. Sarebbe il caso di ricordare al grande pubblico che tra coloro a cui preme accertare la verità su fatti così gravi come quello ipotizzato vi sono proprio le Forze dell’ordine, che - diversamente da quanto si immagina, o peggio si afferma in maniera pericolosamente generalista - usano i metodi ed i modi propri dello stato di diritto, della legalità e del rispetto della persona nel trattare con gli arrestati o con i reclusi.

In questo momento storico triste e terribile per il sistema penitenziario, che sotto gli occhi di (quasi) tutti mostra preoccupanti segni di cedimento ed implosione, è senz’altro utile a chiunque mantenere nervi saldi e la calma necessaria a lavorare per sopportare l’enormità di quel che sta accadendo nelle carceri, nell’indifferenza pressoché unanime dei mass-media (fatta eccezione per l’estemporanea attenzione estiva) e della politica che decide (o che anzi dovrebbe farlo!).

Tutti noi abbiamo imparato fin da giovani a servire in silenzio e dedizione, senza riserve o titubanze, lo Stato e le sue Istituzioni, ed è per questo che nutriamo l’immensa fiducia nella Giustizia, della quale aspettiamo sereni (per i nostri colleghi, soprattutto) il responso che di là di ogni dubbio accerti la verità sui fatti e sull’accaduto. Lo si deve anche alla famiglia Cucchi, e non solo.

Vederci etichettati come "secondini" d’altri secoli, come quelli che non siamo e non siamo mai stati, ci addolora; ne siamo stufi, perché siamo pienamente consapevoli del fatto che chiunque lavori in carcere, e primo fra tutti il personale della Polizia Penitenziaria, svolge in maniera onorevole ed encomiabile un lavoro duro e snervante, sgradito ai più, quotidianamente immerso in un girone dantesco, pregno di dolore, di umanità emarginata e dimenticata dalla c.d. Società civile, che a seconda degli umori e del momento ora è forcaiola ora è garantista.

Mi chiedo se il concetto espresso dal Presidente Margara, "l’ordinaria follia di quello che è il carcere oggi", più che essere rivolto alla supposta indole bellicosa di taluni appartenenti alla Polizia Penitenziaria, non sia meglio utilizzarlo per descrivere cosa è diventato il sistema-carcere nazionale, visto com’è ridotto; se non sia meglio chiedersi di chi siano le vere responsabilità storiche. Quella frase descrive bene un’Amministrazione messa nell’impotenza di agire, visto che nessuno è in grado di "fare" se gli si tagliano i fondi e gli si riducono anno per anno gli stanziamenti, se gli si nega il personale per lavorare.

Come non si può definire schizofrenico o folle un sistema che da un lato persegue il tentativo della rieducazione e dall’altro è costretto a fare espiare la pena in condizioni da quarto modo.

Non si può parlare di civiltà quando i detenuti sono ammassati come bestie uno sull’altro. Nessuno ha il diritto di giudicare o anche solo di puntare il dito contro chi lavora in condizioni spesso inimmaginabili, come ad esempio (esempio ampiamente ricorrente ogni giorno ovunque) l’Agente di sezione che ha la consegna di sorvegliare e di accudire 100 o 200 o più detenuti, tutti con i loro bisogni, le loro necessità, le loro lamentele (umanamente comprensibili).

È lo stesso personale che lavora più di quello che dovrebbe ma che non si vede retribuito lo straordinario per mancanza di fondi. È il personale del Corpo che assicura con sacrificio e spirito di abnegazione il servizio nonostante la mancanza di oltre 5.000 unità in organico, un organico che - è bene ricordare - va riferito ad oltre 9 anni fa, quando (ironia della sorte) si può dire che le condizioni penitenziarie fossero anche migliori rispetto al presente.

Posto che all’accertamento delle eventuali responsabilità personali provvederà la Magistratura inquirente, e che ognuno ha il diritto di formarsi il pensiero che più gli aggrada e di dichiarare in modo responsabile quel che meglio crede, è e deve essere chiaro che a nessuno è consentito gettare ombre e semi del dubbio sull’onorabilità di una intera categoria di lavoratori, additati indirettamente come cause prime di mali che invece vanno ricercate solo nelle volontà, o meglio nell’inedia colpevole e irresponsabile, di una politica miope e approssimativa com’è stata quella degli ultimi trent’anni.

Giustizia: Realacci (Pd); più risorse per la sanità penitenziaria

 

Ansa, 17 novembre 2009

 

"La medicina penitenziaria versa in condizioni di assoluta precarietà per mancanza di mezzi e risorse e i medici e gli infermieri che lavorano nei 206 istituti penitenziari italiani continuano a portare avanti con difficoltà un’opera particolarmente importante e delicata a tutela della salute della popolazione detenuta, sebbene impossibilitati a provvedere al rinnovamento delle strutture e all’adeguamento del personale in sotto organico" e "ad oggi i detenuti reclusi nelle carceri italiane ammontano a più di 65.000 detenuti ben al di sopra delle capacità in regime di umana civiltà".

È quanto denuncia il deputato del Pd Ermete Realacci in una interrogazione ai ministri della Giustizia, del Lavoro, della salute e delle politiche sociali e dell’Economia, ai quali chiede di "dare effettiva attuazione alla riforma della medicina penitenziaria e quali provvedimenti possano essere messi in campo affinché siano trasferite alle regioni deputate le risorse spettanti al Servizio sanitario penitenziario specificatamente per l’ultimo trimestre 2008 e per l’anno 2009".

Giustizia: detenuto suicida a Tolmezzo si ipotizza l’istigazione

 

Asca, 17 novembre 2009

 

La Procura della Repubblica di Tolmezzo (Udine) ha aperto un fascicolo a carico di ignoti per l’ipotesi di reato di istigazione o aiuto al suicidio, nell’ambito dell’inchiesta sul suicidio dell’imprenditore veneziano Bruno Vidali, di 46 anni, avvenuto nei giorni scorsi nel carcere di Tolmezzo, dove l’uomo era detenuto.

Lo si è appreso dall’avvocato Marco Vassallo, legale di Vidali con l’avvocato Antonio Franchini. "Il fascicolo - ha spiegato - è stato aperto per poter disporre l’autopsia, che sarà effettuata immediatamente". L’avv. Vassallo ha fatto sapere che il suo assistito, il quale ha sempre protestato la propria innocenza, prima di togliersi la vita ha lasciato tre lettere, una indirizzata alla moglie e le altre due al figlio e alla figlia. "Documenti cui non abbiamo potuto aver accesso - ha detto il legale - dal momento che la Procura di Venezia ha chiesto di vederli prima. Faremo istanza alla Procura - ha annunciato - affinché le lettere siano consegnate ai familiari e ci sia possibile esaminarle".

"Ora attendiamo di conoscere - ha concluso il legale - l’esito dell’autopsia, che includerà anche gli esami tossicologici e che pensiamo possa essere completata entro i prossimi quindici giorni". Vidali era finito dietro le sbarre otto mesi fa, al termine delle indagini su un tentato duplice omicidio nei confronti di Maurizio Zennaro e Massimo Zanon, avvenuto il 25 giugno 2008 nella Laguna di Venezia. Vidali era sospettato di aver ordinato il delitto al pregiudicato Alessandro Rizzi (49), che aveva confessato chiamandolo in causa. Dopo essere stato detenuto nelle carceri di Treviso e Venezia, da due mesi l’uomo era rinchiuso nel carcere di Tolmezzo.

Giustizia: Pd; a Tolmezzo troppi suicidi e disagio per detenuti

 

Ansa, 17 novembre 2009

 

Due suicidi in 30 giorni nel carcere di Tolmezzo (Udine), in aggiunta ad almeno tre tentativi di suicidio negli ultimi mesi: lo ha reso noto il consigliere regionale del Friuli Venezia Giulia, Sergio Lupieri (PD) con un’interrogazione. "Il livello di disagio e di disperazione dei detenuti e del personale operante negli istituti di pena - sottolinea Lupieri - è ormai giunto a un punto di non ritorno. Disturbi gravi di tipo depressivo, psicosomatici, d’ansia, aggressioni, suicidi sono troppo frequenti". "E poi c’è il sovraffollamento, pesantissimo", aggiunge Lupieri, secondo il quale urge attivare percorsi formativi, lavorativi e ricreativi e un osservatorio a livello regionale, con compiti di verifica dei livelli di attuazione di quanto previsto dalla Costituzione, dall’ordinamento penitenziario e dalle normative vigenti in materia carceraria.

Giustizia: Rudra Bianzino; cercate verità su morte mio padre

 

Il Manifesto, 17 novembre 2009

 

L’arrivo di Rudra Bianzino al Congresso dei radicali italiani a Chianciano ha fatto riaprire un caso, almeno nella coscienza della società civile, che non ha ancora una verità giudiziaria. Rudra è il figlio più piccolo del falegname "morto di carcere" a Perugia in circostanze misteriose nell’autunno 2007. E ora, dopo che anche sua madre Roberta e sua nonna sono decedute quest’estate per malattia, Rudra è rimasto solo.

Suo padre, Aldo Bianzino, fu trovato morto dopo la notte passata in carcere: presentava lesioni e un fegato "strappato", come se avesse ricevuto un calcio. Ma dopo diversi mesi il tribunale di Perugia presentò richiesta di archiviazione: non c’era stato nessun omicidio per i magistrati e Aldo era morto per un aneurisma al cervello che i referti medici indicherebbero con chiarezza. La prima volta però la richiesta di archiviazione - è l’ottobre del 2008 - viene respinta. Alla seconda ha fatto opposizione, con una articolata memoria, la famiglia che non si è arresa alla tesi incidentale. Tra pochi giorni, il 10 dicembre, la magistratura umbra dovrà pronunciarsi sulla seconda richiesta di archiviazione che, se venisse accettata, metterebbe la parola fine alla vicenda. La famiglia di Aldo non si dà per vinta e vuole che il caso continui a restare aperto anche alla luce di quanto continua ad emergere dopo la morte di Stefano Cucchi.

I due casi sono infatti assai simili con la differenza che allora la vicenda di Aldo fu oscurata a Perugia dal caso di Meredith Kercher e la sua storia "minore" non registrò l’attenzione che, fortunatamente, si è ora riversata sull’oscura serie di fatti che circondano la morte di Stefano. Quella di dicembre è dunque l’ultima occasione perché si torni a far luce con un supplemento di indagine, nuove perizie e un nuovo giro di testimonianze su una vicenda i cui contorni restano oscuri, poco chiari, avvolti da un alone di mistero e reticenza.

Giustizia: la madre di Marcello Lonzi aspetta risposta di Alfano

 

Ansa, 17 novembre 2009

 

"Ho scritto una lettera al ministro Alfano perché ho sentito tanto rumore per la morte di Cucchi, stesse modalità, ma dal ministro nessuna risposta". Così scrive in una nota Maria Ciuffi, la madre di Marcello Lonzi, morto nel carcere di Livorno l’11 luglio 2003, mentre era detenuto per un tentato furto. Da allora la donna si batte per avere giustizia, ma "entro novembre al massimo i primi di dicembre il caso sarà chiuso".

Maria Ciuffi tiene a precisare che "io e la mamma di Stefano Cucchi ci sentiamo per telefono, ma vorrei che come mio figlio e Stefano venissero fuori tanti casi, perché in tutte le carceri picchiano, ma i parlamentari una volta fatta l’interrogazione se ne lavano le mani. Mentre a piangere i nostri figli ci siamo solo noi genitori, è ora di dire basta alla violenza, perché mio figlio è entrato vivo e me lo hanno restituito dentro un sacco nero, cosa ha fatto lo Stato? Dove era? Per fortuna anche se lo Stato mi ha abbandonata ci sono tanti giovani a darmi forza perché dopo sei anni sono anche stanca di chiedere giustizia e domandare perché mio figlio è morto".

Lettere: il mio anno come insegnante nel carcere di La Spezia

di Maurizio Maggiani

 

Secolo XIX, 17 novembre 2009

 

Ho passato l’anno scolastico 1975-76 nel carcere circondariale di Spezia. La cosiddetta "Carbona", ancor più confidenzialmente "la Villa". Ho vissuto un’esperienza molto formativa, certamente indimenticabile. Mi era stata assegnata una supplenza annuale nella sezione multi classe della scuola elementare interna.

A quel tempo si stimava che almeno un quarto della popolazione carceraria era analfabeta, e lo Stato si impegnava all’alfabetizzazione generale del Paese, compresa quella dei carcerati. Questa era la legge, ma la prima cosa che ho imparato prendendo servizio, è che il carcere era un regno indipendente e sovrano.

C’era il suo re, il direttore, il primo ministro, il comandante delle guardie, il suo esercito e il suo popolo di sudditi; e la legge, l’unica che contava oltre il cancello dell’amministrazione, era quella dettata dal re e dal suo primo ministro. In quel carcere, ad esempio, la scuola era ritenuta un’inutile rogna, e il mio predecessore mi ha subito informato che era cosa sgradita il disturbare il quieto andamento del regno con l’apertura effettiva dell’anno scolastico. E mi ha prospettato un anno di rilassante riposo, occupando un ufficio dell’amministrazione, dando una mano a disbrigare la posta. Dopodiché avrei potuto leggere, giocare a bigliardino con le guardie, guardarmi la tv.

Mi ci è voluto un mese di umilianti richieste e poco amichevoli discussioni per farmi aprire l’ultimo cancello e instaurare nella cella della biblioteca la mia nuova scuola. Una volta richiuso il cancello alle mie spalle, c’eravamo solo io, il turno di guardia e i galeotti a occupare un universo sigillato, blindato, impenetrabile a qualunque legge che non fosse quella del capo turno e dei segreti potentati dei capi cella.

E mi ricordo prima di tutto l’odore. Il carcere ha un odore unico, inconfondibile, che non assomiglia a nessun altro odore, anche se è fatto di materie reperibili in molti altri ambienti collettivi: ammoniaca, escrementi, cibo in preparazione, fiato umano, umidità di panni lavati, sapone profumato da due soldi. E poi la luce. La luce polverosa e opaca dei lucernai mista alla sempiterna luminescenza dei neon e delle lampadine nude e crude madide del fumo inanellato da migliaia di sigarette.

Poi ricordo che i detenuti che "rompevano" venivano menati dalle guardie nelle docce, ed erano perlopiù tossici. I tossici non avevano nessun tipo particolare di assistenza, tranne le botte e qualche giorno di isolamento.

Ricordo che tutti, dal direttore in giù, avevano paura di una sola persona al mondo, della brigatista della sezione femminile, e nessuno osava anche solo immaginare di darle fastidio in qualche modo. Ricordo del compleanno del mafioso celebrato con champagne e caviale, ricordo che lo spesino speciale lo andò a fare un brigadiere che poi brindò al genetliaco. Ricordo del palestinese, uno del commando di Fiumicino, che mi insegnò i rudimenti dell’arabo - ho ancora i quaderni con la copertina nera del ministero degli interni - mentre io gli insegnavo l’italiano; era sicuro che in carcere ci sarebbe stato poco, e mi fece il nome di un politico amico che di lì a pochi anni divenne l’uomo più potente del paese.

Ricordo del ladro gentiluomo, fregato da una donna, che scriveva romanzi d’amore. Ricordo il ragazzo che si feriva con i cocci di vetro per poter stare in isolamento, e da lì voleva che andassi a parlargli; non voleva sapere niente in particolare, ma solo sentire la mia voce. Ricordo che il brigadiere veniva segretamente da me a farsi scrivere le lettere per sua madre e la sua fidanzata; non parlava l’italiano, ma solo la sua lingua natia, il napoletano, e all’inizio facevo una fatica tremenda anche solo a capire cosa volesse. Ricordo le partite a biliardino quando il turno era di buon umore, la sfilata delle marmitte del rancio su cui sputavano da tutte le balconate; e ricordo che parecchie volte si dimenticavano di venirmi ad aprire alla fine delle mie ore, e io sentivo di essere finito nell’imbuto di quell’universo, e di esserne prigioniero, allo stesso modo che lo erano le guardie e i ladri.

Non mi è stato rinnovato l’incarico, e un paio di anni dopo è entrata in vigore la riforma carceraria, e il sistema è stato rivoltato come un calzino. Venti anni dopo sono tornato in carcere, da volontario, per un progetto culturale nella sezione giudiziaria di Rebibbia. E lì era tutto diverso; tutto tranne quel particolare odore e quella particolare luce. Identici a quelli di un tempo, anche se il carcere è stato appena costruito, anche se le celle sono completamente diverse, e diverso l’igiene, e il cibo, e le persone. E uguale permane la sensazione che un carcere resti un regno indipendente e sovrano, con il suo re e il primo ministro ecc, ecc.

Regni riformati, che hanno l’opportunità di essere benigni e giusti, ma anche quella di non esserlo. Così che, volendo, si può picchiare a sangue un detenuto, ammazzarlo o lasciare che si ammazzi. Volendo, si può fare di un carcere una comunità modello, o un inferno, perché, riforma o non riforma, qualunque legge dell’universo o dello Stato cessa il suo effettivo vigore oltre l’ultimo cancello, l’ultimo giro di chiave. E questo, alla fine, importa solo a quelli che restano chiusi dentro, guardie o ladri che siano.

Lettere: ingiusto massacro mediatico per Polizia penitenziaria

 

Lettera alla Redazione, 17 novembre 2009

 

Ho maturato 35 anni di servizio nelle patrie galere ai massimi livelli della Medicina Penitenziaria. Ho attraversato i periodi più bui del terrorismo quando solo lavorare in carcere significava essere servi dello Stato da neutralizzare e da abbattere alla prima occasione.

Sono cresciuto professionalmente al fianco della Polizia Penitenziaria di cui ho potuto apprezzare sempre anche se in situazioni difficili lo spirito di servizio, la fedeltà alle istituzioni. Registro con profonda amarezza ed incredulità il massacro mediatico a cui è sottoposta in questo momento la Polizia Penitenziaria per la vicenda Cucchi. Non è giusto quello che sta avvenendo.

Non è corretto. Mancano 5.000 Agenti negli organici e riescono a gestire con seria professionalità istituti caratterizzati dal un preoccupante virus del sovraffollamento. Non rendiamo giustizia ai tantissimi Poliziotti Penitenziari che fanno sino in fondo il proprio dovere con grande umanità,con grande spirito di solidarietà e capacità di ascolto. Io come Medico Penitenziario ho avuto nel Poliziotto Penitenziario il collaboratore più fidato e più disponibile nel fronteggiare le situazioni più complicate.

Parliamo di suicidi. Il suicidio nelle carceri è al momento attuale un grave problema di salute e rappresenta la terza causa di morte. È un evento drammatico che sconvolge l’ambiente carcerario ed interroga la responsabilità professionale di ciascuno di noi. Di fronte ad un suicidio in carcere, l’istituzione si interroga, si sente sotto accusa, registra uno scacco. Partono subito le inchieste: quella giudiziaria,quella amministrativa.

63 sono i suicidi nel 2009. Tanti. 654 sono stati i tentativi di suicidio. Molti sono stati salvati proprio dal pronto intervento della Polizia Penitenziaria che lavora in prima linea ed interviene sempre e comunque per prima con ammirevole intraprendenza. Di questo nessuno parla.

 

Francesco Ceraudo

Direttore Dipartimento per la salute in carcere della Regione Toscana

Toscana: Forum Droghe; 30% dei detenuti è tossicodipendente

 

Agi, 17 novembre 2009

 

Un’analisi dei dati reperiti da diversi dicasteri, per ricostruire "gli altissimi costi sociali prodotti dall’applicazione esasperata delle disposizioni punitive" in materia di droga. Questa, in sintesi, la premessa alla ricerca "La legge antidroga e il carcere: il caso Toscana", a cura della Fondazione Michelucci e Associazione Forum Droghe, presentata questa mattina a Firenze.

All’appuntamento hanno presenziato il presidente della Commissione sanità Fabio Roggiolani, la vicepresidente, Anna Maria Celesti (Fi-Pdl), Alessia Petraglia, capogruppo di Sd per Sinistra ecologia e libertà, il consigliere Severino Saccardi, Pd. Lo studio, commissionato dalla Regione, ha indagato il fenomeno del consumo di "stupefacenti e sostanze psicotrope" all’interno della Toscana in un preciso periodo (2007-2008), alla luce della normativa nazionale, "capace di colpire con un poderoso dispositivo sanzionatorio (da 6 a 20 anni) ogni comportamento volto ad instaurare una relazione materiale con le sostanze ad azione drogante vietate".

Un "irrigidimento" che "non ha portato a una diminuzione o anche solo a un contenimento delle condotte di rilevanza penale", e sul quale pesa comunque la situazione dei detenuti stranieri, per i quali è più complicato accedere a servizi di recupero e quindi a misure alternative al carcere. A Sollicciano, ad esempio, il 50 per cento circa dei detenuti sono condannati per droga, per violazione dell’articolo 73: di questi, i 4/5 sono stranieri.

I tossicodipendenti, in totale, sono il 30 per cento, un dato per altro in crescita, come confermato da Massimo Urzi della Fondazione Michelucci: "A livello nazionale il dato sui detenuti per droga è essenzialmente poco sotto il 40 per cento. Sul dato di Sollicciano pesa il numero elevato di stranieri: se in Italia il 37 per cento è composto da stranieri, a Sollicciano è il 65 per cento".

Lo studio ha evidenziato una crescita del numero di segnalazioni all’autorità giudiziaria, di quello delle sanzioni amministrative e della loro durata.

Aumentano anche le condanne e, "in maniera impressionante", i procedimenti pendenti per la stessa fattispecie. In crescita inoltre la percentuale dei tossicodipendenti tra quanti sono entrati in carcere (+8,4 per cento rispetto a prima dell’indulto); ciò ha riportato il numero dei tossicodipendenti in carcere ai livelli del 2006 e, per l’immediato futuro, "appare verosimile ritenere che l’incidenza della loro presenza in carcere crescerà in modo problematico".

La ricerca si conclude con la conferma dell’ipotesi da cui ha preso le mosse: e cioè che "l’accanimento repressivo in materia di reati di droga mantiene elevata la spesa sociale sostenuta per punire anche il semplice possesso di sostanze ritenute illecite e rende costante l’incidenza dei tossico-dipendenti in carcere". Al contempo, il sistema dei servizi socio-sanitari sul territorio, "per le esigue risorse di cui dispone, non è assolutamente in grado di fronteggiare la domanda di assistenza", con la conseguenza di limitare indebitamente il diritto dei tossicodipendenti di accedere a misure alternative al carcere, "in particolare per quanto riguarda coloro che sono privi di riferimenti territoriali stabili (stranieri privi di diritto di soggiorno, senza fissa dimora)".

Per il presidente della Commissione sanità, Fabio Roggiolani, che ha presenziato all’appuntamento in Palazzo Panciatichi, "un sesto dei detenuti, e cioè 400 sugli oltre 4000 in Toscana, potrebbe essere assistito sul territorio, quindi a domicilio, nelle comunità. Questi detenuti - continua il consigliere - costano 60mila euro ogni anno, con l’affidamento costerebbero un terzo. Chiediamo che lo Stato passi le risorse alla Regione, affinché questa azione possa essere portata fino in fondo. Il tossicodipendente è un ammalato che necessita di cura, non lo si penalizza, e inoltre si risparmierebbe danaro pubblico".

Piemonte: Regione vuole istituire Garante di diritti dei detenuti

 

Ansa, 17 novembre 2009

 

La Regione Piemonte potrebbe presto dotarsi di un garante dei detenuti, figura sul modello del difensore civico, istituita per interloquire con tutti i soggetti gravitanti intorno al carcere con l’obiettivo di migliorare le condizioni dei detenuti e ottimizzare le possibili sinergie con il territorio. La proposta di legge, oggi in discussone in consiglio regionale, è un testo unificato che raccoglie alcune proposte preesistenti, presentate da Pd e Prc.

Ma l’iter del documento, duramente avversato da An e Lega mentre porta la firma dell’esponente di Fi-Pdl Mariangela Cotto, parte ancora più da lontano. Furono infatti i Radicali nella passata legislatura regionale (nell’attuale sono assenti, ndr) a chiedere per primi l’introduzione di un garante delle carceri in Piemonte. La loro proposta di legge però non poté andare in porto durante il governo regionale di centrodestra che ha preceduto l’attuale guidato da Mercedes Bresso. La proposta è stata così ripresa nella presente legislatura, con l’approvazione in commissione di un testo unificato nel giugno 2006.

Il presidente dei Radicali Italiani Bruno Mellano, allora consigliere regionale del Piemonte, parla di occasione storica per rendere concreta la proposta che i Radicali hanno fatto da ormai cinque anni. Il varo della legge è stato sollecitato dai Radicali con un appello a Bresso firmato da una decina di dirigenti del partito fra cui Emma Bonino e lo stesso Mellano.

Siena: detenuto di 59 anni stroncato da un infarto, era in A.S.

 

Ansa, 17 novembre 2009

 

Un detenuto di 59 anni, recluso nella sezione di alta sicurezza del carcere "Ranza" di Siena è morto ieri pomeriggio, stroncato da un infarto. Pietro Costa, di Siterno (Reggio Calabria) stava scontando una pena (sarebbe dovuto uscire nel 2015) per gravi reati. Erano da poco passate le 13 quando dal primo piano dove si trova la sezione di alta sicurezza è scattata la richiesta di soccorso. In questa parte di Ranza sono rinchiusi circa 100 detenuti a fronte di una popolazione carceraria che supera le trecento unità. Pietro Costa è stato colpito da un improvviso malore mentre era nella sua cella che divide con un altro detenuto. È stato proprio quest’ultimo, quando l’ha visto accasciarsi a terra privo di sensi, a dare l’allarme. Sono immediatamente accorsi gli agenti penitenziari in servizio con i sanitari del carcere, ma quando sono arrivati per il Costa ormai non c’era più nulla da fare. Una crisi che non gli ha lasciato scampo come è stato successivamente accertato dal medico.

Ferrara: la Garante; detenuti stipati e poca assistenza medica

 

Dire, 17 novembre 2009

 

Dalla mancanza del mediatore socio-sanitario a quella delle protesi dentarie "anche in soggetti giovani"; dalla necessità di menù "idonei" all’inserimento nelle comunità terapeutiche dei tossicodipendenti; dall’urgenza di un collegamento con gli sportelli del Comune ai locali doccia "insufficienti" e al reddito "minimo" che non c’è. Per arrivare all’unico agente per sezione che "non ha nemmeno un telefono cordless". Sono solo alcuni dei problemi che il garante dei detenuti di Ferrara, Federica Berti, oggi porta all’attenzione del Consiglio comunale.

Proprio nei giorni in cui sono attesi in via dell’Arginone i cinque nuovi agenti di Polizia penitenziaria (più un ispettore) inviati dal ministero per passare da 166 a 171 guardie complessivamente - a fronte di un numero legale previsto da un decreto ministeriale del 2002 pari a 232 - è il dibattito sulle criticità sofferte dai reclusi a tenere banco in aula.

Contro una capienza regolare di 256 e una tollerata di 466, alla fine di settembre i detenuti nel carcere ferrarese sono 536, di cui 235 italiani e 301 stranieri. Berti li incontra a cadenza settimanale, e ad oggi le pratiche avviate per loro richieste sono un’ottantina.

Nella cella singola di 12 metri quadrati, comprensiva di 3 per il bagno, ci stanno tre persone: "Le condizioni di vita prevedono di stare in piedi a turno, la deambulazione è resa difficile dato che le brande occupano lo spazio insieme con le suppellettili minime a disposizione", scandisce il garante ai consiglieri. "Il personale di Polizia ridotto ad una unità per sezione- prosegue Berti- deve percorrere 90 metri e seguire 78 persone: ai numerosi squilli di telefono è costretto a raggiungere la gabbiola per rispondere all’unico telefono fisso".

E le docce? "Ogni sezione ha solo 2 locali per 78 detenuti che vi accedono a turni giornalieri". Un dramma raccolto "anche dal senatore Filippo Berselli nella sua recente visita", ricorda la garante sperando che si intravedano presto sviluppi concreti.

Bolzano: ogni anno circa 1.000 detenuti "passano" nel carcere

 

Redattore Sociale - Dire, 17 novembre 2009

 

"Nella sola casa circondariale di Bolzano passano ogni anno circa mille persone: qui gli ospiti sono sempre sui 110/120 per soli 68 posti disponibili". Giovedì e venerdì un convegno organizzato da Caritas, Conferenza San Vincenzo e volontari.

La realtà altoatesina non fa eccezione per quanto riguarda il problema del sovraffollamento e della difficile vita in carcere. "Nella sola casa circondariale di Bolzano passano ogni anno circa mille persone: qui gli ospiti sono sempre sui 110/120 per soli 68 posti disponibili" commenta infatti Alessandro Pedrotti, responsabile del Progetto Odòs, una casa di accoglienza per detenuti ed ex detenuti. Per fare il punto sulla situazione sia locale sia nazionale la Fondazione Odar organizza un convegno che si svolgerà giovedì 19 e venerdì 20 novembre, dal titolo "Carcere, comunità civile e cristiana", organizzato con la Caritas diocesana, la Conferenza San Vincenzo e l’associazione Volontari del carcere.

"Leggi sempre più severe e pene sempre più aspre hanno portato negli ultimi anni alla saturazione delle carceri italiane - è il commento della Fondazione -: dal dopoguerra a oggi non ci sono mai stati così tanti detenuti. Stiamo sfiorando i settantamila reclusi a fronte di quarantamila posti disponibili nei nostri penitenziari". Un problema, questo, che sempre meno passa sotto silenzio: "L’attenzione crescente della società dimostra che un confronto sul sistema penitenziario e sulle sue strutture è ormai divenuto urgente - riflettono gli organizzatori -, non solo per il rispetto integrale della persona ma anche per la stessa dignità che una società civile deve riconoscere a tutti i suoi cittadini, chiunque essi siano".

Da qui la decisione di accendere un riflettore sul problema: il convegno di questa settimana è solo uno dei tanti progetti organizzati nel corso dell’anno per mantenere alta la guardia e con l’occasione celebrare il decennale del Progetto Odòs. La prima giornata, che si terrà dalle 20 alle 22 di giovedì 19 nel centro pastorale di piazza Duomo 7 a Bolzano, è rivolta prevalentemente a tutta la comunità cristiana: tra i relatori figurano il vescovo diocesano mons. Karl Golser e padre Peter Brugger, cappellano del carcere. La seconda giornata di lavoro - dalle 8.45 nella sala di rappresentanza del Comune in vicolo Gumer 7 - è pensata soprattutto per gli addetti ai lavori: verranno infatti presentate le relazioni di due esperti del settore, Livio Ferrari di Rovigo (fondatore della Conferenza nazionale volontariato giustizia) e Meinrad Pieczkowski, assistente ecclesiastico del carcere di Vienna. "In questa maniera - sottolinea Pedrotti - sarà possibile riportare l’attenzione su temi come le misure alternative alla detenzione, che costano molto meno e funzionano molto meglio della reclusione, perché hanno una ricaduta positiva ed educativa sui detenuti".

Cagliari: in carcere scuola a "singhiozzo" per carenze organici

 

Agi, 17 novembre 2009

 

Scuola a singhiozzo nel carcere di Buoncammino per i 23 detenuti-studenti, prevalentemente extracomunitari iscritti, 15 dei quali di alta sicurezza. Le lezioni sono state infatti sospese, oggi, per l’assenza di personale di custodia. Lo denuncia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme sottolineando "la carenza di agenti di polizia penitenziaria che comporta gravi limitazione ai servizi, tra cui l’istruzione affidata ad alcuni docenti di ruolo".

"Una situazione - afferma l’ex consigliere regionale - che determina un forte disagio per i detenuti per i quali l’esperienza didattica ha un particolare rilievo. Un altro segnale della necessità di adeguare il numero di Agenti alle reali esigenze dell’istituto penitenziario cagliaritano, in sofferenza anche per il sovraffollamento. Sempre più spesso, purtroppo, le attività sono condizionate dal numero di agenti in servizio. Nonostante gli sforzi dei presenti, che collaborano per limitare i disagi, diventa quasi impossibile garantire la regolarità della vita carceraria. Talvolta a farne le spese è lo spaccio che resta chiuso, in altre circostanze si limitano i colloqui con i volontari. L’auspicio - ha concluso Caligaris - è che si ritorni alla normalità al più presto anche perché la stessa sicurezza è a rischio".

Firenze: cura sbagliata a detenuta la causa gravi danni a vista

 

Ansa, 17 novembre 2009

 

Affetta da una grave patologia, una detenuta del carcere fiorentino di Sollicciano avrebbe perso la funzionalità dell’occhio sinistro perché le sarebbe stato somministrato un collirio diverso da quello prescritto. Lo sostiene il legale della detenuta, l’avvocato Fabrizio De Sanctis, che presenterà "una denuncia per risarcimento danni". La donna, spiega il legale in una nota, "era affetta da una grave patologia all’occhio sinistro ed era in attesa di sottoporsi ad un intervento chirurgico, unica speranza di guarigione. L’8 novembre le è stato somministrato un collirio diverso da quello prescritto ed è stata portata d’urgenza in ospedale perché accusava dolori fortissimi all’occhio.

All’ospedale le sono stati diagnosticati danni irreversibili alla cornea e alla retina, con perdita totale della funzionalità dell’occhio e l’impossibilità di qualunque terapia, anche chirurgica". Il legale ricorda che, per denunciare la situazione igienico sanitaria del reparto femminile di Sollicciano, nei giorni scorsi la detenuta ha iniziato lo sciopero della fame, al quale hanno aderito altre detenute con il rifiuto del carrello del vitto.

Milano: per 60 anni dietro le sbarre accanto a chi non ce la fa

di Ilaria Sesana

 

Avvenire, 17 novembre 2009

 

Giambattista Legnani, presidente onorario della "Sesta Opera" a San Vittore: anche nell’uomo "cattivo" c’è tanta umanità. La soddisfazione nell’aiuto all’altro.

La cosa più bella, assicura, è quando si viene a sapere che qualcuno ce l’ha fatta. "Che ha trovato la forza per andare avanti e non commettere gli stessi sbagli. Perché serve una grandissima determinazione, una grandissima forza per rifarsi una vita quando sei fuori: un detenuto che esce dal carcere non trova indifferenza, ma ostacoli", racconta Teresa Michiara, volontaria della "Sesta Opera San Fedele" nella casa circondariale di San Vittore dal 1994.

Storie che "ci danno il coraggio di andare avanti", spiega. Ne ricorda tante, ma sceglie di raccontare quella di un uomo che ha incontrato anni fa nel penitenziario milanese: "Ha scontato una lunga pena - ricorda - e ha preso consapevolezza dei propri sbagli. Ora si è ricostruito una vita, una nuova famiglia".

Inoltre svolge anche attività di volontariato e porta la sua testimonianza nelle scuole: "Ha il coraggio di mostrarsi per quello che è e per quello che è stato. Il coraggio di dire che è cambiato". In questi quindici anni, Teresa ha visto passare tanti volti e tante storie di redenzione. Che non sono così rare come, a torto, si crede. Un mondo, quello del carcere, "che visto da lontano fa paura e che si tende a giudicare ". Eppure, "man mano che ci si avvicina si acquisisce quasi una maggior fiducia nell’umanità - spiega -. Si riesce a vedere quella luce che è stata offuscata dalla vita".

Non chiedere mai il male, ma dimenticarlo. Non giudicare mai. Capire la persona e arrivare ad aiutarla "con l’esempio e le parole di vera fede". Queste le regole che, per una vita, ha guidato il lavoro di Giambattista Legnani, oggi presidente onorario della "Sesta Opera" e volontario per 60 anni a San Vittore. Un’avventura che ebbe inizio nel 1949 quando, poco più che ventenne, raccolse l’eredità del padre Egidio, che nel 1923 aveva fondato quella che sarebbe diventata la Sesta Opera. "Dover entrare in carcere mi turbava molto - ricorda - ma questo incontro mi diede modo di scoprire l’uomo. E di comprendere che anche nell’uomo "cattivo" esiste tanta umanità". Parla con tono pacato e, solo di sfuggita, accenna al fatto che nel 1962 il presidente Segni gli ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della repubblica italiana.

Ricorda tante storie e tanti volti, il signor Giambattista. Ad esempio quella di un ragazzo (di "professione" ladro sui treni internazionali) incontrato a metà degli anni Settanta. "Aveva un tumore e per fortuna siamo riusciti a farlo ricoverare. Non aveva nessuno, era in disaccordo completo con la famiglia", ricorda. Inizia così un paziente lavoro per ricucire i vecchi legami, si prendono i contatti con la madre e i fratelli del giovane ladro: ""Lo abbiamo perdonato grazie a voi", mi dissero i familiari dopo il funerale", ricorda Legnani.

E ancora gli anni del terrorismo. "I brigatisti volevano a tutti i costi i volontari, ma era impossibile", spiega Legnani. Il direttore però si convinse che "forse il mondo esterno poteva aiutarli a capire il male fatto" e così ebbe inizio un’attività di tirocinio e formazione professionale per tre di loro.

Oggi come allora, l’incontro tra il volontario e il detenuto avviene per motivi apparentemente banali. "Spesso, quella del flacone di bagnoschiuma è una scusa per avviare un dialogo - spiega Teresa Michiara -. Un’occasione per uscire dalla cella e per tirare fuori la parte sana di sé". "Il ricordo più bello? Quando in punto di morte una madre riuscì a perdonare il figlio che aveva fatto il ladro"

Sulmona: armadietti costruiti dai detenuti, donati alle scuole

 

Il Centro, 17 novembre 2009

 

Quarantadue armadietti sono stati realizzati dai detenuti del carcere di Sulmona per i bambini delle scuole elementari e medie di Pratola. Sono stati consegnati nella sede della media Tedeschi nell’ambito del progetto "Scuola e/è salute" che vede Pratola capofila in tutta Italia. I bambini potranno così lasciare lì parte dei loro libri senza doversi più caricare di pesi eccessivi.

Il progetto, nato nel 2007 da una proposta dell’associazione Idea Progetto-devoti della Madonna della Libera, ha visto insieme Comune, Comunità montana Peligna, Provincia, istituto penitenziario e Asl, oltre all’istituto comprensivo Tedeschi. Le amministrazioni hanno messo a disposizione i fondi necessari, circa 25mila euro, una quindicina di detenuti la loro mano d’opera, la Asl il proprio parere specialistico. Ieri mattina nella sede della scuola media Tedeschi è arrivato il primo carico di armadietti (dodici).

Gli altri saranno consegnati a giorni. Sono stati interamente costruiti dai detenuti, che li hanno decorati con modelli di coloratissimi disegni realizzati dai bambini delle scuole del paese. Il progetto sarà completato con la consegna di 300 pianali nuovi per i banchi degli alunni pratolani. "Questo è un appuntamento importante", ha commentato il sindaco Antonio De Crescentiis, "perché assistiamo alla concretizzazione di un progetto voluto e portato avanti per il bene del nostro paese e delle nostre scuole".

"Un progetto di grande valenza sociale", ha aggiunto l’assessore alle Politiche sociali, Oriana Di Marzio, "perché permette di tutelare la salute dei ragazzi che, con questi armadietti, avranno la possibilità di lasciare a scuola, i libri che non servono loro per i compiti a casa, evitando così si portare avanti e indietro un peso eccessivo e dannoso per la loro colonna vertebrale e la loro salute". Aspetto sottolineato anche dalla dottoressa Annamaria Ferroni, responsabile del servizio di medicina di comunità della Asl Avezzano-Sulmona.

Tanta soddisfazione per il progetto portato a termine è stata espressa anche dal dirigente scolastico Renato Di Cato. Dopo la benedizione del parroco, padre Vito, la parola è passata al sindaco baby di Pratola, Raffaele Di Placido. "Ringrazio tutti", ha detto, "e assicuro che questi armadietti saranno usati da tutti noi nel migliore dei modi". Gli armadietti, come ha sottolineato Emiliano D’Andreamatteo di Idea Progetto andranno a tutte e tre le sedi scolastiche del paese: alla scuola media Tedeschi e alla scuole primarie di Valle Madonna e piazza Indipendenza. Pratola è stata la capofila di un questo progetto che è poi stato seguito da altre 128 scuole in Italia.

Immigrazione: nei Cie, il diritto alla salute diventa clandestino

di Rossella Anitori e Rocco Vazzana

 

Terra, 17 novembre 2009

 

Un detenuto è ricoverato, in prognosi riservata, per arresto cardiaco e un altro è in ospedale con il sospetto di aver contratto il virus H1N1. Scarsa trasparenza e mancanza di adeguati trattamenti sanitari al centro della polemica.

Allarme nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria. Due casi sospetti nel giro di 48 ore. Venerdì un detenuto cinquantenne, Faid, è stato trasportato d’urgenza all’ospedale San Camillo dopo un attacco di cuore, la prognosi è ancora riservata. Sabato, invece, è stata la volta di un cittadino algerino di vent’anni, ricoverato all’ospedale Forlanini per probabili complicazioni legate al virus H1N1. Quando si parla di Cie è difficile avere notizie certe e inequivocabili. Anche la sorte di un detenuto diventa un mistero. "Nessuna telefonata, nessuno risponde alle nostre domande", dice Reza (nome di fantasia), ospite coatto nel centro di Ponte Galeria che ci chiede di rimanere nell’anonimato. "Due giorni fa hanno portato via da questo posto un morto vivente. Non sappiamo ancora nulla di lui".

L’unica cosa certa è che tutti i compagni di cella di Faid erano a conoscenza della sua patologie: era cardiopatico. Le voci sul suo destino si sono accavallate di ora in ora. Qualcuno afferma di aver sentito dire che Faid è già morto, altri sperano che non sia vero. Voci che si sono diffuse anche a causa dell’atteggiamento restio della Croce rossa che non ha fornito alcuna spiegazione alle persone detenute nel Cie. La tensione è cresciuta il giorno successivo, sabato, quando gli infermieri del centro sono entrati in una cella, muniti di mascherine, a prelevare un ragazzo in piena crisi respiratoria. Il panico da influenza suina si è diffuso in pochi minuti, dal momento che nessuno dei reclusi è stato vaccinato e le condizioni igienico-sanitarie non sono delle migliori. In un contesto in cui il sovraffollamento rischia di essere il miglior alleato di un’eventuale pandemia. I compagni di cella dell’ammalato hanno chiesto di essere visitati, ma senza alcun risultato.

Così, per protesta, buona parte degli internati della sezione maschile ha rifiutato il cibo. Infatti, mentre la Croce rossa, i militari e i volontari, per evitare un eventuale contagio, si muovono all’interno di Ponte Galeria con le dovute precauzioni, i detenuti vengono abbandonati a sé stessi. "Viviamo dentro una grande struttura che contiene 12 gabbie collegate da un corridoio lungo 150 metri e largo 3 continua Reza -. In ogni gabbia ci sono due celle e in ogni cella 8 letti, ma si vive anche in 13. Il 40 per cento delle persone ha qualche tipo di malattia, senza considerare i problemi psichici". Reza punta il dito contro il servizio medico: "Un ragazzo, per la disperazione, ha provato a operarsi da solo all’ernia. Abbiamo subito avvisato gli infermieri che lo hanno portato in ambulatorio. Dopo un’ora era tornato in cella con un semplice cerotto sulla ferita". Intanto, per verificare le voci provenienti dall’interno del centro, Anna Pizzo, consigliera comunale di Sinistra e libertà, si recherà oggi a Ponte Galeria.

"Il Garante per i diritti dei detenuti, Angiolo Marroni, - ha spiegato Pizzo - ha più volte denunciato lo stato in cui versa il centro. I migranti muoiono di freddo e gli sgomberi dei campi nomadi di questi giorni, voluti da Alemanno, potrebbero aver portato nella struttura decine di rom italiani e richiedenti asilo". Una situazione che andrebbe ad aggravare ulteriormente i problemi legati a sovraffollamento e promiscuità. I detenuti, infatti, lamentano un trattamento disumano: condizionatori accesi fino a inizio novembre e insufficienza di coperte. Manca il più semplice rispetto per la dignità umana delle persone. Sono queste le piccole Guantanamo che prendono forma dentro la Capitale.

Droghe: 25% detenuti tossicodipendente; servono alternative

di Andrea Garibaldi

 

Corriere della Sera, 17 novembre 2009

 

C’è questo dato impressionante: nei 205 istituti penitenziari italiani, a metà 2009, il 25 per cento dei reclusi, uno su quattro, si è dichiarato tossicodipendente. C’è un piccolo calo, poiché nel 2007 erano il 27 per cento e nel 2008 il 33 per cento, uno su tre. Al Nord più del 60 per cento sono stranieri, al Sud in maggioranza italiani. Se aggiungiamo gli arrestati per violazione della legge sulla droga, cioè gli spacciatori non tossicodipendenti, si arriva a quest’altra cifra: circa il 60 per cento della popolazione delle carceri italiane è dentro per questioni legate alle droghe, dalla marijuana all’eroina, alla cocaina, alle pasticche, che l’ultima legge (Giovanardi-Fini) non distingue più fra leggere e pesanti.

"Si possono prendere anche tre-quattro anni per un grammo" dice Franco Corleone, garante dei detenuti del Comune di Firenze. Ma lasciamo in cella trafficanti e spacciatori. Sui tossicodipendenti, invece, c’è un pensiero comune fra le associazioni che si occupano di carceri, parte dei dirigenti del ministero della Giustizia, i principali sindacati degli agenti di custodia, le comunità di recupero: non dovrebbero stare in carcere, poiché sono allo stesso tempo vittime e autori dei reati che compiono, non sono in grado di autodeterminarsi, hanno bisogno di un aiuto per venirne fuori, non della violenza legata a un luogo di reclusione.

Entrano di solito per piccoli e medi reati legati alla ricerca di droga, possono uscire criminali. E allora? "Il tossicodipendente - spiega Massimo Barra, fondatore della comunità di Villa Maraini a Roma, vicepresidente della Croce Rossa internazionale - deve essere trattato da persone che conoscono la sua condizione. Qui a Roma, spesso i carabinieri ci chiamano quando fanno un arresto. Diamo consigli e facciamo terapia. Certe volte vediamo accadere scene da libro Cuore: i carabinieri tirano fuori le sigarette, fanno il caffè per tutti...

Abbiamo prevenuto migliaia di casi come quelli di Stefano Cucchi. Ma quella sera, il 15 ottobre, per Stefano Cucchi non ci chiamarono, non so perché. Una settimana dopo è morto e ora ci sono sei indagati fra agenti di custodia e medici". Per i tossicodipendenti arrestati tutto comincia proprio nelle caserme o in questura. Dice Barra: "Nella caserma di San Basilio la cella è un loculo, come una tana per un animale. Ma anche nella nuova caserma dei Parioli, le celle sono sottoterra, tavolaccio e cesso alla turca".

Barra ricorda che scrisse al ministro dell’Interno Pisanu (governo Berlusconi, 2001-2006) per denunciare l’inutile disumanità di quelle celle. Non è arrivata nessuna risposta. Al Dap, direzione del ministero della Giustizia che amministra le carceri, ricordano che dal 2004 al 2007 funzionò un programma che si chiamava "Dap Prima". Al momento dell’arresto il tossicodipendente senza precedenti penali veniva "valutato" da un medico penitenziario, un educatore e uno psicologo e quindi avviato a una comunità terapeutica.

Raramente gli arrestati tornavano in carcere. E poi? Finiti i fondi europei che finanziavano il progetto, finito tutto. È risuonata questa frase nei giorni scorsi, in certe stanze del ministero: Stefano Cucchi avrebbe di sicuro usufruito di "Dap Prima", potrebbe essere ancora vivo... La verità è che tutte le misure alternative al carcere sono in crisi. Parliamo di arresti domiciliari presso comunità, di sospensioni di pena per seguire programmi terapeutici, di affidamenti in prova sempre nelle comunità.

Dice Alessio Scandurra, dell’associazione Antigone: "Tre anni fa più di 23 mila persone usufruivano di misure alternative, oggi sono circa un terzo. C’erano quasi 3.500 tossicodipendenti in affidamento in prova nel 2002, 3.800 nel 2006, diventati 800 nel 2008 e 1.200 quest’anno. Teniamo conto che sono recidivi, cioè tornano a compiere reati, 68 detenuti su cento, ma sono solo 30 su cento se consideriamo i beneficiari di misure alternative".

"Tra l’altro - dice Massimo Barra - sono stati sospesi i pagamenti. La comunità di Villa Maraini non ottiene rimborsi dallo Stato da un anno intero". Effetto, anche, del trasferimento delle competenze sanitarie in carcere dalla Giustizia alla Sanità, avvenuto senza trasferimento dei fondi. Così, la realtà è brutale. "Il tossicodipendente è un detenuto più "scomodo" degli altri - dice Franco Corleone -. Subisce spesso una "riduzione all’infantilizzazione".

Tollera ancor peggio di tutti il sovraffollamento di questi tempi (oltre 64 mila detenuti in istituti che ne possono contenere 43 mila), le venti ore chiuso in cella. Chiama gli agenti dieci volte al giorno. Chiede, chiede, soprattutto di andare dal medico...". E la deputata radicale Rita Bernardini, che spende giornate in visita alle carceri: "Molti tossici cercano lo "sballo" con il gas dei fornelletti da campeggio utilizzati per preparare da mangiare. Una detenuta di 40 anni è morta recentemente a Lecce per aver inalato troppo gas.

"Era tossicodipendente" ha spiegato il sottosegretario Caliendo". Al carcere di Buoncammino, Cagliari - raccontano al ministero - c’erano molti suicidi. Poi sono arrivati gli psicologi della Caritas, fanno almeno dieci colloqui al giorno, soprattutto con tossicodipendenti: da due anni, nessun suicidio. C’è la somministrazione del metadone, nelle carceri. Si fa un piano di scalaggio (dosi via via sempre minori) o di mantenimento, nei primi giorni dopo l’arresto. Poi il personale dei Sert più vicino (centro di assistenza per tossicodipendenti) o un Sert interno distribuiscono la sostanza.

Il metadone è un sostitutivo dell’eroina, per chi dipende da cocaina o da pasticche eccitanti, di solito c’è qualche calmante. In molte carceri entrano proprio le droghe, questo accade in tutto il mondo. Dice Eugenio Sarno, segretario degli agenti di custodia Uil: "Entra Lsd nella colla per francobolli, eroina sciolta nei sughi... Ci sarebbero i cani della polizia penitenziaria per cercare droghe custodite in carcere. Sono trenta, quasi tutti anziani, prossimi alla pensione. E gli agenti addetti erano 60 quattro anni fa, oggi sono 35...".

Sarno, però, vuole parlare anche di certi istituti come Milano Bollate o Lauro in Irpinia, che sono molto avanzati per il trattamento dei tossicodipendenti: "Lì si fa da 15 anni scolarizzazione, alfabetizzazione informatica, si tenta davvero il recupero. Ma queste strutture non bastano". E conclude: "I tossicodipendenti devono essere curati, non ci dovrebbero stare in carcere".

Droghe: a Rebibbia, nell’incubo della sezione tossicodipendenti

 

Corriere della Sera, 17 novembre 2009

 

Carcere di Rebibbia, Roma. "Entri e passi alla Matricola. Ti dichiari tossico. Stai lì, al G6, fin quando non si trova un posto per te. Al G6, un bagno per 26 detenuti". Parla Massimo, 46 anni, meccanico, una figlia, porto d’armi e spaccio: "Poi ti mandano al Td". Cos’è il Td? "Sezione tossicodipendenti. Piano terra, reparto Gii. Non si cucina. Non si può andare "in visita" alle altre celle. Celle da tre. Un’ora d’aria, anziché quattro. Se fai l’aria, non fai la doccia. Vengono a darti metadone, sia per chi prendeva eroina, sia per chi prendeva cocaina. Assistenti nervosi, parte facile qualche schiaffo. Se sei coinvolto in una lite, finisci in "cella liscia". Cella liscia? "Senza niente. Solo una tavola murata". E dopo il Td? "Se hai meno di 25 anni, vai al reparto "Giovani adulti", se no negli altri reparti". Giusto tenere assieme tutti i ragazzi? "Non so. Sono i più agitati, possono sovraeccitati tutti assieme".

Massimo è uno dei quattro detenuti per droga che incontriamo nel salottino della comunità che li ospita, agli arresti domiciliari. Scontano qui la "pena alternativa". E provano a cambiare vita. Si presentano con nome e cognome, chiedono di non usare le loro generalità complete.

Vittorio, 43 anni: "Facevo lo "spesino", quello che raccoglie i piccoli ordini, cella per cella. Nelle "celle lisce" del Td trovavo spesso occhi gonfi. Botte e suicidi tentati. Uno zingaro, due anni fa, è morto inalando gas del fornelletto. Un amico, Franco, s’è gelato i polmoni col gas.

Se lo aspiri per sballarti, al posto della droga, puoi andare avanti, ma se ne prendi tanto, se ti entra nel naso il liquido, quello ti gela i polmoni, muori". Fulvio, 41 anni, sposato, rapina: "A Regina Coeli, secondo braccio, 150 posti, stavamo in 200. La mattina passa l’infermiere per la visita. Uno può chiedere di fare un colloquio con lo psicologo...". Sergio, 43 anni, fabbro, spaccio, sguardo pieno di malinconia: "Stavo a Rebibbia, per un anno ho fatto tante domande di vedere lo psicologo. Ci ho parlato una volta".

Vittorio: "Il metadone lo danno dal ‘97. Prima ti davano qualche goccia di Valium. Oppure c’era un bastone con scritto sopra "Valium". O "Roipnol".

Fulvio: "A Regina Coeli, fra D 2007 e il 2008, ho visto cinque morti, nel secondo braccio". Massimo: "Agostino stava nella mia cella. Un giorno da troppo tempo era chiuso al bagno. Abbiamo sfondato: era appeso alle grate col lenzuolo, l’abbiamo tirato giù, vivo per un pelo".

Vittorio: "Fra il 2004 e il 2006 a Rebibbia ho visto 7 morti. Ho visto tanti tentare il suicidio. Romoletto si era attaccato con un assistente. S’era tagliato. Tanti si tagliano. Si aprono pure la pancia, tutte le viscere di fuori. Lo ricucivano, lui si agitava. Con l’assistente si sono toccati. Sono arrivati gli agenti che chiamavano "la squadretta", gli hanno dato un calcio in faccia, spaccato l’osso dello zigomo, ha rischiato di perdere un occhio".

Massimo: "I tossicodipendenti sono detenuti che fanno più problemi degli altri. Stanno sempre a chiamare: "Appuntà, me porti in infermeria, appuntà sto male, appuntà ho fame...". Vittorio: "Il guaio sono queste carceri enormi. A Orvieto eravamo novanta detenuti, tutto funzionava".

Arriva Julius, nigeriano, 48 anni, ne dimostra dieci di meno. Lui ora fa il cuoco in comunità, studia architettura. "Sono stato a Latina. Sono stato a Rebibbia. Detenzione e spaccio. Eroina e cocaina. Ero venuto in Italia per studiare, a Padova. All’inizio del 2006 mi arrestarono di nuovo, mi portarono a Secondigliano, Napoli. Ore e ore al reparto Matricola, poi giù nel tunnel. C’erano un ispettore capo e 10 agenti. L’ispettore seduto con i piedi sulla scrivania. "Dove sei stato, prima?" ha detto. "A Rebibbia" ho risposto. "Ah, quello è un hotel a 5 stelle, vedrai!". Mi hanno messo in un reparto di alta sicurezza. Niente metadone, astinenza secca. Venticinque posti ed eravamo in 50. Niente educatori. Non arrivano e non partono lettere. Muori a poco a poco". Poi l’indulto, gli arresti domiciliari in comunità, il lavoro in cucina. Ma questa non è una storia per tutti.

Droghe: "Domare le droghe?" dibattito su consumo controllato

 

Comunicato stampa, 17 novembre 2009

 

I consumi di sostanze tra leggi, senso comune e autoregolazione possibile. Domani a Napoli dibattito pubblico con il criminologo Tom Decorte, operatori sociali e il capo della squadra mobile di Napoli.

Mercoledì 18 novembre 2009 alle ore 16.30 presso l’Aula Magna della Facoltà di Sociologia della Federico II (Vico Monte della Pietà, 1) a Napoli si terrà un dibattito pubblico sul tema Domare le droghe? I consumi di sostanze tra leggi, senso comune e autoregolazione possibile. L’iniziativa è promossa dal Dipartimento di Farmacodipendenze della ASL Napoli 1 Centro con il gruppo di imprese sociali Gesco e le associazioni Saman, Il Pioppo e Lilad, in collaborazione con il Settore Fasce Deboli dell’Assessorato alla Sanità della Regione Campania.

Ospite d’eccezione Tom Decorte, noto sociologo e criminologo belga, il quale ha dimostrato che esiste la possibilità di ridurre i rischi e i danni dell’abuso di sostanze illegali come la cocaina mantenendo un consumo controllato. L’adozione di determinati stili di consumo, secondo Decorte, e consentono ai consumatori di proteggere la salute, gli affetti, il lavoro, dagli effetti dannosi delle droghe. In conclusione, contrariamente a quanto si crede abitualmente, anche per le droghe illegali chi consuma non ha davanti a sé un unico percorso inevitabile verso la tossicodipendenza.

Il dibattito cercherà di capire se le convinzioni comuni e le attuali misure di ordine pubblico favoriscano o meno l’adozione di modelli di consumo controllato, e come condizionino i percorsi individuali dei consumatori e l’impatto che i consumi di droghe hanno su tutta la collettività.

Interverranno al dibattito: Gianfranco Pecchinenda, preside della Facoltà di Sociologia dell’Università di Napoli Federico II; Stefano Consiglio, direttore del Dipartimento di Sociologia; Giulio Riccio, assessore alle Politiche Sociali del Comune di Napoli; Rosanna Romano, dirigente del Settore Fasce Deboli della Regione Campania; Fabio Corbisiero, docente universitario; Claudio Renzetti, formatore; Andrea Morniroli, cooperativa sociale Dedalus, Stefano Vecchio, Chiara Cicala e Tommaso Pagano, Dipartimento Farmacodipendenze dell’ASL Napoli 1 Centro; Roberto Moresco, assessore alle Politiche Sociali della Seconda Municipalità; Vittorio Pisani, Capo Squadra Mobile di Napoli. Sono stati invitati: rappresentanti dei Centri Sociali Officina 99 e Insurgencia, Comitato Centro Storico, Ottava Municipalità (Piscinola, Marianella, Chiaiano, Scampia) e Prima (Chiaia, Posillipo, S. Ferdinando) del Comune di Napoli, Arcigay, IKen e altre associazioni della città. Ufficio stampa: Ida Palisi - Maria Nocerino. 081.7872037

Grecia: detenuti respingono piano Governo, continua protesta

 

Ansa, 17 novembre 2009

 

Continua un parziale sciopero della fame in 20 prigioni greche per protesta contro le condizioni di internamento e per chiedere una riforma penale, dopo che i detenuti hanno respinto un piano del governo per risolvere il sovraffollamento giudicandolo insufficiente.

Secondo fonti ufficiali e indipendenti sono una ventina le prigioni dove i detenuti continuano da diversi giorni a rifiutare l’alimentazione carceraria, ma si nutrono parzialmente in modo individuale. Secondo il ministero della giustizia i detenuti del supercarcere di Korydallos hanno tuttavia abbandonato la protesta mentre si è aggiunta la prigione sull’isola di Corfù.

Le rivendicazioni, che comprendono la fine delle misure disciplinari comminate nelle carceri, considerate tra le peggiori d’Europa, sono state fatte proprie dagli studenti che oggi marceranno ad Atene in occasione del trentaseiesimo anniversario della rivolta del Politecnico contro il regime dei Colonnelli. I detenuti hanno minacciato di passare ad uno "sciopero integrale della fame", come quello che lo scorso anno provocò la morte di uno di loro, se le loro richieste non verranno accolte.

Belgio: agenti penitenziari accusati della morte di un detenuto

 

Ansa, 17 novembre 2009

 

Tre agenti penitenziari di un carcere del sud del Belgio, quello di Jamioulx, sono stati accusati di aver picchiato e ferito un detenuto procurandogli la morte. Questa la conclusione a cui è giunto il giudice istruttore che si è occupato del caso dopo la morte, nell’agosto scorso, di Michael Tekin, 31 anni.

La direzione del carcere, in un primo momento, aveva avanzato l’ipotesi che l’uomo potesse essere morto per soffocamento, ma l’autopsia aveva poi evidenziato segni di violenza sul corpo del detenuto. Erano stati i compagni di cella a denunciare il fatto che il decesso sarebbe stato provocato per le violenze subite.

In un altro carcere, quello di Forest a Bruxelles, un gruppo di poliziotti, che avevano preso temporaneamente il posto di agenti penitenziari in sciopero, sono ora accusati di maltrattamenti. Secondo un rapporto citato oggi dalla stampa belga, un detenuto sarebbe stato picchiato al punto da dover essere ricoverato d’urgenza in ospedale.

Brasile: caso Battisti; Berlusconi incalza… ma Lula non cede

di Emanuele Novazio

 

La Stampa, 17 novembre 2009

 

Fra Italia e Brasile niente di nuovo sul caso Battisti. Al termine della colazione di lavoro di ieri a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi e Inàcio Lula da Silva sono rimasti sulle rispettive posizioni: Roma vuole l’estradizione dell’ex terrorista dei Pac (i "Proletari armati per il comunismo"), Lula ribatte di essere in attesa della decisione del Tribunale Supremo Federale, che emetterà il verdetto domani, prima di fare qualsiasi intervento. Che tuttavia, avvertono fonti brasiliane, "difficilmente smentirà" quanto già deciso dal ministro della Giustizia Tarso Genro, e sarà dunque "quasi certamente contrario" all’estradizione di Battisti.

Secondo l’agenda ufficiale, al centro dei colloqui di ieri sono stati "soprattutto temi economici". Ma Lula - lo ha confermato lui stesso - "non poteva venire in Italia senza affrontare il caso Battisti". "Non voglio però dire quello che ci siamo detti", ha commentato il Presidente con i giornalisti del suo Paese, gli unici con i quali abbia voluto parlare dopo l’incontro con Berlusconi: "Ho però ribadito che sono in attesa della decisione del Tribunale Supremo, e che se sarà vincolante sarà applicata".

Già alla vigilia del suo arrivo a Roma - e mentre Battisti annunciava uno "sciopero della fame totale" per "impedire un’estradizione che per me equivale a una condanna a morte" - Lula aveva tergiversato: "Il presidente della Repubblica del Brasile può fare poco mentre il processo è in mano alla Corte Suprema Federale", aveva avvertito. "Deve aspettare la sua decisione per sapere se c’è qualcosa che il presidente della Repubblica può fare".

Nelle stesse ore, il quotidiano "Estadao" aveva però rivelato che in un messaggio al presidente del Tribunale Supremo Lula riaffermava la volontà di non concedere l’estradizione all’ex terrorista italiano. In ogni caso, sottolinea il quotidiano, Lula può trattenere Battisti in Brasile fino a quando non sarà giudicato da un tribunale federale per i reati di falsificazione di documenti e possesso di passaporto contraffatto. Di certo, sostiene il ministro Genro - sempre molto polemico con l’Italia accusata di "pressioni totalmente inaccettabili" - "l’ultima parola sulla vicenda spetta al Presidente", qualunque sia il verdetto del Tribunale Supremo.

Qualcosa può essere cambiato durante il suo soggiorno a Roma, dove Lula è intervenuto al vertice della Fao sull’alimentazione? Ufficialmente, nel suo incontro di domenica con Massimo D’Alema il caso Battisti non è stato affrontato. Ma indiscrezioni di parte brasiliana sostengono il contrario. E sottolineano che l’ex ministro degli Esteri, amico di vecchia data, è stato molto fermo nel sostenere la correttezza della posizione italiana: Battisti ha commesso gravi reati comuni, non può essere considerato un prigioniero politico e deve dunque essere estradato in Italia, dove è stato condannato.

Anche i "temi economici" ai quali è stata dedicata la maggior parte del colloquio di ieri a Palazzo Chigi potrebbero avere qualche ricaduta sulla decisione di Lula? Gli interessi fra i due Paesi sono in crescita, come ha confermato la recente missione politico-industriale italiana in Brasile, ci si limita a far notare in ambienti vicini al governo, dove si conferma che del caso Battisti Berlusconi e Lula hanno parlato soltanto nei pochi minuti nei quali si sono ritrovati da soli, dopo la colazione di lavoro.

I tempi per la soluzione della vicenda non saranno comunque brevi, sostengono fonti brasiliane, dal momento che Battisti deve rispondere di reati ordinari di fronte alla giustizia brasiliana. La speranza del nòstro governo è che, nel frattempo, le pressioni "politiche ed economiche" possano ammorbidire la posizione di Lula.

Turchia: Ocalan; stop a isolamento, 5 detenuti trasferiti con lui

 

Adnkronos, 17 novembre 2009

 

Il governo turco ha deciso di mettere fine al regime di massimo isolamento a cui è sottoposto dal 1999 Abdullah Ocalan, leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) e finora unico detenuto del carcere che sorge sull’isola di Imrali, non lontana da Istanbul. Lo riferisce l’agenzia Dogan, spiegando che cinque detenuti sono stati trasferiti in quel carcere.

La mossa è vista come un nuovo passo nell’ambito del piano di "democratizzazione" proposto dal governo turco, che mira a mettere fine, con una strategia politica, economica e sociale, alla questione curda. Il Pkk è un’organizzazione indipendentista curda, nelle liste nere del terrorismo di Unione europea e Stati Uniti. Catturato nel 1999, il leader curdo, 60 anni, è stato condannato prima alla pena di morte, che poi è stata abolita in Turchia. Oggi sconta un ergastolo.

Tibet: fondatore di sito letterario, viene condannato a 15 anni

 

Associated Press, 17 novembre 2009

 

Il fondatore di un sito letterario tibetano è stato oggi condannato a 15 anni di carcere per l’accusa di aver divulgato segreti di Stato, secondo quanto ha riferito un gruppo di difesa dei diritti dei tibetani. Kunchok Tsephel, di 39 anni, è stato condannato il 12 novembre dopo un processo a porte chiuse tenuto nella prefettura di Gannan, nella provincia di Gansu (sudovest), secondo informazioni raccolte da esiliati tibetani e riferite da International Campaign for Tibet (Ict), un gruppo di sostegno con sede a Washington. Al condannato si rimprovera in particolare il contenuto del suo sito, Chodme, che significa lampada a olio, che promuove la cultura tibetana, ma ha anche riferito delle manifestazioni anticinesi a Lhasa e nelle regioni vicine al Tibet.

Congo: Commissione di vigilanza, per migliorare vita detenuti

 

Agi, 17 novembre 2009

 

Il ministero provinciale della Giustizia del Nord Kivu e la Restauration de la justice in Congo hanno istituito una Commissione di sorveglianza sulle carceri e le condizioni di vita dei detenuti. In particolare verrà seguita la prigione di Beni e successivamente quelle della provincia del Nord Kivu. La Commissione è composta dalle autorità amministrative locali, della giustizia, dei servizi di sicurezza e da militanti di organizzazioni per la difesa dei diritti umani. La Commissione svolgerà un’attività di sorveglianza sulla situazione generale delle carceri e dei detenuti.

 

 

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