Rassegna stampa 14 novembre

 

Giustizia: Pecorella (Pdl); commissione d’inchiesta sulle carceri

 

Ansa, 14 novembre 2009

 

Il presidente della commissione sulle Ecomafie Gaetano Pecorella chiede che si istituisca al più presto una commissione parlamentare d’inchiesta sulle carceri. "Sono ormai troppi, e intollerabili - spiega il deputato del Pdl - i casi di violenza e di suicidi nelle carceri italiane. Sono luoghi di detenzione in cui spesso non vi è alcuna garanzia per i diritti umani e nei quali certamente non vi è alcuna opera di rieducazione. I detenuti chiusi per ore in celle sovraffollate non potranno che ricadere facilmente in comportamenti criminali allorché usciranno dal carcere".

"Anche gli agenti di custodia - aggiunge Pecorella - vivono una situazione di grande difficoltà mancando spesso di un’adeguata preparazione e non avendo una struttura organizzata con un proprio responsabile. È venuto il momento di istituire una commissione d’inchiesta che indaghi sullo stato effettivo delle carceri e che proponga soluzioni accettabili al Parlamento". "Presenterò quanto prima una proposta di legge in questo senso - annuncia - chiedendo al presidente Fini di dare per il suo esame alla Camera una corsia preferenziale".

Giustizia: Bernardini (Ri); un "Osservatorio" sui suicidi in carcere

 

Ansa, 14 novembre 2009

 

Il ministero della Giustizia avvii subito una indagine amministrativa interna per accertare "se quello di Massimo Gallo possa essere effettivamente classificato come suicidio". È quanto chiede in un interrogazione la parlamentare Radicale Rita Bernardini che ha diffuso il testo del documento nel corso del congresso dei Radicali italiani. La parlamentare sottolinea l’esigenza che, anche nel caso che si tratti di un suicidio si accerti se "nei confronti del detenuto siano state messe in atto tutte le misure di sorveglianza previste e se quindi si possa configurare nei confronti delle guardie carcerarie una responsabilità di omessa vigilanza". Più in generale l’esponente Radicale chiede al governo di assumere appropriate iniziative "per contenere l’alto tasso dei decessi per suicidio nelle carceri, suicidi dovuti anche al sovraffollamento degli istituti di pena e dalla frustrazione dovuta alle pessime condizioni di vita".

Nell’interrogazione Bernardini chiede infine al ministro Alfano di creare un osservatorio permanente "per l’esame analitico dei singoli casi di suicidio verificatisi all’interno degli istituti di pena, al fine di comprenderne le cause e rimuoverle".

Giustizia: Ionta (Dap); il supporto alla Procura sul caso Cucchi

 

Adnkronos, 14 novembre 2009

 

"Supporto" all’azione della Procura di Roma, per la quale è confermata la "fiducia" e delle cui indagini si terrà conto "ai fini dei provvedimenti di competenza del Dipartimento". Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, interviene con una nota sugli ultimi sviluppi della vicenda della morte di Stefano Cucchi, annunciando l’inizio dell’inchiesta amministrativa, stigmatizzando la violazione del segreto d’indagine per la pubblicazione dei nomi degli agenti indagati ed esprimendo il "più totale rammarico" alla famiglia del giovane qualora "dovessero evidenziarsi responsabilità dell’Amministrazione nella morte di Stefano Cucchi".

"Rispettoso del ruolo e delle prerogative dell’Autorità Giudiziaria - afferma Ionta - intervengo come capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e come magistrato per confermare la fiducia nell’operato della Procura di Roma e per garantire il supporto che potrà derivare dall’inchiesta amministrativa che oggi inizia dopo averne ricevuto autorizzazione allo svolgimento".

"Da quanto emergerà dalle indagini preliminari e dagli accertamenti interni - aggiunge Ionta - terrò conto ai fini dei provvedimenti di competenza del Dipartimento; così come è stato fatto per la vicenda di Teramo si opererà nel rispetto della legge e per la tutela del personale della Polizia Penitenziaria che nella sua stragrande maggioranza quotidianamente profonde il suo impegno per la gestione del sistema penitenziario afflitto in questo periodo da gravi carenze strutturali e da incessanti emergenze dovute soprattutto, ma non solo, all’afflusso sempre crescente di detenuti".

"Rimarco infine - continua il capo del Dap - che la pubblicazione dei nominativi degli appartenenti al Corpo siccome sottoposti ad indagini, oltre che violatoria del segreto di indagine, rende più difficile il loro lavoro contribuendo a determinare ulteriori difficoltà nel rapporto, sempre delicato, tra Polizia Penitenziaria e popolazione detenuta. Fin d’ora -conclude Ionta - ove dovessero evidenziarsi responsabilità dell’Amministrazione nella morte di Stefano Cucchi, formulo ed esprimo il più totale rammarico alla famiglia così dolorosamente colpita".

Giustizia: caso Cucchi; non sarà facile trovare il non colpevole

di Adriano Sofri

 

La Repubblica, 14 novembre 2009

 

Si chiamano celle di sicurezza. Ci si sta al sicuro. Si può star sicuri che Stefano Cucchi fu picchiato, e che in capo a cinque giorni morì. Sul resto non c’è alcuna sicurezza. Sul resto, ordinario e allucinante com’è, niente si può escludere. Nemmeno che Stefano Cucchi sia stato picchiato due, tre volte. Nemmeno che si siano dati il turno, a picchiarlo, carabinieri e agenti penitenziari, che a turno da giorni se ne accusano.

Al punto cui sono arrivate le indagini, il pestaggio sarebbe avvenuto la mattina del 16 ottobre, nel sotterraneo del tribunale romano, e gli autori, indagati per omicidio preterintenzionale, sarebbero tre agenti della polizia penitenziaria, tre uomini fra i quaranta e i cinquant’anni. Gli inquirenti hanno creduto di aggiungere che "i carabinieri sono estranei". (Alla vigilia il capo della Procura non aveva detto che il detenuto era restato quella mattina nelle mani della polizia giudiziaria che l’aveva arrestato, cioè i carabinieri?) E, indagando per omicidio colposo tre medici del reparto penitenziario dell’ospedale Pertini - il primario e due dottoresse - gli stessi inquirenti hanno definito l’avviso "un eccesso di garanzia".

Nel balletto di versioni dei giorni scorsi, i magistrati hanno deciso di fondarsi sulla testimonianza del detenuto "africano, clandestino", che avrebbe visto coi propri occhi e poi raccolto le parole di Cucchi: "Guarda come mi hanno ridotto". Altri argomenti, per il momento, restano inspiegati.

Resta inspiegato il primo referto medico, redatto a piazzale Clodio in quello stesso 16 ottobre, secondo cui Cucchi "riferisce di una caduta dalle scale alle 23 della sera precedente": sera in cui era chiuso in una caserma di carabinieri. I quattro agenti penitenziari - colleghi, certo, dei tre indiziati - che lo accompagnano quel pomeriggio a Regina Coeli completano a loro volta la frase detta al detenuto testimone: "Guarda come mi hanno ridotto ieri sera". Ieri sera vuol dire i carabinieri. Questa mattina vuol dire forse i carabinieri, forse gli agenti penitenziari, che si accusano a vicenda.

È difficile decidere se questo grottesco rinfacciarsi versioni e colpe renda più spregevole la trama che ha schiacciato Cucchi, o induca ad apprezzare, coi tempi che corrono, il fatto che almeno né carabinieri né poliziotti penitenziari negano che il giovane uomo fragile sia stato pestato e spezzato a morte. Fragile: dunque da custodire più rispettosamente e premurosamente. Abbiamo ascoltato un bel repertorio di porcherie nei giorni scorsi. Che Cucchi era tossicodipendente, ovvietà pronunciata come se fosse un’aggravante, o un’attenuante dei suoi massacratori.

La tossicodipendenza è una sciagura per chi ci incappa e per chi gli vuol bene, e diventa un danno per tutti quando il fanatismo proibizionista esalta gli affari illegali. In Italia oggi è una ragione per finire nelle celle "di sicurezza", o di galera, o nei letti di contenzione dei manicomi giudiziari - come per il coetaneo di Cucchi morto in cella a Parma, Giuseppe Saladino, che aveva rubato "le monetine dei parchimetri" - o nel reparto confino dell’ospedale Pertini. È bello, è edificante, è spettacolare che questo succeda mentre si propone di abolire, più o meno, i processi, per i ricchi e potenti. È bello e istruttivo che, per adescare l’opinione intontita, si proclami che dall’abolizione dei processi saranno esclusi i reati di maggior allarme e "i recidivi". I "recidivi" sono i tossicodipendenti, che spacciano al minuto o rubano per la dose, e spacciano di nuovo e rubano per la prossima dose, e così via.

Stefano Cucchi era uno dei tanti nostri ragazzi che possono aver spacciato per la loro dose, e non sono meno meritevoli del nostro amore e delle nostre cure. Era anche sieropositivo, ha osato dire qualcuno. Non lo era: ma non importa niente. Importa che ancora, in questo paese, persone che danno il proprio nome a leggi fautrici di dolore e delitti pronuncino il nome di una malattia come quello di una condanna. Il paese in cui si tratta ancora una malattia come una vergogna è un paese di cui vergognarsi.

Dovremmo dirlo, che siamo sieropositivi. E che nessuno chieda a nessuno se è vero o no: non cambia niente. Stefano Cucchi era un giovane uomo inerme dal viso dolce e dal corpo esposto: un corpo così è fatto per essere stretto da un abbraccio materno, per essere accarezzato da una sorella, per sentirsi la mano di un padre sulla spalla. Non per "essere scaraventato in terra e, dopo aver sbattuto violentemente il bacino procurandosi una frattura dell’osso sacro, colpito a calci", secondo la ricostruzione - provvisoria, parziale, vedrete - degli inquirenti.

Né per giacere senza soccorso, sottratto alla vista dei suoi e del mondo, dentro una branda d’ospedale carcerario, coi medici, donne e uomini (fa sempre più impressione che tocchi a donne), che lo ignorano, che forse scherzano sulle sue ossa rotte e sporgenti, che dicono che rifiuta cure e farmaci, e scrivono solo in capitulo mortis che aveva dichiarato dall’inizio di volere il proprio avvocato, e di non voler mangiare e non voler bere solo per quell’infimo fra i diritti: una confessione di fatto, che non ha impedito agli stessi medici di continuare a mentire e a manipolare la verità quando il ragazzo era morto. Abbiano pure il loro "eccesso di garanzia", in cambio. Anche questa è una creatività italiana: chiameremo di sicurezza le celle dei pestaggi, ci vanteremo della garanzia in eccesso. Del resto, siamo ancora all’inizio. Non sarà facile, per l’omicidio di Cucchi, trovare il non colpevole.

Giustizia gli agenti "non c’entriamo"; i medici "fu un collasso"

di Fabrizio Caccia

 

Corriere della Sera, 14 novembre 2009

 

La dottoressa Rosita Caponetti ha appena finito il suo turno di guardia in ospedale. Un’altra notte faticosissima è passata, dalla branda alla corsia del reparto di medicina penitenziaria del "Sandro Pertini". I suoi pazienti sono i detenuti e Stefano Cucchi era uno di loro. È morto in uno di quei letti alle 6.45 di mattina del 22 ottobre scorso. Lei e altri due medici del reparto, il primario Aldo Fierro e la collega Stefania Corbi, ora sono indagati per omicidio colposo. Per i magistrati, "hanno omesso le dovute cure".

"La famiglia Cucchi vuole la verità - si sfoga la dottoressa, parlando coi suoi colleghi -. È giusto, giustissimo. Ma anche noi medici la vogliamo. Sono due settimane che siamo sotto pressione. I giornali hanno scritto: "Hanno fatto morire Cucchi in ospedale di fame e di sete...". Questo non è vero! Sarebbe stato impossibile alimentare il ragazzo a forza, avremmo potuto farlo solo se fosse apparso in imminente pericolo di vita. E non lo era...".

Eppure Cucchi è morto. Il suo calvario al "Pertini" comincia il 17 ottobre alle ore 19.45, quando arriva. La dottoressa Caponetti era là: "Lo visitammo in più d’uno - così continua il suo sfogo -. Gli fu fatto un emocromo e non c’erano segnali d’allarme. Piastrine, globuli rossi, fibrinogeno: tutto nella norma. Non c’era sudorazione. Battito non aumentato. Nulla. Andate a vedere la cartella clinica: racconta esattamente cosa accadde. In più, se avessimo riscontrato o sospettato segni di percosse, avremmo avuto l’obbligo di legge di comunicarlo al magistrato. Il ragazzo aveva macchie color porpora, simmetriche, sotto le orbite oculari. Ma potevano essere tutto. Ecchimosi. Oppure il frutto di una precedente patologia, ad esempio epatica...".

Eppure già il referto del medico del Fatebenefratelli indicava la presenza di lesioni al volto e fratture. Il primario del reparto, Aldo Fierro, indagato anche lui, risponde al telefono: "Sono sereno. L’avviso di garanzia ora ci darà l’opportunità di difenderci dalle accuse. Ma non può essere una condanna preventiva". Il professore ha sempre respinto l’accusa di aver sottovalutato la situazione: "Scherziamo? Il ragazzo era in grado di intendere e di volere, solo in caso contrario sarebbe stato possibile intervenire per alimentarlo a forza. E, come detto, non c’era l’imminente pericolo di vita...".

"La mia, la nostra coscienza, è a posto" ripete anche la dottoressa Caponetti. Cucchi era celiaco e loro tentarono in tutti i modi di alimentarlo, gli spiegarono che "riso, patate e carne" ad esempio non contengono glutine. Ma lui continuava a rifiutare il cibo, chiedeva solo di poter parlare col suo avvocato. E intanto dimagriva progressivamente. "Il paziente però non ha smesso del tutto di alimentarsi - raccontano i medici del "Pertini" -. Ha preso alcuni succhi di frutta. Un pò d’acqua. Un’alimentazione scarsa per pochi giorni non uccide nessuno, neppure un ragazzo con dei problemi che pesa appena 40 chili...".

"Il corpo umano è una macchina complessa - conclude amara la dottoressa Caponetti -. Per quanto possa apparire spiacevole, se Stefano Cucchi fosse morto a casa sua, il medico nel referto avrebbe scritto: decesso naturale. Questa è la verità. Visto il passato, la tossicodipendenza, visto tutto, un collasso purtroppo può capitare anche a un ragazzo che ha solo 31 anni".

Pure i tre agenti di polizia penitenziaria indagati, Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Dominici, si difendono. Continuano a giurare, come nei giorni scorsi, di non aver sfiorato Cucchi neppure con un dito la mattina dell’udienza di convalida, a piazzale Clodio. A Leo Beneduci, segretario generale del sindacato Osapp, affidano queste poche parole: "Paghiamo per responsabilità non nostre e solo per essere stati presenti quel giorno in servizio. Avete distrutto le nostre famiglie".

Giustizia: Caliendo; mele marce, non colpevolizziamo il Corpo

 

Ansa, 14 novembre 2009

 

"Non dobbiamo in alcun modo colpevolizzare l’intero corpo degli agenti penitenziari. Perché qui, anche ammesso, stiamo parlando di uno, due, dieci agenti che hanno sbagliato". Giacomo Caliendo, sottosegretario alla Giustizia con delega alla gestione delle carceri, invita a non generalizzare le accuse alla polizia penitenziaria e dice: "Sarebbero soltanto delle mele marce dentro un corpo che non soltanto è pulito, ma che è fondamentale per le nostre carceri". In un’intervista al Corriere della sera, il senatore del Pdl sottolinea la difficile situazione degli istituti penitenziari: "Le nostre carceri sono superaffollate. Invivibili". Se tutto funziona, assicura, è merito degli agenti penitenziari: "Se non ci fossero, il nostro sistema fallirebbe miseramente".

Sull’indagine aperta dopo la morte di Stefano Cucchi, Caliendo resta cauto. "Aspettiamo la fine delle indagini", premette. E aggiunge: "Poi, se i tre agenti verranno rinviati a giudizio, si aprirà certamente un procedimento disciplinare" che "può andare dalla sanzione all’espulsione".

Giustizia: Marroni; a rischio il rapporto di agenti con i detenuti

 

Ansa, 14 novembre 2009

 

"Se la polizia penitenziaria risultasse colpevole di avere picchiato a morte queste ragazzo, è evidente che i rapporti con i detenuti potrebbero acuirsi". Così il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni commenta la notizia dei sei avvisi di garanzia per il caso Cucchi.

"Ho già detto ai miei collaboratori che vanno in carcere di ragionare con i detenuti, e di dire loro che si tratta solo di eccezioni, che sarebbero peraltro non accadute in carcere ma in una struttura esterna, dove proprio in questi giorni è stata affidata dal provveditorato la direzione a un altro operatore di polizia penitenziaria, molto serio e severo.

La mia esperienza - prosegue Marroni - mi dice in linea generale queste violenze possono essere considerate eccezioni. In alcune carceri però la notizia che ho è che questa attività violenta contro i detenuti è più frequente che altrove. È chiaro che io ogni volta che ho notizia di una aggressione o violenza fisica a un detenuto trasmetto immediatamente alla Procura della repubblica competente quella denuncia. Devo dire che tutte le denunce che ho trasmesso non hanno prodotto alcun risultato".

Lettere: ergastolani; una possibilità di redenzione, anche a noi

 

Il Mattino di Padova, 14 novembre 2009

 

Siamo alcuni ergastolani della Casa di Reclusione di Padova. Ci troviamo in carcere da 10-15-17 anni. Abbiamo appreso dalla tv l’agghiacciante notizia del suicidio di Diana Blefari Melazzi, un gesto che sta facendo molto discutere, a differenza del silenzio sulle centinaia di altri nostri compagni che in questi anni si sono suicidati e che sono passati inosservati, forse perché anonimi e di nessun interesse giornalistico, ma non per questo meno importanti sotto l’aspetto umano, che invece dovrebbe sempre essere tenuto in primaria considerazione.

Dal giorno del nostro arresto ne è passata molta di acqua sotto i ponti, siamo stati anche in carceri dure e, nonostante a volte la tentazione di farla finita sia stata quotidiana, non ci siamo mai arresi alla disperazione, neppure quando ci siamo ritrovati a regime duro e completamente da soli in una cella di isolamento. Noi possiamo reputarci dei fortunati perché non abbiamo mai perso la fiducia, o forse non abbiamo mai avuto il coraggio di mettere in pratica tutte le strane idee che vengono facilmente in testa quando si è in condizioni disperate.

Per quanto ci riguarda, la nostra fortuna è stata quella di aver trovato delle persone che in noi hanno visto il lato buono; persone che nonostante le pessime referenze hanno comunque scommesso su di noi, e anche se potrà sembrare strano, paradossalmente è stato proprio quel briciolo di fiducia a farci comprendere ancora meglio i nostri errori e il valore infinito che ognuno di noi, di voi ha.

Quando viene data una possibilità durante la detenzione non significa svilire il senso della condanna, ma anzi si aiuta la persona a prendere coscienza delle proprie responsabilità; è proprio in quel momento che si inizia davvero a pagare, a scontare veramente la condanna con la giustizia dei tribunali e soprattutto con gli altri, nei confronti della società e ancor di più verso le persone alle quali si è fatto del male.

Il sistema carcerario e legislativo purtroppo hanno alcuni controsensi. Si parla a volte di diritti umani e poi ci si indigna tanto se qualcuno propone l’abolizione dell’ergastolo, sostituendolo con una condanna ugualmente dura ma che abbia un fine pena, anche se molto lontano nel tempo, che lasci quindi un barlume di speranza e di redenzione a chi lo sconta. Ora sembra, ascoltando i telegiornali, che il problema sia consistito solo in un controllo poco adeguato di Diana Blefari Melazzi.

O per citare un altro caso di attualità, che il povero Cucchi non fosse morto. Ecco questi casi non si possono trattare usandoli, come sempre tutto - vedi anche il caso Marazzo - a proprio uso e consumo, fagocitandoli per poi dopo un pò passare a un altro scoop. Bisognerebbe invece porsi il problema che aldilà dell’individuo che ha commesso un reato, c’è sempre la persona, e nessuna persona è in grado di vivere se le si toglie qualsiasi progettualità o speranza per il futuro, e se la si identifica solamente e per sempre nel crimine che ha commesso. Per quanto ci riguarda crediamo infatti che, fermo restando la responsabilità penale e quindi la giusta condanna che stiamo pagando, sarebbe importante sapere che non tutti gli occhi degli altri rimangono indifferenti allo sforzo che facciamo, giorno dopo giorno, nel voler crescere come uomini che molto hanno tolto, ma che ancora qualcosa di buono sentono di poter dare.

L’invito che vogliamo rivolgere a tutti e in particolare a chi si trova nelle nostre condizioni in tutte le carceri del mondo, di non smettere mai, di lottare per ottenere condizioni migliori e dignità nel vivere, ma soprattutto che si possa trovare una risposta al senso del vivere e del morire subito e questo possa rendere la vita più bella. La felicità non è avere l’acqua calda in cella.

Lettere: macelleria dei diritti nelle carceri, quali responsabilità?

 

www.linkontro.info, 14 novembre 2009

 

"La zona" è il titolo di un film uscito nelle sale cinematografiche nel 2008. Il film è ambientato in una città circondata da muri altissimi sovrastati da filo spinato e attraversati dall’alta tensione; telecamere e squadre di polizia privata scrutano ogni movimento insolito e sospetto. Appena al di là delle mura sulle colline circostanti si affollano discariche e favelas, fango e disperazione. Il regista ha voluto evidenziare il lato oscuro e collettivo che può condurre onesti cittadini al male più insensato e può far perdere anche la comprensione del significato dei loro gesti violenti per cui si continua a vivere come se nulla fosse.

"La zona" , a mio avviso, potrebbe essere uno degli strumenti culturali multimediali da far circolare in tutte le carceri italiane, inserito in un programma di formazione e aggiornamento degli agenti di polizia penitenziaria.

La morte di Stefano Cucchi sta facendo emergere altre storie sotterrate dall’omertà di un circuito impenetrabile dove, dei diritti sanciti dalla carta costituzionale, viene fatta strage quotidiana. Dice infatti l’art. 27 della Costituzione della Repubblica Italiana: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Oltre i pestaggi culminati in omicidio, a volte, la stampa riesce a far circolare storie di abusi sessuali a danno di detenute extracomunitarie.

Dal nostro paese, culla di antiche civiltà e culla di quel diritto romano dal quale ha preso spunto gran parte dell’Europa, stanno girando in tutto il mondo le immagini e le notizie dei massacri su fragili corpi e di violenze consumate all’interno di strutture giudiziarie della "Repubblica".

Ma a chi deve essere attribuita la responsabilità di quello che accade nelle carceri italiane? Soltanto alla categoria agenti di custodia tra i quali, da sempre, vi sono casi di suicidio o di malattie psichiche invalidanti? Soltanto agli autori materiali del reato, ultimo anello della catena gerarchica dell’Amministrazione Penitenziaria?

Occorrerebbe dare un’occhiata attenta al bilancio del ministero della Giustizia. Credo che avendo in mano questi dati potrebbero essere individuate sia le responsabilità eccellenti, sia le chiavi di lettura per una svolta di sistema.

Il buon funzionamento della Pubblica Amministrazione e, in questo caso, del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, non dipende dall’installazione di tornelli contro i fannulloni o dalle maggiori o minori concessioni economiche ai sindacati. Occorre, invece, una urgente e profonda revisione del "sistema carcere" che rimetta al centro il Diritto Internazionale e la Costituzione della Repubblica Italiana. Ciò si realizza offrendo agli agenti di polizia penitenziaria momenti formativi adeguati per una maggiore professionalità e autotutela e restituendo dignità e diritti alle persone private della loro libertà e offrendo agli operatori penitenziari strumenti professionali. A mio avviso, quindi, il Ministero della Giustizia dovrebbe porsi l’obiettivo prioritario di un adeguato stanziamento per un programma capillare di formazione e aggiornamento del personale penitenziario, quello che sta a quotidiano diretto contatto con i detenuti. Sembra, invece paradossalmente, che la pianificazione formativa attuale sia stata più orientata verso il personale che sta dietro le scrivanie.

Il secondo obiettivo che dovrebbe essere perseguito dal Ministero è l’effettiva ampia applicazione degli artt. 17 e 78 dell’Ordinamento Penitenziario. Aumentare la trasparenza e ridurre le "zone oscure" agevolando e aprendo ancora di più le porte del carcere ai singoli volontari e alle associazioni di volontariato. Favorire e incentivare anche economicamente tutti quei progetti culturali e/o socio-economici, presentati da privati e associazioni, finalizzati ad avvicinare la comunità carceraria al resto della società civile. Vengono in mente a questo proposito progetti di lavoro messi in piedi e poi lasciati marcire, come l’officina di falegnameria inutilizzata e pronta da anni nella "terza casa" (detenuti in semilibertà) di Rebibbia. Viene in mente la mancanza di volontà di coordinamento organizzativo nelle carceri piemontesi e lombarde dove non decollano potenziali progetti sociali di collegamento con le imprese artigiane, agricole e del terziario per la rieducazione e il reinserimento nella società civile.

Il terzo obiettivo prioritario che mi permetto di suggerire è la riorganizzazione sanitaria all’interno delle carceri e il suo rapporto con le strutture ospedaliere e ambulatoriali esterne. La negazione del diritto alle cure e alla salute nei confronti di persone detenute e sofferenti è stata probabilmente, se non una vera istigazione al suicidio, una causa importante della lunga catena di suicidi avvenuti in questi anni nelle carceri italiane. Molti operatori sanitari e medici penitenziari hanno avuto un ruolo ambiguo. Non sembra casuale che tra di essi vi siano indagati nell’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi. L’Ordine dei Medici deve ripristinare i valori fondativi "ippocratici" impedendo che l’uso della professione medica negli istituti di pena viaggi su binari di complicità con la distorta prassi dei pestaggi nascosti.

Mentre attendiamo con fiducia che gli autori di violenze siano assicurati alla Giustizia, così ci attendiamo che paghino e/o vengano rimossi o sostituiti quei funzionari, dirigenti e politici di più alto livello, responsabili, per negligenze, omissioni e inadempienze, di una gestione che favorisce questi episodi di macelleria dei diritti umani nelle carceri italiane.

 

Domenico Ciardulli, Educatore Professionale

Lettere: il rispetto dei diritti nelle carceri, è nell’interesse di tutti

 

La Nuova di Venezia, 14 novembre 2009

 

Le carceri da ripensare La situazione nelle nostre carceri, anche in quelle a noi più vicine, deve far riflettere non solo gli addetti ai lavori ma l’intera opinione pubblica. Dalle forme più estreme di autolesionismo che colpiscono giovani italiani e stranieri magari arrestati per piccoli reati, fino al caso misterioso, avvenuto nel carcere di Parma, di Giuseppe Saladino, trovato senza vita nella cella dove era rinchiuso, dopo una sola notte, per non aver ottemperato alla regola degli arresti domiciliari.

La questione della vita nelle carceri, non è mai stato un tema che ha attirato l’interesse concreto della politica istituzionale, sia di destra che di sinistra, ma solo una parte di area cattolica e della (sinistra) radicale. È necessario voltare definitivamente pagina, cominciando a pensare a strutture carcerarie non come meri contenitori di persone ritenute scarti da abbandonare a se stessi, ma come una vera e propria parte della società che ha tutti i diritti dal punto di vista umano e civile. Il sistema democratico deve difendere e far rispettare a tutti i livelli il cittadino detenuto.

 

Gabriele Vesco

Voghera (Pd): morì in cella; autopsia mette in dubbio le cause

di Filiberto Mayda

 

La Provincia Pavese, 14 novembre 2009

 

Morire in carcere. Suicida. Può accadere. Ma se chi si è tolto la vita era un soggetto a rischio, allora può venire il dubbio che su di lui, come era doveroso si facesse, non ci sia stata sufficiente vigilanza. La procura della Repubblica di Voghera, con il pm Maria Gravina, ha preso molto sul serio la morte di Marcello Russo, vogherese d’adozione ma originario della Puglia, una vita difficile tra emarginazione e criminalità organizzata. Come molto sul serio l’ha presa l’avvocato Sara Bressani che assiste Addolorata Masiello, la madre di Russo.

E così, dopo la perizia affidata ai professori Giovanni Pierucci e Angelo Groppi (tossicologo), il sostituto procuratore Gravina ha iniziato a interrogare i numerosi detenuti che, nelle lettere inviate alla madre di Russo, sostenevano di avere "molto da dire" sulla vicenda e sulle presunte stranezze di quella morte. Forse le stesse che emergono dalla precisa relazione dei due medici legali. In sintesi, che c’era da aspettarsi un gesto disperato da parte del detenuto Marcello Russo. Ma è davvero così?

Alcuni fatti sono certi. Intanto che alle ore 17.45 del 23 marzo 2009 il corpo senza vita di Russo fu trovato nella sua cella del carcere di Voghera. Secondo gli agenti, ma si tratta di un dato ancora da verificare, solo un quarto d’ora prima Russo si era tranquillamente messo sulla branda. In quel quarto d’ora, diciamo anche meno, aveva preso la bomboletta di gas (Gpl) utilizzata per cucinare qualcosa e farsi il caffè, poi si era calato sul capo un sacchetto della spazzatura, inserito il tubo annesso alla bomboletta, aveva aperto il rubinetto del gas. Per suicidarsi o per ottenere un "effetto droga" dal Gpl?

I medici legali non sono stati in grado di dare una risposta. Tuttavia, hanno raccontato come si è arrivati a quel pomeriggio di morte. Il 17 gennaio 2008 Marcello Russo arriva al carcere di Voghera e solo sei-sette mesi più tardi vengono segnalate autolesioni, ferite inferte al torace. Malgrado il forte dolore provocato da un menisco rotto, rifiuta l’intervento chirurgico ed anche una terapia psichiatrica. Le sue condizioni psico-fisiche sembrerebbero preoccupanti se è vero che il 27 agosto inizia uno sciopero della fame.

Altri atti di autolesionismo vengono registrati dai medici del carcere il 2, il 13 e il 17 gennaio del 2009. Fino a fine febbraio, tra psicofarmaci e scioperi della fame, resta in isolamento. Il 13 febbraio viene segnalato un tentativo di suicidio, o meglio, l’inalazione con busta di plastica del gas di una bomboletta da campeggio. Nello stesso giorno, Marcello Russo ingerisce una lametta da barba e rifiuta cure mediche nei giorno che seguono. Non è finita: il 20 febbraio riprende lo sciopero della fame.

Da quel momento le relazioni mediche acquisite da Pierucci e Groppi sono incomplete o illeggibili come quella del 5 marzo e poi l’ultima del 20 marzo. Sarebbe interessante capire di cosa parli, visto che tre giorni dopo Marcello Russo muore. A rendere questa vicenda ancor più complessa una circostanza non del tutto secondaria: Russo sarebbe stato un malavitoso di primo piano, sospettato di aver ordinato alcuni omicidi, ma che poi si era pentito.

Il 25 marzo, due giorni prima della sua morte, avrebbe dovuto testimoniare, come imputato, al processo sul delitto consumato a Castel del Piano (Grosseto), dove venne ucciso Salvatore Conte, l’ex pentito ucciso dai suoi stessi compari e seppellito nei boschi di Gubbio. Solo un caso? Forse, visto che i medici legali escludono l’omicidio.

Reggio Calabria: la direttrice; manca tutto, sistema non regge

di Noemi Azzurra Barbuto

 

www.newz.it, 14 novembre 2009

 

"Un sistema che sta per scoppiare". È con queste parole che Maria Carmela Longo, direttrice del carcere di San Pietro di Reggio Calabria, descrive lo stato attuale del sistema penitenziario nazionale, dipingendo una situazione di collasso, un meccanismo che rischia di saltare, che non regge più.

Il livello di democraticità di un Paese è direttamente proporzionale alla qualità del funzionamento del suo sistema penitenziario, ossia al modo in cui garantisce e tutela i diritti di coloro che subiscono limitazioni alla propria libertà personale. Il vilipendio dei diritti umani dei detenuti, la mancanza di considerazione nei loro confronti, l’indifferenza da parte della società civile, le condizioni di indigenza e di disumanità nelle quali sono costretti a vivere, infatti, si accompagnano spesso ad una generale assenza di rispetto delle libertà fondamentali e ad un sistema culturale deficitario, o fallimentare.

I gulag staliniani, le galere turche, quelle cinesi, sono esempi estremi di carceri tipiche di sistemi politici antidemocratici, sono nomi che, evocati, fanno rabbrividire, realtà che purtroppo non appartengono solo al passato. Ma esistono delle eccezioni, ovvero carceri inumane di Paesi democratici. Un esempio emblematico è rappresentato dal carcere statunitense situato nella Baia cubana di Guantanamo, dove sarebbero rinchiuse 250 persone collegate, secondo il governo americano, ad attività terroristiche.

Oggi anche nel nostro Paese sta emergendo sempre più una situazione di grave disagio e sofferenza da parte degli istituti penitenziari, all’interno dei quali la vita dei detenuti diventa sempre più dura e vuota, tanto che aumenta progressivamente il numero dei suicidi, delle proteste e persino delle evasioni. Fenomeno quest’ultimo quasi del tutto scomparso fino a poco tempo fa e che adesso si ripresenta con prepotenza, soprattutto a causa della carenza di efficaci e costosi sistemi di controllo e di personale deputato alla vigilanza, nonché del disagio diffuso dei detenuti, costretti a convivere in spazi sempre più ristretti ed inadeguati.

Si parla di "allarme nazionale": a fronte di una capacità di 43.074 ospiti, sono 65.225 i detenuti nelle carceri italiane, di questi 24.085 sono stranieri, 31.346 in attesa di giudizio; da gennaio ad oggi si sono verificati 60 suicidi, 146 i detenuti morti in carcere quest’anno. Questi sono alcuni dei numeri diffusi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

Il numero dei suicidi aumenta di pari passo con l’aumento dei detenuti e con la diminuzione degli agenti di polizia penitenziaria: "Se ci fossero più esperti, più personale e maggiori risorse economiche per fare lavorare i detenuti - afferma la direttrice Maria Carmela Longo - queste tragedie non si verificherebbero con una tale frequenza". Anche nel carcere reggino di San Pietro due casi di suicidio da gennaio, tra questi un ragazzo di 20 anni.

La direttrice esprime inoltre la sua amarezza per aver dovuto interrompere tutte le attività dei detenuti, non solo quelle lavorative, ma anche alcuni programmi importanti, tra i quali il "progetto avvocato amico", che forniva consulenza legale gratuita ai tanti detenuti che non hanno la possibilità di pagarla, sospeso per la mancanza di un locale idoneo a questo scopo; nonché i lavori per la costruzione di un’ala destinata all’accoglienza dei parenti in visita, spesso costretti ad aspettare fuori dai cancelli per ore ed esposti alle intemperie. Ma non stupisce tutto questo, dal momento che "non si riesce a garantire neanche il necessario. A stento vengono realizzati i servizi essenziali di cucina, lavanderia e le pulizie".

Non sono soltanto i detenuti a ricorrere al suicidio, il fenomeno è in aumento anche tra il personale penitenziario. "È come un bollettino di guerra", afferma Longo. Ma perché succede tutto questo? "È un lavoro duro, troppo duro, che grava spesso su una sola persona, ed è un lavoro che coinvolge inevitabilmente dal punto di vista emotivo - continua la direttrice - non è facile vedere una persona che si squarta né trovarsi davanti un ragazzo impiccato". Con un sorriso, come se volesse mitigare la violenza delle immagini appena evocate, Maria Carmela Longo si scusa per la crudezza delle sue parole, non esiste altro modo per descrivere questa realtà.

Il carcere cambia per sempre. A volte in meglio. A volte in peggio. A volte diventi più duro. A volte, paradossalmente, più umano. Cambia chi ci deve vivere. Cambia chi ci lavora.

La direttrice Longo, "per deformazione professionale", si occupa di tanti problemi, di tante richieste, di tanti impegni, tutti in una volta, secondo un ordine di priorità soggetto a cambiare da un minuto all’altro. Ora risponde alle nostre domande, un attimo dopo corre fuori per un’emergenza, una delle tante di ogni giorno. Alla fine, risolve ogni cosa, ma il senso di dolore resta. Quello non si può eliminare, purtroppo.

In tanti anni di esperienza ha imparato a sviluppare anche la creatività, e si sa quanto sia utile nei periodi di magra. "Ci tocca inventarci di tutto - confessa - non ci sono materassi. Siamo riusciti ad averne 50, devono ancora arrivare, ma i detenuti sono 300, così ho deciso di dare la priorità ai detenuti che ne hanno più bisogno per motivi di salute. Spesso ci troviamo nella situazione simile a quella in cui si trova un padre che ha 5 figli e le risorse per vestirne uno solo. Noi cerchiamo di amministrare secondo il principio del buon padre di famiglia, questo è il nostro dovere, ma non è facile".

Sovraffollamento (il 30% dei detenuti sono stranieri di tutte le nazionalità), carenza di agenti, condizioni di vita difficili, mancanza di risorse economiche, strutture inadeguate e vecchie, sono questi i problemi più urgenti del carcere di Reggio Calabria, difficoltà comuni alla maggior parte degli istituti penitenziari italiani.

Qual è l’esigenza prioritaria adesso? Secondo la direttrice, sarebbe necessario riavere i 50 agenti di cui l’istituto è stato privato e che sono attualmente impegnati in altre sedi. E aggiunge: "Non sto chiedendo niente di più, soltanto di ripristinare la situazione precedente".

Le violenze all’interno delle carceri, sia tra i detenuti sia da parte del personale nei confronti dei detenuti, costituiscono una realtà o sono soltanto un sospetto dell’opinione pubblica? "Le violenze - spiega - accadono in casa, per strada, in qualsiasi luogo, e siamo tutti esposti. Non è solo in carcere, questa brutta bestia, che si verificano episodi di violenza. Il carcere è lo specchio della società, qui si svolgono le stesse dinamiche. In ogni famiglia si litiga per motivi banali di convivenza, sebbene ci siano il vincolo di sangue e l’amore.

Qui le persone, invece, non si sono scelte, non c’è la possibilità di uscire o di cambiare stanza quando nascono delle tensioni, spesso in uno spazio adeguato per due persone ce ne stanno quattro, con abitudini, cultura, educazione, nazionalità che non hanno nulla a che fare. È inevitabile che a volte nasca la violenza". E a proposito degli abusi di potere da parte del personale? "Purtroppo la violenza è nella natura dell’essere umano, un istinto primordiale e sempre sbagliato. Essendo qualcosa di umano questi fenomeni possono verificarsi, ma vanno controllati e severamente puniti. Non devono essere tollerati".

Difficile dire se, quando si muore in carcere, si muore di carcere? "Quando una persona decide di farla finita - conclude Maria Carmela Longo - ha mille motivi nella testa che noi non conosciamo. Posso immaginare che si possa morire di carcere. Certo, non lo posso escludere. Le volte in cui cerco di immedesimarmi nella condizione dei detenuti subentra in me uno stato di profonda tristezza".

Rispettare i diritti umani dei detenuti, garantire loro la possibilità di lavorare, di svolgere attività ricreative, finalizzate alla rieducazione e al reinserimento sociale, non è nulla di straordinario, ma dovrebbe essere la normalità, ciò non dovrebbe essere in discussione in un regime democratico. Attualmente le cose non stanno esattamente così in Italia.

Lucca: Sappe; 205 detenuti in carcere sovraffollamento record

 

Il Tirreno, 14 novembre 2009

 

Un triste primato, per il Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, quello detenuto dal carcere San Giorgio. Dove ci sono 205 detenuti. "Non si era mai visto un sovraffollamento così - dice il segretario provinciale Armando Cenni - ed è a rischio non solo la sicurezza ma anche gli standard di igienicità, vivibilità e delle attività trattamentali dei detenuti". Un disagio e uno stress fisico continuo, quello denunciato dagli agenti della penitenziaria. "I carichi di lavoro sono triplicati - aggiunge il sindacalista - i colleghi coprono contemporaneamente 3 o 4 posti di servizio, le relazioni sindacali sono inesistenti, l’accordo quadro locale siglato è stato modificato e non più rispettato.

In questi ultimi 2 anni c’è stato un declino dell’organizzazione del lavoro esorbitante, e chi si aspettava novità, o cambiamenti in positivo sul nostro delicato lavoro, è rimasto deluso". Sull’argomento è intervenuta anche la parlamentare del Pd Raffaella Mariani. "Sono molto preoccupata - dice - perché alla luce dei tragici fatti di queste settimane non possiamo più tollerare una situazione di sovraffollamento come questa".

Spoleto: i Sindacati; lo "stato di emergenza" ormai è normalità

 

Asca, 14 novembre 2009

 

"Appare grave, anche per la specifica connotazione dell’istituto di Spoleto, la mancanza di personale. Le otto unità preannunciate dal capo dipartimento non andranno neanche a coprire i pensionamenti già preannunciati, venendosi a creare quindi una carenza cronica di ben 70 unità". Secondo gli agenti "non ci sono ormai più spazi per azioni di razionalizzazione o riorganizzazione.

L’orario di lavoro sfocia continuamente in straordinario e il personale non è più sufficiente a garantire condizioni di normalità, lo stato di emergenza è ormai paradossalmente normale". Accanto a ciò - concludono - "mancano risorse per le attività trattamentali e per garantire esigenze primarie alla popolazione detenuta, di cura e igiene quotidiana. Di fronte a tale gravissima situazione, permane lo stato di agitazione di tutto il personale operante negli istituti umbri, fino a quando non ci saranno risposte concrete".

"La situazione delle carceri umbre continua ad essere molto critica e vicino all’esplosione di possibili conflitti o incidenti". Lo afferma un comunicato stampa firmato da Fp Cgil, Uil Pa, e Sinappe. I sindacati degli agenti della polizia penitenziaria hanno incontrato ieri l’assessore alle Politiche sociali della Regione Damiano Stufara, che ha loro esposto il risultato di una corrispondenza fra la Regione e il capo del Dap Franco Ionta.

Nella riposta a Stufara, che aveva chiesto un confronto sulla situazione delle carceri umbre, Ionta ha definito "non particolarmente preoccupante la situazione degli istituti dell’Umbria atteso che la presenza di detenuti è leggermente al di sopra delle capienze attualmente disponibili". Sulla carenza di organico della polizia penitenziaria Ionta sottolinea come "la casa circondariale di Perugia ha ricevuto un incremento di 44 unità e che l’istituto di Terni ne riceverà 10 a fine gennaio 2010, mentre Spoleto 8 a luglio prossimo".

Commentando queste cifre, i sindacati sostengono che "ancora una volta si apprende come nessuna fattiva soluzione è stata data al problema della carenza di personale di polizia penitenziaria, una carenza che, dai dati forniti dallo Stesso provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, risulta essere di ben 210 unità per la casa circondariale di Perugia, considerando una turnazione di lavoro sviluppata su quattro quadranti, così come previsto dal Ccnl di lavoro". "La popolazione detenuta a Spoleto - precisano i sindacati - è di circa 500 unità, mentre a Perugia i detenuti sono ben oltre le 500 unità.

Verziano (Bs): detenuto tenta il suicidio, è salvato dagli agenti

 

Giornale di Brescia, 14 novembre 2009

 

Dopo i dolorosi fatti di cronaca che hanno riguardato alcuni episodi avvenuti nelle carceri italiane, la morte di Stefano Cucchi, il pestaggio di un detenuto a Teramo, la morte di un detenuto nel carcere di via Burla a Parma, a Brescia, invece, si registra una vicenda a lieto fine, della quale si sono resi protagonisti gli agenti carcerari.

Il fatto è stato portato alla luce dal segretario regionale della Fp Cgil, Antimo De Col, e il coordinatore della polizia penitenziaria Calogero Lo Presti tramite una lettera indirizzata al ministro della Giustizia Angelino Alfano. Qualche giorno fa, alla casa di reclusione "Verziano" di Brescia, durante la notte, un detenuto ha tentato in un gesto estremo di togliersi la vita impiccandosi. Solo grazie all’intervento degli agenti di polizia penitenziaria del turno notturno si è evitato il peggio.

"l comportamento assunto dai poliziotti in quel frangente, salvando una vita umana, è a nostro avviso encomiabile", scrivono De Col e Lo Presti, "per aver dimostrato alto senso del dovere istituzionale ma anche morale". I due ribadiscono poi, che "non escludendo che possano esserci fenomeni isolati di manchevolezza, e sui quali siamo convinti la magistratura debba fare piena luce per il bene stesso del nostro corpo, ribadiamo però l’orgoglio di appartenenza ad un comparto che è e deve continuare ad essere considerato un presidio di legalità e democrazia nello spirito della Costituzione e di quanto essa prevede per il sistema carcerario. Aggiungono poi, rivolti al ministro che "gli appartenenti alla polizia penitenziaria ogni giorno sopportano aggressioni, tentativi di evasioni, monacce e, nonostante le gravi condizioni lavorative, riescono a garantire con sacrificio e senso del dovere il proprio compito istituzionale".

Una situazione lavorativa che, come ha evidenziato un recente rapporto stilato da Antigone, l’associazione che si batte per i diritti nelle carceri, per Brescia risulta particolarmente difficile, essendo l’organico impegnato nelle carceri cittadini, inferiore alle necessità di ben 155 addetti.

Caserta: migranti e detenuti, nei film Festival dei Diritti Umani

 

www.casertanews.it, 14 novembre 2009

 

Altri appuntamenti per il Festival del "Cinema e dei Diritti Umani" di Napoli per venerdì 13; previste proiezioni di film e documentari dedicati ai migranti e ai detenuti.

"Migranti e rifugiati. Il viaggio e l’accoglienza". Iniziative nei cinema Filangieri e Astra Al Cinema Filangieri (via Filangieri 43) a Napoli iniziativa a cura dell’associazione Less onlus: "Migranti e rifugiati. Il viaggio e l’accoglienza". Ore 10 proiezione "Sulla via di Agadez" di F. Gatti, ITA 2009, prod. L’Espresso; ore 11 proiezione "Marenostrum" di S. Mencherini, ITA 2003; ore 12 Incontro con Anna Liguori, Fulvio Vassallo Paleologo, Stefano Mencherini e Adele Del Guercio. Alle 18,30 Cinema Academy Astra, via Mezzocannone 109. Relazione di Marco Elhardo e, a seguire, discussione con Gaetano Sferlazzo, Mimmo Lucano, Anselmo Botte e Marika Visconti. Proiezioni intermedie: brani tratti da "Le pareti della solitudine" di Tahar Jan Belloun ed "Erri de Luca racconta l’immigrazione da Lampedusa" di Erri de Luca. "I diritti dei detenuti". A Pozzuoli iniziative con la Caritas, le scuole e il Carcere Femminile. A Pozzuoli si discuterà di detenzione. Alle ore 9,30, nella sede del Centro San Marco della Caritas Diocesana di Pozzuoli si terrà un incontro con gli alunni delle scuole superiori del territorio e la proiezione del documentario Rai "Nisida, crescere in carcere". Interverranno: Gianluca Guida, direttore del carcere minorile di Nisida, Piero Avallone magistrato del tribunale minorile e don Fenando Carannante, direttore della Caritas Diocesana di Pozzuoli. Nel pomeriggio proiezione riservata alle detenuta della Casa Circondariale di Pozzuoli.

In serata, manifestazione aperta al pubblico al Centro Art Garage (Parco Bognar n° 21). Alle ore 19 proiezione "Leonera" di P. Trapero, Arg-Kor-Bra, 2008; alle ore 21 dibattito con Margherita Dini Ciacci (Unicef), Liliana De Cristoforo (scrittrice ed esperta di detenzione), Giovanni Carbone (dell’ufficio del Garante sui cittadini detenuti), Christian Carmosino (regista), Maria Gaita (associazione Febe), Giuseppe Borrone (direttore artistico rassegna "A corto di donne"), Aristide Donadio (Amnesty International) e Ciro Biondi (giornalista). Seguirà (ore 22.30) "Il giardino segreto" recital di Brunella Selo con musiche e tersti di Eros Alesi, Fabrizio De Andrè, Alfredo Bascetta, Lucio Dalla, Gabriele Di Stefano, Violeta Parra, Sting, Chico Buarque de Hollanda, Raffaele Viviani. Adattamenti musicali di Gabriele Di Stefano, Giacomo Franco, Roberto Iannuzzi, Brunella Selo.

Immigrazione: Manganelli; la criminalità, legata a clandestinità

 

Ansa, 14 novembre 2009

 

Il problema della criminalità legata all’immigrazione clandestina esiste ed è serio: non è una posizione intellettuale, lo dicono i fatti". Lo afferma il capo della Polizia, Antonio Manganelli. "Il 35% dei detenuti nelle nostre carceri - dice Manganelli, intervenendo alla tavola rotonda dell’Associazione nazionale funzionari di polizia sulle politiche di sicurezza - è costituito da immigrati clandestini: un autore di reato su tre è un immigrato clandestino, il 30% dei reati è commesso da clandestini. Naturalmente il fenomeno della sicurezza è più ampio - conclude - ma l’immigrazione clandestina è un problema, sia dal punto di vista della sicurezza reale, sia da quello della sicurezza percepita".

Droghe: "solo la legalizzazione ci può salvare", parola di Nobel 

di Luca Landò

 

L’Unità, 14 novembre 2009

 

"Sa che le dico? Che la guerra contro le droghe è fallita ma nessuno lo ammette. Eppure basterebbe mettere i numeri in fila per capire che in 35 anni di onorate battaglie si è speso troppo, ottenuto niente e, cosa peggiore, ingrassato i conti delle organizzazioni criminali. Le sembra un buon risultato?". Domanda inutile, perché il professor Becker, Gary Becker, premio Nobel per l’Economia nel 1992, non perde tempo e riparte all’attacco. "C’è solo un modo per ridurre il consumo di droghe: legalizzarle".

È dal 2001 che il professore emerito all’Università di Chicago ripete con ostinazione il proprio mantra antiproibizionista. La prima volta lo fece con un articolo su Business Week, tono pacato ma contenuto esplosivo, perché a lanciare il tema della legalizzazione non era l’ultimo degli hippy ma l’allievo di Milton Friedman. Nel 2006 entrò nei dettagli pubblicando uno studio sul Journal of Political Economy, rivista accademica per addetti ai lavori. E lì, insieme a Kevin Murhpy e Michael Grossman dimostrò con la forza dei numeri che le sue tesi avevano un fondamento economico.

"Ogni anno gli Stati Uniti destinano 40 miliardi di dollari per combattere la diffusione delle droghe. Se a tutto questo aggiungiamo i costi per la società e lo Stato - poliziotti, tribunali, carceri - il costo arriva a 100 miliardi di dollari ogni anno. È una cifra enorme. Di fronte alla quale è bene porsi una domanda: esiste un modo meno costoso e più efficace per ridurre il consumo di droghe? Il nostro studio, quello del 2006, suggeriva un’altra strada: legalizzare le droghe e applicare una tassa sul consumo. Il ragionamento è semplice: la guerra alle droghe, aumentando il rischio di chi le produce e le commercia, ha fatto lievitare il prezzo delle sostanze vendute, tanto che il prezzo alla vendita è in genere il 200% rispetto a quello effettivo. Ebbene, con una tassa del 200% su un prodotto legalmente venduto, quello stesso ricavo finirebbe nelle casse dello Stato anziché nelle tasche delle mafie. Così, invece di spendere soldi per contrastare inutilmente i produttori illegali, si avrebbero fondi a sufficienza, ad esempio, per finanziare campagne di informazione sui pericoli legati all’uso delle droghe".

Lei contesta i risultati della cosiddetta guerra alle droghe, eppure l’Onu, lo scorso giugno ha pubblicato un rapporto in cui si spiega che l’uso di eroina, cocaina e marijuana, in alcuni mercati, inizia a calare.

"È il minimo che potesse accadere, visto quello che si spende in tutto il mondo. Ma è una impostazione sbagliata. Il concetto di "guerra alle droghe" venne lanciato per la prima volta da Nixon negli anni Settanta e ribadito da tutti i presidenti, nessuno escluso. Se i risultati di cui parla l’Onu fossero legati a un’attività di uno o due anni li potrei apprezzare. Trattandosi di una guerra di 35 anni si tratta di un fallimento. Non solo, ma trattandosi di mercati illegali, le stime che circolano sono del tutto teoriche: come si fa sapere la reale produzione mondiale di droga? O il consumo? Sono numeri difficili da dimostrare. E non dimentichiamo che quando un tipo di droga cala, quasi sempre ne spunta un’altra. Quelle sintetiche, ad esempio".

In effetti l’Onu parla proprio di un aumento di queste ultime, soprattutto nel Terzo mondo.

"Restiamo su quelle "classiche", l’oppio ad esempio: un aspetto di cui si parla poco è che la produzione e il commercio di droga è la fonte principale di finanziamento dei talebani e di Al Qaeda. Ora, ha senso mandare truppe in Afghanistan e, nel contempo, consentire alle forze che si intende combattere di continuare a ricevere finanziamenti? Se le droghe venissero legalizzate, quegli introiti verrebbero meno".

Alberto Maria Costa, il direttore dell’Ufficio Onu contro la Droga e il Crimine, dice che anche in presenza di un mercato legale vi sarebbe sempre un mercato parallelo controllato dal crimine.

"Prendiamo l’alcol. Negli Stati Uniti è stato illegale per quattordici anni, fino a quando il presidente Roosevelt, nel 1933, decise di legalizzarne la produzione e l’utilizzo. Bene, prima di allora whisky, gin e quant’altro erano tutti controllati da organizzazioni criminali. Al Capone, per intenderci, era un trafficante di droga. E quella droga si chiamava alcol. Con la legalizzazione nacquero distillerie legali, distributori legali, rivenditori legali. In un attimo si mandò all’aria l’intero business del crimine. Lo stesso può accadere con le droghe vere e proprie. È possibile che continui a esistere una sorta di mercato nero per alcune sostanze, ma si tratterà di piccole nicchie all’interno di un mercato tutto alla luce del sole".

 

Ma lei esclude ogni tipo di divieto?

"Niente affatto. Tanto per cominciare vieterei la vendita ai minori, proprio come avviene negli Stati Uniti per i liquori. Un’altra limitazione, proprio come per le bevande alcoliche, è legata alla guida: punizioni severe per chi si mette al volante sotto l’effetto di droghe mettendo a rischio la vita degli altri. E visto che parliamo di regole e restrizioni ne aggiungerei un’altra: trattandosi di prodotti legali, i produttori dovranno essere sottoposti a controlli di qualità come avviene per il settore alimentare o farmacologico. Questo eviterebbe la circolazione di sostanze tagliate e pericolose come oggi invece avviene".

 

Chi si oppone alle sue proposte sostiene che la liberalizzazione provocherebbe un aumento dell’uso, non una diminuzione.

"Dipende dal livello di tassa che viene applicato: se è adeguatamente alta, la domanda non cresce affatto. Anzi, trattandosi di un bene legale, viene meno quel richiamo del proibito che è una spinta, almeno tra i giovani, a far uso di droghe".

 

Per i minorenni però questo richiamo continuerebbe ad esserci.

"Già, ma sarebbe un divieto limitato all’età. E tutti prima o poi diventiamo adulti. L’importante è non diventare dei fuorilegge. La guerra alla droga produce devastanti effetti collaterali. Proprio in Italia avete avuto il caso di quel ragazzo pestato a morte dopo essere stato trovato con 30 grammi di hashish: è la conferma che con la guerra alle droghe si entra in una visione violenta del problema. Da noi, come da voi, le carceri scoppiano perché vengono riempite con persone che hanno avuto a che fare con la droga. E non importa quanto siano state seriamente coinvolte. Quando sei in guerra, anche le ombre diventano nemici".

 

Lo dica francamente: è davvero convinto che si possa legalizzare l’uso delle droghe?

"Non subito e non ovunque. Ma la strada è quella. Guardi il Messico, lo scorso agosto ha approvato una legge che permette l’uso di hashish, marijuana e persino Lsd. Non è una proposta: è una legge. E qualcosa di simile è accaduto in Argentina".

 

E negli Stati Uniti?

"Non siamo ancora pronti, ma qualcosa si sta muovendo. La discussone al momento riguarda solo l’uso di marijuana per scopi terapeutici, ma è già qualcosa. Non mi illudo che tutto cambi all’improvviso. Ci vuole tempo, ma sono fiducioso. L’unica droga di cui abbiamo realmente bisogno è l’uso della ragione. Quando la provi, non smetti più".

Brasile: caso Battisti; voto fermo 4 a 4, prossima udienza il 18

di Paolo Persichetti

 

Liberazione, 14 novembre 2009

 

Udienza per l’estradizione di Battisti: sospesa dopo un 4 a 4 nelle votazioni. La votazione finale riprenderà il prossimo mercoledì 18 novembre. Il presidente della corte suprema ha già annunciato che non si asterrà. Tutti sanno che è favorevole all’estradizione. La decisione finale sulla sorte di Batisti a quel punta sarà nelle mani del capo dello Stato Ignacio Lula da Silva.

Colpo di scena all’apertura dell’udienza del Supremo tribunale federale brasiliano che ieri doveva pronunciarsi sulla estradizione di Cesare Battisti, condannato in Italia a due ergastoli per una serie di attentati mortali commessi sul finire degli anni 70 dai Pac.

Il presidente della corte, Gilmar Mendes, ha reso noto il contenuto di una lettera inviata da Dias Toffoli, il giudice insediatosi tra le polemiche lo scorso 23 ottobre al posto di Menezes Direito, deceduto il primo settembre. Toffoli, che in qualità di avvocato generale dell’Unione era già intervenuto nel procedimento, chiamato a fornire un parere sull’eccezione di incostituzionalità sollevata contro la concessione dell’asilo politico a Battisti, aveva difeso la correttezza della decisione presa dal ministro della Giustizia, Tarso Genro.

Per evitare conflitti d’interesse ha preferito appellarsi alla clausola di coscienza e non prendere parte al voto. Un gesto che smentisce clamorosamente tutti quelli che avevano accusato Lula di averlo designato per far pendere gli equilibri del Tribunale a favore di Battisti. Nei giorni scorsi era persino circolata voce su un possibile ricorso contro la sua nomina ?da parte del governo italiano che per voce del proprio legale aveva chiesto a Toffoli di non presenziare al voto. Intervento che ha provocato la ferma reazione del ministro Genro contro l’atteggiamento irrispettoso della sovranità interna brasiliana. Fin dall’inizio l’Italia ha interferito in modo pesante sulla giustizia brasiliana.

Un proconsole del governo, il procuratore Italo Ormanni, è stato inviato sul posto per manovrare nei corridoi del Tribunale e influenzare l’esito finale del voto. In realtà Toffoli avrebbe potuto votare. Non esistevano osta coli giuridici, anzi i giuristi avevano elencato diversi precedenti. Soprattutto avrebbe potuto esprimersi sulla procedura di estradizione, nella quale non era mai intervenuto. Il Tribunale, infatti, con una scelta senza precedenti, e che molti hanno considerato quanto mai barocca, ha deciso di accorpare le due procedure: quella sulla costituzionalità della legge che attribuisce al ministro della Giustizia il potere di concedere lo status di rifugiato; e l’altra, sulla richiesta di estradizione avanzata dall’Italia. Il presidente Gilmar Mendes ha manovrato l’intera vicenda procedurale fornendo prova di notevole fantasia e creatività, al punto che nei manuali di diritto verrà ricordato come il fondatore del surrealismo giuridico brasiliano.

Venuto meno il voto di Toffoli, che avrebbe potuto subito chiudere la questione dando la maggioranza ai contrari alla estradizione, restano ancora aperti diversi scenari. Marco Aurelio Mello, il magistrato che all’ultima udienza aveva chiesto una sospensione, ha sciolto nel corso dell’udienza la riserva e si è detto contrario alla estradizione perché "il Tribunale supremo non può sostituirsi all’esecutivo". È noto che a livello planetario la materia estradizionale appartiene alla competenza dell’Esecutivo poiché attiene alla sfera dei rapporti politico-diplomatici tra Stati. L’autorità giudiziaria è chiamata soltanto ad esprimere un parere sulla fondatezza e regolarità giuridica delle richieste di estradizione. Un criterio riconosciuto anche dalla costituzione italiana.

Messa di fronte ad una situazione di perfetta parità, 4 contro 4, (la volta scorsa la sospensione era avvenuta in presenza di una maggioranza favorevole alla estradizione di 4 contro 3) la corte ha sospeso l’udienza. Al momento in cui questo giornale va in tipografia, non siamo in grado di dirvi quando riprenderà. Per sciogliere questa situazione di stallo, il presidente Mendes potrebbe essere chiamato ad esprimere un voto dirimente.

Decisione per nulla scontata. I contrari all’estradizione porranno, infatti, la questione dell’habeas corpus, ovvero il rispetto del principio del favor rei. Già in passato Mendes si era astenuto dal votare in situazione simile. Se prevalesse questa soluzione, la vicenda verrebbe archiviata e Battisti, scontata la pena per i documenti falsi, liberato. Una seconda incognita riguarda l’ipotesi che uno dei giudici chieda di rivedere la propria posizione. Nei giorni scorsi su alcuni quotidiani si era ventilata l’ipotesi di un ripensamento di Carlos Britto, che inizialmente si era detto favorevole all’estradizione. Anche in questo caso Battisti tornerebbe libero. Esiste anche l’eventualità che uno dei votanti chieda una ulteriore pausa di riflessione.

Se dovesse invece prevalere la volontà di far votare il presidente Mendes, da sempre favorevole alla estradizione, legato da stretti rapporti con gli ambienti del centrodestra italiano e che della vicenda Battisti ha fatto un trampolino di lancio per le sue ambizioni politiche, allora la partita davanti al Tribunale si chiuderebbe con un voto a maggioranza favorevole alla estradizione. A quel punto la palla passerà nelle mani del presidente Lula, ma anche qui c’è chi è intenzionato a porre un problema di legittimità che aprirebbe uno scontro di poteri tra esecutivo e giudiziario. Mendes, infatti, con un’interpretazione senza precedenti e assolutamente contrastante con la dottrina giuridica recepita a livello mondiale, ritiene la firma del capo dello Stato un puro atto formale, una mera ratifica della decisione presa dall’autorità giudiziaria. Ovviamente le cose non stanno così.

I retro pensieri politici che presiedono questa lettura sono del tutto evidenti. Mendes vuole destabilizzare e ridurre la sovranità del capo dello Stato. Difficilmente Lula accetterà di cedere ad una simile pretesa e valuterà l’intera vicenda sulla base di criteri politico-giuridici. L’Italia, infine, se vuole riavere Battisti dovrà comunque accedere alla condizione posta dal Tribunale perché l’estradizione possa essere materialmente possibile: commutare la pena dell’ergastolo a 30 anni di reclusione. Una questione non da poco. Fino ad ora il governo italiano ha sempre sorvolato. Davanti alla Stf ha sempre spacciato la menzogna dell’ergastolo previsto nell’ordinamento italiano come pena virtuale. Ma a Lula basterà questa favola per firmare?

Brasile: Battisti in sciopero della fame totale contro estradizione

 

Agi, 14 novembre 2009

 

Cesare Battisti ha iniziato uno "sciopero della fame totale" per protesta contro la possibile estradizione in Italia. È stato lo stesso ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo ad annunciarlo in una lettera aperta al presidente brasiliano Inacio Lula da Silva, in partenza per Roma per partecipare al vertice della Fao. A dare notizia della lettera è stato il senatore della sinistra radicale (Psol) Josè Nery, dopo aver incontrato Battisti nel carcere di Papuda, alle porte di Brasilia. Nella lettera di due pagine, l’uomo condannato all’ergastolo in Italia per quattro omicidi rivendica il suo diritto allo status di rifugiato politico riconosciutogli dal Brasile. "Consegno la mia vita nelle mani di Sua eccellenza e del popolo brasiliano", ha concluso Battisti.

A Lula, che lunedì avrà una colazione di lavoro con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in cui inevitabilmente si parlerà del caso Battisti, spetta l’ultima parola sull’estradizione. Mercoledì prossimo si dovrebbe tenere l’udienza finale davanti al Tribunale federale supremo brasiliano in cui il voto del presidente Gilmar Mendes sarà decisivo dopo che nell’udienza di giovedì scorso quattro giudici hanno votato per l’estradizione e quattro contro.

 

 

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