Rassegna stampa 13 novembre

 

Giustizia: piano carceri, già fallito prima ancora di cominciare

di Stefano Anastasia (Associazione Antigone)

 

Carta, 13 novembre 2009

 

Oggi, domani, dopodomani, …: prima a poi il "Piano carceri" del Governo arriverà in Consiglio dei ministri. E non cambierà niente. Non cambierà nulla di quelle condizioni incivili in cui le carceri sono ridotte. Non cambierà nulla nell’affollamento penitenziario. Non cambierà nulla in quel mix di violenza e indifferenza che ha potuto provocare la morte di Stefano Cucchi.

Il cosiddetto "Commissario straordinario per l’emergenza carceri" nominato dal Governo, che poi sarebbe lo stesso Capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria nominato dal medesimo Governo, e cioè il dott. Franco Ionta, ne aveva già abbozzato uno, di piani, in aprile: prevedeva la realizzazione - entro il 2012 - di 17.129 nuovi posti detentivi, tra quelli allocati in nuovi padiglioni di vecchi istituti già esistenti e quelli da sistemare in istituti di nuova costruzione, per una spesa complessiva di 1590 milioni e 730mila euro. Oggi si parla di un piano da 20-22mila posti, ivi compresa la commessa a Finmeccanica per una o più navi prigioni da ormeggiare ai moli delle città marinare, mentre sembra tramontata la boutade della riapertura delle isole di Pianosa e dell’Asinara, da più di un decennio tornate a essere luoghi protetti di interesse naturalistico e ambientale.

Ma con questo piano, o con un altro simile a questo, non cambierà nulla delle carceri in Italia, perché non ne verranno toccate le cause del loro affollamento e del loro degrado.

Innanzitutto, è possibile contestare il piano carceri dall’interno della sua logica (ed è forse per questo che fatica a essere approvato ufficialmente). Ad aprile, il suo fabbisogno economico era coperto per soli 205 milioni di euro, con qualche speranza di raggranellare (creativamente) fondi per ulteriori 405 milioni. Restavano senza copertura i 2/3 del piano, e quindi delle costruzioni, e quindi dell’obiettivo perseguito in termini di ospitabilità di detenuti. A questo miliardo di euro mancante giustamente i sindacati aggiungono i soldi necessari alla gestione, a partire dalle necessarie spese del personale, la cui mancanza fa sì che già oggi numerosi istituti siano chiusi o a scartamento ridotto.

A ciò si aggiunga che 17mila posti, o 20-22mila sono insufficienti alle necessità. Già oggi mancano all’appello 22mila posti detentivi. Ammesso che il piano venga approvato subito, che preveda 20-22 o 25 mila posti detentivi, che disponga di tutti i fondi necessari per la realizzazione delle strutture, per la loro gestione e per il nuovo personale che dovrà esservi impiegato; ammesso anche che la sua realizzazione segua i tempi indicati (cosa - si riconoscerà - non usuale negli appalti pubblici in Italia), nel 2012 avremo all’incirca la capienza detentiva che sarebbe necessaria oggi. Intanto, però, dall’indulto a oggi il sistema penitenziario italiano cresce di circa 7-800 unità al mese e, a questi ritmi, nel 2012 la popolazione incarcerata potrebbe essere arrivata a più di 90mila unità, con una nuova eccedenza di circa 25mila detenuti. Tanto dovrebbe bastare a rimettere il Piano nel cassetto e a ripartire da zero.

Il fallimento del sistema penitenziario italiano è lo specchio del fallimento del sistema penale che lo governa. È il fallimento della ideologia della "tolleranza zero" e della sua confusione tra crimine e "comportamento anti-sociale". Se tutto è reato e tutto merita di essere severamente punito, tutto finisce in carcere, e il carcere finisce per essere un enorme Cpt, in cui sono ammassati italiani e stranieri, tossici e no, accatastati in attesa di un altro passaggio della porta girevole.

Di tutto questo si comincia a discutere negli Stati uniti, dove la magistratura ha imposto ad Arnold Schwarzenegger la riduzione di un terzo dei detenuti della California entro tre anni e dove lo Stato di New York ha rivisto le sue storiche leggi proibizioniste in materia di stupefacenti, ma non in Italia, dove la golden share leghista sulla maggioranza ci ha portato al peggiore uso simbolico della pena e del carcere, impiegato per ogni dove, a copertura di qualsiasi ansia sociale, reale o potenziale. Un altro "piano carcere" dovrebbe partire da qui.

Giustizia: Fini; realtà carcere lontana da principi Costituzione

 

Ansa, 13 novembre 2009

 

"La realtà effettiva dei penitenziari italiani è lontana dai principi sanciti dalla Costituzione, a partire dal rispetto della dignità della persona umana". Lo afferma Gianfranco Fini in un messaggio di saluto all’VIII Congresso dei Radicali italiani. "Lo stato di degrado - aggiunge il presidente della Camera - in cui versa il nostro sistema penitenziario è un argomento da porre all’attenzione generale. È dovere delle istituzioni e dei cittadini interrogarci sui gravi problemi delle carceri italiane al fine di predisporre politiche tendenti a colmare la distanza tra l’effettiva realtà penitenziaria e i principi sanciti dalla Costituzione".

Giustizia: Alfano; il "piano carceri"? in uno dei prossimi Cdm

 

Ansa, 13 novembre 2009

 

"Porteremo il piano carceri a uno dei prossimi consigli dei ministri". Lo ha detto il ministro della Giustizia Angelino Alfano al termine della Stato-Regioni in cui ha presentato l’informativa sul piano. Il Guardasigilli ha specificato che al momento non è stato deciso quando il progetto andrà in Cdm. "In uno dei prossimi", si è limitato a dire. Quanto al nodo delle risorse per realizzare il piano, il ministro ha sottolineato che "chi pensa che non lavoreremo fino in fondo resterà deluso".

Giustizia: Pd; il piano carceri? Alfano è in ritardo... di 42 Cdm

 

Apcom, 13 novembre 2009

 

"Sulle carceri Alfano si smentisce da solo". Lo afferma la capogruppo del Pd nella commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti, che fa presente come sia "passato più di un anno da quando il ministro della Giustizia annunciava solennemente da Trieste che avrebbe presentato "nelle prossime settimane" il nuovo piano di edilizia carceraria di concerto con il ministro Matteoli. Nel frattempo - prosegue - ci sono stati ben 42 Cdm ed Alfano non ha presentato un bel nulla".

"Il grado di sovraffollamento degli istituti - sostiene - prefigura una situazione di emergenza per il paese. Siamo ampiamente oltre la soglia massima di tolleranza che congiunta all’assenza di un Piano carceri e ai recenti tagli alle risorse destinate alla giustizia effettuati dal Governo determina difficoltà gravissime di gestione che, in taluni casi, raggiungono punte di vera e propria emergenza umanitaria in palese contraddizione con i diritti costituzionalmente garantiti".

Giustizia: Ionta (Dap); stima e rispetto per agenti penitenziari

 

Agi, 13 novembre 2009

 

Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e Capo della Polizia Penitenziaria Franco Ionta, in relazione alle indagini svolte dalla Procura di Roma per il decesso di Stefano Cucchi, esprime "piena fiducia nell’operato degli organi inquirenti" e rivolge "parole di stima e riconoscimento agli uomini della Polizia Penitenziaria che, pur nella difficile situazione in cui si trovano ad operare, a causa del sovraffollamento e della carenza di organico, assicurano le condizioni di legalità nelle carceri, con piena professionalità, spirito di sacrificio e senso di umanità". Il Capo del Dap, si legge ancora in una nota, si dichiara "orgoglioso del Corpo di Polizia Penitenziaria che con senso del dovere continua quotidianamente a svolgere il proprio operato. È a queste persone - conclude Franco Ionta - che dobbiamo solidarietà e rispetto".

Giustizia: Gonnella (Antigone); "no" a più agenti penitenziari

 

Ansa, 13 novembre 2009

 

"Nelle carceri non c’è bisogno di altri poliziotti. Abbiamo il più alto numero di agenti penitenziari in Europa: uno ogni 1,54 detenuti contro una media europea di 2,94". A dichiararlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione che si batte per i diritti nelle carceri, che ribadisce, invece, la necessità di introdurre il crimine di tortura nel nostro codice penale.

"L’Italia, nel lontano 1987 - ricorda Gonnella - ha ratificato una Convenzione ma è ancora inadempiente. Vi sono vari disegni di legge pendenti. Chiediamo che vengano subito calendarizzati. Sarebbe un messaggio culturale forte. Ci sembrano poi - prosegue Gonnella - non comprensibili né condivisibili le rimostranze sul numero scarso di poliziotti nelle carceri di fronte agli episodi di questi ultimi giorni. Riteniamo che la questione non sia quella di aumentare l’organico di polizia, bensì quella di capire perché questo sembra non bastare mai, e di razionalizzarne la dislocazione", dice ancora Gonnella.

"Nell’Europa dei 27 l’Italia è tra i paesi con il numero più alto di poliziotti in termini assoluti e relativi. Se si considera l’attuale numero di detenuti - spiega il presidente di Antigone - abbiamo un poliziotto penitenziario ogni 1,54 detenuti. La media europea è di 2,94. Sono 42.268 i poliziotti penitenziari in organico. 39.482 sono i poliziotti che lavorano effettivamente per l’amministrazione penitenziaria al netto di distacchi e assenze di vario tipo".

"Tra le situazioni regionali di maggiore disagio - segnala Gonnella - vanno segnalate quelle del Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e Sardegna. Posto che circa 1500/1800 agenti svolgono compiti anche di natura contabile, che circa 700 agenti lavorano negli spacci, che circa 4/5000 uomini sono giornalmente impegnati nei servizi di traduzione e piantonamento dei detenuti fuori dalle strutture penitenziarie, che circa 500 agenti lavorano al Ministero della Giustizia, che circa 1600 agenti lavorano al Dap, che varie migliaia sono impegnate nei Provveditorati regionali, nelle Scuole di formazione, agli Uepe, al Gom - Gruppo Operativo Mobile, al Nic - Nucleo Centrale Investigazioni, all’Uspev - Ufficio per la Sicurezza del Personale e della Vigilanza, al Servizio Centrale delle Traduzioni e Piantonamenti, con annessa la sezione relativa al Servizio Polizia Stradale, fuori dall’Amministrazione penitenziaria (Corte dei Conti, Presidenza Consiglio dei Ministri, Csm, ministeri diversi) ne restano a spanne 16 mila che si sobbarcano il lavoro atto a garantire la sicurezza complessiva nelle carceri". Infine, secondo Gonnella, "per un sud che non ha carenze di organico (a Bari l’organico amministrato è superiore di 30 unità a quello previsto dalla pianta organica; Lazio e Campania sono in sovrannumero) vi è un nord dove la situazione è drammatica (a Padova nuovo complesso mancano 78 unità, a Tolmezzo 38, a Torino 187, a Brescia 155). Si tratta di eredità del passato difficili da gestire".

Giustizia: giovani avvocati in piazza, contro la riforma Alfano

 

Il Velino, 13 novembre 2009

 

"Sabato 28 novembre dalle 15.30 l’Unione dei giovani avvocati italiani ha organizzato una manifestazione in piazza Navona a Roma per dare la possibilità ai cittadini e agli avvocati di esprimere pubblicamente il proprio no alla controriforma forense più volte annunciata dal ministro Alfano. Si tratta infatti di una riforma favorevole alle gerarchie ordinistiche, ma contro la base della classe forense, i consumatori e il sistema produttivo italiano".

Lo dichiara il presidente dell’Unione giovani avvocati italiani, Gaetano Romano. "La controriforma forense, pendente in commissione Giustizia al Senato - continua -, farebbe retroagire il sistema professionale italiano, non solo al periodo pre-liberalizzazioni degli ultimi anni, ma contenutisticamente a una fase addirittura antecedente il fascismo, periodo a cui risale l’ultima legge professionale.

Secondi i calcoli fatti saranno circa 50 mila gli avvocati cancellati dagli albi professionali a causa dell’illiberale normativa sulla continuità professionale basata su un reddito minimo. Gli avvocati, a rischio cancellazione dall’albo professionale per non continuità professionale, saranno indotti a incardinare cause, anche pretestuose, con gravissimo danno per il sistema giustizia e per i cittadini.

La controriforma è caratterizzata da una nuova serie indiscriminata di balzelli e incombenze a tutto vantaggio degli ordini professionali e a carico della base degli avvocati e dei consumatori su cui ricadranno indirettamente i costi della riforma. La manifestazione - conclude - si svolgerà in forma statica in piazza Navona e non a mezzo corteo perché (per questa prima nostra protesta pubblica contro la riforma) si è pensato di non arrecare disagi ai cittadini che saranno nostri alleati interessati in questa battaglia per bloccare la controriforma forense".

Giustizia: magistratura e responsabilità nei tanti "casi Cucchi"

di Giuseppe Di Lello

 

Il Manifesto, 13 novembre 2009

 

Per Stefano Cucchi la giustizia farà il suo corso, come suol dirsi impropriamente, anche perché spesso approda ad un mortificante ridimensionamento, se non ad una vera e propria beffa condita con scadente salsa giuridica. Alla fine della storia, se Carlo Giuliani è morto per colpa di un calcinaccio, non si vede perché mai Stefano Cucchi non potrebbe essere morto per una accidentale caduta dalle scale. Staremo a vedere. Per ora le ricostruzioni del crimine vanno avanti tra l’indignazione generale, perfino di quanti hanno voluto una sequela di infami leggi repressive sulla droga, senza pietà neppure per chi ha pochi grammi di erba e, comunque, per le condizioni di salute non dovrebbe andare in galera o restarci.

Lungo il tragitto verso il suo Calvario, Stefano Cucchi ha incontrato carabinieri, uomini della polizia penitenziaria, altri detenuti e, essendo questo uno Stato di diritto, anche un pm ed un gip dei quali quasi nessuno parla, come se fossero comparse inessenziali in un dramma recitato da altri attori. Certo, è possibile che, soggettivamente, non abbiano notato nulla di anormale ma è da escludere che, oggettivamente, tutto fosse normale, almeno stando a quanto riferito dal padre dell’arrestato secondo il quale, per fermarci solo a ciò che era visibile, all’udienza di convalida il figlio evidenziava già ecchimosi al volto, ritenute poi "gravi" dai medici di Regina Coeli.

In una intervista del 3 novembre scorso a questo giornale sul caso Cucchi, l’avvocato Vincenzo Siniscalchi, membro laico indicato dal centrosinistra nel Csm, affermava come non si dovessero cercare le colpe solo dalla parte della polizia penitenziaria e auspicava un’assunzione di responsabilità anche da parte del Csm che "non può funzionare solo come organo di tutela dei magistrati - cosa giusta e doverosa - ma deve prendersi le sue responsabilità". Non essendo parso all’Anm questo sfogo di Siniscalchi un tentativo di delegittimazione della magistratura, prudentemente vi ci accodiamo per reclamare, come sembra fare il suddetto, un qualche corso di aggiornamento organizzato dal Csm sulla tutela un po’ più attenta dei diritti dei detenuti. Magari con l’ausilio di un medico legale e di un giurista che spieghino ai pm e ai giudici come sia doveroso accorgersi delle evidenti ecchimosi che a volte i detenuti presentano e, pertanto, come si debbano esercitare immediatamente i poteri di indagine per cercare di "fotografare" la realtà prima che essa venga falsata da depistaggi e falsità.

Come si può chiedere ai cittadini di battersi per l’indipendenza e l’autonomia della magistratura se poi (come ricorda lo stesso Siniscalchi) la Corte di giustizia europea condanna lo Stato italiano anche per la violazione della convenzione sulla tortura e i trattamenti inumani e degradanti nelle carceri e i magistrati, attraverso i loro organi istituzionali e associativi, non dicono né fanno nulla per assumersi le proprie responsabilità, nemmeno di fronte ad un caso come quello di Stefano Cucchi?

Giustizia: Cucchi; sei avvisi di garanzia, tre medici e tre agenti

 

Ansa, 13 novembre 2009

 

La svolta tanto attesa per oggi è arrivata: ai 3 iniziali si aggiungono 6 indagati per la morte di Stefano Cucchi. Tre medici e tre agenti.

Gli avvisi di garanzia annunciati per oggi sono dunque arrivati. Anche se ieri si parlava di una decina di indagati, tra cui carabinieri e agenti della polizia penitenziaria (per i quali si prevede il reato di omicidio preterintenzionale) e i medici (per cui si configura invece l’omicidio colposo, meno grave del primo a livello penale).

A determinare la necessità di notificare gli avvisi, la decisione della procura di disporre la riesumazione della salma per procedere a nuovi esami. A tali accertamenti dovranno poter infatti partecipare anche gli indagati, nominando eventualmente un loro consulente di parte.

 

Non fu rianimato: "Cucchi è morto anche di malasanità"

 

I sanitari indagati dovrebbero essere i medici del Pertini, ascoltati ieri dalla commissione d’inchiesta del Servizio sanitario nazionale presieduta da Marino. Secondo il Corriere della Sera, dalle audizioni è emerso che "nel momento cruciale, quando il cuore di Stefano si è fermato, la mattina del 22 ottobre, al Pertini non hanno chiamato il rianimatore". Una grave mancanza che la senatrice Donatella Poretti, membro della Commissione, commenta così al quotidiano di via Solferino: "Cucchi è morto anche di malasanità".

 

I testimoni sono due

 

Intanto sembra che siano due i testimoni che hanno parlato di pestaggio subito da Stefano Cucchi. La notizia è trapelata oggi in Procura dove è stato precisato che i due testi, entrambi detenuti, hanno fatto un racconto contraddittorio in alcuni punti. È per questo motivo che il procuratore della Repubblica Giovanni Ferrara e i sostituti Vincenzo Barba e Francesca Loi stanno pensando di chiedere al gip un incidente probatorio per ascoltarli e dare forza di prova a quanto diranno sull’episodio che riguarda appunto la morte di Stefano Cucchi.

 

Cucchi al supertestimone: "Hai visto come mi hanno ridotto"?

 

Ieri è stata Repubblica ad arricchire di dettagli la testimonianza del supertestimone che avrebbe assistito al pestaggio di Cucchi nella cella del Palazzo di Giustizia.

In attesa del suo processo per direttissima, chiarisce la ricostruzione del quotidiano, Stefano Cucchi sarebbe stato picchiato da almeno due agenti di polizia penitenziaria.

Il testimone sarebbe un immigrato clandestino di 31 anni, arrestato il 15 ottobre per stupefacenti. Secondo il racconto del suo avvocato, Francesco Olivieri, il 16 ottobre il suo assistito è in una delle celle del palazzo di Giustizia, in attesa del processo. Di fronte alla sua c’è quella in cui viene rinchiuso Cucchi. È attraverso lo spioncino della sua cella che "in tarda mattinata" il testimone è allarmato dalle grida che sente, si affaccia e vede due agenti di polizia penitenziaria picchiare Cucchi che, uscito di cella per andare in bagno, non voleva più tornare in camera di sicurezza.

Secondo il racconto del detenuto, che oggi si trova al Regina Coeli, Cucchi sarebbe stato colpito prima con due manrovesci che l’hanno gettato in terra, poi preso a calci mentre era steso sul pavimento. Infine trascinato in cella dagli agenti.

Dopo i processi per direttissima, lui e Stefano Cucchi vengono sistemati nella stessa cella. Qui, il testimone avrebbe visto i lividi che gonfiano il volto di Cucchi. Infine, entrambi vengono portati a Regina Coeli, i polsi legati con le stesse manette. È in questo momento, secondo quanto riferisce l’avvocato Olivieri, che Cucchi sussurra al suo assistito: "Hai visto questi bastardi come mi hanno ridotto"?

 

La polizia penitenziaria: ricostruzione del testimone fa acqua

 

Pronta la replica dell’Osapp, il sindacato della polizia penitenziaria, che mette in dubbio l’attendibilità della ricostruzione del testimone. "È vero che la polizia penitenziaria ha le chiavi delle celle di sicurezza, ma a nessun nostro agente sarebbe mai venuto in mente di accompagnare in bagno un arrestato sotto la responsabilità di un’altra forza di polizia (ndr: in questo caso si tratta di carabinieri). In questi casi la polizia penitenziaria apre la camera di sicurezza, ma non prende in consegna l’arrestato perché non si tratta ancora di un detenuto": dice Leo Beneduci, segretario dell’Osapp.

Quanto poi alla testimonianza dell’extracomunitario che avrebbe visto la scena del pestaggio dallo spioncino della camera di sicurezza di fronte, Beneduci si dice scettico: "Le 16 celle nel sotterraneo del Palazzo di Giustizia sono situate tutte sulla stessa parete".

 

La Procura di Roma autorizza la riesumazione del corpo

 

La Procura di Roma ha deciso: il corpo di Stefano Cucchi sarà riesumato, permettendo di svolgere ulteriori accertamenti tra cui una Tac e delle lastre. È stata così esaudita la richiesta della famiglia di Stefano, che ne aveva sollecitato l’iniziativa.

Oggi i medici legali che già stanno svolgendo la consulenza volta a far luce sulle cause del decesso saranno formalmente autorizzati dai pm a procedere a tale atto.

Proseguiranno intanto nei prossimi giorni le audizioni delle persone in grado di fornire elementi utili a chi indaga. Al vaglio degli inquirenti anche la possibilità di mettere sotto una qualche forma di protezione il presunto "supertestimone", un detenuto, che starebbe collaborando alle indagini. A ora di pranzo, intanto, i medici del Pertini saranno ascoltati dai giudici che indagano sulla morte di Stefano.

 

Marino: discrepanze nella valutazione dei medici

 

"Ci sono delle discrepanze", così Ignazio Marino, presidente della commissione di inchiesta del Senato sul Sistema sanitario che sta indagando sul caso Cucchi, commenta la valutazione dei medici sullo stato di salute del ragazzo.

Secondo il medico della cittadella giudiziaria e quello del carcere di Regina Coeli - infatti - sul volto di Stefano Cucchi erano presenti tumefazioni ed ecchimosi. Mentre una valutazione differente è stata data dai medici dell’Ospedale Fatebenefratelli (dove Cucchi è giunto da Regina Coeli) oggi ascoltati dalla commissione di inchiesta. "Ci sono delle discrepanze - ha spiegato Marino - poiché per i medici del Fatebenefratelli le ecchimosi al volto non erano così evidenti e parlano di "lievi segni sottocutanei e sotto le orbite". Queste lesioni erano state invece documentate sia dal medico di piazzale Clodio, sia dai medici di Regina Coeli. Dunque dobbiamo approfondire il motivo perchè queste ecchimosi e tumefazioni presenti precedentemente non ci fossero poi il giorno successivo". Andiamo avanti con l’indagine non escludendo un confronto fra i medici, ha concluso Marino.

Giustizia: Cucchi; la cella, il malore, la visita… 4 ore di misteri

di Giovanni Bianconi

 

Corriere della Sera, 13 novembre 2009

 

C’è una frase, scritta da un sottufficiale della polizia penitenziaria e contenuta nella relazione trasmessa dalla Direzione generale delle carceri al ministro della Giustizia, in cui è racchiuso il mistero della morte di Stefano Cucchi. Spiega che "durante la permanenza presso le camere di sicurezza", all’incirca tra le 9.30 e le 12.30 di venerdì 16 ottobre, prima dell’udienza di convalida dell’arresto avvenuto la sera di giovedì 15, "il Cucchi è stato custodito da solo in camera singola. La vigilanza e movimentazione del medesimo sono state curate congiuntamente dai carabinieri e dalla polizia penitenziaria addetti alla vigilanza".

È quell’avverbio - congiuntamente - che nasconde l’enigma su chi può averlo picchiato, se davvero è stato picchiato nei sotterranei del palazzo di giustizia e non altrove, nelle ore precedenti. Congiuntamente vuol dire che, essendo ancora un semplice arrestato e non un detenuto, Cucchi era formalmente "in carico" a chi gli aveva messo le manette, cioè i carabinieri; ma la gestione delle gabbie, cioè l’apertura e chiusura delle porte, spetta agli agenti penitenziari che custodiscono le chiavi. Questo in base a un ordine di servizio firmato nel 2004 dell’ex presidente del tribunale di Roma Luigi Scotti.

Sulle tre ore d’attesa i pubblici ministeri che indagano per venire a capo della morte del trentenne romano, hanno ascoltato i carabinieri e gli agenti coinvolti, ma nessuno ha raccontato le percosse né di aver notato nulla di particolare. Anzi, gli uomini dell’Arma dicono di essersi allontanati per sbrigare doveri d’ufficio, e di aver rivisto Cucchi solo per portarlo davanti al giudice, tra le 12.30 e le 12.50. Secondo le testimonianze di altri detenuti è prima di allora che il giovane sarebbe stato aggredito, ma sono dichiarazioni che gli inquirenti giudicano ancora confuse, alcune contraddittorie. E ce ne sarebbero altre, al momento giudicate altrettanto vaghe e imprecise, secondo cui Cucchi avrebbe confidato di essere stato picchiato "ieri sera". Prima di arrivare in tribunale, dunque.

Gli stessi carabinieri affermano di non aver notato "alterazioni fisiche" quando l’hanno accompagnano in udienza. Come l’avvocato d’ufficio, il pubblico ministero e il giudice di fronte ai quali è stato convalidato l’arresto di Cucchi. Strano, perché all’inizio di questa storia il padre aveva detto di aver visto suo figlio Stefano col "viso gonfio e segni sotto gli occhi" già in aula; e i carabinieri hanno riferito di aver chiesto all’arrestato se voleva farsi controllare in ospedale prima di andare in tribunale. Perché, se ancora non stava male?

L’udienza termina alle 13.30, quando Stefano Cucchi - secondo la relazione ministeriale - "viene preso in carico dalla polizia penitenziaria". Stavolta in esclusiva, i carabinieri non c’entrano più con una persona ormai detenuta a tutti gli effetti. La quale mostra o dice quasi subito di sentirsi male, tanto che viene chiamato il medico in servizio al palazzo di giustizia. Più o meno alle 13.40, come risulta ancora dalla relazione dell’Amministrazione carceraria: un commissario della penitenziaria, infatti, ha comunicato "per le vie brevi" (a voce) che "il medico sarebbe stato chiamato dal personale, su richiesta del detenuto, subito dopo l’avvenuta consegna e sarebbe sopraggiunto dopo una ventina di minuti ". La visita è rapida, il certificato viene redatto alle 14.05.

Il dottore certifica che Cucchi prende una compressa di Rivotril, farmaco con cui si cura abitualmente l’epilessia. E oltre alle "lesioni ecchimotiche in regione palpebrale di lieve entità", cioè intorno agli occhi, annota la denuncia di "dolore e lesioni anche alle regioni sacrali e agli arti inferiori" da parte del detenuto, che però rifiuta "l’ispezione" e racconta, "evasivamente ", l’ormai nota "accidentale caduta per le scale, avvenuta ieri".

Considerati i tempi davvero stretti tra la fine dell’udienza e la chiamata del medico, l’ipotesi che Cucchi sia stato preso a botte dopo l’incontro col giudice appare inverosimile. Più plausibile che sia accaduto nell’attesa precedente, anche se in aula - ufficialmente - nessuno s’è accorto di niente. Nonostante i racconti di un paio di detenuti, con alcuni particolari che non tornano, su quelle tre ore gli inquirenti non sono ancora riusciti a fare sufficiente chiarezza. Devono districarsi tra le varie testimonianze, e sperano di avere qualche elemento in più dalla perizia medica che sarà affidata oggi. Vorrebbero sapere, tra l’altro, se il tipo di lesioni che aveva Stefano Cucchi quando è morto potevano provocare il dolore e altri effetti nell’immediatezza, una o due ore dopo, in un lasso di tempo maggiore; un particolare importante per addentrarsi nella "vigilanza e movimentazione congiunta" di carabinieri e agenti penitenziari, provare a disgiungerla ed attribuire eventuali responsabilità. Oppure per cercare in altri luoghi e in altri orari.

Giustizia: gli agenti penitenziari danno la colpa ai Carabinieri

di Carlo Bonini

 

La Repubblica, 13 novembre 2009

 

Sui fatti di piazzale Clodio e la morte di Stefano Cucchi, la faccia ce la mette ora Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria). "Per dare conto - dice - di un fatto". "C’è una pessima aria di caccia alle streghe.

E siccome mi ribello ad un linciaggio di colleghi fino a prova contraria innocenti, siccome il clima nelle carceri inizia a diventare davvero pesante, è meglio allora che tutti sappiano cosa ha detto davvero Stefano Cucchi il pomeriggio del 16 ottobre lasciando le celle di sicurezza del tribunale di Roma. Cucchi - e lo hanno sentito i quattro agenti che lo trasferivano a Regina Coeli - si rivolse al detenuto africano con cui era ammanettato, il cosiddetto testimone, e non gli disse semplicemente "Guarda come mi hanno ridotto". Gli disse: "Guarda come mi hanno ridotto ieri sera". "Ieri sera", chiaro? Ecco, non mi pare debba aggiungere altro".

Se davvero sono state pronunciate, quelle due parole - "ieri sera" - rianimano evidentemente il sospetto sui carabinieri che ebbero in custodia Stefano per l’intera notte del 15 ottobre. Resuscitano la suggestione temporale annotata nel primo referto medico redatto alle 14.05 del 16 ottobre da Giovan Battista Ferri, il medico che visita Cucchi a piazzale Clodio, lì dove si legge che "il detenuto riferisce di una caduta dalle scale alle 23 della sera precedente".

È un fatto che i quattro agenti del Nucleo traduzioni della polizia penitenziaria cui Beneduci fa riferimento, interrogati dalla Procura della Repubblica, quelle parole le abbiano messe a verbale. Collocando il colloquio tra Stefano e il detenuto africano S. Y. (il ragazzo che riferisce di aver visto il pestaggio di Cucchi nel corridoio delle camere di sicurezza) intorno alle 15 del 16 ottobre, quando i due, ammanettati allo stesso schiavettone, lasciano i sotterranei di piazzale Clodio per salire a bordo del furgone della Penitenziaria che li deve trasferire nel carcere di Regina Coeli. Di più: circostanziando quello scambio di confidenze con ulteriori elementi che indicherebbero nei carabinieri i destinatari dell’accusa di Cucchi.

Del resto, la testimonianza dei quattro agenti penitenziari si somma e sostiene il racconto che ai pm hanno fatto altri tre agenti. Quelli che la mattina del 16 erano comandati alle camere di sicurezza nei sotterranei del Palazzo di Giustizia. Un addetto alle quindici celle. Un piantone alla porta di ingresso della sezione. Un soprintendente. La loro ricostruzione delle ore che vanno dalle 9.30 alle 13.30 non coincide, se non in minima parte, con quella, per altro assai dettagliata, proposta dai quattro carabinieri delle compagnie "Casilino" e "Appio" che quella mattina scortarono in tribunale Cucchi e due detenuti albanesi ("Repubblica" ne ha dato ampio conto ieri). "Non è vero - sostengono infatti i tre agenti penitenziari - che i carabinieri si allontanarono per l’intera mattina dalle camere di sicurezza". "Al contrario - spiegano - le due "scorte" si alternarono nella zona delle celle", dove per altro, quella mattina, "i detenuti in attesa di processo per direttissima erano venti".

Anche perché - e gli agenti ne avrebbero prodotto copia ai pm - una disposizione che risale al 2004 e firmata dall’allora presidente del tribunale Scotti, prescrive che chi è in attesa di giudizio per direttissima debba essere guardato a vista da chi ne ha effettuato l’arresto. Non sarebbe vero, dunque, che il maresciallo T. e il carabiniere A. apparvero nei sotterranei di piazzale Clodio soltanto una volta, intorno alle 11, per accompagnare a processo i due albanesi. Né sarebbe corretta l’ora - "le 12.50" - che gli stessi carabinieri indicano come il momento in cui Cucchi venne prelevato dalla camera di sicurezza per raggiungere l’aula del dibattimento, perché su questo punto farebbe fede il verbale di udienza che indica nelle 12.30 l’inizio del processo.

Ora, gli ingressi e le uscite dalla sezione che ospita le camere di sicurezza sono videosorvegliati da una telecamera collocata all’entrata. Dunque non dovrebbe essere difficile per la Procura ricostruire con le immagini registrate se e che tipo di traffico ci fu la mattina del 16 ottobre. Se, insomma, a ricordare bene sono i carabinieri o gli agenti di piantone alle celle. È evidente, tuttavia, che sia la testimonianza dei tre agenti penitenziari comandati alle celle, così come quella dei loro quattro colleghi che avrebbero ascoltato le confidenze di Cucchi durante il trasferimento a Regina Coeli, intendono ricacciare nel cono del sospetto i carabinieri, indicandoli come protagonisti in entrambi gli scenari possibili dell’aggressione. Se avvenuta la notte del 15 ("Guarda come mi hanno ridotto ieri sera"), perché unici custodi di Stefano.

Se avvenuta la mattina del 16, perché presenti nei sotterranei di piazzale Clodio, dove - questa la suggestione - i testimoni li avrebbero ben potuti confondere con le "guardie" della Penitenziaria. Un brutto affare, che ha già liberato e continuerà a liberare molti veleni. E in cui, tuttavia, gli avvisi di garanzia che la Procura si prepara a notificare oggi dovrebbero cominciare a mettere qualche primo punto fermo.

Giustizia: i Carabinieri danno la colpa agli agenti penitenziari

 

La Repubblica, 13 novembre 2009

 

Chi sono e come si muovono i carabinieri che la mattina del 16 ottobre hanno in consegna Stefano Cucchi? La Procura della Repubblica ne individua quattro e ne raccoglie le testimonianze in due momenti diversi (due di loro sono stati sentiti una seconda volta sabato scorso). Per scoprire che nel loro racconto - come del resto in quello di S., il detenuto africano testimone del pestaggio - nei sotterranei del palazzo di Giustizia in cui Cucchi comincia a morire le uniformi continuano ad avere un solo colore. Quello della Polizia penitenziaria.

I quattro carabinieri - vedremo perché - riferiscono di non aver potuto vedere, né sentire cosa accade nel corridoio delle camere di sicurezza tra le 9.30 e le 12.50 di quella mattina. Di non aver usato con quel ragazzo "nessuna forma di violenza", né "fisica", né "psicologica". Documentano di essersi congedati da Cucchi alle 13.30, convinti di aver riconsegnato alle celle, dopo il processo per direttissima, un "soggetto in buono stato di salute e idoneo alla detenzione". La mattina del 16 ottobre, dunque.

Alle 9.20, Stefano Cucchi - che una nota interna all’Arma vuole con la schiena non ancora spezzata perché "capace di vestirsi e stringersi le stringhe delle scarpe da solo" - lascia la camera di sicurezza della caserma di Tor Sapienza (dove ha trascorso la notte) diretto al tribunale. È su una macchina con due carabinieri: M. ed S. (sono le iniziali del cognome che "Repubblica" conosce). Stefano li vede per la prima volta, perché inquadrati in una "compagnia" (la "Casilino"), diversa da quella cui appartengono i cinque militari che, la notte prima, lo hanno arrestato (la "compagnia Appio"). M. ed S. riferiscono che, "durante il tragitto", il ragazzo "interagisce normalmente" e rifiuta la proposta di un controllo in ospedale prima di raggiungere il Tribunale. Cucchi, insomma, è vigile.

Ha fretta di andare a processo. Intorno alle 9 e 30, la macchina con a bordo Cucchi è nel garage del Tribunale. E qui, incontra una seconda auto dei carabinieri. Ne scendono due cittadini albanesi, fermati come Stefano la notte precedente, e due militari che li accompagnano. Sono il maresciallo T. e il carabiniere A., della "compagnia Appio". Stefano li riconosce perché sono due dei cinque militari che lo hanno arrestato la sera precedente al parco degli Acquedotti e che dovranno comparire con lui nell’aula della "direttissima". Poco dopo le 9.30 - riferiscono T. ed A. - Cucchi e i due albanesi "vengono consegnati agli agenti della penitenziaria" di piantone alle camere di sicurezza nei sotterranei del Palazzo di Giustizia.

La porta blu cobalto che introduce alle celle si richiude alle loro spalle e i quattro carabinieri (i due della "compagnia Casilino", i due della "Appio") lasciano i sotterranei. A stare alla loro testimonianza, due raggiungono l’ufficio arrestati per depositare i verbali di fermo di Cucchi e degli albanesi. Un terzo è impegnato a consegnare negli uffici del perito del tribunale lo stupefacente sequestrato a Stefano al momento dell’arresto ("20 grammi di hashish, 2 grammi di cocaina, 1 spinello, 2 pasticche di ecstasy").

L’ultimo è "all’ufficio postale" interno al palazzo di Giustizia per "depositare su un libretto infruttifero i 90 euro confiscati durante l’arresto". Insomma, per almeno un’ora, nessuno dei quattro è neppure nei paraggi delle celle di sicurezza dove Cucchi ha cominciato la sua attesa. Il maresciallo T. e il carabiniere A. tornano infatti alle camere di sicurezza intorno alle 11 "soltanto per accompagnare in aula" i due albanesi di cui è stato "chiamato" il processo. Pratica che richiede un qualche tempo. T. ed A. riferiscono infatti che "il cancelliere della settima sezione", una volta chiusa l’udienza, li invita "a trattenersi in aula" per attendere e sollecitare la perizia sullo stupefacente del processo Cucchi.

Cosa che i due fanno, "contattando telefonicamente" il carabiniere che è rimasto negli uffici del perito. La porta che dà sulle celle dei sotterranei torna dunque ad aprirsi ai carabinieri soltanto alle "12.50", perché è questa l’ora in cui T. e A. dicono di essere stati "chiamati" dagli agenti della penitenziaria per l’accompagnare Cucchi in aula.

Nel ragazzo dicono di "non notare nessuna alterazione fisica". Confermano il suo nervosismo per l’esito del processo e indicano l’ora del congedo dal padre in aula, quando sono ormai "passate le 13.15". Stefano Cucchi, ora, è di nuovo da solo con i carabinieri. E percorre a ritroso la strada per i sotterranei insieme ai 4 i militari con cui è arrivato in tribunale. In una discesa - dicono - "senza problemi". Che, ad un certo punto, li vede separarsi. Due carabinieri si dirigono verso il garage "per recuperare gli effetti personali di Cucchi rimasti in macchina".

Il maresciallo T. ed A., sbrigano invece le formalità di consegna al Nucleo traduzioni che attende nei sotterranei. Sono le 13.30. "Il soggetto è in buono stato di salute e idoneo alla detenzione". Se ha già la schiena spezzata (come lascerebbe presumere la testimonianza del detenuto africano S. che colloca il pestaggio nella tarda mattinata), i carabinieri non se ne sono accorti. Se è ancora intera, chi sta per rompergliela lo farà nei venti minuti che stanno per cominciare. Prima che, alle 14, il medico del tribunale venga chiamato nei sotterranei.

Giustizia: Opg; storia di un manicomio, di 2 uomini e un letto

di Dario Stefano Dell’Aquila (Antigone Napoli)

 

www.linkontro.info, 13 novembre 2009

 

L’Ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli è ospitato nella stessa struttura del carcere di Secondigliano. Da qui in poi lo chiameremo manicomio giudiziario, per comodità narrativa e per maggiore attinenza con la realtà. Lunedì 9 novembre, la nostra visita ha incrociato due storie che è difficile anche solo immaginare. La prima è di R.H., appena 21, che incontriamo seminudo, in una cella liscia. Il blindato è chiuso e la cella è spalmata di feci (scusate il termine, ma è così). Chiediamo di farci aprire il blindato, la cella è apparentemente vuota. Bussiamo e dopo un po’ dal bagno, dove si è rifugiato per il freddo, spunta R. Allunga la mano, chiede una sigaretta, comincia a parlare.

È presente, orientato, risponde a senso, visibilmente scosso. Ha un fratello a Modena, forse una ragazza, vuole tornare lì. Da sei giorni è così nudo, in una cella sempre più sporca. R. per protesta cosparge delle proprie feci i muri della stanza, la tira dietro a chi sente come minaccia. Agenti e psichiatri rimangono fermi a quattro metri di distanza mentre parliamo con lui. Da giorni nessuno gli parla, eppure i suoi compagni internati sembrano riuscire ad avere un rapporto con lui. La storia che ci racconta e che poi ricostruiamo dai registri è dura. Appena giunto nel manicomio giudiziario R. è stato legato al letto di contenzione, per quattro giorni filati.

Gli è stata somministrata una terapia che non sappiamo, perché decifrare la grafia di uno psichiatra (che non c’è al momento della visita) è una cosa fuori dalla nostra portata. Dalla cella di contenzione è andato direttamente in cella liscia senza che nessun medico si interrogasse sul suo disagio, lasciandolo chiuso, isolato a dormire nudo per terra, senza posate per mangiare e bicchieri per bere. E quel che è peggio che a tutti questa pareva l’unica soluzione possibile. Il giorno dopo la nostra visita la cella è stata ridipinta.

G.R. ha invece un’altra storia che si intreccia con la nostra visita. Ha tentato il suicidio venerdì e allora, come premio forse o come terapia, è stato legato al letto di coercizione. Poi dopo due giorni, forse perché le sue condizioni sono migliorate sapendo che arrivavano ospiti, è stato liberato, alle ore 10.00 risulta dal registro di coercizione del reparto, mentre la delegazione attendeva da circa 40 minuti nella sala esterna che fosse autorizzato l’ingresso. Ma del resto sappiamo che la lettura di tre carte d’identità è impegnativa. Quando abbiamo visitato al cella con il letto di contenzione abbiamo visto le coperte ancora sfatte (e non vi sto qui a raccontare l’odore) e i moschettoni per le cinghie in posizione per l’uso.

Su entrambe le vicende è stata presentata un’interrogazione all’Assessore regionale alla Sanità, considerato che la parte dell’assistenza psichiatrica è, o meglio dovrebbe, essere compito delle Asl. Ci sarebbe anche da raccontare degli altri 125 internati di questo manicomio la cui unica attività sembra essere quella di ciondolare nei corridoi (quando le celle sono aperte) per i più attivi, di giacere stesi a letto per i cronici, di rimanere chiusi sempre in cella per i "problematici", di fumare, e questo vale per tutti, una sigaretta dopo l’altra fino a che le dita divengono gialle.

Certo ci sarebbe ancora molto da dire, ma viene spontaneo chiedersi se c’è ancora qualcuno disposto ad ascoltare o se dobbiamo rassegnarci a queste terre di mezzo, tra il carcere e il manicomio, che solo per inganno portano il nome di ospedale.

Giustizia: Idv; "dare pace" alla famiglia di Manuel Eliantonio

 

www.politicamentecorretto.com, 13 novembre 2009

 

Stefano Cucchi, Federico Aldovrandi, Manuel Eliantonio sono nomi di ragazzi scomparsi prematuramente. Tutti uniti - affermano il presidente e il coordinatore comunale dell’Italia dei Valori, Mario Parenti e Maurizio Ferraioli - in una comune tragedia: quella di perire col dubbio che sulla loro morte ci siano delle responsabilità da individuare e condannare. Ragazzi con i loro pregi e difetti, con il loro vissuto, che sono stati strappati alle loro famiglie che sono state trattate come se non contassero niente o poco di più.

L’Idv spezzino è convinto che l’Italia possa risollevarsi solo se avrà le capacità di trovare una classe dirigente che sappia dare le risposte ai grandi e piccoli misteri che rendono inquieta e insicura la vita del singolo cittadino.

Non è possibile che un cittadino esca di casa e non ne faccia più ritorno e che sulla sua scomparsa aleggino dei seri dubbi comportamentali delle istituzioni. Corpi restituiti alle famiglie pieni di lividi ed ecchimosi, genitori ai quali viene nascosta la verità, perché tutto questo? Chi sbaglia deve essere perseguito dalla legge nel modo più assoluto, chi sbaglia deve scontare la pena completa , ma nessuno deve toccare Caino. In un paese dove la parola democrazia riempie ogni azione e reazione , si deve recuperare la sicurezza e il rispetto verso le forze dell’ordine ,non avendo paura di affrontare il tema delle possibili mele marce che inquinano il sistema. Tutto il sistema giudiziario e carcerario, probabilmente, deve essere rivisto, assicurando ai lavoratori del ramo il giusto riconoscimento ma tenendo fermo il principio che chi abusa del suo potere a danno di altri deve essere colpito duramente e ancora di più se è un rappresentante delle forze dell’ordine. Sulla storia di Manuel Eliantonio solo l’Italia dei Diritti presieduta da Antonello De Pierro cercò di sapere qualche cosa di più, nessuno si mosse, nessun politico dal nome altisonante, nessun Ministro, nessuno.

La vicenda iniziò la sera del 23 dicembre del 2007 quando un’autovettura con cinque ragazzi, uno di loro era Manuel, viene fermata dalla polizia stradale in un autogrill della A6 Torino - Savona. Manuel fu l’unico a reagire al fermo e a fuggire. Questo lo portò in carcere con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale. Il 16 gennaio gli vennero concessi gli arresti domiciliari, revocati due mesi dopo per non aver rispettato l’obbligo di dimora. Da quel momento in poi iniziò il suo calvario. Dopo essere stato condannato a 5 mesi e 10 giorni, morirà suicida, secondo gli atti, nel successivo mese di luglio. Ma a contraddire le pratiche, ormai chiuse con il lucchetto dell’omertà, i segni visibili sul corpo della vittima: lividi, percosse e tracce di sangue che sembrerebbero stridere con la presunta causa del decesso. Sarebbe morto, infatti, dopo aver ingerito una corposa dose di butano.

A nulla è servita la reazione della madre che ha prontamente denunciato l’accaduto, dichiarando che il ragazzo avesse timore di qualsiasi tipo di gas e portando alla ribalta delle cronache il fatto che la notifica del decesso sia giunta alla famiglia con una semplice telefonata, che invitava oltretutto la donna a non recarsi nel carcere in cui suo figlio era detenuto, perché la sua vita non esisteva più. E infatti al suo posto, la madre ha trovato, raggiungendo immediatamente l’obitorio del San Martino a Genova, il corpo esanime di un 22enne, come freddamente annunciato dalla comunicazione telefonica. A sostenere la tesi dei famigliari, ovvero che Manuel non si sia suicidato, una lettera da lui firmata e giunta alla madre che parlerebbe di abusi nei suoi confronti. Sembra infatti che subisse percosse e fosse costretto a ingerire psicofarmaci.

Al di là delle giuste motivazioni che hanno portato all’arresto di Manuel secondo noi deve essere fatta luce sulla sua morte anche perché, in uno stato di diritto, è giusto che i familiari abbiano le risposte che attendono. Manuel era affidato alle Istituzioni. L’Italia è già piena di piccoli e grandi misteri e ci pare impensabile che non si riesca a fare luce su una vicenda alquanto strana o almeno apparentemente strana.

Nessuna accusa ma deve anche essere chiaro che se qualcuno ha sbagliato deve pagare e lo stesso rigore che si chiede nel reprimere reati come quello commesso da Manuel deve essere usato per scoprire e punire eventuali responsabilità. Da questa vicenda potrebbe inoltre emergere il grande problema del super affollamento delle carceri e pur confermando la nostra posizione sulla certezza della pena resta anche indispensabile costruire nuovi edifici carcerari per consentire che la reclusione rispetti comunque i diritti civili dei detenuti. La morte di Manuel è avvenuta all’interno delle mura carcerarie, il suo corpo sembrava martoriato e pieno di ecchimosi, vogliamo dire alla famiglia cosa è successo? Ci sembra il minimo per dare pace alla famiglia ed all’anima di Manuel.

Giustizia: i detenuti scrivono alla madre di Giuseppe Saladino

 

www.gazzettadiparma.it, 13 novembre 2009

 

Il primo pezzo di verità sulla morte di Giuseppe Saladino arriverà dall’autopsia il cui esito sarà depositato entro il 9 dicembre. Ma il legale della famiglia Letizia Tonoletti sembra escludere, per ora, l’ipotesi dei maltrattamenti in carcere, anche se rimane da spiegare l’esistenza di un ematoma sul corpo del giovane. L’ipotesi più probabile potrebbe essere quella di un abuso di farmaci, forse assunti in dosi sbagliate. L’indagine dovrà anche capire se il giovane abbia assunto droga nelle ore precedenti la morte, in particolare se lo abbia fatto nel pomeriggio quando incontrò la sua ragazza fuori dalla propria abitazione, dove era agli arresti domiciliari.

Dal carcere alcuni detenuti hanno scritto lettere a Rosa Martorano, la madre di Giuseppe Saladino. "Mi dispiace tanto per suo figlio, se vuole mi può chiedere quello che vuole - dice una delle lettere -. Io con suo figlio non ero entrato molto in confidenza, ma l’ultima volta che l’ho visto era molto contento di tornare a casa, spero che presto si possa chiarire la situazione". Un altro detenuto scrive: "Salve signora, conosco bene Giuseppe. Quando è tornato da Reggio era molto più tranquillo, poi è stato spostato in cella con Nicola, dove adesso sono io. Quando ha saputo di tornare a casa era molto contento. Nonostante sono detenuto sarò felice di farle sapere qualsiasi cosa può aiutare a fare giustizia, perché Geppo lo merita. Le faccio le mie più sentite condoglianze".

Spunta anche un suicidio sospetto, avvenuto in giugno sempre all’interno dell’ istituto di via Burla, e di cui si parla oggi sulla Gazzetta in edicola. "Impiccamento atipico e incompleto, cioè con gli arti inferiori poggianti sul pavimento": così la perizia medico-legale chiesta dalla procura di Parma nell’ambito dell’inchiesta sulla morte del detenuto Camillo Bavero, 49 anni, di Napoli, trovato impiccato alle sbarre della sua cella nell’ala di isolamento del carcere il 28 giugno scorso. La procura ha aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio e in tempi recenti ha chiesto l’archiviazione del fascicolo.

Ma la famiglia si è opposta, proprio in seguito ai risultati della perizia medico-legale commissionata dagli inquirenti. Altro elemento che suscita interrogativi è che Bavero prima del suicidio aveva ottenuto l’affidamento ai servizi sociali e stava quindi per uscire dal carcere. L’uomo, che era affetto da problemi psicotici gravi, aveva tentato il suicidio già altre volte. I familiari sostengono che, proprio sulla base di questi ripetuti tentativi di suicidio, Bavero non avrebbe dovuto essere in isolamento. Sempre nel carcere parmigiano, il 27 ottobre si è ucciso in cella Francesco Gozzi, 52 anni, affiliato alla cosca Latella di Reggio Calabria. L’uomo stava scontando l’ergastolo in regime di 41 bis e si è tolto la vita impiccandosi con una corda fatta di lenzuola.

Umbria: Sindacati; situazione delle carceri potrebbe esplodere

 

Ansa, 13 novembre 2009

 

"La situazione delle carceri umbre continua ad essere molto critica e vicino all’esplosione di possibili conflitti o incidenti": a denunciarlo, ed a confermare lo stato di agitazione di tutto il personale penitenziario umbro, sono i sindacati del settore (Fp-Cgil, Uil-Pa, Sinappe e Sappe), dopo aver incontrato l’assessore regionale Damiano Stufara, che li ha messi al corrente della risposta alla nota da lui inviata al capo dipartimento dell’amministrazione penitenziara, Franco Ionta, sull’emergenza carceri in Umbria.

"Ancora una volta, dalla risposta - affermano i quattro sindacati in un comunicato congiunto - si apprende come nessuna fattiva soluzione è stata data al problema della carenza di personale di polizia penitenziaria, una carenza che, dai dati forniti dallo stesso provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, risulta essere di ben 210 unità per la casa circondariale di Perugia, considerando una turnazione di lavoro sviluppata su quattro quadranti, così come previsto dal contratto nazionale di lavoro".

Gli stessi sindacati riferiscono poi che "la popolazione detenuta a Spoleto è di circa 500 unità, mentre a Perugia i detenuti sono ben oltre le 500 unità. In particolare, appare grave, anche per la specifica connotazione dell’istituto di Spoleto, la mancanza di personale. Le otto unità preannunciate dal capo dipartimento non andranno neanche a coprire i pensionamenti già annunciati, venendosi a creare quindi una carenza cronica di ben 70 unità. Non ci sono ormai più spazi per azioni di razionalizzazione o riorganizzazione. L’orario di lavoro sfocia continuamente in straordinario e il personale non è più sufficiente a garantire condizioni di normalità, lo stato di emergenza è ormai paradossalmente normale. Accanto a ciò - concludono i sindacati - mancano risorse per le attività trattamentali e per garantire esigenze primarie alla popolazione detenuta, di cura e igiene quotidiana".

Vercelli: detenuto 43enne suicida, ma con modalità "anomale"

 

Ansa, 13 novembre 2009

 

Un detenuto, Massimo Gallo, 43 anni, si è suicidato ieri nel carcere di Vercelli. L’uomo - secondo quanto si è appreso - è stato trovato impiccato nel sottoscala che conduce al cortile dei passeggi del carcere. Gallo - secondo una prima ricostruzione - avrebbe portato con se un lenzuolo che avrebbe annodato all’inferriata di un cancello inutilizzato del sottoscala e si sarebbe suicidato.

"Il suicidio di Massimo Gallo, il 43enne detenuto che si è suicidato ieri nel carcere di Vercelli, dimostra ancora una volta che il carcere è sempre più invivibile. Dietro le sbarre si violano i diritti della Costituzione e la pena non è certo per riabilitare". È il commento del garante dei detenuti del Lazio Angelo Marroni, che sottolinea come ormai i suicidi all’interno dei penitenziari, alla fine di ottobre, abbiano raggiunto il numero dei suicidi di tutto il 2008.

"Come prevedevo il numero è in aumento - ha spiegato Marroni - ma è difficile valutare le condizioni psicofisiche di chi si toglie la vita dietro le sbarre. Se si segue un detenuto sin dall’inizio, quando mostra i primi segni di disagio, c’è una possibilità di salvarlo. Ma se non mostra alcun segno, è difficile impedirlo. Il carcere di certo non aiuta: i detenuti sono lontani dalle famiglie, senza prospettive e speranze".

Catanzaro: detenuto morì per appendicite, "nessuno pagherà"

 

Ansa, 13 novembre 2009

 

"Hanno fatto morire mio fratello per un’appendicite e sono stati cattivi con lui sino a dopo la morte". La morte in carcere di Stefano Cucchi fa riesplodere la rabbia di Paola Mosciaro. Suo fratello, Emiliano, morì nell’agosto del 2003 nell’ospedale di Catanzaro dove era stato trasferito dal carcere catanzarese di Siano a causa di una peritonite acuta con stato di necrosi avanzata. Per la morte dell’uomo, che era di Cosenza, due medici del carcere sono sotto processo per omicidio colposo. Secondo l’accusa, i due non avrebbero messo in atto terapie adeguate per evitare che l’appendicite degenerasse nella peritonite che uccise Mosciaro.

"Sono convinta - dice adesso la donna - che nessuno pagherà per la morte di mio fratello. Sono passati sei anni ed ancora non siamo a niente. Il processo va avanti a suon di rinvii.

Ormai spero solo nella giustizia divina perché in quella umana non ci credo più da tanto tempo. Si spera sempre che cambi qualcosa, ma poi la speranza muore. Quello che è successo a Stefano Cucchi è qualcosa di disumano".

"Anche dopo morto - ricorda la donna - c’erano gli agenti della polizia penitenziaria a guardare il corpo di Emiliano e ci fecero allontanare. Dovemmo aspettare l’autorizzazione del giudice per poter piangere mio fratello. Questa cattiveria mi rimarrà dentro per tutta la vita".

Cagliari: al Buoncammino sovraffollamento e poco personale

 

Agi, 13 novembre 2009

 

Sovraffollamento, carenza di personale militare e civile e poche occasioni di lavoro per i detenuti. Così è apparsa, dopo un sopralluogo, la situazione del carcere cagliaritano di Buoncammino alla Commissione Diritti civili (Seconda) del Consiglio regionale, presieduta da Silvestro Ladu (Pdl).

"Andrebbe risolta al più presto la pesante carenza di personale, sia militare che civile, (quest’ultima è stimata in almeno il 50%) perché questa situazione di precarietà", dichiara Ladu, "si ripercuote negativamente all’interno del carcere. Infatti, accade che i concorsi per il personale civile vengano fatti a Roma e vi partecipino, prevalentemente, persone della penisola che, dopo un primo periodo in Sardegna, chiedono il trasferimento. Per questo insisteremo per la regionalizzazione dei concorsi". "Il sovraffollamento, di circa 200 unità sui 547 reclusi, determina una condizione insostenibile che riduce di molto di spazi di libertà per detenuti e operatori", prosegue Ladu.

"Mancano le occasioni di lavoro che consentirebbe loro di poter guadagnare qualche soldo, e tenere impegnata la giornata. Ma sono i numeri che ci hanno colpito", evidenzia il presidente della commissione. "Infatti, 203 sono gli agenti di polizia penitenziaria che, attraverso una turnazione quotidiana in cui si tiene conto di malattie, ferie e giornate di riposo (spesso non godute), devono seguire 547 detenuti, di cui 37 sono ad alta sicurezza, 26 sono donne, 207 tossicodipendenti, 40 in trattamento con metadone, 204 con patologia psichiatrica, 29 con Hiv conclamato e 39 ricoverati nell’infermeria".

Quanto alla condizione sanitaria dei detenuti, "è auspicabile che da primo gennaio 2010, quando questa competenza passerà alla Regione, le cose possano migliorare - precisa Ladu - e ci adopereremo affinché il cambio del sistema abbia effetti positivi".

La Commissione ha anche visitato il carcere minorile di Quartucciu. "Qui la situazione è certamente migliore", ha riferito Ladu. "I ragazzi sono 17 su una capienza di 23 seguiti da 22 agenti sui 29 a disposizione solo tre sono sardi, qualcuno proviene dalla penisola, altri sono extracomunitari. Alcuni lavorano nella lavanderia della struttura, altri fanno lavori di pelletteria, falegnameria, e giardinaggio. Molti frequentano la scuola, in particolare corsi di informatica. La direzione, inoltre, ha chiesto l’intervento della Regione per poter programmare alcuni corsi professionali all’interno del carcere".

"Con tutta la Commissione", conclude il presidente, ci attiveremo per trovare una soluzione al problema finanziario. Esamineremo in maniera approfondita i dati raccolti e ne informeremo gli organi competenti, chiedendo un impegno forte e immediato al governo".

Ferrara: il Garante; anche in carcere c’è un’emergenza lavoro

di Sergio Armanino

 

La Nuova Ferrara, 13 novembre 2009

 

Lontana dalla ribalta, vicina ai detenuti. È questa la principale caratteristica di Federica Berti, nel gennaio 2008 eletta dal consiglio comunale cittadino garante dei carcerati all’Arginone. Certo, la sua attività le impone passaggi pubblici, ma lei resta schiva, il suo rapporto con i media è secondario e, per certi versi, conflittuale. E lo spiega: "Riportare in prima pagina il "mostro" quando viene scarcerato, in via definitiva o per accedere a programmi di reinserimento, crea problemi, specie di sicurezza: talvolta si è dovuto riportare in carcere chi avrebbe potuto uscirne".

Al di là di questo aspetto, la Berti non ha alcuna difficoltà a rendere pubblici i vari aspetti del suo operato. Dottoressa Berti, iniziamo chiarendo qual è il suo ruolo. "Io sono psicologa e ho partecipato al bando indetto da Comune e Provincia di Ferrara per diventare garante dei detenuti all’Arginone. Alle spalle avevo un’esperienza svolta nel carcere di Rovigo, che ha sezioni maschili e femminili, ma con un ruolo diverso: seguivo progetti e volontariato".

 

Mentre a Ferrara quali sono le sue incombenze?

"Quella del garante è una figura che ho dovuto costruire io stessa, essendo nuova. L’ha dovuta capire chi l’ha istituita, così come l’istituzione carceraria: il direttore dell’Arginone ha dovuto prendere decisioni in base alla normativa, che fino al 2008 prevedeva l’ingresso in carcere solo dei volontari, e certo non poteva aprire le porte al primo che passa".

 

Quindi c’è stata una fase di rodaggio: anche con i detenuti?

"La parola "garante" fa immaginare un ruolo di garanzia che invece non c’è: non bisogna creare false aspettative ai detenuti. Anche per questo, a fronte di alcune problematiche, ho deciso di non rivolgermi ai giornali, ma aspettare che il tempo e la conoscenza reciproca appianassero certe difficoltà, sia con l’istituzione carceraria, sia con gli enti di riferimento".

 

Nel frattempo è cambiato anche il quadro legislativo.

"Con la modifica dell’ordinamento penitenziario il garante è stato equiparato a parlamentari e consiglieri regionali per l’accesso al carcere: possiamo entrare senza più preavvisi o autorizzazioni, e i colloqui sono aperti a tutti i detenuti, tranne quelli sottoposti a regime di 41 bis".

 

E lei come coglie questa opportunità?

"Vado in carcere una volta alla settimana, per incontrare i detenuti, ma anche le aree educativa, sicurezza e sanitaria".

 

Si parla di lei come persona molto combattiva...

"Servono molta costanza, pazienza e fermezza nel perseguire gli obiettivi, assieme alla conoscenza della direzione e dei detenuti. Loro sanno che quando vengono da me possono parlare di qualsiasi cosa, ma le mie competenze sono limitate: c’è un magistrato di sorveglianza, con il quale ho ottimi rapporti e m’incontro periodicamente, a cui talvolta porto delle comunicazioni, ma non interferisco con la sua attività".

 

L’impressione è che la sua sia una sorta di "navigazione a vista".

"In Italia non esiste la figura del garante nazionale, siamo indietro rispetto al resto d’Europa, anche se c’è collaborazione con i vertici del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), il ministero e le altre istituzioni con cui veniamo a contatto. E c’è sempre stata collaborazione con la direzione carceraria: se le cose si chiedono assieme si ha più forza, altrimenti non si ottiene nulla".

 

Ad esempio?

"Abbiamo chiesto più docce per i detenuti (ce ne sono due per piano, se ne servono oltre settanta detenuti, ndr), in sinergia con la direzione e mettendo a conoscenza della problematica il magistrato di sorveglianza".

 

Cosa emerge dai colloqui con i detenuti?

"Svolgo incontri con singoli e con gruppi e, mi preme specificarlo, io non chiedo mai per quale reato sono in carcere, perché mi rapporto con loro in quanto persone: poi, qualcuno me lo vuole raccontare, qualcun altro no. Emergono problemi pensionistici, ad esempio come ottenere il Tfr (trattamento di fine rapporto lavorativo) o gli assegni familiari e per questo da novembre è stato istituito un rapporto con i patronati Inca Cgil, Epaca e Acli, che si turnano settimanalmente e danno assistenza. Hanno bisogno di risolvere problemi pratici, spesso stando dentro perdono l’abitazione, il loro alloggio viene liberato, i mobili portati via...".

 

Dovendo individuare l’esigenza più pressante, quale indicherebbe?

"Il lavoro. Il ministero può retribuire i lavori svolti in cucina, le pulizie, chi va a fare la spesa per tutti, ma è poca cosa. Il direttore si è reso disponibile a portare lavoro dentro al carcere, ma non è facile trovarne di adeguati: ci sono regole a cui sottostare, su tutte la garanzia della sicurezza".

 

L’Arginone è sovraffollato oltre ogni limite ragionevole e, al di là delle cinque nuove assegnazioni, la carenza di organico della polizia penitenziaria abnorme: quali le ripercussioni?

"Finora nessuna attività è stata bloccata, ma la situazione è drammatica. Solo seguire le pratiche di ciascun detenuto richiederebbe ben altre forze: lo psicologo, ad esempio, ha 32 ore settimanali per svolgere incontri e fare relazioni su 540 detenuti. In questo quadro, le attività da far svolgere ai detenuti sono fondamentali: dalla scuola al teatro, ma su tutte il lavoro è la più importante, perché 22 ore da trascorrere ogni giorno dentro una cella sovraffollata sono tante".

 

Dal punto di vista sanitario ci sono delle emergenze?

"Potrà sembrare strano, ma il problema più impellente è la carenza di occhiali. Ne hanno bisogno in tanti, ma non ci sono fondi sufficienti per acquistarli. L’Ausl passa i farmaci gratuitamente, anche quelli da banco, ma non gli occhiali. Ad esempio, c’è un ragazzo di 23 anni che va a scuola ma non ci vede...".

 

Quali altri problemi le rappresentano i detenuti?

"C’è chi ha perso i rapporti con i figli, nel senso che il tribunale gli ha tolto la potestà, e questo crea sofferenza, frustrazione. Poi, vorrebbero fare più attività, una richiesta sostenuta anche dalla polizia penitenziaria, perché, dopo averle svolte, i detenuti sono più tranquilli e, quindi, più gestibili: è anche una questione di sicurezza".

 

E per quanto concerne il reinserimento sociale?

"Dovrebbe iniziare assieme alla carcerazione, non solo nell’ultima fase di detenzione e dopo le dimissioni. Lo so che è un’utopia, ma servirebbe. Nel carcere di Ferrara ci sono molti detenuti con pene definitive, pur con un turnover enorme, e quando vengono dimessi è un problema collocarli in misure alternative. Ma è difficile strutturare programmi anche per il periodo precedente: se c’è una borsa lavoro che finisce, il magistrato di sorveglianza è costretto a far rientrare in carcere chi ne usufruiva e così si mette in moto un meccanismo vizioso: aumenta la frustrazione, cresce la necessità di vigilanza e dell’intervento dell’area educativa... Servono maggiori risorse per il reinserimento, è un investimento per la società: la recidiva, fra chi lavora, è molto bassa. Certo, non si può trovare lavoro per 540 detenuti, ma almeno per 50 sarebbe una manna, invece siamo alla metà".

 

Chi affolla il carcere dell’Arginone?

"In carcere adesso ci sono i poveri. Oltre il 50% sono non comunitari, circa 300 (62 tunisini, 60 marocchini, 45 albanesi e 40 nigeriani, i numeri più significativi, ndr), per lo più detenuti per reati legati a traffico e spaccio di droga. E poi ci sono i nuovi giunti, che sono sempre più giovani e sempre più spaventati: hanno bisogno di un grande sostegno, di cui si occupa il Sert, al quale compete la prevenzione suicidi e atti autolesionistici".

 

Con 540 detenuti, poca polizia penitenziaria con sempre maggiori incombenze e appena 4 detenuti semiliberi, la situazione dell’Arginone può definirsi esplosiva?

"Nonostante tutto questo, non registro un’atmosfera di tensione. I detenuti si stanno comportando da persone responsabili. Certo, non sono contenti di stare in tre in una cella di nove metri quadri e tre di bagno, ma nemmeno hanno reazioni inconsulte. Si lamentano del sovraffollamento, del poco lavoro, ma non della scarsità delle docce, perché, pur poche, sono utilizzate a turnazione continua. Anche i rapporti con la polizia penitenziaria penso che siano equilibrati, almeno nessuno mi ha segnalato niente di diverso. Il malessere, ovviamente, è di tutti, perché la situazione è difficile".

 

Come emerge questo malessere?

"Ad esempio, ci sono 150 detenuti con condanna definitiva e oltre 300 con procedimenti in altre fasi: gli educatori sono tre e le relazioni di sintesi sui detenuti arrivano in ritardo e questo rallenta, ad esempio, l’accesso a possibili benefici. Sul fronte sanitario, invece, l’ambulatorio odontoiatrico è rimasto bloccato per due anni a seguito del cambio di ministero di riferimento: ora, però, è triplicato il numero di dentisti e la situazione è migliorata. Ma c’è un altro problema. La normativa è in fase di assestamento, ad esempio non spiega come i detenuti possano avere le protesi dentarie, che una volta erano prodotte all’interno del carcere di Forlì".

Roma: no trasfusioni detenuto testimone Geova rischia morte

 

Apcom, 13 novembre 2009

 

Un detenuto del centro clinico di Regina Coeli, affetto da ulcera rettocolitica, che determina consistenti perdite di sangue potrebbe morire perché si trova attualmente nell’impossibilità di essere ricoverato in un ospedale cittadino, dove ricevere un trattamento alternativo alla trasfusione, capace di assicurargli l’innalzamento dei valori ematici. Lo comunica in una nota Luigi Manconi, presidente di "A Buon Diritto".

Il detenuto rifiuta la trasfusione in quanto Testimone di Geova che, in ragione della propria fede, non ammette quel tipo di trattamento terapeutico. A Roma, più di una struttura sanitaria ha la possibilità di effettuare trattamenti alternativi alle trasfusioni, spiega Manconi, ma "si dice che oggi in quelle strutture non c’è possibilità di accoglienza in quanto tutte messe a disposizione dei possibili malati della pandemia H1N1. La cosa appare poco credibile e, dunque, sembra configurare piuttosto - conclude - un atteggiamento discriminatorio nei confronti di chi si trovi privato della libertà".

Bollate: qui il 20% di tutti i detenuti ammessi al lavoro esterno

 

Redattore Sociale - Dire, 13 novembre 2009

 

In tutta Italia sono solo 500. Il dato è contenuto in un articolo dell’ultimo numero del mensile "Carte Bollate", curato dai detenuti del penitenziario milanese. Nella struttura milanese la recidiva è solo al 16%.

In tutta Italia sono solo 500 i detenuti in articolo 21 (che lavorano all’esterno del carcere) e ben cento di questi vengono dal carcere di Bollate. Il dato è contenuto in un articolo dell’ultimo numero del mensile "Carte Bollate", curato dai detenuti del penitenziario milanese. Nel pezzo si sottolinea l’efficacia delle misure alternative per prevenire la recidiva e combattere il sovraffollamento.

Tra quanti scontano interamente la pena dietro le sbarre infatti, la recidiva è del 70% e crolla al 30% tra coloro che hanno potuto scontare gli ultimi tre anni di pena in misura alternativa (a oggi, sono circa 20mila i detenuti che potrebbero usufruirne).

E se si prendono in considerazione le statistiche dei detenuti del carcere di Bollate (nato come "carcere sperimentale", una struttura "aperta" in cui il numero di detenuti lavoranti è molto alto) la percentuale di recidivi scende al 16%. "Ora è tempo di parlare di Bollate come carcere e basta - si legge nell’articolo "Misure alternative per svuotare le carceri" - l’esperimento ha dimostrato ampiamente la validità del progetto originario".

Brasile: Battisti; 4 giudici votano per l’estradizione, e 4 contro

 

Asca, 13 novembre 2009

 

C’é pareggio al Supremo Tribunal Federal (Stf) sul via libera di Cesare Battisti all’estradizione in Italia: quattro giudici hanno votato per tale possibilità, altri quattro contro. La discussione alla Corte ora verte sul fatto che il presidente dell’Stf, Gilmar Mendes, esprima il suo voto, provocando così uno spareggio. L’ultimo giudice a votare è stato, Marco Aurelio Mello, che ha votato, come ampiamente previsto, contro l’estradizione. Nella precedente sessione, lo scorso 9 settembre, Mendes aveva fatto capire di essere a favore dell’estradizione.

Prima di chiudere l’udienza sull’estradizione di Battisti, il presidente Mendes, ha precisato che intende pronunciarsi sul caso, senza però specificare la data. Il rinvio è stato quindi annunciato sine die, al termine di cinque ore di sessione.

La prima parte della sessione si è conclusa dopo il parere esposto dal giudice Marco Aurelio Mello, che già nella prima udienza del processo si era detto favorevole allo status di rifugiato politico dato dal Brasile a Battisti. Nel suo intervento, Mello ha affrontato proprio quest’ultimo tema, ribadendo di essere a favore dell’asilo politico all’ex terrorista rosso. Finora, i voti a favore dell’estradizione sono 4, a fronte di 3 contro tale possibilità. Mello ha però riportato la situazione in pareggio (4 a 4). A quel punto è fondamentale l’eventuale voto del presidente del Supremo, Gilmar Mendes, con ogni probabilità a favore dell’ invio in Italia di Battisti.

La situazione è comunque confusa, visto che non si sa se Mendes voterà. "Dobbiamo aspettare, ma la mia aspettativa è che il presidente eviti di sciogliere tale pareggio", ha detto all’Ansa durante una pausa il legale di Battisti, Luis Roberto Barroso. La strategia della difesa punta quindi a far chiudere l’udienza con un pareggio: secondo la tradizione dell’Alta Corte, infatti, il risultato finale è a favore dell’imputato, in questo caso quindi della conferma dell’asilo politico a Battisti. Opposto il parere del legale dell’Italia, Nabor Bulhoes, per il quale invece Mendes "dovrebbe pronunciarsi".

Il 9 settembre scorso, il Tribunale federale supremo del Brasile aveva rinviato la sua decisione sull’estradizione di Battisti, condannato all’ergastolo in Italia in contumacia per quattro omicidi. La sessione della Corte si era interrotta dopo undici ore di acceso dibattito quando l’ottavo magistrato chiamato a votare, Marco Aurelio de Mello, aveva chiesto un rinvio per poter riesaminare la documentazione. A quel momento, quattro dei nove magistrati della Corte si erano già espressi a favore dell’annullamento dell’asilo politico concesso a gennaio dal ministro della Giustizia Tarso Genro e tre per il suo mantenimento.

Il magistrato relatore della causa, Cezar Peluso, che è anche vice presidente del tribunale supremo, aveva definito "illegale" la concessione dell’asilo politico e aveva anticipato di essere favorevole all’estradizione se la condanna verrà commutata in 30 anni di carcere, dato che in Brasile non vi è la condanna all’ergastolo. Toffoli, 41 anni, avvocato generale dello Stato era stato nominato da Lula il 18 settembre scorso, in sostituzione del giudice Carlos Menezes, morto il primo dello stesso mese.

 

 

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