Rassegna stampa 5 marzo

 

Giustizia: non è stato "disguido", ma imbroglio quasi perfetto

di Lucia Annunziata

 

La Stampa, 5 marzo 2009

 

Francamente non so se bisogna benedire o maledire quello che è successo. Sia ben chiaro: la scoperta che i due immigrati romeni accusati di essere i colpevoli dello stupro della Caffarella in realtà non lo sono, è un vero e proprio schiaffo alla nostra coscienza nazionale.

Vogliamo davvero lasciar passare questo episodio come un ennesimo "disguido" delle Istituzioni del nostro Bel Paese, o vogliamo fermarci un attimo a chiederci come sia stato possibile, e chi ne sia responsabile? Perché, prima ancora che si sappia bene quel che è accaduto, una cosa è certa: questo è un tipico caso in cui almeno un responsabile va trovato e deve pagare.

Vediamo intanto perché la vicenda Caffarella si presenta come più grave dei pur molti errori simili. Le indagini italiane non sono un esempio di efficacia. Questa affermazione si fa molto spesso a proposito di iniziative "audaci" da parte di magistrati che indagano sulla politica. In questi casi, c’è un’attenzione quasi parossistica al tema da parte sia dei giornali che del Parlamento.

La verità però è che le indagini italiane sono ampiamente carenti anche quando si tratta di crimini comuni. La prova? La confusione e le lungaggini in cui si sono insabbiati alcuni grandi delitti, quasi tutti dati per altro come "chiariti": ci trasciniamo ancora fra il pigiama e gli zoccoli di Anna Maria Franzoni nella villetta di Cogne, fra il computer e i pedali della bici di Alberto Stasi, fra le tracce di Amanda e Raffaele sul reggipetto di Meredith.

Quasi tutti i maggiori delitti del Paese, anche quelli non politici, periodicamente rigurgitano una nuova prova persa, avvilita, trascurata o smarrita. Ad esempio, Profondo Nero, un recente libro di Giuseppe Bianco e Sandra Rizza (ed. Chiarelettere) riapre l’inchiesta sull’assassinio di Pasolini, collegandolo alla morte di Mattei e del giornalista De Mauro, proprio in base a nuove testimonianze.

A differenza dei casi che riguardano la politica, però, gli italiani non sembrano indignarsi troppo degli errori nelle indagini di "nera". Anzi: la confusione è diventata una sorta di nuovo genere di "soap" giornalistica che si sviluppa nel tempo e con grande godimento di tutti. Lo stupro della Caffarella presenta una forte novità, figlia di questi nostri tempi: è un fatto di violenza, dunque di nera, che assume però una fortissima valenza sociale per il contesto in cui avviene. Un caso "transgender" che scavalca le tradizionali distinzioni fra cronaca e politica.

Della delicatezza della situazione siamo stati consapevoli tutti fin dal primo momento. E ci siamo fidati. Fidati, sì. Perché in Italia, nonostante si ami dilaniarsi su tutto fra Guelfi e Ghibellini, resiste una profonda fiducia nelle nostre istituzioni. Ogni volta è come se fosse la prima, per la nostra opinione pubblica. Ci siamo tanto fidati che quando la polizia ci ha presentato i suoi mirabolanti risultati, nessuno di noi ha sollevato un dubbio. Nonostante le Amande, gli Alberti, le Annamarie e gli Azouz, abbiamo applaudito e gridato al miracolo. Se non è fiducia nelle istituzioni questa!

Poi le smentite, e infine la certezza dell’errore. E non si sa se benedire il disvelamento, o se maledire la nostra stupidità collettiva. Tutti convinti da parole come "materiale organico" e "Dna", nonché ammiratori del metodo. La polizia ha avuto anche l’impudenza di presentarci (in una conferenza stampa!) il racconto di un’inchiesta esemplare, svolta in collaborazione internazionale con la polizia romena, con foto e pedinamenti, il metodo tradizionale. Approfittando così (tanto per colorare di più la valenza politica del risultato) per dare una bastonata polemica all’uso delle intercettazioni.

Ora, di fronte alle smentite, si dice: "La politica ha messo fretta". Ma non è questo lo scandalo: la politica fa sempre fretta, ha sempre bisogno di presentare, usare, mangiare. Scandalosa è l’incoscienza dei corpi dello Stato che hanno accettato questa fretta. E scandaloso è soprattutto il risultato: l’intero Paese si è visto condurre per il naso verso una direzione che conferma il razzismo più frettoloso e più rozzo. Cui nessuno è riuscito a sottrarsi, nemmeno i democratici più convinti.

Qualcuno dei nostri lettori potrebbe alzare la mano e porre una domanda molto opportuna: ma voi giornalisti? Perché anche voi vi siete accucciati? È un rimprovero giusto. Troppo spesso noi giornalisti facciamo da acritica cassa di risonanza delle indagini. Una responsabilità che ci è stata già rinfacciata. E che ci prendiamo.

Ma come dubitare di un teatrino perfetto, come quello messo in piedi dalle nostre istituzioni? Siamo di fronte a una vera e propria frode. Qualcuno deve pagare per il clima che l’episodio lascia in tutto il Paese, di amaro in bocca e di sgomento.

Giustizia: demagogia e razzismo sono diventati ragion di stato

di Giulio Marcon

 

Lo Straniero, 5 marzo 2009

 

I recenti provvedimenti in materia di sicurezza del governo Berlusconi esprimono quanto di peggio può dare una concezione poliziesca e criminogena dei problemi e dei fenomeni sociali. Non c’è dietro questi provvedimenti solamente una visione becera, razzista e antidemocratica delle relazioni sociali, ma anche una strumentale e spregiudicata operazione di marketing politico con l’obiettivo del consenso delle parti più spaventate e retrive della società italiana. In questo contesto è da non dimenticare la rinuncia della politica a esercitare il governo della complessità e all’esercizio di un dovere di responsabilità che storicamente è il fondamento di una visione alta della politica. Si tratta di provvedimenti gravi e barbarici e nello stesso tempo sono degli spot, delle misure "usa e getta" e - tra l’altro - molte di queste sono inefficaci e inutili.

Mettendo in fila i provvedimenti già approvati e quelli in discussione, l’elenco è impressionante per quantità e barbarie: l’aumento della tassa (una vera gabella) sui permessi di soggiorno, il reato di immigrazione clandestina, l’istituzione delle ronde, la schedatura dei senza fissa dimora, la condanna fino a quattro anni per chi non obbedisce alla disposizione del rimpatrio, la facoltà per i medici di denuncia degli immigrati irregolari che hanno bisogno di cure, la creazione di un secondo centro di detenzione (chiamiamolo per quello che è) a Lampedusa, la cancellazione nella manovra finanziaria dei fondi per l’inclusione sociale degli immigrati, la proposta delle classi differenziali, la proposta di una polizia regionale in Lombardia con il compito prioritario di dare la caccia agli immigrati, eccetera.

Questo complesso di misure disegna un apartheid legalizzato e istituisce una sorta di razzismo di stato che viola i diritti umani delle persone. Le misure del governo Berlusconi sulla sicurezza alimentano maggiore insicurezza, ma forse gli garantiscono un buon ritorno politico ed elettorale. E inoltre hanno un’altra grave conseguenza: alimentano un clima allarmistico e razzista che fa sentire incoraggiati, quasi "autorizzati", i protagonisti di azioni xenofobe e razziste.

Il controllo poliziesco di un fenomeno sociale si intreccia con una visione della sicurezza legata alla dimensione repressiva e liberticida. I mezzi che si mettono in campo sono propagandistici e inutili. Ad esempio l’ipotesi fatta da Berlusconi (dopo alcune vicende di stupri avvenuti nelle metropoli nel mese di gennaio) di schierare trentamila soldati nelle città (ce n’è già qualche migliaio) è puramente demagogica, ma soprattutto è irrealistica, oltre che inefficace. Irrealistica perché quei soldati materialmente non ci sono.

Le forze armate già non riescono a garantire il turnover degli ottomila soldati all’estero, figuriamoci se possono rispondere positivamente all’appello di Berlusconi di trentamila soldati nelle città italiane. Sarebbe una misura comunque inefficace perché i soldati non possono avere - per legge - quelle funzioni di investigazione, di controllo e di intervento proprie delle forze di Pubblica Sicurezza. Tra l’altro, non è che non ne abbiamo: sono oltre trecentocinquantamila tra poliziotti, carabinieri e finanzieri.

Sono più che sufficienti. Il problema è che sono male utilizzati e dediti a mansioni improprie. Anche in questo caso è l’effetto-annuncio ad avere importanza in un’operazione che ha solo un valore comunicativo e un sapore demagogico. Il rischio è che questa folle corsa di provvedimenti securitari non abbia mai fine: le prossime tappe potrebbero essere - come sta già avvenendo - la trasformazione dei vigili urbani in guardie armate, il sostegno alla proliferazione delle security private e l’incentivazione alla diffusione del porto d’armi privato, la moltiplicazione delle carceri (magari privatizzate). Esattamente come è successo negli Stati Uniti d’America. Salvo che tutte queste misure in quel paese non hanno affatto garantito maggiore sicurezza.

In realtà è la solita vecchia storia. Quando non si vuole affrontare un problema, o un fenomeno sociale, lo si criminalizza trasformandolo - per incapacità, calcolo politico o convinzione ideologica - in un problema di ordine pubblico. Era così per i poveri nel Regno Unito nel Seicento (anche loro venivano rinchiusi nelle work-house come ora gli immigrati nei cpt), per i neri negli Stati Uniti nel Novecento (anche loro senza diritti civili come oggi gli immigrati) o i lavoratori nella rivoluzione industriale (anche loro sfruttati in modo disumano come gli immigrati a raccogliere pomodori).

Non c’è niente di nuovo. Stupisce poi che anche una politica che dovrebbe avere un alto valore umanitario - come la cooperazione allo sviluppo con i paesi poveri - segua ormai la stessa logica securitaria: nelle linee guida per la cooperazione italiana del prossimo triennio si afferma infatti che l’obiettivo prioritario è la "sicurezza globale".

La cooperazione ha cioè come obiettivo non sradicare la povertà, ma controllare i flussi migratori, evitare che ci siano tensioni violente o il diffondersi del terrorismo. È come se - in ambito nazionale - si dicesse che l’obiettivo degli ammortizzatori sociali (indennità di disoccupazione, cassa integrazione, eccetera) non è quello di alleviare la condizione di povertà e sofferenza sociale dei lavoratori, ma quello di evitare il rischio che questi si trasformino in delinquenti.

Più in generale, il governo Berlusconi concentra anche in queste misure (insieme a quelle precedenti) le tre coordinate della sua filosofia delle politiche sociali: la riduzione di alcuni problemi sociali a questioni di ordine pubblico, la trasformazione del welfare dei diritti a welfare compassionevole, la rimercificazione di importanti beni sociali e collettivi.

Colpisce in questo contesto la subalternità culturale (e politica) dell’opposizione di centro- sinistra al governo Berlusconi. Pur non rinunciando a esprimere le proprie critiche nei confronti delle iniziative del governo di centro-destra il Pd stampa manifesti in cui rimprovera Berlusconi di essere responsabile del raddoppio degli sbarchi di immigrati. Lo scavalca a destra! In realtà il centro-sinistra nel corso di questi anni - attraverso la creazione dei cpt (Centri di permanenza temporanea) - è stato corresponsabile dello sviluppo di un approccio negativo e puramente repressivo verso l’immigrazione.

E ha la forte responsabilità nei complessivi 7 anni di governo (tra il 1996 e il 2001 e tra il 2006 e il 2008) di non aver fatto nulla per approvare due fondamentali leggi di inclusione sociale e di rispetto dei diritti umani: la legge sulla partecipazione al voto amministrativo degli immigrati e la legge sul diritto d’asilo. A livello locale, poi, il centro-sinistra ha fatto ancora peggio, come dimostra la gestione di alcuni fenomeni di disagio sociale legati all’immigrazione (si guardino i casi di Firenze e di Bologna).

È certamente vero che i provvedimenti del governo Berlusconi vanno contestualizzati dentro una tendenza generale delle società contemporanee (tutte, anche molte di quelle povere) che progressivamente stanno accentuando la dimensione identitaria (religiosa, culturale, eccetera) a scapito di quella - chiamiamola così - pluriversa, fondata sulle differenze, l’incontro e il meticciato. Il razzismo di stato qui si salda con il razzismo della società.

Si alimentano reciprocamente. Sono tendenze che si fondano sulla paura e sugli effetti nefasti delle peggiori dinamiche della globalizzazione e di una secolarizzazione senza qualità (fondata sul consumismo e l’individualismo) che in nome di una giusta lotta alle ideologie, ai fondamentalismi, ai fanatismi, eccetera li ha poi - per una sorta di nemesi - alimentati e incattiviti. Ed è altresì vero che la tendenza criminogena delle relazioni sociali si è tradotta in provvedimenti e leggi securitarie in quasi tutti i paesi occidentali, anche in quelli guidati dai governi di centro-sinistra.

Ma la declinazione di queste tendenze in Italia, da parte del governo Berlusconi, ha degli aspetti incredibilmente rozzi e semplificati, accompagnati da una miopia nella gestione di questo problema sia nell’immediato che nel medio e lungo periodo. Un immane tema come quello dei flussi migratori non si affronta a colpi di spot, di operazioni mediatiche e annunci demagogici. Lo si vede in queste ore.

E i problemi non vengono risolti; anzi vengono addirittura aggravati in una spirale perversa che la stessa politica alimenta a sua volta: maggiore emergenza sociale (almeno quella percepita), più paura nella società, più provvedimenti-annuncio dentro una logica demagogica e di consenso. In realtà - per creare maggiore sicurezza sociale - bisognerebbe fare esattamente il contrario di quello che sta facendo il governo Berlusconi: rendere più facile l’accesso regolare degli immigrati, spendere più soldi per l’inclusione sociale, favorire il processo di cittadinanza degli stranieri, farli votare alle elezioni amministrative, coinvolgerli dentro un processo di integrazione multiculturale, eccetera.

Ed è proprio la mancanza di questa visione la conferma del limite - strutturale e, sembra, irreversibile - della politica odierna. La politica dell’era dei media e del mercato è indissolubilmente sintonizzata sul "ciclo elettorale" (tra l’altro - a causa dell’intensità delle votazioni - brevissimo) che richiede una continua e incessante verifica, ormai praticamente annuale. Il tema dell’immigrazione (come quello della cooperazione allo sviluppo) vive la schizofrenia della politica del "ciclo elettorale". Un fenomeno che ha bisogno di un approccio misurato sui tempi lunghi viene stritolato dalle necessità elettorali e demagogiche: la "paura" (sociale) diventa una importante merce elettorale per il consenso.

Si può trovare una via d’uscita a questo ordine di cose? È questo il compito che un campo di forze democratiche e di sinistra dovrebbe avere in questo paese. Non è vero che si tratta di un fenomeno "ingovernabile": lo si vuole ingovernabile per calcolo politico.

Si tratta allora di coniugare una grande iniziativa politica, ideale ed etica (anche con la disobbedienza civile delle misure che violano i diritti delle persone) con un buon governo della complessità sociale che questo fenomeno implica. E soprattutto - per il centro-sinistra - si tratta di liberarsi dalla subalternità culturale dimostrata in questi anni verso la cultura di destra, sia quella politica che quella che ha affondato in questi anni le radici nella società.

Giustizia: il "mostro di Caffarella", ispirò il decreto anti-stupri

di Claudia Fusani

 

L’Unità, 5 marzo 2009

 

Un’indagine difficile e complessa. Comprensibilmente rabbiosa. Ma nata male e andata avanti ancora peggio, quella dello stupro al parco della Caffarella a Roma il pomeriggio di San Valentino. Di più: costretta dai tempi della politica a dare risultati subito e in fretta. Alla fine anche sbagliati.

Era la sera di martedì 17 febbraio quando la polizia esegue il fermo di Alexandru Isztoika, 20 anni, detto il biondino, il più feroce dei due stupratori secondo il racconto di Alice (così gli investigatori negli atti ufficiali chiamano la vittima minorenne). Il venerdì successivo, il 20, il governo avrebbe approvato il decreto anti-strupri, dodici articoli che hanno alzato nuovamente la tensione con il Quirinale e che si sono tirati dietro un mare di polemiche.

Ieri il procuratore Giovanni Ferrara ha convocato il questore Giuseppe Caruso e il capo della Mobile Vittorio Rizzi. Il comunicato uscito in serata cerca di mettere in fila, con qualche imbarazzo, come sono andate le cose. Ma scorrendo le otto pagine dell’ordinanza di convalida del fermo firmate dal gip Valerio Savio le debolezze dell’inchiesta, e quindi gli errori, sono evidenti.

A cominciare dal riconoscimento, il primo degli indizi a carico di Isztoika, che non è mai stato né certo né univoco. Alice dice subito, nonostante "l’evidente stato di choc" di essere in grado di "riconoscere i due aggressori ". Parla di un ragazzo "con i capelli chiari" e di un altro "con la carnagione scura". Il giorno dopo (il 15), alle 18 e 30 Alice riconosce Alexandru in album con 12 foto di "stranieri controllati dalle forze dell’ordine nei parchi della capitale".

Nel verbale di polizia si precisa che Alice "è fortemente provata dalla visione "ma che riconosce "senza ombra di dubbio".Nella pagina successiva dell’ordinanza si legge invece che "i riconoscimenti fotografici avvenuti il giorno dopo, il 16, sono assai più incerti".

Cosa assai più plausibile visto lo choc e l’orario in cui è avvenuta la violenza ("verso le 18" dicono le vittime) quando fa già buio. Il secondo elemento di colpevolezza a carico è "la piena confessione " di Alexandru "alle ore 2 del 18 febbraio", poco ore dopo il suo fermo alla stazione Monte Mario.

Piena confessione (con dettagli, moventi, circostanze e l’indicazione del complice Karol Racz, 36 anni) che dura nove ore e le prime alla presenza solo dei poliziotti romeni. Confessione però subito ritrattata. Per il gip "la negazione di ogni addebito estorti, secondo l’indagato, con violenze e pressioni psicologiche", è solo una bugia visto che l’interrogatorio "è avvenuto in una situazione garantita dalla presenza del pm e dell’avvocato".

Inoltre Isztoika ha dato troppi particolari coincidenti con il racconto delle vittime perché se li possa essere inventati. Cosa è dunque successo in quella stanza della questura nelle ore in cui il biondino romeno è stato solo con la polizia del suo paese?

Ci sono poi gli orari. Per il gip diventa un indizio il fatto che Alexandru e Karol facciano confusione sugli orari e quindi sul loro alibi. Conta poco, anzi nulla, il fatto che invece Karol veda Alexandru al campo di Torrevecchia, almeno 40 minuti di distanza dalla Caffarella, alle 19 (pagina 5 dell’ordinanza) quando lo stupro sarebbe in atto ad almeno quaranta minuti di distanza dal parco della Caffarella.

Infine il Dna, favorevole ai rei, secondo il lessico giudiziario. Negativo per l’inchiesta. La relazione dei periti dice che i tamponi prelevati sul corpo della ragazza non coincidono affatto con quelli degli indagati. La prova-regina non c’è più. "Indagine vecchio stile" hanno sempre detto i poliziotti nelle prime soddisfatte dichiarazioni, quasi mettendo le mani avanti. Però senza il Dna gli altri indizi restano poca cosa. Un altro fatto. Il risultato di laboratorio è arrivato almeno una settimana fa. Una settimana di silenzio, francamente, non è un indizio di buona di buona fede.

Giustizia: quel "pasticciaccio brutto" del parco della Caffarella

 

Il Foglio, 5 marzo 2009

 

Il paradosso della Caffarella è che si sta perdendo di vista l’unico fatto certo, lo stupro barbarico inflitto in un parco romano a una minorenne davanti agli occhi del suo fidanzatino messo in condizioni di non ostacolare la violenza.

La cronaca ci dice che il test del Dna scagiona i due romeni indiziati; e che la pista del terzo uomo è poco più di una fantasia. Nel frattempo il sindaco Alemanno continua ad assecondare l’onda delle emozioni: ora si chiede se non siano forse dei comuni passanti quegli stessi romeni ammanettati che in un primo momento avrebbe voluto domiciliare nelle celle più buie e durature. Tra un eccesso e l’altro c’è la figura mediocre degli inquirenti che, circondati dai dubbi, sono costretti a mantenere il punto dopo aver troppo celebrato in conferenza stampa l’efficacia dell’inchiesta vecchio stile, ventre a terra e mano pesante.

Il risultato è pessimo e si manifesta attraverso una duplice dismisura gene-ralista. Quella di chi ha voglia di nutrire a forza d’allarmi la serpe xenofoba, minoritaria ma temibile, nascosta nelle periferie metropolitane; e quella di coloro che, travolti dal più convenzionale dei riflessi, sarebbero pronti alla santificazione degli avanzi di galera stranieri e non.

La combinazione di queste due patologie produce distrazione sociale e confusione identitaria. Come dimostra la polemica lunatica sulle ronde, che sono una comprensibile reazione della piccola borghesia urbana, con qualche scialba e isolata coloritura politica, originata dalla persistenza di un problema irrisolvibile se non dal potere pubblico.

Giustizia: stupro Caffarella; i pm confermano accuse ai romeni

di Fiorenza Sarzanini

 

Corriere della Sera, 5 marzo 2009

 

La Procura di Roma conferma le accuse contro i due romeni per lo stupro della Caffarella.

Nonostante il test del Dna abbia dimostrato che non sono loro ad aver violentato la ragazzina di 15 anni, bloccata nel parco assieme al suo fidanzato sedicenne il giorno di San Valentino, il pubblico ministero ha deciso di tenere in carcere Alexandru Isztoika Loyos, 20 anni, e Karol Racz, 36, almeno fino all’udienza del tribunale dei Riesame fissata per lunedì prossimo.

Una decisione comunicata dopo che il sindaco Gianni Alemanno aveva dichiarato: "Non dobbiamo fare giustizia sommaria, ma trovare i responsabili che poi devono pagare fino in fondo. Servono indagini serrate, dure, ma fatte in maniera precisa. Bisogna assicurare ovviamente alla giustizia i colpevoli, che non devono poi essere scarcerati, e non gli innocenti".

Il questore Francesco Caruso procede spedito, pur sapendo che una nuova pista investigativa si è aperta. Dopo aver isolato i Dna ricavati dai tamponi prelevati alla vittima, la polizia scientifica ha chiesto ai colleghi romeni di inserire il risultato nella loro banca dati. E così si è scoperto che il cromosoma "Y" di uno dei profili corrisponde a quello di un uomo detenuto in Romania.

Questo esclude che lui sia coinvolto, ma serve a dimostrare che il colpevole è certamente una persona che appartiene al suo ceppo. Potrebbe essere un fratello, un cugino o addirittura un parente più lontano. Ma è comunque nella sua cerchia che bisogna cercare. Nei prossimi giorni, con la collaborazione della polizia locale, il romeno sarà interrogato per sapere se qualcuno dei suoi familiari si sia trasferito in Italia o, comunque, se possa fornire altri elementi utili a capire chi c’era, il pomeriggio del 14 febbraio, in quel parco.

"L’impianto accusatorio originale non cambia di una virgola", dichiara Caruso e poi, "parlando anche a nome dei magistrati", pronuncia una frase che sembra quasi di sfida: "All’udienza di lunedì la procura non arretrerà di un passo, nemmeno di un centimetro. Crediamo ancora nella bontà di tutto l’apparato accusatorio".

I motivi sono spiegati in un comunicato congiunto diramato qualche ora dopo. La nota ricostruisce quanto accaduto dal momento in cui i due ragazzi, accompagnati dai genitori, hanno presentato la denuncia e serve a "sottolineare che sono stati gli organi inquirenti a raccogliere doverosamente tanto gli elementi a sostegno delle ipotesi accusatoria che quelli favorevoli agli indagati nel pieno rispetto delle regole processuali".

Ma serve soprattutto ad elencare gli elementi a favore dell’accusa: la prima confessione di Loyos e il riconoscimento fotografico effettuato dai fidanzati. Entrambe le circostanze non trovano però alcun riscontro nei test biologici. Anzi. L’indagine condotta dalla squadra mobile è franata non soltanto sui risultati dell’esame del Dna effettuati sui tamponi presi alla vittima, ma anche su tutti gli altri reperti trovati sul luogo della violenza sessuale. Nessuna traccia coincide con il profilo di Loyos e Racz.

E questo dimostra che non possono essere loro gli stupratori. Dunque bisogna effettuare nuove verifiche, altri accertamenti. Anche perché agli atti dell’indagine c’è pure un identikit che non assomiglia a nessuno dei due arrestati, e quei due profili genetici sono utilizzabili per effettuare nuove comparazioni. L’immagine tracciata dagli esperti su indicazione dei due fidanzati disegna il volto di un giovane "sui 20-25 anni, la frangia che gli copre la fronte". Si sa che è alto circa un metro e 75 e che parlava l’italiano. Prima di andare via avrebbe minacciato entrambi: "Andate via, non seguiteci. Siamo abituati ad ammazzare le persone".

Giustizia: il genetista; un "dna romeno"? è una grande bufala

di Gabriele Beccaria

 

La Stampa, 5 marzo 2009

 

Doppia elica? Libretto di istruzioni? Carta di identità biologica? Dimenticate tutto. Un Premio Nobel, David Baltimore, sostiene che il Dna "è una realtà oltre qualsiasi metafora".

Le metafore, infatti, hanno il dono di semplificare, mentre i 3,2 miliardi di "basi" che ci portiamo nelle cellule sono i tentacoli di una struttura immensamente complicata e che si ingigantisce sempre di più, via via che gli scienziati la esplorano.

Al punto che un vate del settore, l’inglese Denis Noble, sceglie la provocazione: è meglio cominciare a pensare al Dna come a un ponderoso libro di ricette, sul quale l’ambiente mette le mani in continuazione e prova i suoi esperimenti, nel bene e nel male. Ecco perché le certezze sul Dna sono poche e gli interrogativi si espandono.

Qualche giorno fa ha fatto discutere il verdetto della "National Academy of Sciences" americana, secondo il quale le adrenaliniche operazioni da "Csi" adottate sulle scene dei crimini sono tutt’altro che perfette, se si escludono i successi raggiunti con il test del Dna.

"Il test? Al momento non c’è nulla di migliore", giura un pioniere di queste tecniche, Paul Ferrara, direttore del Dipartimento di scienze forensi della Virginia. Ma - deve riconoscere - l’efficacia è circoscritta alla comparazione classica, quella, per esempio, tra l’analisi delle tracce di saliva lasciate su un mozzicone e i geni del sospettato.

"È come mettere accanto due codici a barre e osservare le corrispondenze", spiega Paolo Vezzoni, genetista del Cnr. La scienza del Genoma è nitida come la legge di gravitazione. Peccato che il Dna sia una macchina biologica troppo sofisticata per non suscitare controversie scientifiche e polemiche, dalla violazione della privacy fino al ritorno di un becero razzismo.

Un caso è emblematico: una società della Florida - la Dna Print Genomics - ha lanciato un esame di "inferenza razziale": sostiene di aver creato una banca dati di varianti per risalire alle origini razziali di un criminale. Di uno stupratore aveva realizzato questo identikit: "85% africano sub-sahariano, 12% europeo e 3% nativo-americano".

È l’alba di una prassi investigativa futura o una quasi-bufala, con l’ulteriore pericolo di essere socialmente deflagrante, come accusano molti neri d’America?

"È certo che oggi nessuno può pensare di identificare la nazionalità di un profilo genetico - spiega Guido Barbujani, genetista e professore all’Università di Ferrara -. Sostenere che dai geni degli stupratori del Parco della Caffarella si desuma che fossero romeni è una falsità evidente".

Nessuno sarebbe così ingenuo da cercare la firma genetica della nazionalità. Protagoniste, semmai, sono le "varianti genetiche" dei ceppi di popolazioni da un continente all’altro. Ha cominciato Luigi Luca Cavalli Sforza e si prosegue con programmi ambiziosi, tipo il Genographic Project: un obiettivo è decifrare l’orologio molecolare dei mitocondri e scoprire le migrazioni dei nostri antenati. Molti segreti sono ancora sepolti nel Dna.

Giustizia: il criminologo; i due romeni verranno presto liberati

 

Il Tempo, 5 marzo 2009

 

Sicuramente la ragazza violentata al parco della Caffarella quando ha puntato il dito sulla fotografia del presunto stupratore era convinta di aver individuato il suo aggressore. La mente umana, però, può inconsapevolmente giocare brutti scherzi, portando la vittima di un’aggressione a una convinzione sbagliata. È quanto sostiene il criminologo e psichiatra Francesco Bruno, secondo il quale i due romeni arrestati per lo stupro avvenuto il giorno di San Valentino saranno presto scarcerati dai giudici del Riesame.

 

Professore, perché crede che gli stranieri torneranno in libertà?

"Il Tribunale non può non prendere in considerazione i risultati scientifici, che oramai devono prevalere sulle testimonianze delle vittime delle violenze".

 

Vuol dire che il riconoscimento della giovane stuprata ha meno valore giuridico rispetto agli esami del Dna?

"Purtroppo sì".

 

Si spieghi meglio professore.

"La mente, quando si subiscono ad esempio delle violenze, inconsciamente cerca di archiviare le sensazioni negative. Contemporaneamente però la vittima è convinta di ricordare perfettamente quella scena o quella persona. Quando però arriva il momento del riconoscimento può commettere un errore, dovuto alle emozioni che ha provato durante l’aggressione".

 

Qual è allora la prova madre nelle inchieste per stupro?

"Non più la testimonianza della vittima della violenza, ma l’esame del Dna. L’unica prova che dimostra con certezza la violenza di un uomo su una donna è il ritrovamento di liquido seminale sulla donna, non ci sono altre possibilità per raggiungere la certezza della prova. Mi dispiace per la vittima, ma la scienza prevale sui ricordi umani".

 

Perché i ricordi vengono alterati?

"Anche la mente della persona più fredda ed equilibrata del mondo, che ha vissuto un’esperienza violenta, altera il pensiero e non è più in grado poi di ricordarlo con esattezza".

 

Un esempio?

"Se una donna, che è molto più fisionomista di un uomo, ricorda gli occhi azzurri del suo aggressore, con il passare del tempo si può convincere che quell’uomo era bello soltanto perché la mente le fa collegare il colore degli occhi con un bell’aspetto".

 

Quindi secondo lei i due romeni arrestati, in base ai primi risultati scientifici, devono essere rimessi in libertà?

"Certamente, la mente può confondere i ricordi di una persona senza che se ne renda conto, portandola dunque a commettere un errore, come identificando come colpevole una persona totalmente innocente".

Giustizia: l'Auser; i volontari non devono sostituirsi alla polizia

 

Vita, 5 marzo 2009

 

In tema di sicurezza l’Auser è fermamente contraria non solo ad ogni esecrabile fenomeno di giustizia "fai da te", ma anche ad ogni forma di integrazione volontaria o peggio di sostituzione alle attività istituzionali di polizia in termini di prevenzione dei reati, controllo del rispetto delle leggi, repressione. Solo le forze pubbliche, in uno stato democratico e ben ordinato, possono svolgere il delicatissimo compito di garantire il rispetto dei diritti e dei doveri dei cittadini, L’alternativa sarebbe la disgregazione civile e lo scontro tra bande.

La tranquillità collettiva e la civile convivenza sono beni e valori alla cui cura la cittadinanza attiva e l’autorganizzazione dei cittadini possono contribuire in modo diverso.

Lo spazio che va coperto è quello del volontariato civico nella cura dei beni comuni: monitoraggio dell’arredo urbano, dell’igiene pubblica, in particolare attraverso la segnalazione di disservizi o interventi di ausilio nella pulizia degli spazi pubblici, nel razionale smaltimento dei rifiuti urbani, presidi di vigilanza leggera nei parchi e giardini pubblici, ausilio ai responsabili delle istituzioni scolastiche all’entrata e all’uscita delle scuole e all’accoglienza dei bambini prima dell’inizio delle lezioni. In questi campi Auser già opera ed è disponibile a qualificare ed incrementare il proprio impegno.

Come pure, Auser intende intensificare la feconda collaborazione già avviata assieme al sindacato dei pensionati, con le forze di polizia e con l’arma dei Carabinieri, per la prevenzione, attraverso una puntuale informazione sui rischi delle truffe contro gli anziani nonché per l’assistenza alle vittime attraverso il sostegno psicologico, l’aiuto e la consulenza per le denunce e per i rapporti con le assicurazioni, per il reperimento di pronti interventi di riparazioni urgenti in caso di danni.

Fondamentale, inoltre, anche in materia di sicurezza è il contributo che l’autorganizzazione dei cittadini può arrecare alla cura ed al sostegno dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita. È essenziale, infatti, per la civile convivenza che le paure, il disorientamento, il disagio determinato da cambiamenti repentini dei modi di produrre e lavorare, dalle conseguenze della globalizzazione, dalle ansietà determinate dalla crisi economica internazionale, possano trovare sbocchi razionali in termini di consapevolezza critica, indispensabile per far crescere tutti noi ed il Paese verso obiettivi di civiltà e di sviluppo umano.

Giustizia: il Pdl; intercettazioni, la stampa potrà pubblicare atti

di Liana Milella

 

La Repubblica, 5 marzo 2009

 

Torna, ma solo "per riassunto" e col divieto di pubblicare le intercettazioni, il diritto di fare cronaca giudiziaria prima del processo. Per chi pubblica un ascolto da distruggere rimane il carcere, anche se ridotto a sei mesi di pena minima. Quindi sostituibile, a discrezione del giudice, con sanzioni pecuniarie. Cambia l’aggettivo degli "indizi di colpevolezza": da "gravi" diventano "rilevanti". Il pm, per controllare un telefono, dovrà dimostrare a tre giudici di avere, contro l’indagato, "rilevanti indizi di colpevolezza".

Nella maggioranza, riunita a Palazzo Grazioli, prevale la linea di An e di Giulia Bongiorno sulle future norme per cimici e microspie. Opposizioni (Pd, Udc, Idv) e Anm critiche, ma, sul diritto di cronaca, la proposta è un passo avanti rispetto al testo Mastella che, due anni fa, ottenne il sì bipartisan alla Camera. Lì era previsto che non si potessero pubblicare atti prima del dibattimento, ora sarà possibile quando li conosceranno indagati e difensori. Ordinanze di custodia, interrogatori, perizie, purtroppo solo "per riassunto", neppure una citazione. Le telefonate non potranno mai finire sui giornali né integrali, né in sunto. Pubblicabili durante il processo "solo" per riassunto.

S’incontrano Giulia Bongiorno (presidente della commissione Giustizia), Niccolò Ghedini (factotum del premier sulla giustizia), i leghisti Roberto Cota e Matteo Brigandì, il forzista Enrico Costa. Non ci sono il Guardasigilli Angelino Alfano né il sottosegretario Giacomo Caliendo, ma il capo del legislativo di via Arenula Augusta Iannini. S’affaccia il Cavaliere per dire "mi raccomando, fate un buon lavoro". Hanno la meglio le insistenze della Bongiorno, che per bocca di Fini, ha stoppato un ddl che non garantiva l’effettivo diritto di cronaca e limitava troppo gli ascolti. Mutato in tre punti, andrà in aula martedì prossimo.

Negative le prime reazioni. Luca Palamara, presidente dell’Anm: "Cambiare gli aggettivi non fa venir meno i limiti imposti alle intercettazioni che non hanno nulla a che vedere con la limitazione degli abusi". Sulla pubblicità degli atti: "Non si capisce perché ascolti rilevanti non debbano essere trattati come il resto degli atti quando sono conoscibili da indagati e difensori". Insoddisfatta Donatella Ferranti (Pd): "È un testo sempre sbagliato e le modifiche non cambiano la sostanza. Gli "evidenti indizi", al pari dei "gravi", deprime le potenzialità investigative degli ascolti". Delusa l’Udc, sempre in attesa d’un incontro con Alfano. Michele Vietti: "Si può fare di più. "Evidenti indizi" è un passo indietro rispetto a "gravi"". Aggiunge Roberto Rao: "Se la mediazione è questa, è inutile e al ribasso". Federico Paloma per l’Idv: "Restano previsioni gravi come la durata di 60 giorni, la stretta su ignoti e ambientali. È un testo inaccettabile".

Giustizia: Pedica (Idv); Ue favorevole a trasferire i condannati

 

Ansa, 5 marzo 2009

 

La delega al Governo per recepire la norma europea che permette di trasferire i cittadini comunitari condannati in via definitiva nelle carceri del Paese di cittadinanza è stata approvata in sede referente dalla Commissione Politiche europee al Senato, che ha accolto gli emendamenti dell’Italia dei Valori volti a tutelare le garanzie dei detenuti.

"È un notevole passo avanti, perché permette il reinserimento del condannato nella vita sociale ed economica e allo stesso tempo permette di alleggerire il sovraccarico degli istituti carcerari italiani", afferma Stefano Pedica, Vice Presidente della Commissione, il quale sottolinea come "alla norma si è data un’accelerazione anche in relazione ai recenti fatti di cronaca che riguardano l’immigrazione romena e l’alto tasso di criminalità che la contraddistingue. Adesso ci aspettiamo che anche il governo romeno recepisca la decisione europea in tempi brevi, per far diventare il meccanismo operativo".

Giustizia: Alfano; trasferimenti solo col consenso di condannati

 

Agi, 5 marzo 2009

 

Alfano ricorda che il governo ha operato dei tagli equanimi in tutti i settori della pubblica amministrazione ma che i comparti sicurezza e giustizia sono riusciti ad attenuare i problemi grazie al Fondo Unico per la Giustizia, vale a dire i depositi giacenti e dormienti legati ad attività criminose che lo Stato è riuscito a recuperare e convogliare nel fondo che è di 100 milioni. Dunque, per il Guardasigilli, "non ci sono stati tagli per la sicurezza pubblica".

Alfano difende il disegno di legge in discussione in Parlamento sulle intercettazioni che "non vuole limitare le indagini, vuole gestire meglio le risorse e garantire che un cittadino che non è nemmeno indagato non veda il suo nome sui giornali".

A proposito dei 22.500 detenuti stranieri rinchiusi nei penitenziari italiani, il Guardasigilli ricorda la difficoltà di realizzare l’idea di far scontare la pena nei paesi di origine. Ma non nasconde che le cose sono molto complicate perché il peggior penitenziario italiano, spesso, è meglio del miglior carcere del paese da cui provengono gli stranieri che scontano la pena in Italia. "Certo - dice Alfano - se il vitto e alloggio lo vanno a prendere nel loro paese, per noi è un grande risparmio. Ma la cosa non è facile, anche perché per far scontare la pena a un detenuto nel paese di origine occorre l’assenso del detenuto".

Giustizia: Osapp; piano-carceri a maggio ma agenti dimenticati

 

Il Velino, 5 marzo 2009

 

"Alfano dimentica la Polizia Penitenziaria, sul presupposto che senza personale le carceri non possono funzionare, ma senza realizzarne di nuove non vi può essere la richiesta di nuove assunzioni".

Lo dichiara Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, all’indomani della riunione che il ministro della Giustizia ha tenuto con tutti i sindacati di categoria per discutere della situazione generale. "Probabilmente il Guardasigilli dimentica che se ogni mese circa mille detenuti entrano per le porte girevoli degli istituti di pena, ogni anno mille agenti escono, vanno via per effetto dei pensionamenti e i passaggi ai ruoli civili dell’amministrazione, senza che se ne assumono di nuovi.

Adottando lo schema a raggio che il presidente Ionta pone a base del piano, che, per affermazioni dello stesso ministro, verrà presentato entro il prossimo 2 maggio - secondo le notizie riportate dal segretario generale - sappiamo che la partita è necessario giocarla attraverso una strategia caratterizzata da vari interventi".

"Con il piano del Commissario straordinario, certamente - continua la nota -, anche se non se ne conoscono ancora i dettagli, ma c’è chi sostiene al Dipartimento che i numeri reali sembrano essere molto lontani rispetto a quei 7.000 nuovi posti letto preventivati. In tutto questo giro di valzer il Guardasigilli prende tempo, e non è detto che da maggio si inizi subito con le operazioni di realizzazione dei nuovi padiglioni.

Al momento le organizzazioni sindacali rappresentano l’unica istituzione in grado di dare prova di affidabilità e di responsabilità - aggiunge Beneduci -, quando la presenza reale dei reclusi ha completamente vanificato gli effetti dell’indulto, con oltre 60 mila persone rinchiuse nei penitenziari italiani.

Congiuntamente alle altre organizzazioni infatti, abbiamo presentato al ministro un documento - spiega il segretario generale dell’Osapp - nel quale assicuriamo la disponibilità a contribuire all’elaborazione di un piano complessivo di razionalizzazione del personale, su tutto il territorio nazionale in maniera omogenea, senza distinzioni di sorta e nicchie di privilegio, alla faccia di chi pensa ancora che la Polizia penitenziaria sia questa fucina di immunità ed eccezioni".

"Ma il ministro Alfano - prosegue l’Osapp - in cambio ci concede stanziamenti straordinari, quelli scaturiti dal decreto anti-stupri, per l’assunzione solamente di 299 nuovi agenti, meno di un decimo sul totale delle forze dell’ordine da assumere e impiegare sul territorio.

Probabilmente l’unica cosa che siamo riusciti a strappare al ministro è la promessa di una modifica del Codice di procedura penale che prevede l’obbligo di effettuare le convalide in carcere, in questo modo si ridurranno di almeno il 20 per cento le attuali movimentazioni di detenuti, a vantaggio di una più efficace programmazione dei turni. Confermata, invece - conclude Beneduci, segretario dell’Osapp - la volontà di ridurre la durata dei corsi da allievo agente da un anno a 6 mesi".

Brescia: in tribunale organici ridotti all’osso e uffici semi-deserti

di Giovanni Cerruti

 

La Stampa, 5 marzo 2009

 

Ecco, si erano pure dimenticati che anche a Brescia ogni tanto c’è il sole, i raggi finiscono sui monitor dei computer e i cancellieri che son già pochi ci vedrebbero più niente: e dunque vai con un’altra gara d’appalto che forse sarà la penultima. Perché qui ci sarà un viavai da diecimila persone al giorno. E almeno un bar ci vuole, no?

Ma si erano scordati anche questo. E alé, altra gara d’appalto alle viste, sperando sia l’ultima davvero. "E che - come dice Vanni Barzelletta, il presidente dell’ordine degli avvocati - si sia proprio vicini alla fine del lungo e costoso letargo del nuovo palazzo dì giustizia". Appuntamento a settembre. A cinque anni dalla fine lavori.

Per far ridere un bresciano basta la domanda, e il nuovo Palazzo di Giustizia? Per far preoccupare un bresciano ne basta un’altra, è vero che non avete più magistrati? Mèsse assieme fanno pensar male, ma così è. "Di una nuova sede - ricorda Barzellotti - ne parlava già Giuseppe Zanardelli", ministro della Giustizia nel governo De Pretis, anno 1881. Quando i giudici del Tribunale erano 62, uno in più di quest’anno 2009. È che i tempi di costruzione di un Palazzo di Giustizia sono più lenti di quelli della gusti-zia. È dal 1986 che è cominciata l’avventura di questo palazzone di cemento attaccato alla stazione ferroviaria.

È costato almeno 75 milioni di euro. Otto piani, 1.800 finestre, 3 mila 500 porte. Senza offesa, può sembrare un albergo bulgaro, o un convento Anni 60 sull’Appia Antica. I muri di cemento dicono che è già vecchiotto, con le scritte dei graffitari, gli adesivi delle pubblicità, le macchie da inquinamento, qualche erbaccia che tenta di spuntare. Davanti c’è il bar di Claudio Tedoldi: "Sono qui da cinque anni, pensavo a grandi affari e l’avevo chiamato "Caffè Domani" aspettando l’inaugurazione del Palazzo di Giustizia. L’avessi saputo prima avrei scelto un altro nome. Non Domani, ma Chissà...".

La stessa parola, chissà, che si sente ripetere nel vecchio palazzotto di via Moretto da Brescia, dove alloggiano con densità da "basso" napoletano il Tribunale e la Procura. Quando vi arriveranno i rinforzi? "Chissà - risponde Fabio Salamone, il pm che ha diretto l’ufficio negli ultimi mesi, fino all’arrivo di Nicola Maria Pace - Sono anni e anni che mandiamo lettere e segnalazioni, ma il risultato è che dovremmo essere almeno 40, nella pianta organica siamo in 23 e ne mancano 9".

Quando apriranno il nuovo Palazzo di Giustizia il terzo piano rimarrà vuoto. Ci sono nove stanze, ma non ci saranno i nove pm. Non c’è magistrato di Brescia che non conosca a memoria date, numeri e statistiche. Del nuovo Palazzo e del vecchio contenzioso con il Ministero della Giustizia. Dopo Roma, Milano, Napoli e Torino, Brescia è il distretto giudiziario più popolato, un milione e 100 mila abitanti.

Ma ha meno magistrati di Firenze, Genova o Catania. E meno personale amministrativo di Bari o Palermo. Insomma, un magistrato ogni 48 mila abitanti. "E noi in Procura - dice Salamone - ci dobbiamo occupare anche di terrorismo islamico, criminalità organizzata e traffico internazionale di stupefacenti, immigrazione clandestina, incidenti sul lavoro".

È che forse Brescia è cresciuta troppo e in fretta. O non è più la provincia tranquilla di 15 anni fa. "Le due questioni, il nuovo Palazzo di Giustizia e la carenza di magistrati, per una città da sempre efficiente e ben amministrata sono l’unica eccezione", dice Adriano Paroli, deputato di Forza Italia, area Comunione e Liberazione, dieci mesi da sindaco.

"Una delle prime visite è stata quella del Gabibbo, e proprio per i ritardi del Palagiustizia. Non ci sono giustificazioni. Ci sono stati errori di progettazione, scarso coordinamento negli appalti, lungaggini, burocrazia. Ma entro la fine dell’anno finirà anche questo enorme imbarazzo".

Resterà quell’altro, con il terzo piano senza sostituti procuratori. Il Palazzo è nuovo, ma per il Ministero Brescia resta una "sede disagiata". E chi ha voglia, tra i giovani magistrati, di sceglierla? Almeno, fino al decreto dell’ex ministro Clemente Mastella, potevano arrivare gli uditori di prima nomina.

Ora non più, debbono aspettare quattro anni in tribunali collegiali e la prima valutazione professionale. Sceglieranno un altrove che non è Brescia. "Noi continueremo a fronteggiare l’emergenza - dice il pm Salamone -, ma fino a quando?". Il nuovo Procuratore Generale Guido Papalia ha già chiesto udienza al ministro Angelino Alfano.

Anche oggi dal palazzone di cemento arrivano rumori di martello, trapani, carrucole. È il giorno degli elettricisti e della tinteggiatura. Ogni anno il Comune paga 700 mila euro per la manutenzione di un palazzo che ancora non funziona. E ad ogni giorno la sua pena, come ai tempi del progetto, quando tutto venne fermato perché il Procuratore Generale si era accorto che la stanza del Presidente della Corte d’Appello sarebbe stata più grande della sua. E l’allora sindaco Mino Martinazzoli, già ministro della Giustizia, lo guardava sconsolato: "Ma se sta per andare in pensione...". E pure questa va in conto ritardi.

Roma: droga a Rebibbia, indagini partite dopo morte detenuto

 

Adnkronos, 5 marzo 2009

 

Sono partite dalla morte per overdose del detenuto Mirko Volpicelli la indagini che hanno portato alla vasta operazione di questa mattina contro lo spaccio di droga nel carcere di Rebibbia. Un blitz, coordinato dal sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia Carlo La Speranza ed eseguito dal Nucleo Investigativo Centrale della Polizia Penitenziaria. In particolare, dopo il decesso del Volpicelli, le attività di indagine hanno permesso di rilevare la presenza, all’interno dell’istituto di Rebibbia Nuovo Complesso, di telefoni cellulari indebitamente posseduti dai detenuti.

L’analisi dei traffici telefonici riferiti ai codici utilizzati da diversi detenuti, hanno messo in evidenza un costante traffico di sostanze stupefacenti all’interno dell’istituto di Rebibbia, agevolato dalla collaborazione dei familiari dei detenuti coinvolti.

"Le indagini hanno determinato l’esercizio dell’azione penale nei confronti di tale M.M., nel mese di settembre 2008, per aver ceduto la sostanza stupefacente proprio a Volpicelli", sottolinea il Dap in una nota, spiegando che "di fatto, le attività di indagine non hanno mai subito interruzioni, tant’è che, allo stato attuale, gli ulteriori elementi raccolti hanno reso necessario procedere ad ulteriori perquisizioni e sequestri di sostanze stupefacenti" sia "nei confronti di persone detenute in carcere che verso persone allo stato libero".

Roma: da 9 marzo protesta detenuti per abolizione di ergastolo

 

Adnkronos, 5 marzo 2009

 

Dal 9 marzo i detenuti e le detenute nel carcere di Rebibbia e degli altri istituti penitenziari del Lazio saranno in sciopero della fame in adesione alla campagna per l’abolizione dell’ergastolo "Mai dire mai"

Questa protesta sarà rivolta anche contro il 41bis, inasprito dall’assurdo "pacchetto sicurezza"; contro il disegno di legge Berselli che prevede per tutti i prigionieri restrizioni ai permessi, ai colloqui, e ai "benefici"; contro l’assurda presenza dei bambini in carcere accanto alle madri, dovuta alla non commutabilità della pena in misure alternative alla galera.

Viterbo: il Servizio di radiologia? continuerà ad essere erogato

 

Adnkronos, 5 marzo 2009

 

La Casa Circondariale di Mammagialla continuerà a beneficiare delle prestazioni dei tecnici della radiologia della Ausl di Viterbo, almeno fino al mese di giugno. È quanto è stato deciso ieri a seguito di contatti intercorsi tra la Direzione strategica dell’azienda sanitaria locale e il responsabile dell’Unità operativa Diagnostica per immagini dell’ospedale Belcolle, Enrico Pofi. Si tratta di una soluzione che accoglie la richiesta avanzata nei giorni scorsi dal garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marrone, e che intende assicurare per i prossimi mesi l’erogazione del servizio sanitario presso il carcere del capoluogo della Tuscia.

La prosecuzione del servizio stesso oltre il mese di giugno sarà vincolata a eventuali disponibilità finanziarie che la Regione Lazio vorrà mettere a disposizione della Ausl di Viterbo.

Nuoro: otto agenti processati per violenze su detenuti stranieri

di Simonetta Selloni

 

La Nuova Sardegna, 5 marzo 2009

 

Testimoni riacciuffati in "zona cesarini" dal tribunale che li ha ammessi attraverso l’articolo 507 del codice di procedura penale, dopo aver dichiarato inammissibile la lista presentata dal pubblico ministero che non aveva indicato - come prevede il codice pena l’inammissibilità della lista - su quali circostanze avrebbero dovuto riferire.

E così, il processo per le presunte violenze perpetrate da alcuni agenti penitenziari nei confronti di un gruppo di detenuti del carcere di Mamone, si riappropria di undici testi la cui audizione è stata ritenuta indispensabile dai giudici (presidente Morra) per potersi pronunciare su una brutta pagina vissuta nella casa di reclusione all’aperto.

Ieri il tribunale all’esito dell’istruttoria dibattimentale del tutto orfana di contributi testimoniali ha deciso appunto di ricorrere all’articolo che rimette in corsa i testimoni, in un dibattimento che finora in aula ha prodotto il nulla totale. I testimoni dovranno comparire il 9 giugno su fatti che, eventualmente appurati, sarebbero di una gravità estrema.

Gli imputati sono otto. Le accuse, per gli imputati, sono ai confini con l’intolleranza religiosa: nel 2002 alcuni detenuti musulmani (di nazionalità marocchina e tunisina) sarebbero stati costretti a baciare la statua della Madonna e a omaggiare la bandiera italiana. Gli imputati hanno sempre respinto queste terribili imputazioni. Sono Bachisio Pira, Efisio Torazzi, Antonio Sanna, Salvatore Pala, Piero Sulas, Marco Pitzalis, Giovanni Mazzone e Natalino Ghisu.

Milano: dalla Provincia, in 5 anni, 700 mila euro per il carcere

 

Ansa, 5 marzo 2009

 

Oltre 700mila euro in cinque anni, una casa di custodia per mamme detenute con figli e uno stuolo di educatori. È il bilancio dell’Assessorato all’Integrazione sociale per le persone in carcere o ristrette nelle Libertà, che oggi a Palazzo Isimbardi ha riunito a convegno i protagonisti di tutti i progetti realizzati nel corso del mandato.

"Abbiamo portato avanti un impegno molto forte per l’umanizzazione della pena - spiega l’assessore Francesca Corso - ma abbiamo dovuto fare una attenta politica di risparmio e rinunciare ad altre cose". Sulla difficoltà di reperire finanziamenti per le carceri, l’assessore lancia la proposta di aprire "una voce del bilancio dedicata alle carceri, una sorta di paniere carcere in cui tutti gli enti locali facciano confluire le loro risorse. Risorse che poi vengano distribuite in base alle priorità stabilite dall’Osservatorio carcere".

Reggio Emilia: i Nas fanno chiudere mensa degli agenti dell’Opg

 

Il Resto del Carlino, 5 marzo 2009

 

Sequestrati degli alimenti dalle cucine dell’Opg. Da tempo c’erano proteste da parte del sindacato autonomo di polizia penitenziaria. I Carabinieri: "Situazione gravissima: abbiamo trovato pure i vermi".

I Nas di Parma stanno procedendo a diversi sequestri all’interno delle cucine e della mensa-agenti inserita all’interno dell’Opg di Reggio. Sono intervenuti su ordine della Procura reggiana che ha aperto un fascicolo a seguito dell’esposto presentato dal Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, lo scorso 16 gennaio.

"È una questione che va avanti da decenni - spiega il segretario provinciale del Sappe, Michele Malorni - Sono stato costretto a presentare l’esposto dopo gli innumerevoli silenzi dell’Amministrazione penitenziaria in merito alle scarsissime condizioni igienico-sanitarie del servizio di ristorazione collettiva garantito all’interno degli istituti".

Lo scorso 9 febbraio le carceri reggiane sono state passate in rassegna dal provveditore regionale, Nello Cesari. "Durante la visita - continua Malorni - il provveditore non ha potuto fare altro che constatare lo stato di degrado dei locali e le inadempienze della ditta appaltatrice". E così ieri mattina, e per tutta la giornata fino a tardo pomeriggio, anche i rappresentati della "Food Service" di Garbagnate Milanese - azienda che si è aggiudicata l’appalto per la fornitura del cibo in tutte le carceri dell’Emilia Romagna - hanno presenziato al lavoro dei carabinieri del Nas.

"Siamo ancora al lavoro - fa sapere il comandante del Nucleo dell’Arma, capitano Balletta - ed essendo un controllo molto complesso non possiamo assolutamente dire nulla sulla vicenda". Si parla però di un verbale molto pesante nei confronti della ditta appaltatrice.

Ciò che non spiega, o meglio, non può al momento spiegare il Nas, lo grida il Sappe, sfinito da questa situazione: "Al momento hanno sequestrato la cella frigorifera avendo trovato alimenti in cattivo stato di conservazione". Ma pare che il problema sia proprio strutturale. L’amministrazione, immediatamente ha emesso un provvedimento di interruzione del servizio mensa. Provvedimento scontato visti i sigilli apposti dai carabinieri.

"Da due settimane - continua Malorni - ci siamo astenuti dal servizio mensa preferendo comprarci da soli dei panini e delle bevande. Pur di non mangiare ciò che ci veniva servito: del resto, se si fanno appalti al ribasso, cosa ci si può aspettare come qualità degli alimenti. Un pasto completo costa all’amministrazione circa 3,60 euro... troppo poco perché poi non ci siano magagne".

Come qualche tempo fa "quando dentro la pasta e fagioli abbiamo trovato un verme. Beh ora mi aspetto - conclude Malorni - che anche gli altri colleghi in regione vogliano affiancarci in questa battaglia. Se così fosse potremmo arrivare alla risoluzione contrattuale con l’azienda che ha l’appalto".

Napoli: studenti a lezione di sicurezza, previste visite in carcere

 

www.arechi.it, 5 marzo 2009

 

Presentato a Palazzo di Città il progetto "Educazione alla Legalità, Sicurezza e Giustizia Sociale", volto ad ottenere la partecipazione attiva della cittadinanza alla causa comune della sicurezza territoriale. In prima linea gli studenti delle scuole medie: per loro visite agli istituti penitenziari ed incontro con i ragazzi della Comunità di San Patrignano.

Un clima di grande entusiasmo e partecipazione ha avvolto stamani l’Aula Consiliare di Palazzo di Città, dove si è tenuta la conferenza stampa di presentazione del progetto "Educazione alla Legalità, Sicurezza e Giustizia Sociale".

L’iniziativa, ideata dal Comune di Cava dei Tirreni, ha avuto come uditorio privilegiato i docenti e gli studenti delle Scuole Medie Statali cittadine, con protagonisti gli istituti "Carducci-Trezza", "Alfonso Balzico" e "Giovanni XXIII".

È stato Daniele Fasano, Assessore alla Qualità dell’Istruzione, ad aprire l’interessante dibattito, che ha visto intervenire rilevanti esponenti locali impegnati in prima linea nel settore "sicurezza". Tra questi l’Assessore alla Qualità della Sicurezza, Vincenzo Servalli, il Dott. Claudio Flores, Dirigente del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Napoli, il Dott. Massimiliano Forgione, Dirigente della Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, ed il Dott. Sante Massimo Lamonaca, Giudice Onorario Esperto presso il Tribunale di Sorveglianza di Salerno, nonché coordinatore provinciale del progetto.

Obiettivo comune quello di far conoscere alle nuove generazioni i problemi legati alla sicurezza sociale, alla criminalità organizzata ed alla legalità, ponendo i giovani a contatto diretto con alcune problematiche realtà, quali quelle delle carceri.

E proprio di carceri ha parlato il Dott. Flores, ricordando come "i 17 istituti penitenziari presenti sul territorio regionale raccolgono migliaia di detenuti ed attuano quotidianamente programmi di rieducazione nei loro confronti". Attraverso la formazione professionale, quella scolastica ed i corsi di vario tipo (dal teatro allo yoga), "si cerca - ha sottolineato il Dott. Forgione - di aiutare i carcerati a rielaborare le proprie esperienze traumatiche ed a comprendere il disvalore delle loro azioni passate".

Visite ed incontri formativi presso gli istituti penitenziari regionali sono tra i programmi previsti dallo stesso progetto di educazione alla legalità. Dopo la tappa al carcere di Eboli, la gioventù cavese si prepara ad incontrare i ragazzi della Comunità di San Patrignano, che porteranno nelle scuole della città la propria difficile testimonianza di vita. In programma, ricorda il Giudice Lamonaca, anche "un dibattito sulla criminalità informatica, dalla pedo-pornografia al fenomeno della droga informatica", per educare le nuove generazioni a prevenire ed a difendersi da queste nuove forme di delinquenza virtuale.

Il progetto "Educazione alla Legalità, Sicurezza e Giustizia Sociale" mira soprattutto ad ottenere una partecipazione più attiva da parte di tutta la cittadinanza alla causa comune della sicurezza territoriale. Cava dei Tirreni è una città ricca di storia e cultura (ne è testimonianza l’antica "Pergamena Bianca", reperto del 1460, mostrato stamani a tutte le autorità presenti) ed è importante difendere tale patrimonio da episodi di criminalità, che di tanto in tanto pure si manifestano. Le bombe alle attività commerciali ed i recenti casi di rapine e furti dimostrano che la città metelliana ha anch’essa bisogno di un antidoto alla delinquenza e di un’educazione alla legalità. Le autorità e le Forze dell’Ordine si battono ogni giorno a tale scopo, manifestando vicinanza e protezione verso la comunità cavese.

Busto Arsizio: al via la Seconda Edizione del "Dolce in carcere"

 

Varese News, 5 marzo 2009

 

Una nuovo gruppo di detenuti imparerà i segreti della preparazione dei dolci dai migliori maestri varesini.

Dopo il successo della prima edizione,torna il corso di pasticceria "Dolce in carcere". Nel 2008 quattro maestri pasticceri - Mario Bacilieri (Marchirolo), Denis Buosi, Mariano Massara (Morazzone), Massimo Pagani (Gallarate) e Luca Riccardi (Gavirate) - si erano alternati come docenti. A seguire le loro lezioni un gruppo do circa dieci detenuti che ha conseguito un diploma finale. Il tutto era stato coronato da una "festa" finale a Villa Cagnola in cui erano stati presentati al pubblico i "dolci" risultati.

Oggi, giovedì 5 marzo, prende il via l’edizione 2009. Tante la new entry: il gruppo di studenti sarà infatti quasi del tutto nuovo, tranne tre conferme e ci sarà un nuovo docente, Michele Latorre, specializzato in dolci siciliani. Novità anche fra gli sponsor: l’Associazione artigiani sarà infatti presente con la Fondazione San Giuseppe.

Le lezioni andranno avanti fino a giugno.

Larino (Cb): seconda edizione di concorso "Caro amico ti scrivo"

 

Comunicato stampa, 5 marzo 2009

 

L’Istituto Tecnico Industriale di Termoli "E. Majorana" (Sede Carceraria Larino), in collaborazione con la Direzione Carceraria, l’Associazione culturale "La Paranza" e l’Associazione Scuola Strumento di Pace Eip Italia, propone per l’anno scolastico 2008 -2009, la II Edizione del Concorso "Oltre le sbarre", che svilupperà la tematica: "Caro amico ti scrivo".

Al Concorso possono partecipare: alunni della scuola Primaria, alunni della scuola, Secondaria di primo grado e alunni della scuola secondaria di secondo grado. Il Concorso consiste nell’ideare una breve lettera immaginaria, ipotizzando che il destinatario sia: o un papà, o un fratello, o un amico detenuto. Ogni alunno può partecipare inviando una sola lettera.

I lavori dovranno pervenire, in quattro copie, entro il 5 aprile. Una Commissione di esperti, associata agli studenti-detenuti, procederà alla valutazione delle opere e all’attribuzione dei relativi premi. Saranno premiate tre opere per ogni grado scolastico ( con un 1°- 2°- 3° posto) e saranno attribuite delle segnalazione per opere particolarmente pregevoli.

Assegnazione dei premi. Primo premio: Macchina fotografica digitale; Secondo premio: Lettore MP3; Terzo premio: Telefonino. Segnalazioni: Pen driver e/o materiale didattico. Saranno conferiti premi ai docenti coordinatori e sarà attribuito un premio speciale ad un docente che ha coordinato lavori di grande impegno. Il premio speciale è dedicato alla memoria della docente Anna Maria Greco, docente dell’Itis "E. Majorana", prematuramente scomparsa e di cui si intende esaltare la grande abnegazione e passione per il proprio lavoro.

Il Dirigente scolastico, Stefano Giuliani che ha sostenuto l’iniziativa ha commentato: "La scuola può e deve rappresentare il mezzo per dare un senso allo stare in carcere della persona reclusa, per consentirgli di ridefinire il proprio progetto di vita e per valorizzare l’esperienza formativa che si sta vivendo".

"Caro amico ti scrivo - ha detto i direttore della casa di pena, Rosa La Ginestra - vuol essere un ponte tra la scuola fuori e la scuola in carcere, una rete tra istituzioni che, pur con finalità diverse, condividono la necessità di diffondere nei giovani e nell’età adulta la cultura dei valori civili, delle responsabilità personali, del rispetto dell’individuo per sensibilizzare i giovani studenti alla conoscenza di un’area del disagio sociale".

Ecco il parere dello studente, Giuseppe D’Amato: "Attraverso la cultura tutti possiamo cambiare e migliorare la nostra vita, non avrei scommesso dieci centesimi che avrei continuato gli studi e soprattutto non avrei mai immaginato che dopo aver toccato il fondo, sarei riuscito, grazie al sostegno dei docenti, a trovare motivazioni giuste, al punto da programmare il mio futuro".

"L’idea che ha ispirato questo concorso - ha detto la docente, Italia Martusciello - vuole essere un ulteriore strumento per meglio comprendere il mandato educativo della scuola all’interno del carcere".

Immigrazione: Lampedusa; il governo veda con i suoi occhi...

di Pietro Marcenaro (Membro Commissione Diritti Umani del Senato)

 

Aprile on-line, 5 marzo 2009

 

L’intervento Nelle ultime ore altri sbarchi sulle coste isolane. La situazione dei centri in cui (sopra)vivono gli immigrati irregolari rischia il collasso, diventando una polveriera pericolosa dove diritti umani elementari sono calpestati. L’esecutivo deve rivedere le sue decisioni sui Cie e sul tempo di trattenimento, elevato a 6 mesi con l’ultimo decreto, ma soprattutto si deve recare nell’isola inviando i suoi rappresentanti.

Quella di fermare gli sbarchi degli stranieri a Lampedusa attraverso una dimostrazione di durezza è una illusione crudele. Gli arrivi di queste ultime ore lo dimostrano. Il governo e in particolare il ministro dell’Interno Maroni sanno bene che la situazione nell’isola, se si consolida così come è allo stato attuale, non può essere governata. Così come sanno bene che dovranno trasferire altrove coloro che arrivano sulle coste lampedusiane perché le strutture, come era facilmente intuibile da tempo, non possono reggere il peso dell’affollamento. A Lampedusa si vive in condizioni inaccettabili che non possono e non potranno che peggiorare.

Di fronte al sottosegretario Mantovano, in occasione della sua audizione in Commissione Diritti Umani, ho personalmente sottolineato come ciò che ho visto a Lampedusa, ovvero le condizioni di vita degli stranieri nei centri, corrisponde a trattamenti inumani e degradanti, che violano il diritto internazionale e la nostra stessa Costituzione. Ho chiesto al sottosegretario, ma anche al governo, in particolare a Maroni, di recarsi almeno una volta a Lampedusa per vedere con i propri occhi le strutture che accolgono gli stranieri. È una richiesta che ho avanzato almeno dal 12 febbraio senza trovare risposta. Il perché è chiaro: il governo non ha il coraggio di recarsi nell’isola perché non ha il coraggio di vedere ciò che in essa si sta realizzando: un fatto che dimostra di per sé la gravità della situazione siciliana. Il punto è che appare impossibile osservare la realtà di Lampedusa senza pensare poi di intervenire il prima possibile per mettervi fine.

Non è solo un’emergenza legata solo alle condizioni materiali di vita degli immigrati, ma anche all’impossibilità di rispettare i diritti delle persone sanciti dai Trattati internazionali e dalla Costituzione: il diritto alla difesa, quello di disporre di sedi per ricorre contro decisioni considerate ingiuste, quello all’informazione sulla propria situazione. Tutto questo è violato e impossibile da garantire agli stranieri.

Il governo motiva il permanere di questa situazione con l’idea di dimostrare che i restringimenti saranno immediati così da scoraggiare i nuovi flussi migratori, soprattutto irregolari. Una giustificazione senza fondamento, perché gli extracomunitari non in regola che il governo riesce a rinviare nei paesi di origine è una percentuale modesta. Come del resto è modesta quella dei migranti irregolari che sbarcano a Lampedusa via mare. Le presenze straniere che contribuiscono a formare il serbatoio dell’immigrazione irregolare, infatti, è composto soprattutto da persone che permangono in Italia quando il loro permesso di soggiorno è scaduto o non ottenuto. Lo stesso proclama governativo del rimpatrio di ottocentomila irregolari è una pura dichiarazione demagogica, uno spot per catturare il consenso e i voti, da parte di chi vive in una contingenza economica difficile e in un clima di paure, come appunto il popolo italiano.

C’è infatti un rapporto stretto tra le politiche dell’immigrazione perseguite dall’esecutivo e quelle sulla sicurezza che speculano sulla paura. Per la destra l’insicurezza non è un problema da risolvere, ma una risorsa sulla quale investire per aumentare le proprie fortune politiche ed elettorali. Quando l’insicurezza e il timore non esistono, del resto, hanno bisogno di costruirli, essendo componenti essenziali delle loro politiche e strategie elettorali.

Un’organizzazione non certo di sinistra come il Coisp ha recentemente affermato che Lampedusa è una situazione che mette a rischio tutti, forze dell’ordine comprese. Vandalismi e autolesionismo sono presenti e diffusi nelle strutture, come accade in carcere, e proprio questi ultimi sono fenomeni che confermano o meno la validità di una gestione penitenziaria.

Nonostante questa situazione, in Italia esiste una rete di guardacoste che contribuisce a salvare vite umane, come accaduto anche nelle ultime ore. Così come per fortuna è presente un corpo di polizia composto da persone responsabili che cercano di portare avanti il loro impegno e il loro dovere in una condizione di massima difficoltà.

Di fronte a questo si dovrebbe tornare al passato, quando Lampedusa era un modello di prima accoglienza. L’esecutivo deve compiere una retromarcia perché si ricostituiscano i Centri di accoglienza temporanea (ora Centri di identificazione e espulsione), dove accogliere gli immigrati irregolari per affrontare singolarmente le varie vicende umane in base al rispetto dei diritti, anche procedendo ai rimpatri ma solo quando essi siano motivati. L’ultimo decreto che eleva a 6 mesi il trattenimento dei clandestini nelle strutture è stato e sarà un fattore aggravante, drammaticamente, in una situazione di per sé già al limite del collasso. Anche questo andrebbe rivisto. Anche su questo il governo deve tornare indietro.

Droghe: per legge Fini-Giovanardi drogato uguale a carcerato

 

Notiziario Aduc, 5 marzo 2009

 

È l’equazione causata dalla legge Giovanardi-Fini sull’uso e detenzione degli stupefacenti. Secondo un documento sottoscritto da diverse associazioni, Cgil compresa, quel testo ha portato al sovraffollamento delle carceri italiane. E quelle dell’Emilia-Romagna hanno oltrepassato ogni limite

Si chiama DrugFree.Edu ed è un nuovo portale informativo sulle droghe, ideato dal Dipartimento delle politiche antidroga in collaborazione con il Ministero dell’istruzione. Un sito internet rivolto alle scuole, alle famiglie e agli studenti. È stato presentato stamattina a Palazzo Chigi dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi, dal ministro dell’istruzione Mariastella Gelmini e dal sottosegretario Paolo Bonaiuti. Nelle sue intenzioni c’è l’utilizzo di un linguaggio semplice e accattivante per "informare correttamente i giovani sui danni provocati dall’uso di droghe", ha spiegato il Giovanardi.

DrugFree in inglese significa droga libera. Un nome un po’ fuorviante per un portale commissionato dagli stessi ideatori dell’attuale legge, la Giovanardi-Fini, in vigore in Italia sull’uso e la detenzione di stupefacenti. Una legge tutt’altro che tollerante, anzi, eccessivamente repressiva nei confronti di coloro che infrangono i limiti sul possesso di qualunque tipo di droghe, anche solo della cannabis. Quel testo, infatti, ha fatto scomparire qualunque distinzione tra "droghe leggere" e "droghe pesanti", inquadrando così come delinquenti persone normali, semplici consumatori.

Con l’infelice conseguenza di aver riempito a dismisura le carceri italiane. Effetto collaterale che non è di certo stato ricompensato dall’aver risolto i problemi dello spaccio e della tossicodipendenza in Italia.

Successivamente alla presentazione dell’iniziativa web del Dipartimento antidroga, non ha tardato ad arrivare la reazione di Franco Corleone, presidente del Forum Droghe. La "credibilità di Giovanardi è pari a zero" ha detto Corleone definendo il parlamentare modenese "il piccolo zar italiota" per le tossicodipendenze."Che credibilità può avere uno che dice che tutte le droghe sono uguali. Basta usarne una e ti buchi il cervello. Così si fa di ogni erba un fascio e non si aiutano i giovani a distinguere".

Il presidente di Forum Droghe era oggi a Bologna per presentare un documento firmato anche da altre associazioni (fra cui Cnca, Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza) e dalla Cgil, molto critico sulla V conferenza nazionale sulle tossicodipendenze in programma a Trieste dal 12 al 14 marzo.

Corleone e gli altri firmatari accusano in sostanza il Governo di fare una passerella propagandistica per ben nove ministri e comunità "buone", e di non dare spazio a temi importanti come quello della riduzione del danno (considerato "una bestemmia") o agli effetti di sovraffollamento delle carceri provocato dalla Legge Fini-Giovanardi del 2006.

Forum Droghe annuncia così che a Trieste il 13 marzo verrà presentato un libro bianco sugli effetti penali e sanzionatori di questa legge "che ha portato le carceri italiane - osserva Corleone - a livelli di sovraffollamento da pre-indulto": oltre 60 mila detenuti su un capienza regolamentare di 43 mila, 50% dei quali riconducibili per via diretta o indiretta al fenomeno spaccio, "compreso quello presunto".

E nella classifica delle regioni con le carceri più affollate, l’Emilia-Romagna è in testa. 4.302 detenuti al 26 febbraio contro una capienza regolamentare di 2.274 posti ed un tasso di sovraffollamento del 189% (seconda il Veneto con il 159%).

Droghe: la "riduzione del danno", cos’è?, conferenza da rifare

di Benedetta Aledda

 

Liberazione, 5 marzo 2009

 

Lo sapevate che "le droghe, tutte le droghe, anche se prese una sola volta danneggiano il cervello perché alterano i neuroni, intaccano le funzioni psichiche, le emozioni, la capacità di decidere e lo sviluppo della personalità"? È quello che sostiene lo spot a cura del Dipartimento per le politiche antidroga. La versione in video si conclude con tanto di lampadina a incandescenza che esplode in mille pezzi, mentre una voce fuoricampo intima: "Le droghe ti bruciano il cervello e non ne hai un altro. Non usarle mai!".

"Questo messaggio delirante non solo non sortisce alcun effetto dissuasivo, ma anzi fa sì che i giovani pensino che queste campagne servono solo ad arricchire le agenzie pubblicitarie e dicono menzogne", sostiene Franco Corleone. L’associazione di cui è presidente, Forum droghe, non parteciperà alla Conferenza sulle tossicodipendenze, convocata dal presidente del Consiglio (che presiede il Comitato nazionale di coordinamento per l’azione antidroga) a Trieste, dal 12 al 14 marzo.

Eppure, insieme alle associazioni e organizzazioni di settore, ne aspettava la convocazione da 9 anni, perché quella del 2005 a Palermo "non fu altro se non la presa d’atto delle decisioni già assunte dall’allora governo di inasprire le previsioni penali della legge sulla droga". Si legge così nel documento presentato ieri a Bologna e indirizzato alla Conferenza, siglato, per citare solo i primi nomi, da Antigone, dalla Cgil, dal Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza e da quello sulle nuove droghe. I firmatari proveranno a portare a Trieste, anche fuori dalle sedi ufficiali, i temi banditi dalla Conferenza: la riduzione del danno e gli effetti di oltre due anni di applicazione della legge Fini-Giovanardi sulle droghe. Eppure questo genere di appuntamenti, regolati dal Dpr 390, dovrebbe fornire al Parlamento materiali per valutare se sia necessario modificare la legislazione sulle droghe.

La Fini-Giovanardi, secondo Corleone, insieme alla legge sulla recidiva "ha fatto svaporare l’effetto dell’indulto", perché metà dei detenuti sarebbero dentro per reati connessi alla violazione della legge sulle droghe. Un altro effetto negativo lo evidenzia Teresa Marzocchi, vicepresidente del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza, che proverà a parlarne anche all’interno della Conferenza: "Dato che la riduzione del danno non è ancora un servizio, i progetti sono sottoposti alla valutazione politica delle amministrazioni locali che devono finanziarli". Anche se è "vincente", dunque, la riduzione del danno rischia di essere bloccata dall’"ideologia", avverte Marzocchi.

"Quando ci si avvicina alle persone che fanno un uso molto problematico di sostanze", spiega, "non si deve dire: "Ti parlo solo se smetti di drogarti", ma "Se ti droghi, stai attento a farlo così". Dire: "Se ti fai una canna ti bruci il cervello" non serve a instaurare una relazione, a insegnare a qualcuno a non farsi più male di quello che già si sta facendo".

La Cgil parteciperà all’appuntamento di metà mese "solo se sarà garantita pari rappresentanza agli operatori pubblici dei Sert e alle comunità del privato sociale", ha detto Giuseppe Bortone, responsabile tossicodipendenze per il sindacato, che ha ricordato come siano 171 mila gli utenti dei servizi territoriali, il 42% dei quali policonsumatori e il 7% immigrati.

Droghe: con legge Fini-Giovanardi, più basse pene per spaccio

 

Notiziario Aduc, 5 marzo 2009

 

La legge Fini-Giovanardi, che ha eliminato la distinzione tra droghe pesanti e leggere, rende possibile il fatto che "il concreto trattamento sanzionatorio sia più favorevole rispetto al passato".

Lo scrive la Cassazione in una sentenza con la quale ha annullato con rinvio la condanna a 4 anni di reclusione e 14mila euro di multa inflitta dalla Corte d’appello di Bari a un uomo sorpreso con dosi di cocaina, hashish e metadone.

L’imputato era ricorso alla Suprema Corte contro il verdetto di secondo grado, osservando la nuova legge aveva cancellato la differenziazione tra droghe leggere e droghe pesanti, così rendendo inapplicabile la continuazione del reato (ex art. 81 c.p.). Gli ermellini della sesta sezione penale hanno dichiarato fondati i suoi rilievi: "la riforma che ha soppresso la distinzione tabellare tra droghe leggere e droghe pesanti - si ricorda nella sentenza n. 9874 - ha necessariamente mutato il trattamento sanzionatorio da riservarsi a chi illegalmente detiene sostanze stupefacenti di tipo e natura diversi.

Prima della legge novellata, l’art. 73, nei commi 1 e 4, prevedeva diverse figure di reato, in considerazione della diversità dell’oggetto materiale delle condotte (rispettivamente droghe pesanti e droghe leggere), pertanto, in caso di illegale detenzione di sostanze stupefacenti di tipo e natura diversi, il colpevole rispondeva di due reati, generalmente unificati dal vincolo della continuazione".

Adesso, invece, "l’avvenuta assimilazione delle sostanze - sottolineano i giudici di piazza Cavour - impone di ritenere che, nel caso anzidetto, il reato sia ora unico, con la possibilità che il concreto trattamento sanzionatorio sia più favorevole rispetto al passato".

Certo, aggiungono i supremi giudici, "non è da escludere che il giudice dell’appello, nel nuovo giudizio e con adeguata valutazione della vicenda, possa ritenere commisurata, nel caso concreto la pena irrogata, ritenendo che l’imputato, avuto riguardo alla sua personalità ed alla gravità del fatto, (sul quale indice necessariamente il tipo di sostanza oggetto del medesimo) non sia meritevole di un più mite trattamento sanzionatorio", ma la sentenza impugnata va in ogni caso annullata per un nuovo esame relativo alla ritenuta "continuazione interna" e alla misura della pena.

Droghe: Giovanardi; falso che la mia legge diminuisca le pene

 

Notiziario Aduc, 5 marzo 2009

"Non è vero che con la nostra legge abbiamo introdotto un meccanismo sanzionatorio più favorevole rispetto al passato": il sottosegretario con delega alla droga, Carlo Giovanardi, commenta così la sentenza della Cassazione sulle pene per lo spaccio previste dalla legge che porta anche il suo nome, la Fini-Giovanardi.

"Abbiamo semplicemente corretto - spiega Giovanardi - una stortura più volte denunciata dalla dottrina e cioè: chi spacciava contemporaneamente eroina più cocaina più ecstasy (le cosiddette droghe pesanti) veniva condannato per un solo reato. Al contrario, chi invece spacciava cocaina, eroina e derivati della cannabis (hashish e marijuana, le cosiddette droghe leggere) veniva condannato a una pena più pesante, perché si riteneva che commettesse due reati identificabili nello spaccio di droga pesante e spaccio di droga leggera".

"Con la Fini-Giovanardi la pena per tutti i trafficanti e spacciatori di droga è, invece, da 6 a 20 anni, ridotti a 1-6 anni nei casi di lieve entità (piccoli spacciatori), a prescindere dal mix di droghe che vengono cedute".

Messico: scontri in carcere tra bande narcotrafficanti, 20 morti

 

Ansa, 5 marzo 2009

 

Gli scontri in carcere tra fazioni rivali di una banda di narcotrafficanti vicino a Ciudad Juarez, la più violenta città del Messico al confine con gli Usa, hanno fatto oggi 20 morti. Continua a leggere questa notizia

Membri di una piccola gang conosciuta come "Aztecas" hanno preso le chiavi di una guardia dopo l’orario di visita nel penitenziario nel deserto, vicino a Ciudad Juarez. Hanno poi aperto le porte delle celle, liberando 170 carcerati.

"Hanno attaccato gli altri prigionieri in una zona di massima sicurezza con sbarre di ferro e armi rudimentali", ha spiegato Victor Valencia, rappresentante del governo. Ciudad Juarez, poco lontano dalla statunitense El Paso, in Texas, dall’altra parte della frontiera, è diventata l’epicentro della guerra ai cartelli della droga del presidente Felipe Calderon.

Migliaia di messicani, di cui 250 solo nell’ultimo mese a Ciudad Juarez, sono stati uccisi nelle guerre tra le bande di narcotrafficanti che si contendono le rotte della droga per gli Stati Uniti. Il governo ha inviato migliaia di soldati in città per soffocare le violenza, ma i cartelli sono potenti, bene armati e contano molte complicità nella polizia corrotta. Stati Uniti e Canada hanno avvertito i turisti di stare alla larga dalle pericolose città di frontiera questa primavera. Altre truppe sono arrivate a Ciudad Juarez in settimana e l’ufficio del sindaco ha detto che l’esercito prenderà il controllo della forza pubblica, delle carceri e del traffico da lunedì prossimo.

Sudan: italiano in arresto causa debiti della ditta per cui lavora

 

La Repubblica, 5 marzo 2009

 

L’ultima telefonata è di due giorni fa al figlio: "Aiutami, mi stanno portando in carcere". Africa, Sudan, città di Juba. La voce di Pier Albino Previdi, 64 anni, fiorentino di Marradi, trema, lo stanno arrestando perché l’azienda per cui lavora la Cec International del gruppo Gitto di Roma, ha dei debiti per mancati pagamenti con aziende locali per un ammontare di circa 377mila dollari.

"Mio padre è soltanto un consulente esterno - spiega il figlio Tommaso Previdi, dalla sua casa di Marradi - non c’entra niente con i pagamenti, non firma assegni. Lui è soltanto l’ultimo rimasto in Sudan delle persone che hanno lavorato per quell’azienda. Lui è un consulente tecnico, si occupa di materiali".

Sulla vicenda si è mobilitata la Farnesina che, tramite l’ambasciatore d’Italia in Sudan, Roberto Cantone, ha subito contattato le autorità locali per seguire il caso. "Mio padre è del tutto estraneo ai rapporti tra la Cec e le altre ditte che lavorano in Sudan - ha proseguito Tommaso Previdi -. Non è un dirigente della società, quindi non ha trattato, né emesso, né firmato quegli assegni.

Non capisco perché lo abbiano arrestato oltretutto siamo molto preoccupati per la detenzione dal momento che mio padre ha seri problemi di salute". La vicenda è cominciata 12 giorni fa. Inizialmente la polizia di Juba aveva messo sotto scorta il tecnico toscano "per agevolare alcune trattative".

Poi venerdì è stato arrestato e ora è detenuto in un carcere. I familiari - a Marradi vivono anche la moglie Carla e un’altra figlia - temono anche per la salute: "Siamo disperati - ha da 5.000 km di distanza non capiamo cosa sta succedendo a mio padre. Ringraziamo il ministero degli Esteri per l’impegno nella soluzione del nostro caso".

 

 

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