Rassegna stampa 4 marzo

 

Giustizia: ronde tengono in vita il bluff "emergenza crimine"

di Fulvio Scaglione

 

Famiglia Cristiana, 4 marzo 2009

 

La sai l’ultima? Facciamo le ronde per impedire ai cittadini di farsi giustizia da sé! In un altro Paese, risate. In Italia, invece, si fa finta di credere al premier e al ministro degli Interni, gli stessi che per anni hanno dipinto il Paese come una Tortuga in balìa dei criminali.

Qualche bello spirito ha paragonato le ronde tricolore ai Guardian Angels Usa. Ma in America la riduzione dei reati è stata ottenuta con ben altro, come Rudolph Giuliani, sindaco di New York nel periodo cruciale (1994-2001), potrebbe confermare.

I Guardian Angels erano la ciliegina sulla tolleranza zero, che tolse i criminali dalle strade ma creò la più vasta popolazione carceraria del pianeta: 2 milioni di detenuti, uno ogni 143 abitanti. Nella versione italiana, le ronde sono il fattore di un triplice calcolo politico.

Primo: tenere in vita il bluff dell’emergenza crimine. Il Rapporto Istat 2006 descriveva il calo generale di tutti i delitti. Nel 2007 un’indagine dell’istituto Gallup confermava il dato, specificava che "i crimini comuni come il furto nelle case, le rapine e le aggressioni, sono diminuiti nella Ue, con le sole eccezioni di Belgio e Irlanda" e giudicava l’Italia tra i Paesi più sicuri d’Europa. Sulla finta emergenza, però, la maggioranza ha costruito l’ultima vittoria elettorale.

Secondo: nascondere il fallimento della Bossi-Fini. La legge doveva sconfiggere l’immigrazione clandestina, l’ha portata ai record storici: 30 mila irregolari nel 2008. Sono i clandestini a far salire le statistiche sul crimine, perché gli immigrati regolari delinquono quanto gli italiani. Quindi la Bossi-Fini è un propulsore del crimine, e il centrodestra non vuole ammetterlo. Terzo: dare un altro contentino alla Lega Nord, decisiva per la maggioranza. A conferma che il Governo, più che a gestire il Paese, è interessato a gestire il consenso.

 

Padova: una notte al seguito di una ronda

 

Sembra il raduno di vecchi amici per una cena al ristorante dietro l’angolo. I primi ad arrivare a piedi sono in anticipo di dieci minuti sull’appuntamento fissato per le ore 21. Il posto è sempre lo stesso: via Confalonieri, angolo via Tonzig, proprio al centro del quartiere Pescarotto.

Il "ronda tour" parte sempre da qui, più o meno ogni venerdì o sabato. Ma non prima dell’arrivo del capocomitiva, Denis, che giunge puntualissimo, cappello ben calcato in testa, torcione in una mano e nell’altra il sacchetto delle pettorine che distribuisce agli amici. Uno di loro, Gino, ex-pasticciere, suona una vecchia tromba, un cimelio di famiglia che mostra a tutti con orgoglio: "Ha 120 anni ed era di mio nonno che faceva il carabiniere del re".

Dopo un secolo torna a suonare per un vigilantes del rione. Federico, invece, estrae due uova dalle tasche del cappotto: "Sono pronto a lanciarle addosso agli spacciatori. È l’unico deterrente per allontanarli". A colpi di frittata.

Benvenuti a "Ronda city", nel cuore dell’area a più alta densità di rondisti dell’intero Nord-Est, e forse di tutto il Paese. Qui, nel raggio di mezzo chilometro le sigle rondiste sono almeno tre. Ma quella del Pescarotto è senz’altro la più nota. Indossati i corpetti gialli catarifrangenti si può partire per la "missione". Stasera gli attivisti del Comitato sono una trentina, tra cui otto signore e alcuni pensionati. Seguono a poca distanza tre agenti di polizia e un paio di investigatori della Digos, ancora più indietro un’auto dei carabinieri.

Per anni Pescarotto è stato il quartiere "a luci rosse" di Padova, con tanto di signorine nude in bella vista alle finestre e le code d’auto dei clienti che bloccavano ogni santa sera la circolazione dei residenti del rione.

Un degradato rione-dormitorio composto da duemila abitanti, sorto negli anni ‘50 e abitato da molte famiglie di meridionali immigrati, operai, impiegati e tanti anziani. Più di recente gli sono cresciute vicino l’area commerciale e la Fiera e si è sviluppato quello che sarebbe divenuto il famigerato "ghetto di via Anelli".

Da un paio d’anni, cioè da quando è stato chiuso, con il famigerato "muro", e sono state sgomberate le palazzine, gli spacciatori hanno trovato comodo trasferirsi al Pescarotto, che dista poche centinaia di metri. L’ultimo clamoroso maxi-blitz delle forze dell’ordine risale a novembre dello scorso anno, quando duecento carabinieri fecero irruzione nei palazzi al 15/A e B di via Confalonieri. Ma la zona offre sempre nuovi spunti ai cronisti di nera: è di poche settimane fa la notizia di una tabaccheria con il negozio poco distante dal quartiere, rapinata per tre volte in venti giorni da un tossicodipendente che s’è fatto avanti a volto scoperto e se ne è andato tranquillamente inforcando una bici.

"La gente non ne può più: ha paura di uscire di casa; c’è la rabbia per sentirsi minacciati da quattro spacciatori magrebini, nell’indifferenza delle autorità che dovrebbero tutelarci. Allora tre anni fa abbiamo iniziato le ronde per fare opera di disturbo contro i criminali. Li sorvegliamo e li denunciamo. Così un po’ alla volta ci riprendiamo il controllo del territorio". Parola di Denis Menegazzo, 55 anni imprenditore, aria da duro, amante dei poligoni di tiro, indiscusso capo carismatico, nonché presidente del comitato Pescarotto, formalmente apolitico.

"Abbiamo cominciato con i clienti delle prostitute: si fingeva di fotografarli con il cellulare e li si minacciava che avremmo mandato a casa le foto alle mogli. E funzionava, eccome. Così funzionavano gli appostamenti che permettevo di fare alla polizia dalle finestre di casa mia per riprendere i traffici di droga": se la ride Rocco, 47 anni, di Matera, che nel quartiere ha vissuto per sette anni, prima di trasferirsi. Come molti altri, la casa l’ha dovuta svendere perché da quando Pescarotto è infestato dalla criminalità le abitazioni hanno perso la metà del loro valore.

 

Il giornalista egiziano

 

Si passa davanti alle transenne mobili che segnano l’inizio della zona a traffico limitato notturno: "Con questo sistema i clienti delle prostitute non possono più entrare in quartiere", spiega ancora Rocco. Poi si esce dal solito percorso. Questa sera c’è un fuoriprogramma: l’incontro con una fiaccolata di solidarietà alle donne vittime della violenza, organizzata a poche centinaia di metri da un’associazione di emigranti che l’anno scorso ha indetto la prima ronda di stranieri a Padova.

A promuoverla è un giornalista egiziano, Mohamed Ahmed. Sono 15 in tutto, tra giovani africani e ragazze rumene, con uno striscione, qualche cartello e due mozziconi di candeline rosse accese. Al loro fianco il consigliere regionale Raffaele Zanon di An. Ma Mohamed tiene a dire: "Non abbiamo colore politico. Siamo per la tolleranza zero per chi viene a delinquere in Italia. Per questo io partecipo anche alle ronde". Parte un applauso dai volontari del Pescarotto, un abbraccio e poi ognuno va per la sua strada.

Di ritorno in quartiere la serata, finora assolutamente monotona, si anima improvvisamente perché l’auto di Rocco, parcheggiata davanti a un passo carraio è stata multata dai vigili che hanno chiamato il carro attrezzi. L’azione diplomatica del comitato, alla fine, evita la rimozione forzata, ma non la contravvenzione. "Ma come!", alza la voce Menegazzo, indignato, "Quando vi chiamiamo noi perché c’è lo spacciatore in strada, non vi si vede mai. Il tempo per mettere la multa a uno dei nostri che presidia il quartiere, invece, l’avete trovato. Bravi davvero!". Alcune signore del comitato approvano e propongono una colletta per pagare la multa.

"Quando usciamo di casa veniamo avvicinate dagli spacciatori che ci offrono roba buona, e pensare che fino a sette-otto anni fa in questo quartiere si potevano tenere le finestre aperte anche a piano terra", denuncia Maria, una casalinga del comitato, nata e vissuta qui, che divide il suo volontariato tra le ronde, le visite in ospedale e un impegno al club degli alcolisti anonimi. L’anno scorso le rondiste del Pescarotto sono scese in strada occupando i lampioni dove sostavano le prostitute.

"Quando siamo nati, non eravamo figli di nessuno, adesso tutti ci vogliono adottare o imitare. Oramai basta uscire la sera a buttare la spazzatura per raccontare in giro che si è fatta una ronda", sibila Menegazzo, che si dice perplesso in merito al decreto governativo sulle ronde: "Non vogliono che siano politicizzate, ma il sindaco, che dovrebbe organizzarle e gestirle, non è forse un politico?". Niente paura: il sindaco Flavio Zanonato non è affatto entusiasta dell’idea: mettere le guardie ai guardiani gli pare un paradosso più che una grande trovata.

È mezzanotte, l’ora del "rompete le righe". Gli agenti si congedano dai "rondigliotti", come li definiscono con ironia. Per loro la notte in strada inizia adesso. Come per gli spacciatori e i pusher, che hanno visto bene di evitare le torce elettriche sparate in faccia da Denis e compagnia. I vigilantes del Pescarotto, invece, se ne vanno a casa. Missione compiuta. Stasera niente spaghettata assieme, ma la prossima volta.

 

C’è anche il rondista Mohamed

 

Lui alle ronde partecipa da tempo. Anzi un anno fa è stato pure il promotore della prima "ronda multietnica" notturna d’Italia. È Mohamed Ahmed, un egiziano cinquantatreenne, che vive a Padova, ed è in Italia da più di quarant’anni.

Giornalista, conduttore televisivo dell’emittente locale La9, dove conduce il programma Speciale immigrati, rivendica il diritto degli stranieri di dire la loro in fatto di sicurezza: "Siamo a fianco di chi si batte per il rispetto della legge in Italia, e siamo per la tolleranza zero nei confronti di chi delinque. Voglio prendere anche le distanze dai nostri connazionali che si sono macchiati di delitti gravi come lo stupro".

"Gli stranieri in Italia", continua Ahmed, "non devono aver paura di scendere in piazza, anche perché la sicurezza appartiene pure ai loro figli". Ahmed, che in passato è stato vittima di minacce e attentati, si candiderà alle prossime elezioni amministrative a sindaco di Padova, con una lista civica che sosterrà il Centro-destra, composta da soli immigrati.

Giustizia: ma quanto ci costeranno i "bravi" di Don Rodrigo?

di Pietro Ancona

 

Aprile on-line, 4 marzo 2009

 

Le ronde che si costituiranno in emanazione delle "associazioni" autorizzate dal Ministero degli Interni non saranno a costo zero come vorrebbero farci credere i loro padrini. Quelle esistenti, a cominciare dalla cosiddetta "guardia nazionale padana" sicuramente sono state foraggiate dalle amministrazioni locali quando non hanno ricevuto qualche contributo sottomano dalla Presidenza del Consiglio e da qualche Ministero.

Inoltre, i rondisti godrebbero di percorsi privilegiati (anche se ufficiosi) per l’ammissione nei corpi dei vigili urbani, delle polizie provinciali e regionali. La scadenza attesa da migliaia di rondisti è il potenziamento delle prerogative degli enti territoriali che verrà con il federalismo fiscale. Le ronde dovranno avere una centrale operativa di riferimento, degli uffici, delle attrezzature.

I locali degli uffici dovranno essere comprati o affittati e, naturalmente, attrezzati di quanto serve. I rondisti dovranno collegarsi con la "centrale", comunicare e ricevere eventualmente istruzioni. La centrale operativa dovrà avere un centro di monitoraggio. Dovrà fornire ai rondisti in primo luogo addestramento, poi telefonini di collegamento, pettorine o divise, scarponi militari per effettuare i percorsi di perlustrazione.

Insomma, dovrà possedere quanto necessario per l’assolvimento di compiti che, inizialmente potranno essere soltanto notturni e poi potrebbero turnare nelle ventiquattro ore. Tutto questo ha un costo che dovrà essere sopportato dai contribuenti. Naturalmente all’inizio i costi saranno minimi per non allarmare.

Ma piano piano cresceranno dal momento che l’efficienza costa, è molto costosa. La cosa più inquietante dell’affaire ronde è costituita dalle associazioni. Certo, le associazioni possono essere costituite da ex carabinieri o ex poliziotti ma questo di per sé non è una garanzia. Forse che i torturatori di Bolzaneto non erano poliziotti? Non lo erano forse coloro che facevano sentire dai loro telefonini ai ragazzi che massacravano di botte "faccetta nera"? Ci sono poliziotti e poliziotti.

Moltissimi sono certamente persone civili e democratici ma altri, specialmente coloro che vengono specializzati nell’arte della controguerriglia urbana e della difesa dell’ordine pubblico negli Usa, non danno tante garanzie.

La prevaricazione sul cittadino o sul detenuto inerme è sempre più diffusa in un Paese il cui Ministro all’Interno si appella apertamente alla cattiveria e alla carcerazione come punizione, pena da scontare. Mentre ai ragazzi dei centri sociali vengono chiuse con vere e proprie azioni militari le sedi e si diffonde una criminalizzazione per tutti coloro che fanno parte della galassia extraparlamentare della sinistra italiana (già l’aggettivo era quasi sinonimo di terrorismo anche ora che sono diventati extraparlamentari i verdi, i socialisti, i comunisti), si istituzionalizzano corpi paramilitari apertamente legati ai partiti di governo.

Durante la Milano degli spagnoli del sedicesimo secolo descritta da Manzoni la legge era rappresentata se non ufficialmente dai bravi di Don Rodrigo che aspettano in un punto deserto Don Abbondio e gli intimano di non celebrare le note nozze certamente da personaggi che ne tolleravano le azioni.

In Italia avremo presto i "bravi" che avranno il compito di tutelare l’ordine pubblico. Da chi? Certamente non dagli evasori fiscali, dai falsari di bilanci, da quanti vendono carta straccia in forma di obbligazioni. Ma delle prostitute, degli extracomunitari, dei rom, dei lavavetri. Magari le ronde conterranno un fiore colorato all’occhiello. Un ascaro da assumere si trova sempre e l’Italia ne aveva addirittura veri e propri battaglioni nella sua vicenda coloniale in Africa.

Giustizia: sicurezza al tempo delle ronde... la chance di Roma

di Mario Marazziti

 

Corriere della Sera, 4 marzo 2009

 

Roma ha una chance. Di invertire la tendenza sull’allarme sicurezza, sulle ronde-fai-da-te. Cominciano ad esserci i dati. Non solo quelli sull’Italia. Londra e Roma, Gran Bretagna e Italia, tre volte di più i furti in appartamento nel Regno Unito. Rispetto agli altri paesi europei meno omicidi, non da oggi, da un decennio almeno, circa il 15 per cento in meno.

Mentre parliamo e scriviamo, Londra è cronicamente alle prese con l’epidemia di omicidi, di teenager ad opera di teenager: 23 casi nella prima metà dello scorso anno. E gli stupri, odiosi, terribili, umilianti, laceranti: al 90-95 per cento ad opera di parenti o di persone già conosciute e solo il 5 per cento ad opera di sconosciuti (la metà delle vittime sono donne immigrate). Quando un cittadino è derubato fa fatica a credere che non è "un’emergenza". Ma le forze dell’ordine, i media, gli esperti, le autorità civili e politiche hanno il dovere di ragionare.

I reati a Roma, come in Italia, da oltre un decennio sono in calo, con un lieve aumento relativo tra 2006 e 2007. Ma il calo era ripreso già, a Roma, dal novembre 2007. Sei mesi prima delle elezioni. Eppure è andata come è andata e dall’estero telefonano per chiedere se Roma è sicura. È un boomerang autolesionista per la città della qualità della vita e della bellezza.

Nel mondo crescono i linciaggi, la voglia di farsi giustizia da soli. La civiltà di un paese e di una società si misura anche dalla capacità di resistere a questi istinti primordiali. In Italia già c’è un numero più alto che in Europa degli addetti ai vari corpi di pubblica sicurezza, rispetto alla popolazione. Le ronde istituzionalizzate delegittimano lo Stato e indeboliscono le forze dell’ordine.

In zone controllate dalla criminalità organizzata potrebbero essere selezionate proprio dai poteri paralleli. E assorbono risorse delle amministrazioni locali. Fino al paradosso di Padova, con le forze dell’ordine che fanno da cuscinetto tra ronde e critici delle ronde.

Se proprio si deve fare qualcosa (sottraendo risorse alle strade da aggiustare, al metrò C, ai semafori da aggiustare in punti pericolosi), almeno che i fondi comunali vadano per pagare un po’ di straordinari di polizia e carabinieri. Roma ha la responsabilità di indicare una strada civile e di buon senso in un paese in cui la vita, quella vera, si fa più dura.

Giustizia: stupro Caffarella; tutti i test scagionano i due romeni

di Fiorenza Sarzanini

 

Corriere della Sera, 4 marzo 2009

 

Sono tutti negativi gli esami sui reperti trovati nel parco della Caffarella, a Roma, dopo lo stupro di San Valentino. Sul tavolo del pubblico ministero c’è la relazione finale della polizia Scientifica che scagiona definitivamente Alexandru Isztoika Loyos, 20 anni, e Karol Racz, 36. Anche i prelievi effettuati sui mozziconi delle sigarette fumate dai violentatori e sui fazzolettini usati dopo la brutale aggressione smentiscono la tesi dell’accusa.

Il profilo genetico ricavato dagli esperti effettuando queste analisi è uguale a quello rilevato sui tamponi prelevati alla vittima che è già risultato differente da quelli degli indagati. E dunque non ci può essere alcun dubbio: non sono stati i due romeni arrestati il 17 febbraio a violentare la ragazzina di 15 anni e a picchiare il suo fidanzato.

Lunedì prossimo i due indagati dovranno comparire di fronte al tribunale del Riesame, ma è possibile che prima di quella data la stessa procura di Roma decida di chiederne la scarcerazione. In ogni caso il magistrato dovrà mettere a disposizione dei giudici e dei difensori l’esito dei test biologici effettuati, visto che la legge impone la presentazione di tutte le prove a discarico. Alla biologa Carla Vecchiotti, che spesso collabora con la questura, è stato affidato il compito di "rileggere" i dati già acquisiti. Nessun nuovo prelievo potrà essere effettuato, la consulente si limiterà a verificare le comparazioni per un esito che appare ormai scontato.

Non combacia il Dna e anche l’esito delle verifiche sulle impronte digitali conferma l’estraneità dei due. Si tratta di alcuni frammenti rilevati sulle schede telefoniche che sono stati comparati con le tracce lasciate dalle dita dei due e hanno consentito di escludere qualsiasi grado di compatibilità, come gli esperti della Scientifica hanno spiegato al magistrato.

Frana dunque l’impianto accusatorio, l’indagine affidata alla squadra mobile deve ripartire da zero. Nonostante il riconoscimento in foto da parte della vittima di Alexandru Loyos e la confessione poi ritrattata del giovane, difeso dall’avvocato Giancarlo Di Rosa. La convinzione degli investigatori, ricavata grazie ad un esame accurato del cromosoma "Y" estratto dal Dna, è che bisogna ricominciare a cercare nella comunità romena. Attraverso l’analisi di questo particolare componente si può infatti ricavare l’etnia del profilo genetico e in questo caso il risultato raggiunto conferma che la nazionalità è proprio quella.

Ma oltre, al momento, non si riesce ad andare perché i dati relativi ai due Dna non compaiono in alcuna banca dati e dunque si tratterebbe di persone mai finite sotto inchiesta. Per cercare i colpevoli si riesaminano gli identikit tracciati con le descrizioni fornite dalla ragazzina e dal suo fidanzato. Immagini che non sembrano avere alcuna somiglianza con i due arrestati. In particolare quello attribuito a Racz. "Basta guardarlo - dichiara l’avvocato Lorenzo La Marca che ieri ha potuto visionare il fascicolo processuale - per rendersi conto dell’errore".

Disegna il volto di un ragazzo tra i 20 e i 25 anni, con una folta frangia a coprire la fronte. L’uomo finito in carcere è invece completamente stempiato ed è escluso che si sia tagliato i capelli dopo il 14 febbraio visto che nei giorni precedenti fu ripreso in alcuni filmati della polizia che controllava l’accampamento dove viveva, ed era identico al momento dell’arresto.

"Inoltre - chiarisce il legale - la vittima ha parlato di un giovane alto circa un metro e 75 mentre il mio assistito non raggiunge il metro e 55". Durante l’interrogatorio seguito alla violenza, alla giovane furono mostrate dodici foto. Lei indicò anche un altro romeno, risultato poi estraneo alla vicenda. Il quadro emerso complica la ricerca della verità sulla violenza sessuale avvenuta il 21 gennaio a Primavalle, quando una donna di 41 anni raccontò di essere stata aggredita alla fermata dell’autobus e stuprata da due uomini.

Giustizia: D’Elia; l'informazione diffonde xenofobia su romeni

 

Adnkronos, 4 marzo 2009

 

Accusati di violenza sessuale nel parco della Caffarella a Roma e poi scagionati dal test del dna. Sui due rumeni "l’informazione diffonde messaggi di xenofobia" ed "eccita l’opinione pubblica". Il risultato è che "gli organi preposti ad affrontare questi fenomeni sono condizionati".

Sergio D’Elia presidente di Nessuno tocchi Caino punta l’indice contro i mass media che condannano lo straniero e spingono anche il governo e il Parlamento a fare "leggi manifesto" che non risolvono i problemi. I due rumeni accusati, chiede, "dopo che hanno messo loro il marchio di infamia, chi li risarcirà?".

"Quando si semina vento si raccoglie tempesta, arrivano le leggi manifesto che rispondono all’opinione pubblica eccitata, si entra in una spirale che porta al degrado dello stato di diritto nel nostro paese". "Vedo in questo fenomeno un ruolo decisivo dell’informazione: se questa diffonde messaggi di xenofobia, anche gli organi preposti ad affrontare fenomeni di questo tipo sono condizionati. E quando si crea l’emergenza - sottolinea ancora D’Elia - si avviano processi securitari che portano a fare operazioni sbagliate dal punto di vista giudiziario o di polizia".

Spesso si tratta di "trovare un colpevole purché sia". "Se la questione stupri fosse stata trattata tenendo conto della realtà, secondo la quale oltre il 90% delle violenze nei confronti delle donne accadono in ambito familiare o di conoscenti. E invece il messaggio è: c’è l’emergenza stupri e il colpevole è il rumeno. Tanto che oggi - rimarca D’Elia - ci sono titoli come preso il rumeno sbagliato: resta l’impostazione razzistica".

D’Elia insiste sulle responsabilità dell’informazione: "Se c’è una percezione di insicurezza e si punta l’extracomunitario, prima, il comunitario come il rumeno adesso, è il frutto di quello che si è seminato. Ma io mi chiedo: questi due rumeni potranno essere anche dei delinquenti incalliti, ma in questo caso sono innocenti. Chi li risarcirà del danno? Sono stati sbattuti in prima pagina con le loro foto e gli hanno messo il marchio di infamia e di colpevolezza", ricorda.

Quanto alla confessione poi ritrattata di uno dei due rumeni accusati, D’Elia non si stupisce: "Solo un ingenuo può credere che in Italia i metodi di interrogatorio siano rispettosi dei principi internazionali. Rita Bernardini e altri parlamentari mi hanno raccontato di casi a Rebibbia in cui i detenuti sono stati sottoposti a trattamenti disumani e degradanti. Non posso denunciare questo caso specifico, ma il rumeno ha detto di essere stato indotto a confessare. Ci penserà il giudice".

Una parte di responsabilità spetta anche al mondo politico. D’Elia apprezza le parole del presidente della Camera, Gianfranco Fini, che invita a non fare l’uguaglianza tra straniero e criminale: "Onore a Fini che ha avuto il coraggio di porre la questione e ha detto quello che tutti dovrebbero dire: la responsabilità penale non si può trasferire all’etnia di appartenenza.

La responsabilità della politica è quella di legiferare su un fatto di cronaca, sull’onda dell’emergenza, dimostrando di non avere alcun cultura dei fenomeni. Ma in Italia ci sono tutte le leggi, il problema è di farle applicare".

Lettere: psicologi penitenziari, lavoratori stabilmente precari

 

Mattino di Padova, 4 marzo 2009

 

Gentile direttore lavoriamo da anni come psicologi penitenziari presso il Ministero della Giustizia da 26 anni, in modo stabilmente precario. Il 18 febbraio sul quotidiano la Repubblica una collega, la dottoressa Carla Fineschi espone brevemente il disagio professionale vissuto da chi appartiene alla nostra categoria.

Ci associamo alle constatazioni esternate dalla collega sottolineando che l’anno 2009 inizia con un provvedimento che taglia, fino a renderlo inconsistente, il servizio psicologico in carcere. Tale provvedimento arreca un grave danno, sia a coloro che lavorano in condizioni di "inadempienza obbligata" a causa delle già scarse risorse, sia ad un servizio finalizzato a dare valutazioni sulla personalità e/o pericolosità delle persona detenute e attivare processi psichici di riabilitazione.

Poiché tali obiettivi sono legati, oltre al contenimento del disagio psichico e la gestione dei detenuti, alla riduzione della recidiva, svilire tale servizio non può non comportare serie ricadute su una reale tutela della sicurezza della collettività.

La continua riduzione delle ore (in media 30 per cento in tutti gli istituti d’Italia, con una presenza per ciascun esperto che varia da 10 a 30 ore mensili!) ha portato il rapporto detenuti-esperti a 1 su 854 rendendo impossibile un lavoro già complesso e giunge, peraltro, in concomitanza con la richiesta del Ministero della Giustizia, di un monitoraggio straordinario atto a scongiurare gesti suicidari, com’è noto 21 volte più frequenti in carcere rispetto all’esterno.

Gli esperti, psicologi e criminologi, hanno garantito per oltre trent’anni un servizio specialistico previsto dalla legge sull’Ordinamento penitenziario, maturando nel tempo una preziosa ed insostituibile esperienza, offrendo una qualità di lavoro estremamente qualificato. Molti di noi sono stati i pionieri di un servizio che si è man mano affinato e strutturato intorno ai dettati della Legge Gozzini che rappresentano e custodiscono diritti di cui la Costituzione Italiana è garante.

La decisione di ridurre drasticamente gli interventi specialistici mirati all’osservazione e trattamento dei detenuti è inaccettabile poiché alla luce di un contesto sociale di forte disagio, che invoca la certezza della pena e l’inasprimento delle pene, dovrebbe corrispondere un’azione più incisiva che faccia della detenzione un tempo e luogo di cambiamento e crescita della persona e prevenzione, non certo di rafforzamento del suo potenziale distruttivo.

L’Amministrazione ci offre un accordo di lavoro, ribadisco e mi rifaccio all’affermazione della collega Fineschi, "unilaterale" perché privo di tutele: né assistenza per malattie, contributi pensionistici, né ferie, né retribuzione dignitosa, né continuità e stabilità del rapporto: una condizione insomma di estrema fragilità professionale che non tutela noi come lavoratori e professionisti, né tutela il servizio per gli utenti.

Pensiamo che sia arrivato il momento che il lungo viaggio a fianco dell’amministrazione penitenziaria giunga ad una meta contrattuale in cui le due parti abbiano parità di ascolto e venga data attenzione alle persone, alla peculiarità e utilità sociale del lavoro che svolgono da 34 anni in questo delicato ambito della giustizia, riconoscimento e tutela a professionalità altamente specialistiche.

 

Giovanna Donzella, psicologo penitenziario a Padova

Paola Giannelli, psicologo penitenziario a Spoleto

Bologna: la Uil-Pa denuncia; alla Dozza più di 1.100 detenuti

 

Il Velino, 4 marzo 2009

 

"È da oltre un anno che manifestiamo contro il provveditore regionale proprio per evitare che si arrivasse in queste condizioni". È quanto afferma in un comunicato Domenico Maldarizzi, coordinatore provinciale di Bologna della Uil Pa penitenziari, in merito alla situazione del carcere Dozza di Bologna.

"Nonostante la diffida del sindaco Cofferati che ha meritoriamente posto la questione, la Dozza di Bologna - continua Maldarizzi - versa ancora in condizioni di degrado. E pensare che ad oggi si registra la presenza record di oltre 1.100 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 483 e di una capienza tollerabile di 884.

Sicuramente in termini percentuali Bologna è l’istituto più affollato d’Italia. Oramai a Bologna vi sono cameroni con sei detenuti dove i ristretti fanno fatica a stare tutti in piedi contemporaneamente. Tutto ciò pare non interessare a nessuno e a pagarne un caro prezzo sono esclusivamente gli operatori penitenziari lasciati da soli a fronteggiare una emergenza socio-sanitaria che dovrebbe preoccupare le persone responsabili".

"A Bologna - prosegue Maldarizzi - vi è una gravissima carenza d’organico di polizia penitenziaria (vi è una carenza di circa 200 uomini come da decreto Fassino del 2001, tra l’altro mai condiviso dalle organizzazioni sindacali perché insufficienti). Le risposte da parte del Prap e dell’amministrazione centrale a questo stato di cose è stato di continuare a distaccare gente per esigenze varie dell’amministrazione. Intanto a Bologna ogni poliziotto deve vigilare dagli 80 ai 300 detenuti. Anche il personale inquadrato nell’amministrativo-contabile soffre di una grave carenza d’organico ma soprattutto vi è una insufficiente dotazione di personale inquadrato nel ruolo degli educatori (oggi sono solo 3 ed un capo - area a fronte di oltre 1.100 detenuti).

La cosa più grave - conclude Maldarizzi - che alla Dozza, dopo la dottoressa Ceresani, non è stato mai nominato un direttore, ma dei Direttori di giornata che si susseguono ognuno con le proprie idee e molto spesso contrarie a quelli che lo hanno preceduto, e allo stesso tempo nessuno di essi è messo nelle condizioni di attivare dei progetti a medio lungo termine".

Rieti: niente soldi per il personale, il nuovo carcere resta chiuso

 

Il Messaggero, 4 marzo 2009

 

Rieti, calma piatta. La situazione del nuovo carcere del capoluogo sabino continua a restare stazionaria. O meglio bloccata: struttura nuovissima e ultramoderna, direi all’avanguardia, ma ancora chiusa nonostante i lavori di costruzione siano stati ultimati ormai da mesi per carenza di personale".

Lo ha detto il capogruppo alla Regione Lazio della Lista Storace che proprio ieri si è recato a Rieti, insieme al suo stretto collaboratore Daniele Belli, per verificare eventuali sviluppi sulla mancata apertura del nuovo carcere. "Ormai la situazione sta assumendo i contorni del grottesco: le carceri romane in particolare e quelle laziali più in generale sono di nuovo in emergenza sovraffollamento e una struttura come quella di Rieti che potrebbe dare una mano a decongestionare altri istituti della Regione continua a rimanere chiusa - ha aggiunto Rinaldi - Sembra la storia di un paziente tenuto in coma farmacologico perché mancano i medici in grado di rianimarlo.

E tutto perché il ministero della Giustizia non ha ancora provveduto a inviare il personale che, attualmente a Rieti si trova a fronteggiare una situazione del tutto paradossale: quella cioè di dover convivere con le problematiche quotidiane in una vecchia struttura, quella di Santa Scolastica attualmente aperta, non più idonea a svolgere il ruolo di istituto penitenziario e attendere l’apertura di un nuovo carcere all’avanguardia che però da troppi mesi viene rinviata".

Una situazione per altro ben gestita dal direttore Annunziata Passannante. "Altra questione aperta riguarda il problema dell’assistenza sanitaria che, come riscontrato anche a Viterbo, dopo il passaggio delle competenze dal ministero della Giustizia alle Asl locali, ha fatto registrare un netto peggioramento - ha proseguito Rinaldi -.

Se in un istituto come quello di Santa Scolastica a Rieti, viste le ridotte dimensioni della casa circondariale, la mancanza di alcune figure medico-specialistiche non crea particolari problemi, non si può d’altra parte sorvolare sull’insufficienza del servizio infermieristico. Le difficoltà di budget della Asl reatina, infatti - ha concluso Rinaldi - hanno portato, oltre al ritardo nel pagamento degli stipendi degli operatori sanitari di circa quattro mesi, a problemi nel presidio sanitario, dovuti a tagli e riduzioni imposti appunto al servizio infermieristico. Insomma, una situazione del tutto anomala ed intollerabile".

Il nuovo carcere è stato realizzato nel pieno rispetto dei tempi previsti, anzi la conclusione dei lavori è arrivato in leggero anticipo. L’avrebbero dovuto inaugurare già entro la fine del 2008, poi nuovo rinvio alla primavera di quest’anno, ma a questo punto si prevede un ulteriori slittamento.

Bergamo: i volontari; 5 detenuti per cella, così impazziscono!

di Alessia Barbiero

 

DNews, 4 marzo 2009

 

Il Comitato Carcere e Territorio: quasi un detenuto su quattro manifesta problemi psichiatrici. Vivere in cinque in una stanza pensata per due persone li spinge al limite, non sopportano più il contatto con gli altri.

Quasi un detenuto su quattro manifesta problemi psichiatrici. Depressione, insofferenza nei confronti degli altri, ansia, stress. Alcuni vanno letteralmente "fuori di testa". Problemi di tutti i tipi che investono una buona fetta dei detenuti nella Casa Circondariale di via Gleno, "si potrebbe presupporre il 20-25% di tutti i reclusi", spiega Valentina Lanfranchi, presidente del Comitato Carcere e Territorio. La causa? La mancanza di una stretta rete tra carcere e strutture sanitarie, che tuteli la salute di chi si trova all’interno del Gleno.

"Il problema è - spiega - che attualmente i rapporti tra carcere e ospedali sono occasionali, ci sarebbe bisogno di nuovi protocolli fissi e strutturati. Certo, c’è la presenza costante di un medico, ma non è sufficiente". Il Comitato Carcere e Territorio si occupa principalmente di attività extra-murarie, come l’inserimento dei soggetti ristretti in detenzione nell’ambito lavorativo, ma ha anche dei punti di contatto all’interno della struttura: "Dopo aver visto le condizioni igieniche e di salute dei detenuti - continua - abbiamo più volte lamentato e segnalato la necessità di una maggiore presenza di operatori sociali per aiutarli ad affrontare i problemi di natura psichica e psichiatrica".

 

Trasferimenti limitati

 

Si tratta di disagi che si trasformano in vere e proprie malattie e non è difficile capire il motivo per cui si manifestano: "Il sovraffollamento - afferma - è senza dubbio una delle cause maggiori: vivere in cinque in una stanza pensata per due persone li spinge veramente al limite, non sopportano più il contatto con gli altri, non tollerano nemmeno le cose più lievi, per alcuni di loro diventa tutto insopportabile e il dialogo con gli altri è assente".

Poi le condizioni igieniche, naturalmente declassate a causa della presenza spropositata di persone nella casa circondariale. Si aggiunge la piaga della tossicodipendenza e il taglio dei fondi alle carceri per avere un quadro completo della situazione all’interno del Gleno. E quando i problemi psichiatrici diventano "estremi" per il detenuto ci sono poche possibilità di ricevere cure adeguate all’esterno del carcere.

"Con i tagli previsti - aggiunge Lanfranchi - queste opportunità diminuiscono ancora di più: gli spostamenti non sono così immediati, muovere un detenuto fuori dal Gleno significa prelevare un agente della polizia penitenziaria, che normalmente si dedica a un’altra cosa, e predisporlo al seguito del detenuto per tutto il tempo necessario".

 

Rischio di suicidi

 

Trascurati e abbandonati, è facile poi cadere in tentazioni di farla finita. A volte succede infatti che qualche recluso mostri intenti suicidi. "Ce lo confermano - continua - gli operatori sociali che sono in contatto con loro. A volte sollevano questo timore, dato le condizioni di stress in cui versano i detenuti. La paura c’è sempre, anche perché ci sono stati, negli anni passati, episodi di questo. Non è la prima volta infatti che nel Gleno ci scappa il morto. Non dobbiamo aspettare che succeda qualcosa di tragico per rendercene conto: certo, non è facile percepire immediatamente le intenzioni dei detenuti, ma è importante cercare di arginare il più possibile il rischio che compiano atti "disperati".

Reggio Emilia: la polizia; nel carcere condizioni di vita inumane

 

La Gazzetta di Reggio, 4 marzo 2009

 

Don Daniele, cappellano all’Opg di Reggio, ha denunciato la situazione all’interno della struttura: "Il sovraffollamento dell’Opg di Reggio è anche dovuto al fatto che diversi Ospedali Psichiatrici Giudiziari in Italia sono stati chiusi definitivamente o per cause momentanee, quindi parecchi detenuti sono stati trasferiti a Reggio. Questa situazione genera grande conflittualità tra i detenuti".

"Per venti ore al giorno - continua - devono stare in cella senza alcun svago, sono in un numero maggiore nella cella rispetto a quanti ne possa in realtà ospitare. In più c’è stato un radicale taglio dei costi: le conseguenze sono che da tre settimane non viene distribuita carta igienica e raramente possono usufruire del servizio del barbiere".

Anche Linda De Maio, Commissario penitenziario, afferma: "Nella Casa Circondariale non si assicurano condizioni di vita umane e dignitose perché mancano gli strumenti. Con il problema del sovraffollamento c’è un ammassamento di uomini dentro a celle di pochi metri quadrati".

E continua: "Le risorse sono molto ristrette quindi si devono effettuare tagli su cose ritenute secondarie, perché si devono continuare ad assicurare servizi quali i colloqui, le comunicazioni telefoniche e i traduttori che servono ai detenuti stranieri".

"Inoltre - spiega - non viene effettuata la manutenzione ordinaria degli edifici: per esempio il tetto ha delle perdite che generano gravi danni alla struttura e, soprattutto, pericolose per i quadri elettrici". Un altro problema riguarda le condizioni igienico sanitarie. Michele Malorni, segretario provinciale del Sindacato autonomo Polizia Penitenziaria e Mario Tafuto, il suo vice, dicono all’unisono: "Chiediamo che l’Ausl vada a verificare le condizioni delle mense. Recentemente un poliziotto si è trovato dei vermi dentro il piatto, per questo i poliziotti da tre settimane si astengono dal mangiare come forma di protesta". Conclude Malorni: "Chiediamo lo sfollamento di 70 detenuti alla Pulce e almeno 20 nell’Opg".

Nuoro: e nel carcere di Mamone 40 detenuti tornano a scuola

di Bernardo Asproni

 

La Nuova Sardegna, 4 marzo 2009

 

"Nel carcere ci sono esseri umani, si lavora, si sconta la pena, si spera": è una riflessione di Vincenzo Alastra, ex direttore sino a qualche anno fa della Casa di Reclusione di Mamone che ha creduto nel carcere aperto alla società civile e nel riscatto dei detenuti attraverso corsi professionali e la cultura.

Ora la situazione è un po’ cambiata: è in continuo aumento il numero dei detenuti (circa 400), l’organico del personale è stazionario e, quindi, insufficiente (110 unità), i contatti con l’esterno e i corsi ridotti al lumicino. C’è il problema del direttore a scavalco. Ci sono due educatori e alcune figure esterne (assistente sociale e psicologo).

Ciò che rimane saldo è la scuola, l’ancora che lascia sperare in un domani migliore, una volta pagato il conto con la giustizia. In questa colonia agricola di circa 3000 ettari, in agro di Onanì e Bitti, opera il Centro territoriale permanente - educazione per gli adulti, che dipende dalla scuola media Maccioni di Nuoro e opera oltre che a Mamone (dal 2004) anche nelle carceri di Badu ‘e Carros e Macomer e nei corsi serali per adulti di Nuoro e Siniscola.

Le lezioni, finalizzate alla licenza media, a Mamone si tengono lungo l’arco della settimana: italiano (Maria Lucia Sannio), storia e geografia (Graziano Massaiu), matematica (Andrea Gardu), inglese (Gianfranco Pinna). Una volta la settimana, per alcuni alunni, interviene l’insegnante Raffaela Podda che tiene lezioni di alfabetizzazione. La scuola media è frequentata da 40 alunni, sempre nel pomeriggio, 3 ore e mezzo al giorno, dopo il lavoro.

"Debbo dire che si tratta di alunni motivati, che partecipano attivamente alle lezioni. Sono adulti e quindi, come altrove, non esiste il problema disciplina. Nelle scuole serali gli alunni sono motivati in forma diversa. In carcere non c’è altro e serve anche ad ammazzare il tempo, in forma costruttiva" ha commentato la professoressa Sannio.

Per gli insegnanti è un lavoro speciale. In questi anni hanno fatto gemellaggi con la scuola media di Irgoli e Dorgali sul tema ambiente e legalità, un corso di decorazione floreale con mostra finale ad Onanì, corso di decoupage con mostra alla Maccioni, "sempre con i detenuti in permesso". "Non è un lavoro come un altro, non solo lezione strettamente didattica, l’insegnante deve essere un po’ sociologa e un po’ psicologa. Fare educazione civica".

Un lavoro impegnativo e gratificante "se parli e riesci a capire le loro problematiche". Sannio: "Adesso porterò un computer. Chiedo sempre alle banche e agli enti di offrirci strumentazione in disuso. La scuola media Maccioni ci fornisce il materiale di facile consumo". È una scuola che funziona ma per molti sarebbe opportuno che l’amministrazione carceraria puntasse anche ai corsi professionali e a maggiori contatti con l’esterno.

Cagliari: Isili; solo 3 evasioni dall’unica Colonia Penale d’Italia

 

Redattore Sociale - Dire, 4 marzo 2009

 

Un complesso costruito in Sardegna più di un secolo fa e ristrutturato solo in parte. Ospita i detenuti che possono lavorare nei campi e allevare bestiame. Nel cuore del Sarcidano, è anche un posto per scoprire un lavoro. È l’unica colonia penale agricola in Italia. Nel cuore del Sarcidano, lontano dai carceri di massima sicurezza di Buoncammino a Cagliari o Bad’e Carros a Nuoro, c’è la colonia di Isili che ospita 168 detenuti (ce ne stanno 178), ma anche un intero allevamento composto da quasi 800 pecore, 170 capre, 150 maiali più cavalli e buoi. Ma non solo.

All’interno funziona anche un caseificio e un’azienda modello specializzata nella produzione di foraggio che poi serve per alimentare il bestiame. Tutto sembra, ma non un carcere, sebbene le alte recinzioni e le guardie carcerarie tengano sempre gli occhi ben aperti per evitare fughe (a dire il vero improbabili, visto che in tanti dal carcere chiedono di poter essere trasferiti nella colonia). "Cerchiamo di fare il massimo - dice Marco Porcu, direttore della penitenziario agricolo - coinvolgiamo i detenuti in numerose attività, cercando di capire anche l’ambiente da cui provengono. Ma di recente, proprio sulla colonia di Isili, sono scoppiate delle polemiche, alcune ad esempio incentrate sull’utilità reale del lavoro svolto dai carcerati.

"Da noi lavorano 130 detenuti per venti giorni al mese - assicura il direttore - ovviamente non in condizioni di pioggia, come accaduto quest’inverno. Il lavoro in campagna non è possibile se le condizioni climatiche non lo consentono. I compiti sono diversificati, anche perché non tutti sanno come funzione un allevamento. C’è chi è impegnato nelle cucine, oppure nel giardinaggio o nelle pulizie. Ma il vero successo è nei risultati: lo scorso anno solo tre evasioni".

Poche, anzi pochissime per un luogo praticamente aperto. Nonostante sia stato ristrutturato di recente, il complesso risale comunque all’Ottocento con la necessità di ulteriori interventi già programmati. "Abbiamo psicologo, psichiatra e assistenti sociali - conclude il direttore - anche perché qui ci sono soprattutto ladri e tossicodipendenti".

Roma: il Garante dei detenuti, anche per il Cie di Ponte Galeria

 

Comunicato stampa, 4 marzo 2009

 

Grazie ad uno specifico Protocollo d’intesa con la CRI l’Ufficio del Garante Regionale dei diritti dei detenuti diretto da Angiolo Marroni potrà svolgere la sua attività anche nel Centro Identificazione ed Espulsione (Cie, ex Cpt) di Ponte Galeria.

Il Protocollo - presentato nei suoi dettagli questa mattina - è stato siglato dallo stesso Garante e dal Direttore del Cie di Ponte Galeria Fabio Ciciliano. L’accordo segue quello siglato nei mesi scorsi dallo stesso Garante con il Presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo e l’allora Prefetto di Roma Carlo Mosca, che riguardava sempre la possibilità, per l’Ufficio del Garante, di operare anche all’interno del Cie di Ponte Galeria. In base al protocollo d’Intesa, i collaboratori del Garante dei diritti dei detenuti assicureranno una presenza fissa settimanale nel Cie "per la tutela dei diritti degli ospiti e il rispetto delle regole della legalità all’interno del centro".

L’Ufficio del Garante sarà presente tanto nel settore maschile che in quello femminile: il Protocollo prevede la possibilità di incontrare gli ospiti stranieri del centro all’interno di spazi appositamente apprestati autonomamente su richiesta degli stessi ospiti o su segnalazione del personale della Croce Rossa che opera nel Cie.

Una parte importante del Protocollo riguarda l’aspetto medico. Sono, infatti, molti i rischi di ordine sanitario legati alla presenza per un tempo non breve - di recente allungato per Decreto dal governo da 60 fino ad un massimo di 180 giorni - di tante persone di estrazione economica e sociale diversa in spazi ristretti. Per questi motivi, il Protocollo prevede la possibilità che Ufficio del Garante e Croce Rossa attivino iniziative comuni in tema di prevenzione sanitaria. Inoltre, al fine di poter assicurare il miglior trattamento diagnostico-terapeutico agli ospiti, Centro di Identificazione ed Espulsione e Ufficio del Garante si attiveranno per ottenere tempestivamente le documentazioni sanitarie e i piani terapeutici eventualmente istaurati presso altre strutture mediche.

"È estremamente importante che questo ufficio possa accedere all’interno del Cie di Ponte Galeria - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni commentando la firma del Protocollo d’Intesa - Con le recenti norme approvate dal Governo, infatti, che allungano da 60 a 180 giorni il periodo massimo di permanenza degli ospiti nei Centri di Identificazione ed Espulsione possiamo assimilare queste strutture a veri e propri luoghi di detenzione dove è fondamentale monitorare, come già facciamo all’interno delle 14 carceri della nostra regione, il rispetto dei diritti di quanti vi dimorano".

Il direttore del Cie Fabio Ciciliano ha ricordato che, proprio nei giorni scorsi, il Centro di Ponte Galeria ha ricevuto due importanti riconoscimenti: la certificazione di qualità del servizio di gestione Uni-En-Iso 9001/2008 e la Certificazione Etica secondo la normativa internazionale SA 8000. "Due importanti riconoscimenti - ha detto Ciciliano - che nessun Cie italiano ed europeo e nessuna unità della Croce Rossa Italiana ha mai ottenuto. Il protocollo con il Garante arriva a chiudere il cerchio delle tutele e delle garanzie che forniamo, in qualità di gestori del Cie, agli ospiti di questo centro. Con l’Ufficio del Garante intendiamo rafforzare la nostra collaborazione in un momento in cui, anche alla luce del recente Decreto del governo, siamo costretti a riorganizzare tutta l’attività di gestione degli ospiti".

Prato: il Tribunale è ingolfato dai processi per legge Bossi-Fini

 

Il Tirreno, 4 marzo 2009

 

Un visitatore che capitasse per caso nei corridoi del Tribunale di Prato potrebbe pensare di avere le traveggole, di aver sbagliato città e forse anche paese. L’elenco dei processi in corso di trattazione è una lettura istruttiva e aiuta meglio di tante altre cose a capire come mai la giustizia ha tempi lunghi e le risorse sembrano non bastare mai.

Prendiamo ad esempio le cause fissate lo scorso martedì. Al primo piano del Palazzo di giustizia, davanti al giudice monocratico, erano fissati 10 processi: nessuno di questi riguardava un imputato italiano, erano otto cinesi e due nordafricani. Al secondo piano, sempre davanti al giudice monocratico, la situazione non era molto diversa: su 22 processi, 13 riguardavano stranieri e solo 9 imputati italiani.

Complessivamente, su 32 procedimenti, ben 23 (cioè quasi tre su quattro) sono stati istruiti nei confronti di stranieri. Se confrontiamo la percentuale di stranieri che vivono in provincia con quella di stranieri che finiscono in Tribunale ci accorgiamo che la seconda è molto più alta. Significa che sono più propensi a delinquere? Non esattamente, almeno nel senso che si dà comunemente al termine.

La maggioranza dei procedimenti che riguardano stranieri è conseguenza della legge Bossi Fini sull’immigrazione: il caso classico è il cinese che viene arrestato perché senza permesso di soggiorno dopo essere già stato intimato ad andarsene. Il cinese passa una notte in cella, il mattino seguente compare davanti al giudice per la convalida e viene scarcerato, di solito viene processato qualche settimana dopo e patteggia 8 mesi con la condizionale.

L’effetto pratico di questa procedura che impegna notevoli risorse e rallenta i processi "normali" è praticamente nullo. Il cinese torna in libertà e anzi, se viene nuovamente controllato non può essere arrestato. Certo, un giorno alcune di quelle condanne potrebbero diventare effettive (senza grande beneficio per le carceri e per la giustizia), ma la sostanza è che sull’altare della Bossi Fini si sacrifica e si rallenta tutto il resto.

"La criminalità straniera non la scopriamo oggi - commenta Francesco Antonio Genovese, presidente del Tribunale - Ma va detto che i cinesi molto spesso sono anche vittime dei reati. Il vero problema che abbiamo in Tribunale, a mio parere, più che il processo penale è quello civile. Perché il dibattimento penale ha tempi ragionevoli, mentre quello civile è lento". D’altra parte, ricorda il presidente Genovese, c’è anche un problema di organico, con 49 addetti presenti rispetto ai 69 che dovrebbero essere in servizio.

Roma: presentazione rivista "Roma Dentro - speciale 8 marzo"

 

Comunicato stampa, 4 marzo 2009

 

Presentazione della rivista Roma Dentro - speciale 8 marzo dedicate a tutte le donne della realtà penitenziaria. 9 marzo 2009, ore 15.30 - Casa Circondariale Rebibbia Femminile - Roma.

La rivista bimestrale Roma Dentro realizzata dall’Asociazione Onlus Ora d’Aria, grazie al contributo del V Dipartimento - U.O. Inclusione Sociale Ufficio per i Detenuti ed ex del Comune di Roma, è uno strumento rivolto alla popolazione detenuta romana. Il prossimo numero della rivista, interamente distribuita all’interno delle carceri sul territorio di Roma, sarà dedicato alle donne che gravitano nell’ambito penitenziario, e riporterà le voci delle protagoniste, dalle donne detenute al personale femminile di sorveglianza, dalle familiari alle volontarie.

Propone una riflessione sulla condizione di detenzione al femminile con cui si è confrontato un recente regolamento interno, e il punto del dibattito sulla delicata situazione delle detenute madri, presentando le diverse proposte legislative in materia e la realtà dell’accoglienza che offre il territorio di Roma.

Per quanto riguarda il personale femminile di Polizia penitenziaria si presentano i progetti a loro destinati, come una formazione mirata da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Ministero di Giustizia e un impegno da parte del Comitato Pari Opportunità del Dipartimento stesso. Senza dimenticare che le donne sono anche dall’altra parte, all’esterno degli istituti, come madri, mogli, figlie, sorelle, senza tralasciare le questioni identitarie legate alle persone transessuali ristrette.

Roma Dentro su donne e carcere sarà presentato per la festa della donna, in occasione dell’evento organizzato per il 9 marzo alle ore 15,30 all’interno della Casa Circondariale Rebibbia Femminile. Alla presentazione seguirà lo spettacolo "Grease Tribute" a cura della compagnia B-Way. Per informazioni: Associazione Ora d’Aria - 06.69924595 - oradaria@mclink.it.

Larino (Cb): interesse per il convegno sui suicidi tra i detenuti

 

Comunicato stampa, 4 marzo 2009

 

Dopo l’incontro iniziale del 17 marzo scorso, svoltosi nella Casa di Reclusione di Larino, promosso dal Centro di Servizio "Il Melograno", in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale di Larino e con il patrocinio dell’Assessorato alle Politiche Sociali della Regione Molise, nella nuova Sala della Comunità in Largo Pretorio, si è svolto il convegno dal titolo "Il suicidio: il problema e la sua prevenzione".

Relatori dell’incontro, il direttore dell’Istituto di pena di Larino, la dr. Rosa La Ginestra, ed il professor Maurizio Pompili, psichiatra e titolare della Cattedra di Suicidologia all’Università "La Sapienza" di Roma.

Nel suo intervento di apertura, il direttore, La Ginestra, ha ricordato come quello del suicidio sia un problema che investe tutta la società, in special modo l’ambiente carcerario, dove si registrano indici di gran lunga superiori tra la popolazione ristretta.

Tanto che nel 2007 il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha emanato una circolare per l’individuazione di un protocollo di accoglienza dei detenuti che entrano per la prima volta in carcere, seguita nel dicembre 2008 da altre disposizioni rivolte alla salvaguardia dei detenuti già reclusi, fino alla circolare del gennaio 2009 che invitava le Direzioni ad organizzare giornate di sensibilizzazione sul problema, tanto all’interno che all’esterno degli Istituti di Pena.

"Per un carcere il suicidio è un evento critico - ha affermato il direttore, La Ginestra - che comporta anche problemi di sicurezza interna. Da aprile 2008 - ha poi aggiunto - con il passaggio delle competenze sanitarie dalle strutture penitenziarie a quelle pubbliche, si è venuto a creare il momento ideale per mettere in rete conoscenze e competenze che possano arginare quello che può essere definito come un’emergenza di salute pubblica, che necessita di percorsi comuni di prevenzione".

Concetto ripreso dal professor Maurizio Pompili in apertura del suo intervento, il quale ha affermato che il suicidio rappresenta "la catastrofe sociale più grave del pianeta, che miete ogni anno oltre un milione di morti in tutto il mondo, con una media di un suicidio ogni 4 minuti".

"Eppure - ha spiegato il docente de "La Sapienza" - il suicidio non ha a che fare con la morte, ma testimonia, al contrario, un attaccamento disperato alla vita da parte di chi lo compie. Presente in tutto il mondo e comune a tutte le età, negli ultimi cinquant’anni i maggiori casi di suicidio sono stati registrati soprattutto nei soggetti di età compresa tra i 15 ed i 24 anni, arrivando a porsi come seconda causa di morte tra i giovani, dopo gli incidenti stradali".

Partendo da un excursus storico dello studio del problema - che inizia in maniera scientifica nell’800 - il professor Pompili ha affrontato le questioni legate agli studi medici-psichiatrici, alle terapie farmacologiche e ai fattori di rischio che delineano cause multifattoriali che vanno ben al di là delle comuni patologie psichiatriche, ma che trovano terreno di coltura nel profondo della sofferenza umana.

"Potremmo definire il suicidio come una fuga da un dolore mentale insopportabile, a cui il soggetto non trova soluzione immediata, se non quella dell’interruzione violenta della vita - ha concluso Maurizio Pompili - Il suicidio, dunque, non come movimento verso la morte, ma come allontanamento da uno stato perturbato interiore da cui non si riesce ad uscire".

Da qui l’invito alle strutture penitenziarie ad indagare in profondità sui profili psicologici dei ristretti, attraverso la creazione di equipe professionalmente formate ad intervenire in questo grave problema. L’incontro, come di consueto, si è chiuso con il dibattito pubblico che ha dato modo ai cittadini di interloquire con i relatori.

Immigrazione: l'accordo Italia-Libia; vergognosi aiuti vincolati

 

www.unimondo.org, 4 marzo 2009

 

"Il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia fa fare un grosso passo indietro al nostro paese in termini di efficienza e qualità dell’aiuto allo sviluppo. Gli investimenti previsti dall’accordo infatti, rilanciano la vergognosa pratica dell’aiuto legato" - afferma un comunicato di ActionAid commentando la ratifica del Trattato da parte dal Parlamento libico che è stato firmato nei giorni scorsi dal leader libico Muammar Gheddafi e del presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi.

"L’accordo - spiega ActionAid - è su base ventennale e prevede il finanziamento di attività contabilizzate come Aiuto Pubblico allo Sviluppo (Aps) per un ammontare di circa 200 milioni di euro annuali. Ma questi aiuti sono vincolati al 100% all’appalto di imprese italiane, portano il totale dell’aiuto legato italiano a ben il 60% del totale. Per aiuto legato si intende lo stanziamento di aiuti a un determinato paese in cambio di stringenti vincoli commerciali o all’obbligo di acquisto di prodotti provenienti dal paese donatore.

"Con questo accordo, la costruzione di strade e infrastrutture in Libia verrà affidata alle imprese italiane, con un aumento dei costi di oltre il 30% rispetto a quanto si spenderebbe appaltando le opere a imprese locali o al miglior offerente scelto con un bando internazionale. Sicuramente non ci troviamo davanti ad un utilizzo efficiente dei fondi pubblici. Il nostro paese - conclude la nota di ActionAid - dimostra ancora una volta di non tenere in minima considerazione gli obiettivi della Dichiarazione di Parigi in materia di efficacia degli aiuti sottoscritti nel 2005".

Secondo il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia l’Italia si impegna a realizzare "progetti infrastrutturali di base nei limiti di una spesa di 5 miliardi di dollari per un importo annuale di 250 milioni di dollari in 20 anni e la Libia si impegna ad abrogare tutti i provvedimenti e le norme che impongono vincoli o limiti alle imprese italiane operanti nel paese e a concedere visti di ingresso ai cittadini espulsi nel 1970.

I due Paesi collaboreranno inoltre "nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, all’immigrazione clandestina: le due parti promuoveranno la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche" - sottolinea il Trattato che prevede anche una collaborazione nel settore della Difesa "prevedendo la finalizzazione di specifici accordi relativi allo scambio di missioni tecniche e di informazioni militari, nonché lo svolgimento di manovre congiunte".

L’applicazione del Trattato - spiega una nota di Amnesty Italia "potrebbe contribuire a mettere a repentaglio la vita e i diritti dei migranti e dei richiedenti asilo che si trovano in Libia o che lì potrebbero essere ricacciati proprio grazie alla cooperazione tra i due paesi e all’ingente contributo economico dell’Italia alle autorità di Tripoli. La Sezione Italiana di Amnesty International, insieme ad altre Organizzazioni non governative aveva chiesto al Parlamento di non autorizzare la ratifica del trattato senza l’introduzione di specifiche garanzie: "In particolare, una condizione che subordini chiaramente la cooperazione dell’Italia al rispetto dei diritti umani da parte della Libia e l’introduzione di strumenti di monitoraggio indipendenti dell’attuazione del trattato".

Intanto gli autori del film-documentario "Come un uomo sulla terra" con una lettera replicano all’Ambasciata libica in Italia esprimendo "profonda preoccupazione per le garanzie dei diritti umani dei migranti" per il fatto che Governo italiano sia fortemente e ufficialmente impegnato nel sostenere la Gran Giamahiria nella lotta all’immigrazione clandestina. Il film che sta portato all’attenzione la terribile realtà dei centri per la detenzione dei migranti in Libia e le responsabilità italiane, raccoglie tra l’altro le testimonianze di uomini e donne etiopi ed eritrei in Italia che sostengono di aver subito da parte della polizia libica varie forme di violazione dei principali diritti umani durante il loro viaggio attraverso la Libia.

Gli autori del film, insieme con Amnesty Italia, Fortress Europe e numerose altre associazioni hanno lanciato una raccolta di firme online per una petizione indirizzata a Parlamento italiano, Parlamento e Commissione europea e Unhcr che chiede di "promuovere una commissione di inchiesta internazionale e indipendente sulle modalità di controllo dei flussi migratori in Libia in seguito agli accordi bilaterali con il Governo Italiano".

Droghe: portale per scuole, con gli esperti in video-conferenza

 

Ansa, 4 marzo 2009

 

Un portale Internet dedicato alle scuole (dunque a studenti, insegnanti e genitori) per scoraggiare l’uso di droghe, alcol e tabacco tra i giovani. È questo lo strumento messo in campo dal ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini e dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla Droga Carlo Giovanardi per raggiungere le nuove generazioni.

La pagina web si chiama DrugFree.Edu (anche se il link è leggermente più complicato: http://edu.dronet.org), è già on-line e offre contenuti differenziati ad adulti e ragazzi. Ma anche uno strumento nuovo di interazione: il "Drug expert link", un sistema di videoconferenza facilitata che permette di collegare a distanza più scuole tra loro e di farle parlare con un esperto. Un servizio del tutto gratuito per le scuole.

"Il nostro è solo un piccolo concorso - sottolinea Giovanardi - nella lotta alla droga, ma è importante che alla scuola vengano dati i supporti didattici per educare i ragazzi. Secondo una recente ricerca il 50% di loro sottovaluta la pericolosità della cocaina". La scuola "già da tempo - ricorda Gelmini - è impegnata nella lotta e nella prevenzione all’uso dell’alcol e della droga, questo progetto ha il valore aggiunto di mettere le scuole in rete".

Serve, continua il ministro, un "impegno forte nella prevenzione anche del disagio". Molti giovani cominciano a drogarsi anche per motivi di disagio sociale. "Ma- chiude il ministro- credo sia corretto insegnare ai ragazzi il senso della responsabilità", bisogna, insomma, "togliere alibi a chi si droga".

Droghe: le Associazioni; a Trieste ma senza dogmi né pregiudizi

 

Fuoriluogo, 4 marzo 2009

 

Per uno spazio di libero confronto sui temi centrali della politica delle droghe. La V Conferenza nazionale governativa sulla droga e la tossicodipendenza, per come è stata finora progettata e organizzata, rischia di trasformarsi più in un puro evento mediatico e di non poter adempiere alle sue vere finalità istituzionali e alle aspettative e ai bisogni del sistema di intervento.

La Conferenza nazionale sulle droghe convocata per il 12, 13, 14 marzo a Trieste è attesa dal sistema pubblico e privato di intervento sociosanitario, dagli operatori della giustizia e dal mondo dei consumatori da ben nove anni. L’appuntamento intermedio di Palermo non fu altro se non la presa d’atto delle decisioni già assunte dall’allora governo di inasprire le previsioni penali della legge sulla droga e non a caso fu trascurato dalla gran parte degli operatori e degli enti.

La Conferenza, che per mandato dovrebbe tenersi ogni tre anni, rappresenta un diritto e un bisogno (in questi anni negato o trascurato) di chi a vario titolo è investito dalle politiche sulle droghe e ci appare oggi ancor più urgente in una fase di trasformazione velocissima e profonda del mondo dei consumi, dei consumi problematici e delle dipendenze.

Tuttavia, anche la Conferenza di Trieste non si presenta, al momento, come quell’occasione di confronto aperto e di interlocuzione con la politica e con il legislatore di cui si avverte la necessità. Di più: essa neppure sembra adempiere realmente al dettato del Dpr 309, che all’art. 8 chiarisce come la finalità prima della Conferenza sia di valutare l’applicazione della legge al fine "di individuare eventuali correzioni alla legislazione antidroga dettate dall’esperienza applicativa".

Una discussione sulle ricadute penali e sanzionatorie della normativa tanto più necessaria in quanto la legge vigente del 2006 fu approvata in fretta come parte di un decreto legge urgente sulle Olimpiadi e con voto di fiducia, dunque senza l’opportuno dibattito parlamentare, e tanto più urgente di fronte al nuovo sovraffollamento penitenziario. Guardando il programma ufficiale previsto, molte ci sembrano le criticità:

Tra le centinaia di ospiti a carico del Dipartimento Politiche Antidroga, gli operatori pubblici rischiano di essere una esigua minoranza.

L’assenza di un coinvolgimento effettivo, sia per le modalità che per i tempi stretti di preparazione, dei principali attori delle politiche e dei servizi nella costruzione della Conferenza.

La totale mancanza di momenti in seduta plenaria di discussione sulla legge e sui suoi risultati, per dare invece spazio alla sfilata di ministri.

La presenza di ben 25 sessioni di lavoro, che per la loro organizzazione non permettono un reale confronto fra il pubblico degli operatori presenti né tantomeno una interlocuzione coi responsabili delle politiche.

La presenza di un non meglio identificato "televoto" nella plenaria finale per orientare le decisioni finali, mentre, come è noto, la Conferenza non è un’assemblea abilitata ad assumere decisioni formali. Un’occasione come questa dovrebbe consegnare alla fine di giornate di vero confronto e scambio una rappresentazione onesta e obiettiva della discussione. Invece un voto conclusivo dei partecipanti, per esprimere il "gradimento" o il consenso su una proposta piuttosto che su un’altra, è una forzatura inaccettabile, che si presta ad enormi rischi di strumentalizzazione. Ci domandiamo, poi, come sia possibile poter votare un documento o degli indirizzi senza aver avuto luoghi di interazione reale e di esplicitazione delle diverse posizioni, per non dire che tale meccanismo richiederebbe criteri trasparenti di rappresentatività della platea dei votanti, chiaramente assenti in un consesso come questo.

Altrettanto grave ci appare la scelta, di pura ispirazione ideologica e di preconcetto, di non prevedere una riflessione sui servizi di prossimità e di riduzione del danno, che sono da 20 anni presidi importanti del sistema di intervento. Una recente ricerca del Cnca quantifica ormai in circa 250 in tutta Italia i progetti e i servizi ispirati a tale filosofia e metodo di intervento, con importanti risultati sia da un punto di vista della tutela della salute che del contatto e della presa in carico precoce di consumatori ad alto rischio.

D’altra parte è totalmente assente ogni riferimento al grave e pericoloso processo di riduzione crescente delle risorse sociali che sarebbe necessario destinare a pratiche di accompagnamento e di inclusione sociale, soprattutto per le situazioni più problematiche, al quale corrisponde in modo quasi simmetrico il ricorso al carcere e in generale alla legislazione penale e punitiva. Nello stesso tempo, invece, si assiste ad una recrudescenza della repressione nelle piazze, nei luoghi di aggregazione giovanile e nei contesti del divertimento.

Per questo motivo abbiamo ritenuto di avviare un percorso ampio di collaborazione, tra enti e associazioni diverse, affinché sia garantita a Trieste l’opportunità di dibattere - anche con iniziative al di fuori della Conferenza - i temi cruciali della politica delle droghe, dando voce a tutti gli operatori coinvolti e a tutti coloro che sperimentano sulla loro pelle e nel loro lavoro quotidiano gli effetti degli attuali indirizzi punitivi, a cominciare dai consumatori.

In particolare riteniamo fondamentale mantenere l’attenzione su questi temi dimenticati:

1) L’innovazione degli interventi. Il fenomeno droghe muta con straordinaria rapidità rispetto al tipo di sostanze e agli stili di consumo e di vita; il tutto esige da parte del sistema integrato dei servizi uno sforzo di aggiornamento e sperimentazione, il quale implica necessariamente a sua volta una disponibilità certa ed adeguata di risorse, che in questi anni non è esistita. Pensiamo al Fondo nazionale antidroga regionalizzato (con la legge 45 nella 328), al 25% del fondo nazionale che avrebbe dovuto garantire ricerca e innovazione dei servizi e delle metodologie a livello nazionale ormai scomparso da anni dal bilancio dello Stato, agli organici non coperti e al precariato dei Sert, alle rette insufficienti delle comunità terapeutiche. È inscindibile il nesso fra questo tema e il ruolo delle Regioni, dei Comuni e delle Asl, con le connesse questioni della mancata vera e diffusa applicazione degli Atti di Intesa del 1999, che prevedevano l’innovazione e la regolarizzazione del sistema dei servizi pubblici e del terzo settore e dei piani d’azione nazionali e regionali.

2) Controllo versus prevenzione. Un dibattito ampio ed articolato sull’approccio preventivo ai consumi di sostanze sui loro rischi diretti ed indiretti e sul significato dell’esasperazione in atto dei "controlli" e delle loro modalità applicative, in particolare nelle scuole, in famiglia e nei luoghi di lavoro. Pensiamo alla delicata questione degli accertamenti sui lavoratori che svolgono particolari mansioni e alla loro collocazione rispetto ad una possibile positività. Il controllo come risposta prevalente, che rischia sempre più di essere identificata come concezione prioritaria della prevenzione, e la rinuncia ad investimenti sempre più strutturati di tipo educativo e di sanità pubblica.

3) La riduzione del danno nel sistema dei servizi. La necessità di affermare la collocazione dei servizi e degli interventi di riduzione del danno e dei rischi in un sistema stabile di intervento, in un’ottica di sanità pubblica, di possibile presa in carico e contatto precoce nelle situazioni in vari modi a rischio (la piazza, il loisir, i rave, ecc.), sulla base della provata efficacia non solo rispetto alla tossicodipendenza più classica, ma anche rispetto ai nuovi stili di abuso e consumo problematico.

4) La valutazione della legge. Un approfondimento sulle conseguenze concrete dei correnti approcci legislativi, e in particolare sull’approccio penale verso il consumo di sostanze, in termini di risultati attesi e verificabili, anche in rapporto con la grave questione carceraria di cui il tema droghe rappresenta un fattore decisivo. Terminato l’effetto indulto, che dall’approvazione delle modifiche del 2006 fino a qualche mese fa aveva attenuato l’impatto della normativa sul sistema penale e penitenziario, dovrebbe essere oggi compiutamente verificabile sia la recrudescenza sui consumatori di droghe sia l’inefficacia delle misure compassionevoli in esse previste, come l’allargamento del ricorso ai trattamenti alternativi.

5) La scienza e la politica. Storicamente il rapporto fra scienza e politica è sempre stato difficile, per la tentazione di quest’ultima a piegare le evidenze a fini ideologici. Da qui la tendenza a dare risalto, per fini strumentali, soprattutto ad alcuni indirizzi come attualmente quelli delle neuroscienze, e ad ignorarne altri. Ne è un esempio la campagna di prevenzione sulla "droga brucia-cervello", in linea col più vetusto - e contestato anche sul piano dell’efficacia del messaggio - scare approach (approccio terroristico).

6) La collocazione europea dell’Italia. È necessario che l’Italia non si contrapponga alla politica dei 4 pilastri così come è stata faticosamente costruita passo dopo passo - da ormai più di 15 anni - dalla Unione europea, posizione che ha consentito ad un intero continente di definirsi su un piano internazionale con un profilo unitario e la cui validità è stata dimostrata, nella maggioranza dei Paesi europei, dallo svilupparsi in questi anni dei più vari servizi.

Per queste ragioni, e in particolare sui temi che abbiamo indicato e che ci sembrano trascurati nella proposta istituzionale, intendiamo impegnarci per garantire a Trieste un dibattito e confronto realmente aperto, libero, pluralista, che coinvolga sia coloro che decideranno comunque di partecipare alla Conferenza sia coloro che non riconosceranno la legittimità di questo appuntamento.

Primi firmatari: Antigone; Cgil nazionale; Cnca (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza); Cnnd (Coordinamento Nazionale Nuove Droghe); Forum Droghe; Forum Salute Mentale; Gruppo Abele; Itaca Italia.

Droghe: a Trieste sì, ma per un confronto autentico ed esteso

di Susanna Marietti

 

Associazione Antigone, 4 marzo 2009

 

Si terrà a Trieste dal 12 al 14 marzo prossimi la Quarta Conferenza Nazionale sulle Tossicodipendenze organizzata dal Governo. "A Trieste senza dogmi né pregiudizi " è il titolo del documento che esprime la posizione comune di Antigone, Cgil, Cnca (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza), Cnnd (Coordinamento Nazionale Nuove Droghe), Forum Droghe, Forum Salute Mentale, Gruppo Abele e Itaca Italia. La legge prevede che il presidente del Consiglio convochi ogni tre anni una Conferenza Nazionale sulle droghe durante la quale confrontarsi con "soggetti pubblici e privati che esplicano la loro attività nel campo della prevenzione e della cura della tossicodipendenza".

Le conclusioni emerse da tale confronto vanno comunicate al Parlamento, "anche al fine di individuare eventuali correzioni alla legislazione antidroga dettate dall’esperienza applicativa". Non è questo però quel che è successo negli ultimi anni.

La Quarta Conferenza, tenutasi a Palermo nel dicembre 2005, fu organizzata senza alcun desiderio di un autentico dialogo con gli operatori del settore, con il mondo delle professioni e con l’associazionismo. La scelta di operare l’inasprimento penale che poco dopo sarebbe stato approvato con la cosiddetta Fini-Giovanardi era già stata presa, e nessuno intendeva metterla in discussione.

Nei giorni della Conferenza di Palermo, gli interlocutori che si sentirono esclusi da quell’assise - primo tra tutti il cartello "Non incarcerate il nostro crescere" - promossero presso l’Aula Magna dell’Università La Sapienza di Roma una contro-conferenza nella quale fu presentato un dettagliato programma di riforma delle politiche sulle tossicodipendenze, purtroppo non attuato dal Governo Prodi nemmeno nel suo passo minimale e fondamentale dell’abrogazione della Fini-Giovanardi.

Sono dunque di fatto nove anni che si attende un confronto con il Governo su questi temi. Ma oggi a Trieste si rischia di ripetere l’esperienza palermitana. "A Trieste senza dogmi né pregiudizi" elenca una serie di criticità che emergono dal programma della Conferenza, tra cui il fatto che tra i molti ospiti a carico del Dipartimento Nazionale per le Politiche Antidroga gli operatori pubblici rischiano di essere una minoranza (pare che Carlo Giovanardi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alla droga, abbia invitato le comunità terapeutiche di Scientology), la prevista sfilata di ministri a scapito di momenti adeguati di discussione sulla legge e sui suoi risultati, la mancanza di una riflessione sui servizi di prossimità e di riduzione del danno che da due decenni vengono ormai sperimentati con successo.

I firmatari del documento, nel tentativo di ovviare alle mancanze governative, hanno avviato un percorso di collaborazione tra enti e associazioni che a vario titolo hanno a che fare con il tema delle tossicodipendenze. L’idea è quella di organizzare anche iniziative esterne alla Conferenza. Questo affinché Trieste possa configurarsi davvero quale un’occasione di confronto e di presa di parola di tutti coloro che sperimentano in prima persona gli effetti dell’attuale normativa, tanto per il loro lavoro quotidiano quanto perché direttamente consumatori.

Droghe: Fict; drogarsi non è un diritto, nessuno irrecuperabile

 

Notiziario Aduc, 4 marzo 2009

 

Oggi ci troviamo, dopo 4 anni, alla vigilia di un evento che, perlomeno sotto l’aspetto delle presenze, prevede la partecipazione di tutte le componenti, pur con i soliti distinguo, i se ed i ma, che storicamente accompagnano la vigilia di questo momento.

Molti sono i nodi da affrontare, dall’aspetto normativo a quello giudiziario, dai rapporti con le regioni alla definizione di una reale integrazione, dalle metodologie di intervento alle nuove dipendenze, senza tralasciare ovviamente la ridondante questione economica, ancora più grave se si considera la congiuntura particolarmente sfavorevole.

Ovviamente prima ancora delle risposte che emergeranno dalla Conferenza sulle diverse problematiche affrontate, sarà importante il metodo di confronto che verrà adottato. In altre parole sarà decisivo consentire la reale e concreta possibilità di un dibattito aperto e franco, partendo da quello che unisce e non da quello che divide, pur nella legittima diversità di vedute.

Sicuramente siamo consapevoli della difficoltà che accompagnano necessariamente l’organizzazione di un evento che mira a mettere intorno al tavolo soggetti molto diversi tra loro, per storia, esperienza, motivazione, ispirazione ed anche finalità istituzionali. Visto l’ampio spazio dato ai diversi operatori e organizzazioni attraverso le pre-consultazioni speriamo che finalmente trovino spazio le risoluzioni dei problemi!

Riteniamo al contrario fondamentale che la Conferenza mantenga alti i propri obiettivi, pur nelle inevitabili difficoltà, intervenendo sui fili scoperti, sugli snodi cruciali, sulle questioni determinanti, la consideriamo infatti uno strumento di partecipazione e di conseguenza, un diritto ed una responsabilità.

Molte le criticità da affrontare:

le enormi diversità con le quali viene affrontato il tema delle tossicodipendenze nelle diverse regioni. Attualmente, nonostante l’accordo Stato-Regioni per la "Riorganizzazione del sistema d’assistenza ai tossicodipendenti" approvato il 21 gennaio 1999 (ben 10 anni fa!), in molte Regioni l’atto d’intesa non è stato ancora attuato o lo è solo in parte.

Ciò evidentemente determina un’inaccettabile situazione a "macchia di leopardo" dove mancando parametri omogenei, si assiste ad una applicazione della normativa con notevoli differenze negli accreditamenti, sia per quanto concerne gli standard strutturali che quelli del personale di assistenza e, di conseguenza, nei costi dei servizi.

la questione delle rette, diverse da regione a regione, che, oltre a non venir adeguate regolarmente in base ai reali costi della vita, non vengono nemmeno riviste in considerazione del fatto che la tipologia di utenza, inserita nelle Comunità, è sempre più impegnativa e necessita di assistenza continua anche notturna, assume per il 70% farmaci, e presenta una sempre più elevata cronicità a cui le Comunità stanno dando risposte con incremento del personale ad alta professionalità.

gli inaccettabili ritardi con cui vengono erogate le rette compromettono la sopravvivenza stessa delle Comunità.

le forti disomogeneità in merito alle risorse finanziarie messe in campo dalle Regioni per progetti di sperimentazione-innovazione relative ad azioni di prevenzione e trattamento; come pure manca una revisione articolata e approfondita dei Livelli Essenziali di Assistenza da applicare uniformemente in tutte le Regioni.

Fondamentale sarà pertanto la partecipazione delle Regioni alla Conferenza, e soprattutto l’approccio che esse avranno e la loro disponibilità ad aprire un confronto sulle questioni problematiche.

Dal canto nostro la Federazione parteciperà, come sempre ha fatto, con responsabilità ed apertura ai lavori della Conferenza, portando il proprio apporto di esperienza e competenza, ma al tempo stesso mantenendo ferme le posizioni valoriali che da sempre ne contraddistinguono le azioni.

Sugli strumenti siamo pronti e disponibili al massimo confronto, sui principi generali propri della nostra Federazione invece non sono possibili compromessi: centralità della persona, drogarsi non è un diritto e nessuno è irrecuperabile.

Con questo stile ci accosteremo alla Conferenza, con il nostro bagaglio di esperienze e professionalità, proponendo alcune piste di lavoro, approfondite e condivise con i nostri Centri federati, in occasione del Convegno Nazionale Fict di Vitorchiano dello scorso gennaio.

Tra le tante questioni, proporremo:

di istituire un tavolo di confronto interregionale permanente, con il coordinamento del Dipartimento Nazionale al fine di superare le diversità di applicazione dell’accordo Stato Regioni e dell’Atto di Intesa.

che almeno l’1,5% del budget assegnato dalle Regioni alla Sanità Regionale venga vincolato per i percorsi di recupero residenziali e non, gestiti dal servizio pubblico o privato.

la reintroduzione del finanziamento che faceva capo al Fondo di Lotta alla Droga o almeno parte di esso, oggi drammaticamente confluito nei fondi della L.328, anch’essa tutt’oggi non applicata uniformemente in tutte le regioni.

di stabilire un minimo standard per le rette a livello centrale da concordare nel tavolo interregionale, integrando in modo congruo le rette e garantendone il puntuale pagamento.

un’attenzione particolare per i tossicodipendenti detenuti e di garantire, a seguito del passaggio della Medicina Penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, per i detenuti in custodia cautelare, in regime di arresti domiciliari da effettuare presso le Comunità, sia l’applicazione della norma che l’omogeneità nell’applicazione in tutte le Regioni, nonché l’equiparazione delle rette alle tariffe vigenti per il trattamento terapeutico riabilitativo residenziale.

di porre una forte attenzione sulle prestazioni attualmente offerte attraverso il counselling non-residenziale, le terapie strutturate non-residenziali, le cure intensive diurne e la residenza lungo-assistenziale, che vanno assolutamente riconosciute in quanto rientranti nella gamma di servizi innovativi rispondenti ai nuovi bisogni trattamentali. Di qui la necessità di essere riconosciuti come Centri Erogatori di Servizi alla Persona e non come marginali Comunità di recupero in senso classico.

di concentrare energie e risorse sull’aspetto educativo, consapevoli dell’importanza culturale e metodologica che l’approccio relazionale possiede sia in termini di riabilitazione che di prevenzione. In tal senso chiederemo il riconoscimento delle attività di prevenzione e del lavoro svolto con i giovani sul territorio, proponendo di porre in rilievo e sostenere le buone prassi che negli anni abbiamo sviluppato nei nostri centri.

Sappiamo bene che non sarà facile il confronto con le diverse realtà. La droga purtroppo per sua natura divide, ed anche tra gli stessi operatori gli steccati, i personalismi, le distanze preconcette sono ancora fortissime. Ciò nonostante ci accostiamo alla Conferenza con fiducia, consapevoli dell’importanza che essa riveste, non per portare la nostra voce, ma quella delle persone che quotidianamente ci chiedono aiuto.

 

Don Mimmo Battaglia, Presidente Fict

Droghe: a Roma 30mila tossicodipendenti, cresce uso cocaina

 

Notiziario Aduc, 4 marzo 2009

 

Cresce in modo vertiginoso il consumo di cocaina e alcol tra gli adolescenti romani. Il quadro che emerge è in chiaroscuro: se da un lato negli ultimi dieci anni la tendenza dei decessi per uso di sostanze stupefacenti è diminuita (dai 130 morti all’anno agli 83 del 2007), dall’altro dilaga tra ragazzi di 14 e 15 anni l’uso della cocaina il cui prezzo, negli ultimi anni, si enormemente abbassato arrivando a costare circa 30-50 euro al grammo.

Anche se nella gran parte dei casi i decessi sono dovuti all’uso di eroina, a Roma una morte su sette è provocata dalla cocaina, un dato che, secondo il presidente dell’Agenzia Ignazio Marcozzi Rozzi, "potrebbe aumentare in futuro, visto che il mercato di questa sostanza, che costa tra i 30 e i 50 euro per grammo, è più accessibile. Anche il consumo di alcol, da parte dei ragazzi tra i 14 e i 15 anni, è in aumento".

In totale nella Capitale sono stimati circa 25-30mila tossicodipendenti, la metà dei quali in cura in centri pubblici e privati. Tra questi salgono i cocainomani che si rivolgono alle strutture deputate: dal 10% del totale si è giunti nell’ultimo periodo fino al 30-50%. E proprio un vasto traffico di cocaina è stato stroncato all’alba dai carabinieri di Ostia.

Un’operazione svolta in collaborazione con la polizia spagnola che ha portato all’emissione di 22 ordini di custodia cautelare (20 in carcere e 2 ai domiciliari), nei confronti di una organizzazione di narcotrafficanti romani che da anni importava dalla Spagna sostanze stupefacenti. L’indagine ha portato al sequestro di circa 100 chilogrammi di droga che, messa sul mercato, avrebbe fruttato circa 8 milioni di euro.

L’organizzazione aveva centrali operative nel quartiere romano di Casalotti e a Castel Nuovo di Porto, un paese a pochi chilometri dalla capitale. A capo del sodalizio criminale c’era Walter Domizzi, che si trova in carcere in Spagna dal 22 ottobre scorso. L’organizzazione poteva avvalersi della collaborazione di trafficanti colombiani che operavano a Barcellona. Le sostanze stupefacenti giungevano in Italia a bordo di auto, spesso noleggiate.

I corrieri, dietro un compenso di circa tremila euro, facevo arrivare la droga nelle due centrali di stoccaggio poi da lì veniva distribuita in tutte le piazze di spaccio di Roma e provincia. L’inchiesta era partita due anni fa quando, nell’ottobre 2007, venne arrestato nel porto di Genova un corriere della droga appena sbarcato dalla Spagna. Insieme al traffico di droga, dalle indagini è emersa una complessa attività di riciclaggio di auto rubate che venivano esportate verso la Spagna dopo averne clonato la targa.

Iran: 10 impiccati in un solo giorno, 66 le esecuzioni nel 2009

 

Ansa, 4 marzo 2009

 

Dieci persone condannate per traffico di droga sono state impiccate in un solo giorno in una città nell’ovest dell’Iran, Kermanshah. Altri due uomini giudicati colpevoli di appartenere a un gruppo armato separatista sunnita sono stati impiccati nella città di Zahedan. Queste 12 impiccagioni portano ad almeno 66 le esecuzioni capitali avvenute dall’inizio dell’anno in Iran.

 

 

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