Rassegna stampa 20 marzo

 

Giustizia: sentenze in 3 giorni, efficienza o processi sommari?

di Riccardo Barenghi

 

La Stampa, 20 marzo 2009

 

Abituati ai processi italiani, interminabili, farraginosi, ai loro riti, alle udienze che si susseguono per anni, ai rinvii da un mese all’altro per qualsiasi ragione o pretesto o futile eccezione della difesa, o magari perché il giudice di turno non ha molta voglia di lavorare, si resta colpiti da quello che è successo in Austria. In tre giorni di dibattimento (preceduti però da un anno di istruttoria) si è arrivati alla sentenza di ergastolo per l’imputato, padre carnefice e infanticida.

Non solo, si resta colpiti anche dalla civiltà con cui i mass media hanno seguito il processo. Nessun giornale, nessuna televisione, nessun sito Internet, nessun mezzo di comunicazione si è insomma lasciato prendere dal gusto del particolare macabro, neanche un piccolo brano del video di accusa della vittima è uscito dalle aule giudiziarie per essere sbattuto su qualche schermo e magari sezionato e "commentato" dagli invitati d’occasione, psicologi, politici, giornalisti. E questo non solo grazie alla deontologia professionale dimostrata dai nostri colleghi austriaci, ma anche grazie al fatto che nessun giudice o avvocato o cancelliere abbia "passato" alla stampa le informazioni che dovevano restare riservate e che tali sono rimaste. E questo è indubbiamente un esempio di civiltà dell’informazione.

Ma è un giusto processo quello che si conclude in tre giorni? Anche se l’imputato ha confessato, malgrado la schiacciante testimonianza della figlia, nonostante insomma l’evidenza dei fatti oltre ogni ragionevole dubbio, è questo l’esempio che si dovrebbe seguire? In altre parole, hanno fatto bene gli avvocati difensori a rinunciare al loro mestiere, visto che il loro assistito era inchiodato da prove schiaccianti e dalla sua stessa confessione? Oppure avrebbero comunque dovuto difenderlo sollevando eccezioni, chiedendo perizie su perizie, insomma allungando i tempi e fornendo quanto più materiale possibile nella speranza di ottenere almeno uno sconto di pena?

È una domanda che chiama in causa il rispetto delle garanzie e dei diritti degli imputati, anche rei confessi. Anzi, di più: chiama in causa la stessa concezione del processo e del ruolo della difesa.

È evidente che un processo troppo lungo, come la stragrande maggioranza di quelli che si svolgono in Italia, rischia spesso di essere un processo ingiusto perché alla fine la stessa condanna può essere superata dalla prescrizione o comunque annacquata dal tempo che è passato. Non a caso si discute da anni di certezza della pena senza che però questa certezza diventi mai certa. Di contro, un processo troppo breve rischia di essere sommario, hai visto mai che un domani si scoprisse qualcosa di nuovo (l’altro ieri in Inghilterra un uomo è risultato innocente dopo 27 anni di carcere grazie alla prova del Dna).

Se dunque l’eccessiva brevità dei processi resta una questione controversa, così come controversa è la loro eccessiva lungaggine (e su questo noi dovremmo fare non uno ma dieci passi in avanti), quello che ci sembra indiscutibile è la civiltà mediatica che ha accompagnato la vicenda austriaca. Pensate se fosse successo qui da noi, cosa saremmo stati capaci di mettere in piazza, cioè sui giornali e soprattutto in televisione. Da Erika e Omar (Novi Ligure), a Annamaria Franzoni (Cogne), da Andrea Stasi (Garlasco) a Amanda Knox (Perugia), non ci siamo persi neanche un particolare, una macchia di sangue, una lacrima, un urlo di dolore, un pigiama, un pezzo di cervello sul soffitto.

Nulla è stato risparmiato alle vittime e ai carnefici di quei delitti, tutto è stato dato in pasto a un’opinione pubblica (chiamiamola così) affamata di mostruosità. Dicono che si trattava del diritto di cronaca. Fesserie: i mass media austriaci hanno dimostrato che quel diritto si può esercitare egregiamente senza sconfinare nella morbosità.

Giustizia: ma siamo onesti, non chiamiamola più democrazia!

di Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 20 marzo 2009

 

Non democrazia. Ma oclocrazia. Degenerazione della democrazia, che si basa sulla conquista del consenso. Il Re fa ciò che gli chiede il popolo. È il governo delle masse. La politica del governo Berlusconi in tema di giustizia riporta in vita, dopo 22 secoli, il concetto di Polibio.

Una politica berlusconiana che si affanna, non per realizzare riforme che rendano efficiente la nostra giustizia, ma per accontentare parte dell’opinione pubblica.

Il popolo chiede pene certe per gli stupratori? E loro fanno un decreto legge che rende obbligatoria la misura cautelare in carcere per chi è indagato in ordine a quei reati. Presunti non colpevoli che così vengono "puniti" con il carcere prima del processo. Alla sacrosanta esigenza degli elettori che chiedono di avere una giustizia più veloce e funzionale, il Governo non si risponde con una riforma del processo penale che consenta di arrivare a una sentenza in tempi ragionevoli. Ma fa diventare pena un procedimento sommario e non definitivo, come quello cautelare. Regole folli e incivili fatte in nome del consenso. Regole che si sostituiscono al ruolo del Giudice nel decidere chi e quando mettere in carcere una persona indagata. Regole che prendono il posto anche dello stesso processo penale e della sua funzione. Accertare se un imputato sia colpevole o innocente.

Riforme che spalancano le porte all’errore giudiziario, come per i due romeni arrestati per lo stupro della Caffarella. Riforme che sconquassano la divisione tra i poteri dello Stato. No. Siamo onesti. Non chiamiamola democrazia.

Giustizia: in carcere anche se innocenti, ecco perché è possibile

di Cesare Placanica

 

www.radiocarcere.com, 20 marzo 2009

 

Sono innocenti. Secondo diritto, e civiltà, essendo in attesa di giudizio tali dovevano essere considerati. Adesso c’è la prova - il test Dna - che certifica la loro estraneità ai fatti. E meno male per loro che esiste la scienza. Di diritto e civiltà ne avevamo, come sempre, fatto strame. Solito copione. Li abbiamo arrestati: sono i colpevoli. Per i più fortunati, dopo mesi - talvolta anni - di carcere e mortificazioni nei tribunali, c’è, per ricompensa, un trafiletto. Per la maggioranza nulla. Tranquilli. Nulla anche per chi li aveva proclamati colpevoli. Dei propri errori possono infischiarsene. Nessuna seria conseguenza. Non è come per i medici i cui malati muoiono o per gli ingegneri i cui ponti cadono. Questi subiscono indagini e se hanno colpe condanne. In materia di giustizia, unica eccezione, l’errore di valutazione non trova sanzione giudiziaria. Sarà per questo che si può perseverare? Perché questa è la ciliegina del nostro caso. Sono innocenti e ancora in carcere. Come del resto accadde allo sventurato padre di Gravina anche dopo la scoperta dei cadaveri dei figli. Lui non deve ringraziare la scienza, il cero deve accenderlo a chi curiosava vicino a dove i bambini erano caduti. Solo per caso non è più un mostro.

E andiamo alla ciliegina. Il tribunale della libertà ha disposto la scarcerazione dei due alle 17,10 del 10 marzo. Alle 17,45 il p.m. ordinava il fermo del "Biondino". Pochi minuti prima della sua liberazione. Occhio alle date. Avanti al tribunale la procura aveva sostenuto che la confessione del 18 febbraio era veritiera. Lo riarrestava il giorno dopo perché era falsa, e quindi l’altro protagonista, "Faccia da pugile" - tuttora indagato per quei fatti! - era stato ingiustamente calunniato. Tutto e il contrario di tutto. Il G.i.p. però non dava credito a questa giravolta e scarcerava. "Biondino" libero? Macché. Ri(ri)arrestato. Stavolta, con ordinanza del G.i.p., per una diversa calunnia, quella alla polizia rumena, commessa durante l’interrogatorio del 20 febbraio. E "Faccia da pugile"? Anche lui già riarrestato. Per un altro stupro. Ed anche lì il Dna esclude la sua partecipazione al fatto.

E ora le domande scandalose. Un soggetto si accusa di fatti gravissimi. Ma all’interrogatorio davanti al giudice si dichiara innocente. Gli chiedono conto della confessione e dice che è frutto di pressioni psicologiche e violenze fisiche (non di un pestaggio). L’altro indagato fin da subito si dichiara innocente. Solo in un secondo momento, dopo la ritrattazione e le professioni di innocenza, arriva un elemento di prova, non conosciuto dai due, che conferma la loro estraneità ai fatti. È illogico chiedersi il perché di quella confessione?

L’arresto del "Biondino" avviene alla 5 del pomeriggio del 17 febbraio. L’interrogatorio del p.m. è alle 2 di notte. Nove ore in questura per le quali pretendono un atto di fede. Il "Biondino" è gravemente indiziato da giorno 15, quando la vittima lo ha riconosciuto in fotografia. Ma il p.m. nel riarrestarlo scrive che al momento del suo interrogatorio si procedeva contro ignoti. Perché al "Biondino" non sono state offerte fin dal 15 le garanzie dell’indagato? Prima tra tutte il diritto di essere assistito da un difensore. Perché, sempre come atto di fede, le sue accuse devono quasi aprioristicamente essere ritenute infondate? Ed infine l’ultima: è equo che le indagini continui a svolgerle chi potrebbe dover evidenziare proprie responsabilità?

Cosa concludere. È netta la sensazione di una gestione autoritaria della giustizia, che come tale non gradisce ed ammette interferenze. Ed è palese come a tale impostazione la politica, la stampa e l’opinione pubblica soggiacciano. E nessuno, che prescindendo dal caso specifico abbia voglia di porre la domanda fondamentale: Quis custodiet ipsos custodies?

Giustizia: guai a cercare "un colpevole" e non "il colpevole"

di Nicola Saracino

 

www.radiocarcere.com, 20 marzo 2009

 

Giudicare è attività complessa, perché il giudizio riguarda il fatto e la persona, quella persona e solo lei. Non è predicabile un giudizio uguale per tutti, ma solo una norma uguale per tutti.

Fatti e persone sono sempre diversi. Ciascun fatto e ciascuna persona reclamano un giudizio su misura. Se la legge generalizza, per non trasformarsi in privilegio o in odio, il giudizio individualizza per non incorrere in ingiustizia. In altre parole, come non si confà alla democrazia il giudice che ha pretese da legislatore, allo stesso modo stona il legislatore che si sostituisce al giudice nell’applicazione della norma al fatto concreto.

Norma e giudizio vivono o muoiono insieme, l’una non può sopraffare l’altro, essi si alimentano a vicenda. Se manca la fiducia dei cittadini nell’uno o nell’altro dei termini del binomio, ad uscirne sconfitta non è la categoria dei legislatori o quella dei giudici, ma la stessa praticabilità di una convivenza civile basata sul principio di legalità, col suo corollario della separazione dei poteri. Recenti casi giudiziari, alcuni dei quali dolorosi come la vicenda di Eluana Englaro o degli stupri che hanno allarmato l’opinione pubblica, dimostrano quanto concreto sia il rischio dello sconfinamento dai rispettivi ruoli, al punto da essersi determinato un formale conflitto tra poteri dello Stato, poi risolto della Consulta.

Di qui le molte perplessità suscitate dalle crescenti pressioni esercitate dalla politica volte a sottomettere la giurisdizione a finalità di sicurezza pubblica, sia per mezzo di interventi legislativi coi quali s’inaspriscono le misure cautelari solo per certi reati, sia invocando maggiore rigore nell’applicazione della legge nei confronti di chi è sospettato di aver commesso un reato, trascurando che è la stessa legge a graduare le misure cautelari.

L’ansia d’immediata punizione dei responsabili di gravi reati viene spesso ostentata da esponenti politici, talvolta a dispetto della verità, come ad esempio è accaduto per i fatti di Guidonia in relazione ai quali si è accreditata l’idea che agli stupratori fossero stati concessi gli arresti domiciliari, quando in realtà la più tenue misura era stata applicata ad alcuni favoreggiatori che non avevano preso parte all’orrendo crimine. L’aspirazione alla pronta punizione del colpevole, comprensibile ma emotiva, genera il rischio di risposte irrazionali, peggiori del male che si combatte.

Occorre osservare le leggi e se queste risultano inadeguate le si cambino per tutti: se la custodia in carcere diviene la prima scelta per determinati crimini, dovrà esserlo anche per molti altri reati che esibiscano analoga gravità, misurabile con le pene edittali. Diviene, per questa via, concreto il pericolo di trascurare che il processo è pensato per sciogliere l’alternativa condanna/assoluzione e che prima della sentenza non può esservi pena. Un timore non può soppiantare la (umana) certezza che sola giustifica la pena, ed il carcere è pena, sempre.

Le recenti vicende dello stupro della Caffarella, al dolore per l’efferatezza del crimine compiuto, associano il monito di non aggiungere ignominia ad ignominia: guai a cercare "un colpevole" anziché "il colpevole".

Giustizia: ricerca Eures sulla percezione di sicurezza nel Lazio

 

www.eures.it, 20 marzo 2009

 

L’indagine è stata realizzata attraverso la somministrazione diretta e telefonica su supporto cartaceo di un questionario semi-strutturato a 2.005 cittadini residenti nel Lazio. La rilevazione ha visto il coinvolgimento delle cinque province del Lazio per un totale di 90 comuni (inclusa la Capitale).

I cittadini intervistati sono stati chiamati a valutare il livello di sicurezza del comune o quartiere di residenza, riportando il proprio vissuto quotidiano e le esperienze di reato subite. Un’area del questionario è stata dedicata inoltre alla raccolta di valutazioni e riflessioni sulle responsabilità della società, della famiglia e dell’autore (adulto e minore) di fronte alla realizzazione di un delitto, arrivando ad individuare anche il livello di fiducia riposto dagli intervistati nelle possibilità di recupero e riscatto sociale degli autori che hanno scontato la pena. Infine, sono state rilevate priorità di intervento e proposte per aumentare la sicurezza dei cittadini.

Principali risultati emersi - La domanda di sicurezza si conferma al centro delle priorità e dei bisogni dei cittadini, tra i quali la vittimizzazione, ovvero il fatto di subire uno o più reati, costituisce ormai un’esperienza diffusa e "ineludibile", condizionando in maniera forte e persistente i giudizi, la percezione e la domanda di sicurezza. Sotto questo aspetto la mancanza di risposte adeguate da parte delle Istituzioni, così come l’elusione o la sottovalutazione del problema, appaiono ugualmente colpevoli, anche perché la convivenza e la dinamica sociale, condizionate dalla paura, generano comportamenti e atteggiamenti di diffidenza, di chiusura e di rifiuto dell’altro.

Ne è una evidente conseguenza la crescente tensione e paura nei confronti degli stranieri così come la lettura della devianza come "questione principalmente individuale", le cui motivazioni e la cui genesi trovano una facile spiegazione dentro il singolo autore di reato che, anche per questo, difficilmente potrà reintegrarsi nella società: una società che in larga misura si autoassolve, vedendo nell’autore di reato un "diverso", un "altro da sé", anche quando, come le statistiche oggettive certificano, ha spesso il volto di un familiare, di un conoscente, di un collega o di un amico.

Giustizia: ricerca Eures; nel Lazio il 45% si sente meno sicuro

 

Ansa, 20 marzo 2009

 

Cresce l’insicurezza tra i cittadini del Lazio, soprattutto a Roma e nei grandi comuni. La domanda di sicurezza continua ad essere al centro delle priorità e dei bisogni dei cittadini, soprattutto di chi è stato vittima di reati. E a sentirsi più insicuri sono proprio le vittime dei reati. Donne e soprattutto anziani. L’insicurezza si correla anche all’integrazione sociale, più sicuri si sentono i laureati, meno quelli con un basso livello di scolarizzazione. È quanto emerge dai dati del rapporto redatto dall’Eures "La percezione di sicurezza tra i cittadini del Lazio".

L’istituto di ricerche economiche e sociali ha condotto un indagine su in campione di 2005 persone. Dalle interviste è emerso che la criminalità diffusa è percepita in crescita nelle province di Frosinone, Roma e Rieti. Al comune di Roma si può parlare di Effetto Caffarella, dove infatti risulta particolarmente diffusa la percezione dell’aumento dei reati compiuti da stranieri. Media, politici e isolamento sociale, i corresponsabili per i cittadini dell’aumento della paura. La mancanza di risposte adeguate da parte delle Istituzioni, così come l’elusione o la sottovalutazione del problema, sono percepite come cause dell’aumento della paura, anche perché la convivenza e la dinamica sociale, condizionate dall’insicurezza, generano comportamenti e atteggiamenti di diffidenza, di chiusura e di rifiuto dell’altro.

Ne è una conseguenza, spiega l’Eures, la crescente tensione e paura nei confronti degli stranieri così come la lettura della devianza come questione principalmente individuale. Il quadro che emerge dal campione Eures, è di una società che in larga misura si autoassolve, vedendo nell’autore di reato un diverso, un altro da sé anche come quando, come le statistiche oggettive certificano, ha spesso il volto di un familiare, di un conoscente, di un collega o di un amico.

Dall’indagine Eures realizzata su un campione di 2.005 persone nel mese di febbraio emerge che il 45% degli intervistati si sente più insicuro, rispetto all’anno precedente, nel proprio comune o quartiere. Nella provincia di Roma la percentuale sale al 50,1%. A sentirsi più insicure soprattutto le fasce deboli: il 50,3% delle donne e il 52% degli ultra sessantaquattrenni intervistati. Più grande è il comune più aumenta l’insicurezza. Nei comuni con fino a 15mila abitanti il 34,1% dei cittadini si sente più insicuro.

L’insicurezza sale al 40,5% dei cittadini nei comuni tra 15-50 mila abitanti, al 47,1% in quelli con 50-250 mila abitanti. A Roma raggiunge il 51,2%. Si sente sicuro nel proprio quartiere poco più della meta del campione intervistato, il 58,7%. Più sicure risultano le province di Rieti e Latina con appena il 17,5% e il 17,7% di intervistati "insicuri". Segue Frosinone con 31,3% di insicuri e Viterbo con 39,9%. Il valore più negativo si conferma quello di Roma (dove si sente insicuro il 47% dei cittadini, raggiungendo il 50,1% nella sola Capitale).

Cresce l’insicurezza, soprattutto a Roma e nei grandi comuni - La grande attenzione al tema della "sicurezza" nelle cronache e nel dibattito politico-istituzionale, trova pieno riscontro nelle opinioni e nei vissuti dei cittadini del Lazio: il 45% degli intervistati dichiara infatti di sentirsi più insicuro, rispetto all’anno precedente, nel proprio comune/quartiere (il 50,1% nella provincia di Roma), mentre soltanto il 4,5% si sente più sicuro e il 50,5% non rileva cambiamenti significativi.

A sentirsi più insicure rispetto all’anno precedente sono soprattutto le fasce "deboli", con indicazioni che raggiungono il 50,3% tra le donne (a fronte del 39,2% tra gli uomini) ed il 52% tra ultra sessantaquattrenni. L’aumento dell’insicurezza nell’ultimo anno risulta correlato alla dimensione demografica dei comuni di residenza, con una crescita più bassa in quelli fino a 15 mila abitanti, dove il 34,1% dei cittadini si sente "più insicuro" (a fronte del 3,4% "più sicuro" e del 62,4% "ugualmente sicuro"), che sale al 40,5% nella fascia 15-50 mila abitanti, al 47,1% in quella 50-250 mila, fino a raggiungere il 51,2% nel Comune di Roma.

Ma la più forte perdita di sicurezza si rileva tra le vittime dei reati: si sente infatti più insicuro ben il 74% di quanti negli ultimi tre anni hanno subito più di un reato, il 67,1% di quanti hanno subito un solo reato e appena il 35,6% di quanti non ne hanno subito alcuno.

Anche a fronte dei cambiamenti segnalati, attualmente si sente sicuro nel proprio comune/quartiere poco più della metà degli intervistati (il 58,7%, di cui soltanto il 6,3% "molto sicuro" e il 52,3% "abbastanza"), mentre oltre 4 cittadini su 10 (il 41,3%) esprimono la percezione opposta (il 36,7% si sente "poco sicuro" e il 4,6% "per niente").

Più sicure risultano le province di Rieti e Latina (con appena il 17,5% e il 17,7% di intervistati "insicuri"), seguite da Frosinone (31,3% di "insicuri") e Viterbo (39,9%), mentre il valore più negativo si conferma quello di Roma (dove si sente insicuro il 47% dei cittadini, raggiungendo il 50,1% nella sola Capitale). L’insicurezza percepita si correla alla qualità dell’integrazione sociale del campione, con una più alta percezione di sicurezza tra i laureati (il 67,7% si sente "molto" o "abbastanza sicuro"), e una inferiore tra i diplomati (56,4%) e nel campione con la scolarità più bassa (54,5%).

Ma è ancora l’esperienza di vittimizzazione il fattore discriminante: si sente infatti "molto" o "abbastanza sicuro" nel proprio comune/quartiere il 67,1% degli intervistati che negli ultimi tre anni non hanno subito alcun reato, il 40,4% di quanti ne hanno subito uno e appena il 28,3% (contro il 71,7% di "insicuri") di quanti hanno subito più di un reato.

Donne e anziani, vittime "seriali" della criminalità - Tre intervistati su 10 (il 28,7%) dichiarano di aver subito negli ultimi tre anni uno o più reati (in particolare il 22,4% del campione ha subito un solo reato e il 6,3% più di uno), evidenziando una diffusione della vittimizzazione che sembra investire, almeno nel medio periodo, la quasi totalità dei cittadini. Più frequentemente vittime di reato risultano essere le donne (il 21,9% ha subito un reato e l’8,6% più di uno, a fronte di valori pari al 23% e al 3,7% tra gli uomini) e, soprattutto gli anziani, tra i quali ben il 33,4% ha subito almeno un reato negli ultimi 3 anni (il 25% un solo reato e l’8,4% più di uno); sul fronte opposto i meno colpiti risultano i giovani, tra i quali l’esperienza di vittimizzazione scende al 26,1%.

Ancora più significativo risulta il dato territoriale: nel comune di Roma, unica realtà della regione con oltre 250 mila abitanti, le vittime di reati negli ultimi 3 anni raggiungono l’incidenza più alta (36,4%), con scarti di circa 15 punti percentuali sul campione residente nei comuni delle fasce inferiori.

Criminalità diffusa e stranieri, i due volti della paura. "Effetto Caffarella" nel comune di Roma, e a Latina è allarme criminalità organizzata - Sono i reati di criminalità diffusa, quali furti, scippi e borseggi (con il 46,6% delle citazioni), e quelli compiuti dagli stranieri (36,2%) i due fenomeni criminali più in aumento secondo la percezione del campione intervistato; seguono i reati legati al traffico di stupefacenti (27,4%), le violenze sessuali (21,2%) ed i reati commessi dai minori (21%). Inferiori le citazioni per la criminalità organizzata (11,8%, che salgono al 35,4% nel campione della provincia di Latina), la criminalità violenta (10,9%) e la corruzione (8,2%), aumentata più della prostituzione e delle truffe (entrambe con il 7,7%). La criminalità diffusa è percepita in crescita soprattutto dal campione della provincia di Frosinone (53% delle indicazioni), di Roma (52,2%) e di Rieti (44,5%), mentre per il comune di Roma si può parlare di un "effetto Caffarella", risultando particolarmente diffusa sia la percezione dell’aumento dei reati compiuti da stranieri (45,8%) sia delle violenze sessuali (31,8% delle citazioni, con scarti di circa 20 punti percentuali sui comuni di dimensioni inferiori); le violenze sessuali raccolgono inoltre maggiori citazioni tra le donne (25,1% contro il 16,8% tra gli uomini) e tra i giovani della fascia 18-34 anni (26,3%, con valori decrescenti nelle fasce di età successive).

Analoga è la graduatoria dei reati che secondo gli intervistati, dovrebbero essere al centro dell’azione di contrasto da parte delle Istituzioni: al primo posto è infatti la criminalità diffusa (45,5% delle citazioni), seguita dai reati compiuti dagli stranieri (38,7%), dal traffico e spaccio di stupefacenti (28,2%) e dalle violenze sessuali (27,9%). Inferiori le citazioni per la lotta al crimine violento (14,8%), per i reati commessi da minori (14%) e per la criminalità organizzata (13,5%, che sale al 34,6% nel campione della provincia di Latina).

L’aumento dell’insicurezza, tra percezione e realtà - Secondo il campione intervistato l’aumento della percezione di insicurezza nell’opinione pubblica deriva soltanto in parte dall’effettivo aumento dei reati (51,6% delle indicazioni), mentre un peso significativo è attribuito alla perdita di coesione e solidarietà nelle famiglie e nella società (20,1%), all’atteggiamento allarmistico dei media (14,4%) e alle strumentalizzazioni del mondo politico (13,9%), fattori che, complessivamente, "spiegano" il fenomeno per quasi la metà del campione. Sono i laureati ad attribuire meno degli altri l’aumento di insicurezza all’effettivo incremento dei reati (46,4%), riconoscendo più responsabilità ai media (16,8%) e alle strumentalizzazioni dei politici (16,7%). Analogamente gli uomini attribuiscono all’allarmismo dei media (15,6% contro il 13,3% delle donne) e alle strumentalizzazioni dei politici (14,2% contro il 13,7%) maggiore peso nella genesi dell’insicurezza, mentre gli anziani e le donne citano più frequentemente la perdita di solidarietà e di coesione sociale (rispettivamente 25,2% e 20,8%).

La panacea della certezza della pena. E la paura erode la cultura dell’integrazione - Una delle conseguenze più rilevanti della perdita di sicurezza rilevata tra i cittadini consiste nella progressiva erosione della cultura dell’integrazione sociale quale antidoto al proliferare di comportamenti devianti. Al contrario, nell’esprimersi su quali iniziative siano necessarie per aumentare la sicurezza dei cittadini il campione chiede diffusamente la certezza della pena (62% delle citazioni), seguita dalla richiesta di una maggiore presenza delle Forze di Polizia sul territorio (44,1%), ampiamente più auspicata di un maggiore impiego dei Militari (17,7%); nella graduatoria emersa (erano possibili 3 risposte) numerose citazioni chiedono regole e controlli più rigidi sull’ingresso degli stranieri (36,2%), mentre più contenute sono le richieste di riqualificazione urbana e delle periferie (29,1%) e quelle relative a maggiori investimenti da destinare all’integrazione delle fasce marginali (17,3%). Anche l’aumento della videosorveglianza riceve numerosi consensi (25%), mentre minore efficacia sembra attribuita alla ipotesi di realizzare una banca dati del dna (11,4%) e, soprattutto, alla liberalizzazione delle armi da fuoco (3,9%).

La devianza? Un fatto individuale - La quasi totalità del campione (98,9%) afferma che quando un adulto commette un reato ne è in prima persona responsabile (mentre soltanto l’1,1% ritiene che lo sia "poco" o "per niente", rifacendosi al "determinismo sociale" o a quello "biologico"); soltanto la metà del campione considera invece corresponsabile la società (48,8%) o l’esperienza familiare dell’autore (52,6%). Più bilanciato il piano delle responsabilità nel caso in cui l’autore di reato sia un minore: la responsabilità individuale (88,6% delle citazioni), pur raccogliendo un altissimo numero di citazioni, è sovrapponibile a quella familiare (88,8%) e soltanto di poco superiore a quella sociale (77,5%); anche per i minori, dunque, la devianza è vista come fatto principalmente individuale, attribuibile al "libero arbitrio", pur associato a concause di ordine familiare e sociale. Molto particolare appare al riguardo l’atteggiamento del campione di Latina, che tende ad "assolvere" quasi del tutto la famiglia e la società nella genesi dei reati compiuti da adulti (rispettivamente con il 15,4% e il 4% delle citazioni di responsabilità).

Strada senza uscita: sempre più bassa la fiducia nel recupero sociale - Il 70,1% dei cittadini del Lazio intervistati afferma che per chi ha commesso un reato grave non ci sono reali possibilità di reintegrarsi ("poche" per il 58,3% e "nessuna" per l’11,8%), mentre soltanto il 29,8% del campione esprime l’opinione contraria (il dato scende al 25,1% tra gli over64). L’indicazione emersa caratterizza trasversalmente l’intero campione; interessante risulta tuttavia il fatto che maggiori possibilità di recupero per gli autori di reato siano riconosciute dagli intervistati residenti nei piccoli comuni (con il 43,4% delle citazioni), mentre sono i residenti della Capitale, vittime di una "grande paura", a evidenziare la maggiore sfiducia, con appena il 19,9% che considera possibile il reinserimento sociale. È tuttavia la mancanza di progetti di reinserimento sociale (44,5% delle indicazioni) la causa prevalente del mancato recupero degli autori di reato, accompagnata dalla diffusa presenza di pregiudizi (18,7%), mentre un peso inferiore è attribuito alla natura degli individui (36,8% delle citazioni).

Giustizia: ricerca Eure; certezza pena e più controlli di territorio

di Patricia Tagliaferri

 

Il Giornale, 20 marzo 2009

 

Si sentono insicuri i cittadini del Lazio, soprattutto quelli che abitano a Roma, dove la percezione dell’aumento dei reati compiuti dagli stranieri (45,8 per cento) è tale da poter parlare di "effetto Caffarella".

È l’Eures ad usare il nome del parco dove è avvenuto lo stupro di una quindicenne il giorno di San Valentino per indicare che secondo i romani, negli ultimi tempi, gli immigrati hanno alzato il tiro ed è cresciuto il numero delle violenze sessuali. I risultati dell’indagine ("La percezione di sicurezza tra i cittadini del Lazio"), realizzata tra 2.005 abitanti della regione lo scorso mese, dimostrano come l’attenzione al tema della sicurezza nelle cronache e nel dibattito politico trovi pieno riscontro nelle opinioni della gente.

Il 45 per cento dei cittadini sostiene di sentirsi più insicuro rispetto all’anno precedente, nella capitale la percentuale sale al 50,1 per cento (più sicure risultano le province di Rieti, Latina, seguite da Frosinone e Viterbo). Naturalmente coloro che sono già stati vittime di reati vivono meno sereni, ma l’insicurezza si correla anche all’integrazione sociale (più tranquilli sono i laureati, meno quelli con un basso livello di scolarizzazione) e alla grandezza dei comuni. A preoccupare i cittadini, oltre ai reati commessi dagli stranieri, sono quelli messi a segno dalla criminalità diffusa, come furti, scippi e borseggi, quelli legati al traffico di stupefacenti e le violenze sessuali.

Il 62 per cento del campione ritiene che serva la certezza della pena per sentirsi più sicuri, ma anche una maggiore presenza di polizia sul territorio e un più ampio impiego dei militari. Sono in molti (36,2 per cento) a chiedere regole e controlli più rigidi sull’ingresso degli stranieri. Ma l’aumento della percezione di insicurezza nell’opinione pubblica deriva soltanto in parte dall’effettivo aumento dei reati (51,6 per cento), mentre un peso significativo è attribuito alla perdita di coesione e solidarietà nelle famiglie e nella società (20,1 per cento), all’atteggiamento allarmistico dei media (14,4 per cento) e alle strumentalizzazioni del mondo politico (13,9 per cento).

Questa progressiva perdita di sicurezza, per l’Eures, non è senza conseguenze. Una delle più rilevanti consiste "nella progressiva erosione della cultura dell’integrazione sociale quale antidoto al proliferare di comportamenti devianti". Quasi tutti d’accordo sul fatto che la devianza sia un fatto individuale: il 98 per cento del campione, infatti, afferma che quando un adulto commette un reato ne è in prima persona responsabile. Nel caso in cui a delinquere sia un minore entrano in gioco anche la responsabilità familiare e quella sociale.

Se la paura aumenta è colpa anche della stampa che tende ad amplificare i problemi, della politica che li strumentalizza, e delle istituzioni che non danno risposte adeguate, sottovalutandoli. Tutti colpevoli, "anche perché la convivenza e la dinamica sociale, condizionate dalla paura, generano comportamenti e atteggiamenti di diffidenza, di chiusura e di rifiuto dell’altro". "Né è un’evidente conseguenza - conclude l’Eures - la crescente tensione e paura nei confronti degli stranieri, così come la lettura della devianza come "questione individuale"". La società alla fine si "autoassolve", vedendo nell’autore di reato un "diverso".

Giustizia: Berlusconi; no ai medici-spia, ronde volute da Lega

di Gianluca Luzi

 

La Repubblica, 20 marzo 2009

 

"Agli amici della Lega dico che non possono volere sempre tutto". Messo in allarme dalla lettera dei 101 parlamentari che amplifica l’insofferenza di An per lo strapotere della Lega, Berlusconi per la prima volta perde la pazienza con i lumbard, soprattutto per le ronde e per la possibilità data ai medici di denunciare i clandestini.

E anche se Bossi cerca di spegnere la polemica ("Siamo amici, troveremo come sempre un accordo"), all’uscita del vertice del Ppe che precede il Consiglio europeo il presidente del Consiglio mette in riga con una certa durezza i suoi più fedeli alleati. A Bruxelles arriva al premier una telefonata del ministro dell’Interno Roberto Maroni, che esclude la fiducia sul ddl sicurezza e preannuncia la disponibilità a modificare la norma sui medici. Nessuna modifica invece per le ronde.

Per Berlusconi non c’è uno "strapotere" della Lega, ma il Cavaliere sente che a questo punto è necessario un "suggerimento" ai padani anche per evitare che il congresso di scioglimento di An (domani e domenica) e il congresso fondativo del Pdl (tra una settimana) si trasformino in un processo al partito di Bossi.

"Noi sappiamo che i nostri interlocutori della Lega sono esigenti, che cercano sempre di affermare le loro idee", premette Berlusconi che subito dopo avverte: "Qualche volta possiamo dire di sì, qualche altra volta diciamo sì con difficoltà e altre volte diciamo no. E se da queste vicende dovesse uscire un suggerimento, sarebbe quello di dire agli amici della Lega di non volere sempre tutto".

Da ieri è chiaro, ad esempio, che le "ronde" non piacciono affatto al Cavaliere: "Noi la questione delle ronde non la sentivamo, perché pensavamo che sarebbe stata presa dall’opposizione e quindi dai media come la volontà di sostituirci alle forze dell’ordine, mentre invece non hanno nulla a che vedere con le forze dell’ordine".

Anche su alcuni punti essenziali del decreto sicurezza Berlusconi non la pensa come la Lega, ma al contrario dice di sentirsi in sintonia con la lettera dei 101 parlamentari - molti di An - che hanno chiesto di non mettere la fiducia e di togliere la possibilità della denuncia da parte dei medici. "Io non ho nessuna obiezione a modificare la legge", dice Berlusconi.

"Chi ha firmato mi ha detto di averlo fatto perché il testo rappresenta un sentimento che anche io condivido". Comunque "non è vero che i medici hanno l’obbligo di denunciare gli immigrati, abbiamo solo tolto il divieto a farlo". Fini ha "apprezzato" le parole di Berlusconi: "Mi riferisco - dice il presidente della Camera - ai dubbi sulla norma riguardante i medici". Molto meno soddisfatto di Fini deve essere Bossi che però non drammatizza: "Berlusconi è un amico e alla fine troviamo sempre l’equilibrio".

Del resto, "tutti i segretari hanno dietro il partito che spinge, e anche Berlusconi si deve difendere. E poi ha detto cose equilibrate". Insomma, con l’altolà di Berlusconi "c’entrano le pressioni che ha avuto dal suo partito". E il Cavaliere non è "arrabbiato" con la Lega: "Perché dovrebbe esserlo? Noi siamo troppo bravi". Ma se poi invece lo fosse - conclude Bossi - "per fortuna ci sono io che riesco a far trattare e ragionare la Lega, solo io ho la fiducia della base".

Alle tensioni nella maggioranza, sul fronte immigrazione si è aggiunto ieri un aspro botta e risposta tra Onu e governo italiano. Un rapporto diffuso ieri dall’Ilo - l’agenzia dell’Onu per il lavoro - accusa il nostro Paese di discriminare i lavoratori immigrati, soprattutto i rom, con trattamenti che configurano "razzismo" e "schiavismo". Il ministro degli Esteri Franco Frattini ha ribattuto che il rapporto "contiene falsità" ed ha espresso all’Onu "l’indignazione" del governo.

Giustizia: e Maroni alla fine cede, via la norma sui medici-spia

di Fiorenza Sarzanini

 

Corriere della Sera, 20 marzo 2009

 

Alla fine anche il ministro dell’Interno è costretto a cedere alle pressioni dei parlamentari della maggioranza: la norma che elimina il divieto per i medici di segnalare gli stranieri clandestini sarà certamente cambiata. "Troveremo una soluzione", afferma Roberto Maroni dopo aver parlato al telefono con Umberto Bossi e Silvio Berlusconi. Colloqui che arrivano al termine di una giornata complicata, segnata dalle tensioni all’interno del centrodestra, con la Lega che prima dichiara di non voler arretrare ma poi deve piegarsi a una marcia indietro.

"Mi aspetto che alla Camera ci sia un confronto sereno", dichiara il sottosegretario Alfredo Mantovano. Pure lui non nasconde l’amarezza per l’esito di un dibattito segnato dalle polemiche e dalle contrapposizione dove alla fine non è passata la linea che era stata tracciata dal Viminale. Gli accordi interni al governo prevedevano che non ci potesse essere alcun ripensamento sui provvedimenti in materia di sicurezza. E invece la discussione in Parlamento continua a riservare sorprese. Era accaduto in Senato, quando era stata bocciata la norma fortemente voluta da Maroni per prolungare fino a 18 mesi la permanenza dei clandestini nei centri di identificazione. Succede adesso, con oltre cento deputati che contestano quella sui dottori.

Da giorni il governo stava lavorando per trovare un compromesso su come modificare l’articolo e così ottenere il voto favorevole di tutto il Pdl. Ma poi c’è stata l’iniziativa dei 101 deputati guidati da Alessandra Mussolini e la situazione è radicalmente cambiata. A questo punto non appare più sufficiente un nuovo testo per specificare che i medici non hanno alcun obbligo di denuncia, visto che il gruppo annuncia la presentazione di un emendamento che serva a cancellare definitivamente la norma.

Maroni cercherà di resistere, pur sapendo che non sarà facile anche perché in discussione alla Camera c’è il decreto antistupri che introduce le ronde dei cittadini e su questo il ministro ribadisce di non voler cedere, nonostante ieri Berlusconi abbia dichiarato che lui non era favorevole sin dall’inizio.

n ministro dell’Interno ritiene necessario procedere all’approvazione rapida della norma. Lo aveva spiegato anche al capo dello Stato per convincerlo sulla necessità di inserirla nel provvedimento da varare con i criteri dell’urgenza: "Dobbiamo regolamentare qualcosa che già esiste per evitare la giustizia fai da te". Lo ribadisce adesso, chiarendo che su questo non è disponibile a fare neanche un passo indietro, come chiarisce durante il colloquio con il premier.

Ieri mattina, proprio per difendere le sue scelte in materia di sicurezza, era andato in televisione e, non prevedendo la sortita di Berlusconi contro la Lega, aveva attaccato l’iniziativa dei deputati. "Sono francamente sorpreso dalla lettera dei 101 parlamentari - aveva dichiarato Maroni in un’intervista a Canale 5 - perché la norma sui dottori è stata introdotta dal Senato con l’approvazione all’unanimità del Pdl e non c’è mai stata intenzione da parte del governo di mettere la fiducia sul disegno di legge. Si tratta di un provvedimento complesso che vogliamo sia discusso dal Parlamento. Per questo l’iniziativa mi pare strana".

Poi aveva fornito la sua chiave di lettura: "Ogni volta che si avvicina un congresso e quello del Pdl è importante perché porta all’unione di due partiti, ci sono fermenti. Non vorrei ci fosse dietro una cosa del genere. Chiedo che su questi temi si discuta nel merito, senza strumentalizzare per fini politici. Noi togliamo il divieto di denuncia che esiste solo in Italia. Poi, chi vuole denunciare lo fa, chi non vuole non lo fa. Non solo. E una falsità l’ipotesi che con l’introduzione del disegno di legge i figli di clandestini non possano essere registrati all’anagrafe. Si tratta di una errata informazione messa in giro per fare polemica".

Giustizia: castrazione chimica; no del governo, la Lega insiste

 

La Repubblica, 20 marzo 2009

 

O il decreto ronde-stupri resta com’è o ci entra dentro la castrazione chimica per pedofili e violentatori. L’alto là della Lega e del ministro dell’Interno Roberto Maroni si gioca tutto qui. E oggi alla Camera, in commissione Giustizia, finirà 1 a 0 per il Carroccio. Nel senso che il testo resta invariato, e la castrazione finirà in un futuro ddl.

Con un duplice assist: Maroni incassa il suo decreto, che contiene le ronde, e la Lega rilancia la castrazione, tema che fa presa sui suoi elettori. Un ostacolo arriva dal ministero della Giustizia, dove più d’uno è critico sull’obbligo del carcere per chiunque commette una violenza. Via Arenula vorrebbe modifiche e attenuazioni.

Tant’è che il sottosegretario Giacomo Caliendo ha dato parere favorevole ad alcuni emendamenti, come quello dell’aennino Manlio Contento, che prevede un reato ad hoc per gli atti di libidine non particolarmente gravi (tipo "una pacca sul sedere" spiega Contento) per cui il giudice sarebbe libero di dare una misura alternativa al carcere.

Maroni non vuole cambiamenti. Il suo sottosegretario Alfredo Mantovano (An), in una riunione sulle proposte di modifica con Caliendo, la Bongiorno, la relatrice leghista Carolina Lussana, il capogruppo Pdl in commissione Enrico Costa, se n’è fatto esplicito portavoce. "O tutti sono d’accordo, pure l’opposizione, o non si cambia niente". Immediata la consultazione per i democratici Marco Minniti e Donatella Ferranti che hanno risposto controbattuto: "Se togliete dal decreto le ronde possiamo discutere sulla violenza sessuale". Scontata la replica di Maroni con un "ma non se ne parla proprio".

La castrazione finirà dunque per essere rinviata a un prossimo ddl. Per ora il presidente della Camera Gianfranco Fini ha ammesso l’emendamento leghista, bocciando quelli della forzista Mariarosaria Rossi sulle foto segnaletiche dei violentatori nei luoghi pubblici ("Ma lo ripresenterò pari pari in un altro ddl") e del leghista Matteo Brigandì sulle maggiorazioni di pena per i furti in casa.

L’ultimo braccio di ferro sulla castrazione ci sarà oggi in commissione: o la Lega lo ritira o il resto della maggioranza vota no. Caliendo non ha lasciato spazi: "È una proposta che richiede audizioni, ci sono dubbi, come quello dei tumori conseguenti al trattamento, o sull’effettiva reversibilità". E Costa: "Bisogna ponderare, analizzare, non si può infilare la castrazione su un vagone già in corsa".

Ma la Lussana, pubblicamente, non arretra: "Per noi resta ferma la volontà di approvare la sperimentazione di una misura che in altri paesi è già legge senza alcuna polemica". E, per le spicce, negli incontri riservati: "Se cambiate il testo noi ci vogliamo anche la castrazione".

Che il segretario dell’Associazione dei funzionari di polizia Enzo Marco Letizia boccia senz’appello: "È una falsa certezza per combattere gli stupratori. Il farmaco usato (ciproterone) è controindicato per chi è a rischio cancro, diabete, epatite, anemia, depressione, trombosi e per chi ha meno di 18 anni. È inefficace per gli alcolisti. E appena si sospende aumenta la libido del violentatore".

Giustizia: Pecorella (Pdl); il reato di clandestinità crea problemi

di Donatella Stasio

 

Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2009

 

"Non dico tanto, ma almeno un po’ di coerenza! Da un lato si fa un decreto legge per non far morire Eluana Englaro; dall’altro lato si approvano norme che mettono seriamente a rischio la salute di tanta gente. Ma dov’è la coerenza in tutto questo?".

Gaetano Pecorella, deputato forzista ed ex avvocato del premier, è tra i primi che hanno firmatola lettera a Silvio Berlusconi contro la norma del disegno di legge sicurezza sui "medici-spie", voluta dalla Lega, approvata dal Senato e ora all’esame della Camera. "La lettera ha soprattutto una valenza politica - spiega - perché ha l’obiettivo di aprire un dibattito parlamentare per valutare le ricadute sulla salute pubblica e sulla vita sociale derivanti dall’introduzione del reato di clandestinità. Con la fiducia, questo dibattito non ci sarebbe stato. Cento persone non sono poche - aggiunge Pecorella - perché spostano l’asse della maggioranza e pesano, soprattutto se il voto sul provvedimento è segreto".

 

Onorevole Pecorella, molti hanno considerato questa lettera un’iniziativa del Pdl anti-Lega. È così?

Per molti di noi no, non è così. È solo la richiesta di libertà di discussione e di voto. Non ci possono chiedere di non discutere norme che toccano la coscienza. Tanto più se queste norme sono sbagliate.

 

Nella lettera, oltre alla norma che consente ai medici di denunciare i clandestini, si fa riferimento a quella sul reato di clandestinità, per le sue ricadute sui "più elementari diritti umani". Dunque è sbagliata anche quella?

Al di là di come ciascuno la pensi, non c’è dubbio che il reato di clandestinità produce una serie di ricadute che bisogna valutare attentamente perché riguardano la salute, l’infanzia, la vita sociale.

 

Voi sostenete che il Ddl impone a medici, insegnanti, impiegati dello stato civile e, in genere, a pubblici ufficiali e incaricati di pubblici servizi, l’obbligo di denunciare il clandestino e che questo è incivile.

Esistono sicuramente degli escamotage giuridici per escludere quest’obbligo: il maestro non è certo tenuto a denunciare il figlio del clandestino. Ma non si può pensare di risolvere problemi così seri con degli escamotage. Con il testo attuale, l’obbligo di denuncia c’è. Il diritto alla salute sarebbe violato, sia quello dei clandestini, sia quello della collettività. A Milano ci sono già stati due casi di lebbra e sono un campanello d’allarme.

 

Quindi, non basta cancellare la norma sui medici?

No. I medici sarebbero gli unici, forse, a essere esonerati dall’obbligo di denuncia, in base all’articolo 365 del Codice penale. Ma gli altri pubblici ufficiali no. I figli dei clandestini sarebbero apolidi, non potrebbero studiare né integrarsi nel tessuto sociale. E questo è inammissibile.

Giustizia: sul ministro e il "carcere disumano", note a margine

di Aldo Maturo

 

www.agoravox.it, 20 marzo 2009

 

Quando nei convegni gli operatori penitenziari hanno detto che le nostre carceri sono le più civili del terzo mondo hanno parlato come sovversivi ad una platea assente e distratta che li ha ignorati per anni. Ora che il Ministro Alfano ha scoperto che le carceri italiane hanno raggiunto un livello di disumanità da non ritorno i più ottimisti possono sperare che sta per cambiare qualcosa. In realtà il gioco delle parti continua con l’unica conseguenza che il carcere continua ad affondare.

L’unica cosa certa è che il carcere da anni non è più un tabù. La gente può dire alla propria coscienza: la società si interessa del carcere. In realtà se ne interessano in molti, quasi sempre solo a parole, così che le cose rimangono come sono ed i problemi restano solo sulle spalle di chi vive al di qua e al di là dei cancelli.

Per tanti il carcere è diventato una moda, una merce facilmente vendibile. Il filone-carcere stuzzica l’attenzione di intellettuali, pseudo esperti ed opinionisti, sempre pronti a presenziare a dibattiti, pontificando pur senza aver mai visto un carcere. Alzi la mano chi ha visto veri operatori penitenziari invitati ai dibattiti televisivi sul carcere.

Tanti altri, molti, contrabbandano per interesse alle problematiche del carcere quello che è solo un interesse privato, solleticato dai tanti euro dei Fondi Sociali Europei che consentono ai bene informati ed ancor meglio ai bene inseriti di presentare e vedersi approvare progetti fantasiosi, inimmaginabili, futuribili, vuoti contenitori dove il detenuto si limita a svolgere il ruolo di comparsa perché i protagonisti sono quelli che puntano all’obiettivo finale: il finanziamento del progetto da cui, come una grossa slot-machine, cadono a pioggia tanti soldini.

Parliamoci chiaro: se ci si guarda intorno si vede che l’unica relazione che la società ha con il carcere, quella più spontanea e più sincera, è il rifiuto del carcere stesso, luogo di perdizione, enorme contenitore dove la società emargina "i cattivi" e li affida all’oblio. Tale emarginazione, nel tempo, non è stata solo psicologica ma anche fisica e logistica. Il carcere ha lasciato i centri urbani, dove ha vissuto per secoli in castelli e conventi, e si è trasferito nelle estreme periferie suburbane delle città, oltre gli stessi cimiteri, illuminato di notte come un enorme cattedrale nel deserto, isolato, spesso irraggiungibile fisicamente ed umanamente.

Ora si dà spazio alla improvvisa scoperta che ci sono 60.570 detenuti su 43.000 posti regolamentari. Si dice che è intollerabile che a Milano S. Vittore si dorma con il materasso a terra perché non c’è posto per le brandine e si ignora che con i materassi a terra si dorme da anni dappertutto, ad Ancona come a Pesaro, a nord come al sud.

Quando sono arrivato a Cassino, nel 1981, nei cameroni della prima sezione c’erano letti a castello a 4 piani e cesso in un angolo per 12, scene da "Fuga di mezzanotte". Oggi ci sono carceri dove i detenuti dormono nelle salette tempo libero, nelle salette ping pong, nei magazzini, in qualunque spazio disponibile e la mente ritorna a S. Vittore dove non molti anni fa li avevano dovuti mettere anche in ascensore.

Bene, dice il Ministro, costruiamo altre carceri, e lo dice ormai da mesi con disinvoltura, come se le carceri fossero dei campi profughi costruiti con i moduli prefabbricati messi su in pochi giorni dopo il terremoto del Belice o dell’Irpinia. Lo dice come se le carceri fossero organizzate come i Centri di Permanenza Temporanea, enormi recinti dove bivaccano centinaia e centinaia di extracomunitari accatastati come polli in batteria.

Sarebbe interessante se dai Provveditorati alle Opere pubbliche o dai competenti Uffici Dipartimentali si rendessero noti i dati sulle carceri ultimate ma non funzionali, sui reparti detentivi oggetto di restauri edilizi volutamente infiniti, per furbizia autoctona o per carenze finanziarie, sulle centinaia di posti letto rimasti inutilizzati dopo la dismissione delle case mandamentali.

Ma soprattutto sarebbe interessante sapere come pensa di risolvere il problema del personale, delle migliaia e migliaia di uomini che già oggi mancano all’appello e rendono impossibile la vita di chi lavora in carcere, una vita fatta di stress, di lunghe notti al freddo perché non ci sono i soldi per il riscaldamento, di riposi accumulati, di straordinari non pagati, di ferie spezzettate, di capitoli di spesa decapitati a tavolino senza rendersi conto dei disastrosi risvolti in periferia dove manca persino la carta igienica.

In uno stato di disagio generale per il Paese e per il mondo intero non si può pretendere evidentemente di più "per" il carcerario. Ma allora non si deve pretendere di più "dal" carcerario, non si devono esprimere giudizi che offendono l’impegno di chi ci lavora, bisogna avere il coraggio di intervenire sul codice per evitare che chi ha rubato una merendina da 12 euro alla Standa, per fame, sia condannato a tre mesi di carcere.

I nostri politici devono capire che il carcere è solo la stazione di arrivo di disagi, tensioni, ingiustizie, sperequazioni, povertà, crisi di valori che la società esterna non ha saputo o potuto risolvere. E nessuno può o deve ragionevolmente pensare di dare a quanti lavorano nel carcere una delega in bianco per risolvere da soli, senza mezzi, senza uomini , senza strutture e, perché no, senza alcun riconoscimento sociale e morale, le tensioni della società che nel carcere si riflettono e si amplificano. Ma soprattutto nessuno può speculare sull’amarezza di quanti nel carcere, a diverso titolo, hanno abdicato ormai ad ogni riconoscimento e dignità professionale.

Giustizia: Tenaglia (Pd); ascoltare allarme polizia penitenziaria

 

Apcom, 20 marzo 2009

 

"L’allarme e la preoccupazione espresse dai sindacati della polizia penitenziaria, di fronte al continuo ripetersi di gravi aggressioni da parte dei detenuti ai danni di uomini del personale di custodia, vanno ascoltati e devono servire per affrontare in maniera organica e definitiva il grave stato della situazione carceraria".

È quanto afferma Lanfranco Tenaglia, responsabile Giustizia del Pd. "La costruzione di nuove carceri, gli investimenti nella sicurezza e l’aumento dell’organico della polizia penitenziaria sono necessarie e indifferibili - incalza Tenaglia -. Il governo su tutto questo è inerte, assente: anche il piano carcerario, di prossima predisposizione, sarà l’ennesima presa in giro perché, a fronte dei proclami sulla costruzione di nuove carceri, non prevede lo stanziamento delle necessarie risorse economiche per affrontare le spese necessarie".

Giustizia: Sarno (Uil); con questi numeri le parole non bastano

 

Il Velino, 20 marzo 2009

 

"Di fronte alla realtà dei numeri non bastano più le parole o le declamazioni di intenti. Occorre agire e in fretta per prevenire l’ingestibilità delle tensioni già in atto che, inevitabilmente, si acuiranno in concomitanza con la stagione estiva.

La questione penitenziaria non è solo più una questione sociale, è oramai una vera questione di ordine pubblico e in quanto tale l’intero governo, auspicabilmente con il concorso della maggioranza e della opposizione, ha il dovere di agire per prevenire". Lo afferma Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa penitenziari a margine della riunione per la firma dell’accordo contrattuale per le Forze di Polizia (biennio 2006-2007), tornando a spostare l’attenzione sulla drammatica situazione che investe il sistema penitenziario italiano.

"La conta dei detenuti presenti alla data di ieri assommava a 60.789. A fronte di una ricettività massima delle strutture penitenziarie di 43.169. Parlare di ammasso nelle celle, quindi, è delineare un quadro reale nella drammaticità della situazione. D’altro canto in occasione dello scorso indulto invocammo, invano, misure strutturali. Proprio la mancanza di tali interventi ha delineato l’attuale, insostenibile, situazione.

Noi riteniamo che occorre agire immediatamente sulle dotazioni organiche della polizia penitenziaria per dar fiato al personale oramai esausto, oberato da carichi di lavoro insostenibili (circa 5.000 le vacanze accertate dallo stesso ministero della Giustizia) e per garantire effettivamente una pena volta al recupero (circa 400 gli educatori vincitori di concorso in attesa di assunzione). Il piano carceri annunciato - dichiara il segretario della Uil Pa penitenziari - dal ministro Alfano è una soluzione, ma a medio-lungo termine. Noi siamo convinti che bisogna agire anche per via legislativa con adeguate riforme".

La Uil Pa penitenziari rende noto che al 31 dicembre del 2008 il 51,3 per cento della popolazione detenuta aveva una posizione giuridica di imputato mentre il 63,9 per cento dei detenuti avevano da scontare un residuo di pena non superiore ai tre anni. Anche l’incidenza di detenuti stranieri è un dato molto significativo che contribuisce ad aggravare il quadro complessivo (a dicembre 2008 37,09 sul totale).

"Di fronte a tali cifre immaginare una vera riforma della giustizia che non preveda il sistematico ricorso alla carcerazione preventiva e che preveda un maggior ricorso a pene e sanzioni alternative ci pare una via obbligata per decongestionare strutturalmente la tendenza al sovrappopolamento, a prescindere dalla costruzione di nuove carceri. È chiaro che ciò si lega direttamente a un sistema di controllo che garantisca la collettività e la sicurezza pubblica, affermando il principio della certezza della pena che per noi non significa pedissequamente stato di detenzione.

Per questo invitiamo l’Amministrazione Penitenziaria, il ministro Alfano, il Parlamento ad avviare un confronto sulle possibili soluzioni, anche attraverso il ricorso a moderne tecnologie. Tempo fa lo stesso ministro Alfano ci aveva anticipato che avrebbe richiesto una attività specifica delle commissioni Giustizia ad oggi, però, nulla si rileva in merito.

Pertanto - anticipa Sarno - solleciterò, nelle prossime ore, i presidenti Berselli e Buongiorno ad una audizione di merito. Anche rispetto all’effettiva possibilità di espellere stranieri che delinquono occorre affermare soluzioni concrete che possano contribuire alla deflazione delle criticità in atto". La Uil Pa penitenziari non manca di sottolineare come "nel corso dell’ultimo anno siano ben 650 gli agenti feriti per aggressioni da parte di detenuti, nell’inconcepibile silenzio di tutti".

Giustizia: detenuti possono accedere alla fecondazione assistita

di Patrizio Gonnella (Associazione Antigone)

 

Italia Oggi, 20 marzo 2009

 

I detenuti possono accedere alla fecondazione assistita anche se affetti da malattia virale. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 1125972008, ha così ampliato le possibilità di accedere alla procreazione medicalmente assistita consentita dall’articolo 1, comma 2, della legge n. 40 del 2004 solo quando non vi sono altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità. Il nulla osta spetta al tribunale di sorveglianza.

La prima sezione della Cassazione ha accolto il ricorso di un detenuto affetto da virus Hcv al quale il tribunale di sorveglianza di Roma aveva negato il permesso di accedere al programma di procreazione assistita in quanto non era né sterile né non fertile.

I giudici hanno motivato la loro decisione affermando che la legge del 2004 parla genericamente di sterilità o infertilità senza però indicare le specifiche patologie che producano sterilità o infertilità in modo dettagliato e nominativo.

L’epatite C, di cui è affetto il padre, per ammissione medica condivisa, può mettere in pericolo il feto, pertanto, secondo i giudici supremi, il fatto di aver contratto una malattia virale di questo tipo (per estensione la sentenza può essere applicata anche nel caso di detenuto affetto da Hiv) rende il potenziale genitore detenuto assimilabile a quello sterile. Viene così esteso il diritto alla filiazione dei detenuti, dopo le pronunce che negli anni scorsi hanno permesso la fecondazione assistita anche a chi è sottoposto al regime del carcere duro di cui all’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario.

Naturalmente si deve trattare di detenuti regolarmente sposati. Un recente rapporto della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria ha evidenziato come il 17% dei detenuti è affetto da patologie virali croniche; fra queste la più diffusa e allarmante è proprio l’epatite C. Molti di questi detenuti, quindi, potranno chiedere di accedere alle tecniche di procreazione assistita. In carcere sono vietati i rapporti sessuali con il coniuge.

Era il 2000 quando in sede di elaborazione del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario, successivamente approvato con decreto del presidente della repubblica, fu inserita una norma che consentiva "colloqui" riservati tra il detenuto e il coniuge. Norma ritenuta inammissibile dal Consiglio di stato perché in conflitto con altra norma di legge gerarchicamente superiore, l’articolo 18 della legge n. 354 del 1975, che prevede che i colloqui debbano avvenire sempre con la supervisione visiva di un agente di polizia penitenziaria.

Giustizia: le Procure sono senza soldi, stop alle intercettazioni

di Franco Bechis

 

Italia Oggi, 20 marzo 2009

 

Il primo atto è venuto dal procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, alla fine di gennaio. Una lettera inviata a tutti i principali fornitori del palazzo, in primis le aziende che effettuavano le intercettazioni telefoniche e ambientali fornendo a noleggio le apparecchiature, per comunicare un taglio unilaterale delle condizioni contrattuali.

Rispettate per il primo mese di vigenza degli accordi, e successivamente scontate dal 30 al 90%. Un comportamento seguito da gran parte degli uffici giudiziari, a corto di liquidità sia per i tagli ai trasferimenti pubblici sia per la difficoltà di alimentare i conti correnti con maxisequestri e confische. Anche a Milano è stato prosciugato il cosiddetto conto "furbetti del quartierino".

È stato grazie a sequestri e confische legate alle vicende delle scalate Bnl-Antonveneta e alle inchieste su quella che si chiamava la Banca popolare di Lodi che gli uffici giudiziari di Milano si sono pagati nell’ultimo triennio buona parte delle spese di giustizia e delle varie inchieste, spese per intercettazioni comprese.

Finiti quei fondi e visto che in gran parte dei processi è difficile fare pagare agli imputati le spese di giustizia, e che in altri procedimenti (l’ultimo caso quello della vicenda Eluana di fronte alla Corte di appello di Milano) non esiste nemmeno questa possibilità, le strade seguite sono state due: dove si è potuto la rinuncia a consulenze e perizie (così si è scelto proprio con Eluana, non chiedendo consulenze di medici sul caso), negli altri casi il taglio di commesse o dei listini dei fornitori.

Vero che il capitolo spese in consulenze e attrezzature da parte degli uffici giudiziari in tutta Italia era lievitato a dismisura negli ultimi anni creando molte polemiche, ma a fronte di somme considerevoli sulla carta, le reali erogazioni ai fornitori sono state assai meno pesanti. Lo Stato anche in un settore delicato come quello della giustizia semplicemente non paga, o almeno non lo fa per anni.

Le prime vittime, dopo anni di gloria, sono proprio le imprese private che assicurano le intercettazioni telefoniche e ambientali. Solo per il noleggio delle apparecchiature i crediti ammontano a circa 200 milioni di euro, e di fatto gli ultimi pagamenti sono legati a fatture del 2006, quando la legge Bersani ha sollevato le Poste dall’obbligo di anticipare la liquidità al sistema giudiziario. Con questo passo conta assai poco quel che potrà stabilire la legge sulle intercettazioni. Se le procure non pagano, sono loro a privarsi di quello strumento per prime.

Lettere: i detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 20 marzo 2009

 

Malato e non curato in carcere. Cara Radiocarcere, mi trovo detenuto da circa un anno perché sottoposto a misura cautelare. Il mio problema è che vorrei essere trasferito in un carcere dove poter essere curato. Infatti soffro di una grave forma di diabete e inoltre mi è stata diagnosticata una brachicardia ventricolare al cuore.

Pensa che tempo fa un professore dell’ospedale di Alessandria mi disse che nelle mie condizioni non potevo stare in carcere. Ed invece, di tutta risposta, dopo pochi giorni mi hanno risbattuto in cella. Il problema è che qui nel carcere di Alessandria non vengo curato e sono molto preoccupato per la mia salute. Una salute che sento ogni giorno peggiorare.

Ho fatto centinaia di domandine per essere trasferito, ma io temo che le mi richieste di trasferimento non siano mai arrivate al Dap di Roma. È una situazione assurda. Più faccio domandine e più mi isolano. Anche gli educatori non sono interessati al mio caso, e non solo al mio, visto che qui nel carcere di Alessandria si fanno vedere una volta ogni morte di Papa. Solo per cercare di essere curato in carcere, ho fatto anche lo sciopero della fame per ben 30 giorni, ma neanche questo è servito. Spero che Radiocarcere dia voce anche alla mia ingiustizia. Ciao.

 

Pietro, dal carcere di San Michele di Alessandria

 

L’incivile carcere Pagliarelli di Palermo. Caro Riccardo, ti scrivo da uno dei tanti contenitori chiamati carceri, ovvero quello di Pagliarelli. Contenitori, e non carceri, pieni di disagi per i detenuti, costretti per questo a vegetare e non a vivere come si addice a degli esseri umani.

Pensa che qui nel carcere di Pagliarelli è dal 2004 che i termosifoni nelle celle non funzionano. Allora ci dissero che c’era un problema alla caldaia e che presto lo avrebbero risolto. Beh sono passati 4 anni e i termosifoni ancora sono rotti!

Inoltre, ricorderai che qualche anno fa una legge ha vietato il muretto e il vetro divisorio nelle sale dove i detenuti incontrano i propri familiari. Una legge giusta che ha inteso consentire al detenuto di stare più a contatto con i propri familiari durante il colloquio. Beh questa legge a Palermo ancora non è arrivata. Infatti, ancora oggi, nel carcere di Pagliarelli di Palermo, c’è nella sala colloqui sia il vetro che il muretto divisorio. E, come se non bastasse, ancora oggi dobbiamo subire l’umiliazione di un agente penitenziario che bussa sul vetro quando ci alziamo in piedi per abbracciare i nostri cari.

Abbiamo fatto presente il problema alla direzione, che ci ha risposto di non avere i soldi per abbattere il muretto e il vetro divisorio. Una risposta che ci lascia perplessi, visto che ora proprio qui nel carcere Pagliarelli stanno costruendo una nuova palazzina di 4 piani. Segno evidente che quando vogliono i soldi li trovano. Un altro problema che abbiamo è la fornitura di stracci, scope e detersivi per lavarci le celle. Il carcere non ce li dà e noi siamo costretti a comprali di tasca nostra. Ora però sappiamo che il Ministero della Giustizia fornisce questi bene e allora domandiamo: che fine fanno? Ora ti saluto, caro Riccardo, e ti ringrazio per darci un’occasione di avere voce qui sul Riformista.

 

Vincenzo, dal carcere Pagliarelli di Palermo

Campania: processi-lumaca; 4mila i detenuti in attesa di giudizio

di Raffaele Schettino e Ilaria Barbati

 

www.metropolisweb.it, 20 marzo 2009

 

Le carceri scoppiano: 17mila detenuti in esubero ed un esercito di imputati in attesa di processi lunghissimi. Il tema del sovraffollamento delle celle è legato a doppio filo a quello dei tempi della giustizia.

Dibattimenti senza fine, rinvii di udienza, carenza di magistrati e personale nelle Procure e nei tribunali, mezzi e fondi ridotti all’osso: anche questo alimenta la crescita esponenziale della popolazione carceraria.

In Campania, dove i detenuti in esubero ospitati nei 17 istituti di pena sono circa 3.600, si vive la situazione più drammatica di tutto lo Stivale. Qui, 4.265 imputati sono ancora a processo, il doppio di quelli per i quali la sentenza di condanna è già passata in giudicato. 2500 sono ancora in attesa del primo grado, mille invece aspettano il verdetto di appello e 348 sono ancora iscritti in più procedimenti penali.

Nelle celle di Poggioreale, il carcere più affollato d’Europa, si vive la criticità più acuta della Campania, con 1.884 detenuti su 2.700 ancora alla sbarra. Ma negli altri istituti non va meglio: a Secondigliano gli imputati sono 601, la metà di quelli rinchiusi; a Salerno la percentuale sale oltre il 70% degli ospiti. 671 detenuti su 884 sono invece quelli che attendono ancora il primo giudizio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Numeri che evidenziano tutta la drammaticità di una giustizia-lumaca."La lentezza è il nostro primo nemico", continua a dire il ministro Alfano. "Cinque milioni di procedimenti civili sono ancora pendenti, e quelli penali ancora aperti sono più di 3milioni". Da qui, dice la necessità delle riforme. Riforme che passano anche per il potenziamento del Fondo unico della giustizia. Soldi che permetteranno di recuperare denaro da destinare alla giustizia e in grado di ridurre sensibilmente i tempi dei processi.

Molise: servono carceri nuove, ma dal ministero nessun fondo

 

Prima Pagina, 20 marzo 2009

 

Tramite i media, Annamaria Macchiarola (Pd) ha rivolto "un appello" affinché Campobasso possa ottenere i fondi necessari per decentrare le carceri di via Cavour.

A fornirle l’occasione sarebbe stata l’approvazione della deliberazione Cipe del 6 marzo scorso, con cui sono stati stanziati 200 milioni di euro per l’edilizia carceraria da utilizzare con procedure più snelle e veloci. Ciò posto, vediamo come stanno le cose, anche perché queste non vanno assolutamente nel senso indicato dal dirigente politico che non soltanto vorrebbe vedere la struttura delocalizzata, quand’anche restituita ai campobassani.

Per fare fronte al sovraffollamento delle carceri italiane, i tecnici dell’Ufficio per l’edilizia penitenziaria e residenziale del Ministero della Giustizia ne hanno studiato un’altra. Adesso ritengono che possa essere possibile tirare su una serie di padiglioni detentivi, da duecento posti l’uno, da collocare all’interno delle strutture di reclusione già esistenti. Ed hanno pure quantificato la spesa, ritenendo bastevole l’importo di "appena" dieci milioni di euro. Però, da fonti interne, si è appreso che le carceri molisane - benché notoriamente si trovino al limite del collasso (almeno quella di Larino) - siano rimaste escluse da una tale programmazione.

Il fatto è che l’Italia conta la "bellezza" di 205 istituti penitenziari, dotati di strutture ricettive atte ad "ospitare" - più o meno degnamente - 43.262 persone. Ma il Ministero competente ritiene che, nelle condizioni attuali, possa essere "tollerata" la presenza anche fino a 63.568 individui. Ed è stato per evitare tutto ciò che il Dicastero delle Infrastrutture vuole predisporre la costruzione di nuove strutture (presumibilmente operative tra il 2009 ed il 2012), almeno per riuscire a reperire altri 2.025 posti.

I lavori sono urgenti perché è vero che l’indulto, approvato nel 2006, era riuscito a far calare il numero dei detenuti da 62.000 a 38.000; ma, al 31 agosto scorso, già si era ritornati a quasi 56.000 occupanti, per il 37,4% stranieri. Per dirla tutta, sono oltre 24.000 quelli che stanno scontando una pena definitiva, e quasi 16.000 i soggetti che rimangono in attesa di un giudizio.

Tracciato il quadro nazionale, è possibile scendere nel dettaglio regionale per rivelare che, secondo il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, le tre carceri molisane di Campobasso, di Isernia e di Larino ospitavano (qualche mese fa) 371 detenuti italiani contro i 356 di capienza regolamentare, mentre la Sezione femminile non segnalava "ospiti".

Secondo il Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria (Sappe), la Casa circondariale e di reclusione di Larino giunge spessissimo al collasso. La struttura frentana, che è nata per ospitare 184 detenuti, arriva bene spesso a contarne persino 244, di cui 40 stranieri. Di contro, Campobasso, a fronte di una capienza di 121 persone, detiene 72 soggetti; mentre Isernia annovera 55 presenze contro i 51 ospitabili in teoria.

Grazie all’indulto, nel Molise uscirono 202 detenuti, così suddivisi: 37 nel capoluogo di regione; 52 in quello pentro; 113 nel centro frentano. Ma ora, mentre a Larino si è ritornati alla situazione precedente il succitato provvedimento, in Italia, il maggiore affollamento risulta essere quello della Lombardia (7.687 presenze), seguita dalla Campania (6.463) e dalla Sicilia (6.113). Soltanto la Valle d’Aosta (158) ed il Trentino-Alto Adige (303) possono vantare meno detenuti della ventesima regione.

Insomma, la crescita di questa particolare tipologia di abitanti appare essere senza fine, tanto che - soltanto dall’inizio di maggio alla fine dell’agosto scorso - i "fratelli reclusi" sono aumentati di ben 2.839 unità.

Dal canto loro, gli agenti di Polizia penitenziaria, tutori di questa popolazione tanto particolare, sono oltre 45.000, ma la dotazione organica dovrebbe essere portata almeno a 49.000. In effetti, tenuto conto di quelli che risultano essere occupati in servizi diversi dalla custodia vera e propria, si scende a poco più di 31.000 unità, che si riducono ai 19.000 circa impiegabili quotidianamente. (calcolando i turni, i congedi e le malattie).

Insomma, tra vuoti di organico e nuove carceri, occorrerebbero almeno 13.000 agenti in più, senza contare che pure nel settore tecnico ed in quello amministrativo la carenza rasenterebbe le 2.500 unità.

Il risultato sarà che, prima o poi, il settore scoppierà; di qui i discorsi che si vanno concretando a livello governativo e parlamentare sulla necessità di avere meno detenuti, comunque senza elargire sconti di pena. Ecco perché si parla di braccialetto elettronico e si tenta di programmare espulsioni ed "ospitate" nelle celle della patria di origine di ciascuno. Ma tutto questo dovrebbe essere fatto sicuramente prima di raggiungere la quota-limite di 70.000 carcerati.

In tutta questa situazione, il Ministero non ha potuto tenere conto delle esigenze molisane (che poi sono quelle di quelle di Larino in particolare); e questo è avvenuto sicuramente perché, come rivela l’Ufficio tecnico, "non vi sono fondi adeguati ai bisogni". Per ciò stesso, ogni iniziativa non potrà che essere limitata alle venticinque opere già programmate ed ai lavori previsti con riferimento al I lotto di otto carceri (Rieti, Cagliari, Sassari, Tempio Pausania, Oristano, Forlì, Rovigo, Trento). Però l’idea dei padiglioni detentivi fa bene sperare per il futuro, visto che la spesa da affrontare sarebbe di gran lunga inferiore a quella che dovrebbe essere stanziata per costruire un istituto ex novo (45-50 milioni di euro contro i dieci trovati per tirare su i nuovi padiglioni da 200 posti l’uno).

Ma vero è che molte delle risorse disponibili, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) è costretto a destinarle alla ristrutturazione di carceri antiche come quella di via Cavour a Campobasso. In effetti, una su cinque risale ad un periodo che va dal 1200 al 1500 ed è sottoposta a vincoli architettonici che fanno lievitare esponenzialmente gli stanziamenti reperibili.

Messina: la Procura apre un’indagine sul carcere di Mistretta

 

La Sicilia, 20 marzo 2009

 

La procura della repubblica di Mistretta (Me) ha avviato un’inchiesta sulle condizioni della struttura carceraria del comune montano. L’indagine, che al momento non vede alcun iscritto nel registro degli indagati, prende le mosse da un dossier dei sindacati di Polizia penitenziaria nel quale si puntava il dito contro uno dei principali problemi di Mistretta: il sovraffollamento. Oltre 50 detenuti dove c’è posto solo per 16.

Il procuratore capo Luigi Patronaggio stamani si è recato personalmente nell’istituto di pena, ed ha riscontrato gravi mancanze igieniche e altre situazioni fuori norma. Il risultato del blitz di oggi è finito nel fascicolo esplorativo.

Torino: tenta il suicidio in carcere, è ricoverato in rianimazione

 

Agi, 20 marzo 2009

 

È ricoverato in rianimazione all’ospedale Maria Vittoria di Torino Antonio Olivieri, l’uomo che lo scorso 9 marzo, in un raptus di follia, ha accoltellato uccidendolo un uomo e ha ferito gravemente la figlia 16enne. Olivieri era detenuto nel reparto di sorveglianza psichiatrica nel carcere de Le Vallette, quando ieri ha tentato il suicidio utilizzando, pare, una striscia di tessuto strappata dal lenzuolo e legata alle sbarre. Soccorso dagli agenti della Polizia penitenziaria è stato trasportato al Maria Vittoria, quindi in serata all’ospedale Giovanni Bosco per la Tac e poi nuovamente trasferito al Maria Vittoria dove è ricoverato in rianimazione.

Nuoro: a Mamone manca l'assistenza per detenuti sieropositivi

di Nino Bandinu

 

La Nuova Sardegna, 20 marzo 2009

 

Come se non bastasse il disagio generale denunciato nei giorni scorsi, adesso Mamone fa parlare di sé per l’assistenza sanitaria mancata ai detenuti tossicodipendenti: in particolare a quelli sieropositivi.

"L’istituto penitenziario - commenta a proposito Michelangelo Gaddeo della Cgil nuorese - vive oggi una delle sue pagine più nere: con sovraffollamento allucinante, le pesanti carenze di organico, e un atteggiamento di distacco dei vertici dell’Amministrazione penitenziaria che determina una situazione insostenibile".

E ora ci si mette pure l’assistenza sanitaria (che non c’è) per i detenuti più a rischio. Il quadro che fornisce la Cgil è allarmante: dopo gli ultimi rincalzi Mamone mesi ospita circa 340 reclusi, che sono assistiti dal punto di vista sanitario da un servizio di Guardia medica 24 ore su 24 (per un totale di sei medici), e, al momento, da due soli infermieri professionali. "Poco più della metà degli ospiti - precisa Gaddeo - sono tossicodipendenti e di questi alcuni sono HIV positivi, ma sono seguiti da un solo medico specialista, in convenzione con la Asl, per sole 12 ore settimanali".

Ciò oltre che a rendere difficile la "copertura del servizio" comporta anche "l’impossibilità materiale" di godere di qualsiasi forma di riposo, anche quando questo viene da ragioni di salute "per l’assenza di altro personale finalizzato alle sostituzioni". Insomma, per la Cgil, il medico responsabile per assicurare i diritti dei detenuti sarebbe costretto "a rinunciare ai propri". E come se questo non bastasse, i pazienti non possono contare neppure sull’ausilio di uno psicologo. Tantomeno risultano in servizio "infermieri per l’assistenza specifica ai tossicodipendenti".

Impossibile quindi garantire i normali livelli di assistenza sanitaria. Identico il quadro che risulta sul piano tecnico: "Non esiste un computer funzionante e gli operatori sono costretti a utilizzare un PC in comune, all’interno dell’infermeria". Le condizioni igieniche dei locali ad uso medico lascerebbero poi a desiderare. Ma la cosa più grave per Gaddeo è in questa fase l’assistenza mancata ai tossicodipendenti.

"Già da tempo - afferma - abbiano segnalato all’Asl l’anomalia, ma nessuno ancora si è mosso". Tanto che l’unico medico addetto alle tossicodipendenze "ha chiesto un periodo di aspettativa". Un fatto grave, questo, che rappresenta la "disperazione maturata" in un ambiente poco sereno. "E ora c’è chi vuole coprire il vuoto con medici in missione dal Sert di Nuoro, con un aggravio dei costi ed un moltiplicarsi dei disagi" denuncia il sindacalista Cgil che sollecita una "urgente e decisa azione" volta a portare tutti gli attori intorno a un tavolo. Altrimenti sarà agitazione o sciopero.

Anche per altre ragioni. "Infatti i lavoratori, principale risorsa del sistema - osserva il sindacalista - da anni invocano una decisa azione per il rilancio della struttura, la definizione di organici e servizi adeguati, perché senza queste condizioni l’istituto, sin’ora retto solo grazie ai sacrifici e al senso di responsabilità degli operatori, corrono il rischio di trasformarsi in polveriere a causa di un contesto di disagio e di ingiustizia diffusa che finisce con il coinvolgere e colpire tutti per l’impossibilità materiale di assicurare i diritti creando evidenti problemi di convivenza".

Modena: 100 detenuti a Castelfranco? sindacati sono contrari

di Alessandra Consolazione

 

La Gazzetta di Modena, 20 marzo 2009

 

I sindacati della polizia penitenziaria lamentano scarsa attenzione da parte delle istituzioni verso lo stato attuale della Casa di Reclusione al Forte Urbano, visti i progetti disattesi che metterebbero a repentaglio la destinazione futura dell’istituto.

E visto che nei giorni scorsi un detenuto è riuscito tranquillamente a fuggire per poi essere inutilmente inseguito a Modena dopo che era stato intercettato dalla polizia. Raccoglie l’istanza Rosario Boccia, avvocato e consigliere comunale di maggioranza: "È inaccettabile che l’istituto castelfranchese viva una fase di assoluta precarietà - dice Boccia - Il progetto iniziale è stato completamente disatteso ed è inammissibile che si continui ad evitare di trattare la delicata questione".

Boccia ritiene "allarmante" quanto sostenuto dal Provveditore Regionale dell’amministrazione penitenziaria, Nello Cesari, durante l’ultima visita alla casa di reclusione, in presenza dei sottosegretari Giovanardi e Casellati. "Sostenere che i problemi legati al sovraffollamento della Casa Circondariale di Modena vadano risolti inviando 100 detenuti all’istituto di Castelfranco, sta ad indicare come gli annosi problemi già in essere in questo penitenziario siano del tutto poco considerati dalle istituzioni - continua Boccia.

L’amministrazione penitenziaria dovrebbe piuttosto rendere dovute spiegazioni sul perché, a fronte di investimenti consistenti, il personale di polizia penitenziaria, dopo aver partecipato ad un corso di formazione finalizzato all’approfondimento sulle tossicodipendenze per la riabilitazione dei soggetti detenuti che richiedono di intraprendere un percorso a custodia attenuata, ancora oggi vede gran parte delle risorse disponibili assorbite dalla popolazione internata".

E si chiede anche un potenziamento dell’organigramma, con l’assegnazione definitiva di un dirigente dell’amministrazione penitenziaria, il cui ruolo è attualmente ricoperto per due giorni alla settimana dalla dott.ssa Di Filippo del Provveditorato Regionale dell’amministrazione penitenziaria di Bologna.

Roma: lunedì al via terza edizione di progetto "Codice a sbarre"

 

Il Velino, 20 marzo 2009

 

Si terrà lunedì alle 11.30 alla sala polifunzionale della presidenza del Consiglio dei ministri di Roma, la conferenza stampa nazionale di presentazione della terza edizione del progetto sociale Codice a sbarre. All’iniziativa, patrocinata da cinque ministeri italiani, saranno presenti il ministro della Gioventù Giorgia Meloni, il dirigente di Unicef Italia Roberto Salvan e il commissario straordinario della Croce rossa, Francesco Rocca.

Si tratta di una manifestazione organizzata dalle associazioni Emergenze Oggi e Itaca: un movimento unico che mette insieme istituzioni-detenuti-studenti e cultura, all’insegna della solidarietà attraverso una azione concreta. Il progetto Codice a sbarre, infatti, nasce con l’obiettivo di realizzare un percorso di prevenzione per studenti e di rieducazione per detenuti, attraverso l’arte pittorica. Ogni giovane e detenuto che parteciperà all’iniziativa racconterà il proprio viaggio introspettivo, colorando un supporto rappresentato da un box per la pizza. La scatola vuota, infatti, rappresenta il vuoto che c’è all’interno della società; mentre la pizza è elemento-alimento che unisce da sempre la maggior parte dei ragazzi.

L’obiettivo è creare, usando questi mezzi, delle opere d’arte che verranno selezionate per il concorso "Arte in scatola", a cui possono partecipare sia detenuti che giovani. Le opere realizzate verranno selezionate da tre apposite giurie (una scolastica, una provinciale e una istituzionale formata da giornalisti e critici d’arte) e verranno esposte, a giugno, al museo Civico di Santa Caterina a Treviso. Il progetto contiene anche una seconda iniziativa: un "Passaporto per il carcere" per i giovani che, in modo anche provocatorio, racchiude tutti i reati in cui un ragazzo può inciampare durante la delicata fase di crescita. Un’idea originale che ha ricevuto anche un premio donato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Busto Arsizio: spettacolo teatrale, per festeggiare il 19 marzo

 

Varese News, 20 marzo 2009

 

"Oggi siamo come liberi". Sono queste le parole che sintetizzano al meglio l’atmosfera che si respirava oggi, giovedì 19 marzo, nella Casa Circondariale di Busto. La Festa del papà ha infatti "invaso" la palestra del carcere sotto forma di risate di bambini, musica, palloncini, dolci e soprattutto… di teatro.

Un teatro nato dalle storie raccontate dai detenuti e dalla loro performance di attori. Sotto la guida dell’occhio esperto di Elisa Carnelli, attrice e conduttrice del laboratorio teatrale che si è svolto in carcere negli ultimi mesi, e aiutati da Carla Bottelli, storica volontaria, un gruppo di undici attori ha messo in scene tre delle fiabe narrate in "Storie da mondi diversi". "Il teatro si ispira liberamente al libro - spiega Bottelli -. La creatività e il modo personale di interpretazione di ognuno di noi ha creato delle storie a sé".

Un progetto, quello teatrale, che ha avuto anche un forte impatto educativo. "Dalle loro interpretazioni - spiega Carnelli - emergono anche i vissuti personali e le differenze culturali. Il mio obiettivo era quello di farli lavorare sull’espressione, trovare la creatività e l’immaginazione: abilità che in carcere puoi dimenticare di avere".

A garantire la riuscita di tutto il progetto e di questa giornata ha collaborato davvero "tutto" il carcere: l’area trattamentale, gli agenti di polizia penitenza, i volontari, i detenuti che hanno cucinato i dolci per la merenda, quelli (detenuti della sezione dei tossicodipendenti, ndr) che hanno realizzato le cravatte in cartoncino per i papà, quelli che hanno suonato e infine quelli che hanno accolto gli ospiti.

Ma a renderla straordinaria sono state soprattutto le famiglie: le mogli, le mamme, i papà, i nonni e i bambini. Uniti per un pomeriggio diverso anche da quelli vissuti durante i colloqui. "Non dobbiamo dimenticare che i detenuti sono anche papà e mariti - spiega Rita Gaeta, responsabile dell’area trattamentale -. Per loro sono feste importanti: poter fare una merenda insieme diventa un momento di libertà".

Un pomeriggio quindi di festa, ma anche di riflessione. "Perché organizziamo queste iniziative? - spiega Michela Cangiano, Comandante di reparto della Polizia Penitenziaria - Vicecommissario della casa circondariale -. Perché dobbiamo far capire alla società che in carcere non ci sono solo numeri, ma persone. Il carcere, al di là del fine punitivo, non deve essere il luogo in cui si spezzano i loro legami familiari, ma quello in cui promuovere il reinserimento nella società.

Anche questa è sicurezza: con queste attività di rieducazione si riduce la probabilità che la persona detenuta, una volta uscita, sbagli nuovamente". Per questo la scuola, i corsi professionalizzanti e altre iniziative non mancano. "Quando pensa al carcere, la gente immagina subito a delitti "gravi" - continua il Vicecommissario -.

Qui a Busto ci sono persone giovani, fra i 25-35 anni, di nazionalità diverse che devono scontare pochi anni di carcere per reati legati al traffico di sostanze stupefacenti o contro il patrimonio. Non si tratta di reati legati ad atti violenti e spesso alla base ci sono problemi legati alla tossicodipendenza".

Verso le cinque del pomeriggio è tutto finito e ognuno se ne va, chi a casa, chi torna al lavoro e chi in cella. "Oggi ci siamo sentiti liberi - raccontano gli attori -. Siamo troppo emozionati e contenti, come se fossimo fuori. Grazie a Elisa e Carla e tutti quelli che hanno reso questo possibile".

Cinema: da Hollywood un film sulla cattiva giustizia all'italiana

di Attilio Bolzoni

 

La Repubblica, 20 marzo 2009

 

Cominceranno a girare nella campagna toscana, in estate. E anche se il titolo - The monster of Florence - porta a immaginare che vedremo un altro film sul solito serial killer, chi sta lavorando al soggetto garantisce che ci sarà poco sangue e molta rabbia.

A Hollywood vogliono fare una grande denuncia sulla malandata giustizia italiana. Con una storia che ha sbalordito i reporter d’America. Quando ha comprato i diritti del suo libro, Tom Cruise gli ha detto: "Mario, il protagonista sarai tu: un giornalista che si è messo in testa di rivedere un’indagine poliziesca sbagliata e solo per questo è stato schiacciato dal potere".

Mario è Mario Spezi, il cronista fiorentino arrestato con l’accusa di avere depistato con i suoi articoli l’indagine sul mostro di Firenze. Dopo tre anni è ancora al centro di un delirio giudiziario, un tormento infinito coperto da un silenzio che fa paura. Il libro che ha scritto - Dolci colline di sangue - è stato pubblicato in Cina e in Polonia, in Ungheria e in Corea e in Brasile, in Spagna e ancora in Norvegia e in Inghilterra. Quattordici edizioni. Negli Stati Uniti ha venduto 300 mila copie, per otto settimane ha occupato il terzo posto nella classifica dei best seller sul New York Books Rewiew.

"E in Italia, non ha avuto una sola recensione", ricorda lui. La sua colpa è stata quella di inseguire una verità non ufficiale, contestare un’indagine che a lui sembrava sgangherata. La sua fortuna è stata invece quella d’incontrare un collega americano, autore di thriller di successo. Dalla galera a Hollywood. Passando e ripassando dalla procura di Perugia nell’indifferenza di tutti. Così è scivolato in un girone infernale della nostra giustizia.

La trama: un’inchiesta e una contro-inchiesta, un cronista in carcere per 23 giorni e un altro rispedito minacciosamente oltre Atlantico, abusi, intercettazioni illegali, incriminazioni a raffica generate da dubbie fonti, un sottobosco popolato da mitomani, un accanimento accusatorio e una tortuosità investigativa che ha preso forme sempre più ossessive.

I protagonisti: Mario Spezi e lo scrittore Douglas Preston, il magistrato perugino Giuliano Mignini (che è anche il pm dell’omicidio della studentessa Meredith Kercher), l’ex capo della "squadra antimostro" Michele Giuttari, suggeritori già condannati per calunnia, noti giudici e alti funzionari dello Stato e personaggi dello spettacolo trascinati in improbabili vicende di satanismo e perfino in omicidi e stragi.

Ecco cosa farà vedere The monster of Florence, prodotto dalla United Artists di Tom Cruise e con la sceneggiatura di Chris McQuarrie, quello che ha vinto un Oscar con "I soliti sospetti". Ecco come Hollywood racconterà un viluppo poliziesco-giudiziario e le sventure di Mario Spezi. Un arresto che The Guardian ha definito "il più grande abuso contro la libertà di stampa nel mondo occidentale dalla fine della guerra".

I fatti, dall’inizio. A Firenze s’indaga da anni sui delitti del "mostro". Una pista, tanto tempo dopo, punta a Pietro Pacciani e ai famigerati "compagni di merende". Tutti i cronisti della città sono a caccia di scoop. Fra di loro c’è Mario Spezi, che fa la "nera" alla Nazione dal 1973. Lui però non crede che Pacciani e quegli altri siano i veri colpevoli. Insegue tracce che gli inquirenti hanno abbandonato e, a torto o a ragione, è convinto che i delitti del mostro conducano ad alcuni pastori sardi che vivono in Toscana. Al suo fianco c’è Preston, il reporter del New Yorker.

La polemica è accesa. Mario usa toni aspri nei confronti di Michele Giuttari, poliziotto, ex dirigente della Mobile fiorentina e poi a capo del Gides (Gruppo investigativo delitti seriali). È l’autunno del 2004 e quelli del Gides piombano nella casa di Spezi per perquisirla. Il giornalista è sotto indagine per quello che scrive, l’ipotesi di reato "è tentativo di interruzione di servizio pubblico".

La sorpresa: l’irruzione non è ordinata dai magistrati di Firenze che indagano sui delitti del mostro ma da un magistrato di Perugia - Giuliano Mignini - che c’entra niente con quel caso. È un’inchiesta "fotocopia" la sua, che si sovrappone all’altra. Il pretesto tecnico per avviarla gli arriva da un cadavere ripescato, nel 1985, nel lago Trasimeno.

Il morto è Francesco Narducci, un giovane medico che sarebbe stato ucciso perché - secondo voci, soltanto voci - sapeva chi aveva ordinato i delitti attribuiti al mostro di Firenze. Intato Spezi e Preston continuano con le loro ricerche e decidono di scrivere un libro. Quando è finito - nel marzo 2006 - l’americano viene "convocato" a Perugia da Mignini, interrogato, indagato per reticenza e falsa testimonianza.

Vuole coprire il suo "complice" italiano, lo accusa il pm. Terrorizzato, Preston il giorno dopo torna nel Maine. Il 7 aprile arrestano Spezi. Detenuto per più di tre settimane. È il Tribunale della Libertà a annullare il mandato come "illegale e destituito da ogni fondamento". Le indagini di Perugia però continuano. E Spezi è ancora indagato. Questa volta per l’omicidio di Narducci, il medico trovato nel Trasimeno. L’indagine è sempre del poliziotto Giuttari, il pm è sempre il perugino Mignini.

Sostengono che Spezi depista "per allontanare da sé i crescenti sospetti", che ogni suo articolo "è in perenne, inspiegabile, livoroso contrasto con gli inquirenti". E questa volta la nuova accusa è costruita sulle "indicazioni" di Gabriella Carlizzi, una signora romana che "parla con la Madonna di Fatima" e raccoglie soffi su tutti i grandi misteri italiani. Già condannata in passato - calunnia - per avere fatto il nome dello scrittore Alberto Bevilacqua come mostro di Firenze, la Carlizzi è una "supertestimone" di professione.

Rivelazioni sull’omicidio di via Poma, sulla strage di Capaci, su Moro. A Perugia dice di avere "appreso" da un detenuto particolari su un’antica setta denominata "La Rosa Rossa", coinvolta nei delitti della Uno bianca e nelle bombe dei Georgofili. E naturalmente nei delitti del mostro di Firenze e nell’uccisione di Narducci. La Carlucci consegna un dossier di 85 pagine che viene secretato da Mignini "per la sua delicatezza".

Qualche mese fa Spezi esce dall’inchiesta sull’omicidio, ma lo indagano ancora. Associazione a delinquere. Sono in 22. Ufficiali dei carabinieri, l’ex questore di Perugia, il comandante dei vigili del fuoco, il capo del nucleo elicotteristi. Insieme, avrebbero depistato le indagini su Narducci. Angosciato, umiliato, nella sua bella casa sulle colline intorno a Firenze Mario Spezi aspetta la prossima mossa dei "cacciatori" di mostri.

Immigrazione: la crisi fa aumentare il razzismo e la xenofobia

 

Redattore Sociale - Dire, 20 marzo 2009

 

In occasione del 21 marzo, lanciano l’allarme i tre principali organi di difesa dei diritti umani in Europa (Fra, Odihr ed Ecri). "La storia europea dimostra che la depressione economica porta a un aumento dell’esclusione sociale".

Attenzione: la crisi economica farà aumentare gli episodi di razzismo e xenofobia, e perciò i politici devono stare bene attenti a non usare le fasce più deboli come capri espiatori dei problemi sociali. A lanciare l’avvertimento in occasione del 21 marzo, Giornata mondiale per l"eliminazione della discriminazione razziale, i tre principali organi di difesa dei diritti umani in Europa: la Fra (Agenzia europea per i diritti fondamentali), l’Odihr (Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani, dell’Osce) ed Ecri (Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza, collegata al Consiglio d’Europa).

La Giornata mondiale contro il razzismo cade il 21 marzo per commemorare l’assassinio di 69 dimostranti che nel 1960, nella città sudafricana di Sharpeville, protestavano contro l’apartheid. Quest’anno si celebrano anche i 40 anni dell’entrata in vigore della Convenzione internazionale per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale. In un comunicato rilasciato oggi, le tre istituzioni si dichiarano allarmate dalla "crescita del numero di attacchi violenti contro migranti, rifugiati e richiedenti asilo, e verso minoranze come i rom". "La storia europea ha già dimostrato come le fasi di depressione economica possano tragicamente portare a un aumento dell’esclusione sociale e delle persecuzioni: temiamo quindi che anche per la crisi corrente i migranti, le minoranze e altri gruppi vulnerabili diventino i capri espiatori per politici populisti e per i media".

Si tratta - purtroppo - di un fenomeno che si è già avviato, come dimostra la crescente tensione che si respira in Ungheria, con un rafforzamento della xenofoba Guarda, una crescita di attacchi nei confronti dei rom, e con questi ultimi che si stanno autonomamente organizzando in ronde di autodifesa. Le tre organizzazioni per i diritti umani invitano pertanto la classe dirigente a essere estremamente cauta a evitare ogni discorso che possa essere d’incitamento all’odio interetnico, religioso o razziale.

Li invita piuttosto a pronunciarsi chiaramente condannando ogni tipo di violenza a sfondo razziale ed evitando di dare spiegazioni semplicistiche e a connotazione xenofoba a problemi sociali complessi. Le tre organizzazioni ricordano poi che è estremamente importante proseguire con il monitoraggio di questi crimini e con la formazione degli ufficiali di pubblica sicurezza, sempre in stretta collaborazione con le organizzazioni della società civile. Fra, Odihr e Ecri chiedono poi che non vengano fatti tagli finanziari agli strumenti di protezione sociale e di inclusione, che colpirebbero duramente le fasce più deboli, già in grande difficoltà.

Immigrazione: non aver paura, apriti agli altri, apriti ai diritti!

 

www.unimondo.org, 20 marzo 2009

 

"Non aver paura, apriti agli altri, apriti ai diritti". È il titolo della campagna nazionale "contro il razzismo, l’indifferenza e la paura dell’altro" presentata ieri a Roma da 26 organizzazioni - tra cui tra cui l’Unhcr - numerose associazioni laiche e religiose, insieme a Ong internazionali e ai principali sindacati. La campagna propone, tra l’altro, una raccolta di firme da presentare al Presidente della Repubblica in occasione della Giornata mondiale del rifugiato promossa dalle Nazioni Unite il 20 giugno prossimo.

"In Italia milioni di nuovi cittadini stanno diventando le vittime dell’insicurezza economica e del disagio sociale" - sottolinea la nota della campagna. "Abbiamo assistito negli ultimi mesi a vere e proprie campagne di criminalizzazione contro immigrati e rom. Lo straniero, il diverso, l’escluso è diventato troppo spesso vittima di violenza. La paura non può che creare violenza". Le 26 associazioni - tra cui Acli, Amnesty International, Antigone, Arci, Asgi, Caritas, Chiese evangeliche, Emmaus, Libera e Save the children - "hanno deciso di reagire" e propongono "una reazione coordinata al razzismo e alla paura".

"Vogliamo dare visibilità a una realtà che già esiste - affermano - creando una rete che colleghi e dia energia all’indignazione e ai sentimenti di solidarietà che, benché siano già presenti nelle realtà sensibili al tema, faticano ad emergere".

Le associazioni intendono coinvolgere in questo percorso il maggior numero di persone possibili per chiamare tutti all’assunzione delle proprie responsabilità. "Un percorso articolato e coordinato, nel quale il lavoro e l’impegno quotidiano dei singoli si inseriscono in una cornice comunicativa comune, che sappia placare la paura dello straniero strumentalizzata dalla politica e dai media".

E soprattutto politica e media sono giudicati tra i principali responsabili della cultura xenofobica e razzista che si sta diffondendo in Italia. Lo ha sottolineato Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, che ha lamentato che "in questi anni una buona parte della politica ha coniugato l’immigrazione con la sicurezza, trascurando tutti gli altri aspetti dell’immigrazione, positivi che non hanno avuto il peso che meritavano". Mentre giornali e tv "non ci hanno aiutato a capire, perché danno larghissimo spazio agli aspetti di devianza del fenomeno migratorio, alla criminalità, al susseguirsi di sbarchi di migranti senza spiegare da cosa fuggono, usando toni allarmistici e generando paura".

La "Dichiarazione di impegni" che la campagna rivolge ai rappresentanti delle istituzioni e della politica sottolinea perciò che più di quattro milioni di persone di origine straniera vivono oggi in Italia "in situazioni di disagio economico e sociale sono spesso vittime di pregiudizi e vengono usate come capri espiatori".

Guardando "con preoccupazione" all’aumento degli episodi di intolleranza e violenza razzista in Italia, la campagna ribadisce quindi la convinzione che "chi alimenta il razzismo e la xenofobia attraverso la diffusione di informazioni fuorvianti e campagne di criminalizzazione fa prima di tutto un danno al Paese". E chiede agli aderenti politici e istituzionali di impegnarsi a lavorare "per spezzare il corto circuito creato da paura, razzismo e xenofobia", "a non usare affermazioni discriminatorie o distorte relative a persone di origine straniera o improprie associazioni di argomenti, e a evitare di creare allarmi ingiustificati e generalizzazioni che ingenerano razzismo e intolleranza".

"L’idea di fondo - spiega la campagna - è che non si possono difendere i diritti dei cittadini italiani senza affermare i diritti di ogni individuo, a cominciare da chi è debole o straniero e che il benessere e la dignità di ognuno di noi sono strettamente legati a quelli di chi ci vive accanto, chiunque esso sia".

Al mondo dell’informazione la campagna rilancia la "Carta di Roma" adottata nei mesi scorsi su proposta dell’Unhcr dall’Ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana. Si tratta di un "Protocollo deontologico concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti" che invita, tra l’altro, i giornalisti a "adottare termini giuridicamente appropriati", a "evitare la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte" e "comportamenti superficiali e non corretti, che possano suscitare allarmi ingiustificati".

La campagna propone anche uno spot radiotelevisivo interpretato da alcuni attori - come Lello Arena, Anna reggiani e Salvatore Marino - con un testimonial d’eccezione, Viroel Samuel Cirpaciu, il bambino rom protagonista dello spot che ha disegnato il simbolo dell’iniziativa: il fantasmino giallo, logo della campagna.

Stati Uniti: e anche il New Mexico ha abolito la pena di morte

 

Agi, 20 marzo 2009

 

Il governatore del New Mexico, Bill Richardson, ha abolito la pena di morte nel suo Stato, che così diventa il 15esimo negli Stati Uniti ad abbandonare questo tipo di pena. La legge firmata da Richardson sostituisce le sentenze capitali con l’ergastolo senza possibilità di libertà condizionale. "È stata la decisione più sofferta della mia vita", ha detto Richardson a Santa Fe, capitale dello Stato, dopo la firma frutto -ha detto- "di un lungo viaggio personale dentro di me".

Anche se la pena di morte può contare ancora sull’appoggio della maggioranza degli statunitensi, negli ultimi anni alcuni clamorosi falli giudiziari - a volte innescati dall’inettitudine degli avvocati difensori - hanno ampliato la platea di chi ne chiede l’abolizione. Richardson ha promulgato la legge dopo che il progetto era già stato approvato dal Senato statale, venerdì scorso, e prima ancora dalla Camera bassa.

In Usa la pena di morte è stata ristabilita nel 1976 dalla Corte Suprema e da allora è stata applicata in 1.156 casi, secondo i dati forniti dal Centro di Informazione sulla pena di Morte. Nel New Mexico, l’ultima volta era stata applicata nel 2001, quando era stato giustiziato Terry Clark, ritenuto colpevole di aver ucciso un bimbo; e attualmente ci sono due detenuti nel braccio della morte. Tra gli abolizionisti c’è anche chi fa notare che il nuovo corso farà risparmiare allo Stato Usa più di un milione di dollari all’anno.

Israele: Comitato Diritti; i detenuti palestinesi a rischio tortura

 

Corriere Canadese, 20 marzo 2009

 

Il Comitato israeliano contro la tortura - un organismo impegnato per la difesa dei diritti umani - ha rivolto ieri un monito alle autorità d’Israele affinché non diano corso alle minacciate ritorsioni contro i detenuti di Hamas in carcere nello Stato ebraico dopo il congelamento delle speranze d’intesa col movimento islamico radicale palestinese per la liberazione di Ghilad Shalit, il giovane caporale prigioniero nella Striscia di Gaza dal 2006.

Secondo il Comitato, ogni forma di peggioramento del regime di detenzione dei militanti di Hamas rappresenterebbe "una forma di punizione collettiva, iniqua e illegale" in uno Stato democratico. Di qui l’appello al ministro della Giustizia, Daniel Friedmann affinché si astenga dall’avallare pratiche del genere.

L’ipotesi dell’adozione di "misure legali" per l’aggravamento della condizione carceraria dei detenuti di Hamas era stata avanzata martedì da fonti governative - insieme con l’annuncio del mantenimento sostanziale del blocco dei valichi con la Striscia di Gaza fino a che Shalit non fosse stato liberato - a margine dell’annuncio fatto dal premier Ehud Olmert sul mancato accordo con Hamas, nell’ambito di trattative indirette mediate dall’Egitto, per uno scambio di prigionieri funzionale al rilascio del caporale israeliano. Commentando ieri l’accaduto, un esponente di Hamas, Salah Al-Bardawil, è tornato ad addossarne la responsabilità a Israele.

Cina: muoiono troppi detenuti, sistema carcerario sotto accusa

 

Asia News, 20 marzo 2009

 

Nelle prigioni dell’Hunan muoiono due giovani detenuti. Cresce la sfiducia della gente e la stampa statale parla della necessità di riforme e di rispettare i diritti dei carcerati. L’opinione di esperti.

Infuria la polemica sul sistema carcerario cinese, dopo che in pochi giorni sono morti due minorenni reclusi nelle carceri dell’Hunan. Mentre i genitori non accettano le spiegazioni ufficiali e chiedono indagini approfondite, l’opinione pubblica, sostenuta pure dalla stampa ufficiale, chiede urgenti riforme e garanzie contro torture e violenze nelle carceri.

Xiao Haixing del villaggio Dongjing vicino Changsha (Hunan), 18 anni, scontava dal 2007 una condanna a 5 anni per furto con scasso presso il Centro di correzione giovanile n. 5 della provincia. È morto il 3 marzo presso l’Ospedale n. 3 Xiangya dell’Università Centro-Sud. Qiu Xiaolong, proveniente dalla zona di Chengzhou (Hunan), 17 anni, era in carcere al Centro di correzione giovanile n. 2 per furto, sarebbe uscito il prossimo ottobre. È stato trovato esanime nel suo lettino la mattina del 6 marzo. È stato portato al vicino ospedale, che ne ha constatato il decesso. Le autorità carcerarie parlano di un attacco d’asma, di cui soffriva.

Ma le famiglie non accettano le spiegazioni e chiedono indagini. Hanno messo su internet fotografie dei due ragazzi, per suscitare attenzione sulla loro morte. La stessa agenzia Xinhua osserva che non sono stati resi noti i risultati delle autopsie, anche se i rapporti iniziali non parlano di segni di violenze o di avvelenamento.

L’opinione pubblica ha sfiducia verso il sistema carcerario, dopo i recenti casi nei quali le autorità di alcune prigioni hanno qualificato come "accidentali" le morti di detenuti, che invece erano stati battuti a morte da altri carcerati. In passato la polizia è stata spesso accusata di estorcere confessioni con la tortura o usare la violenza per ottenere obbedienza dai prigionieri. C’è anche il forte sospetto che la polizia carceraria tolleri che l’ordine nella prigione sia "tenuto" da gruppi organizzati di detenuti che vessano gli altri.

Oggi su Xinhua il professore di procedura penale Chen Weidong, dell’università Renmin di Pechino, commenta che le autorità "dovrebbero controllare e proteggere il rispetto dei diritti umani in carceri e altre strutture detentive, accertare e punirne le violazioni quali le confessioni estorte con violenza e tortura".

 

 

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