Rassegna stampa 12 marzo

 

Giustizia: l’ergastolo è un’inciviltà giuridica (e anche morale)

di Giovanni Russo Spena e Gennaro Santoro (Rifondazione Comunista)

 

Liberazione, 12 marzo 2009

 

Venerdì, insieme al segretario Paolo Ferrero, al consigliere regionale Ivan Peduzzi, a Salvatore Bonadonna, visiteremo il carcere di Rebibbia per manifestare la nostra solidarietà con i detenuti in sciopero per l’abolizione dell’ergastolo. Anche Togliatti, Ingrao, Moro e Dossetti si espressero a favore dell’abolizione perché tale pena contrasta con il principio "personalista" della nostra carta costituzionale, secondo il quale la persona è il fine ultimo del nostro ordinamento e la dignità umana non può essere calpestata: mai.

In tempi in cui destra e sinistra si rincorrono sul chi è più bravo a fabbricare paure e ricette contro l’insicurezza (da loro stessi alimentata) il tema delle pene disumane, della maggiore efficacia delle misure alternative rispetto alla pena carceraria non crea consensi in termini elettorali. Eppure l’ergastolo è stato già abolito in molti paesi europei anche perché inefficace. L’esperienza insegna che la gravità della pena, oltre un certo limite, non ha affatto efficacia preventiva; essa è, invece, assicurata dal restringimento delle aree di impunità, dall’efficacia del sistema giudiziario, nonché dalla rapidità del processo.

Oggi l’Italia è già al 156° posto al mondo per il funzionamento della giustizia a causa anche della moltitudine di procedimenti inutili contro venditori di borse contraffatte, "poveri cristi" stranieri che non hanno ottemperato all’ordine del questore di lasciare il territorio nazionale, semplici consumatori di droghe leggere. Mentre i colletti bianchi indagati beneficiano dell’intasamento dei tribunali facendo cadere i propri reati in prescrizione (questa è la vera e propria amnistia di fatto per i ricchi).

Mentre il governo istituzionalizza le ronde (criticate anche dai sindacati di polizia), legittimando condotte xenofobe già in atto contro migranti e "poveracci" e privatizzando perfino la sicurezza.

L’abolizione dell’ergastolo va dunque inserita dentro la campagna per una giustizia equa ed efficace, con un progetto di riforma complessiva del sistema giustizia che andrebbe a vantaggio delle vittime (riduzione delle fattispecie di reato, dunque meno processi e conseguente accelerazione dei tempi della giustizia), a vantaggio degli imputati e dei condannati e di tutta la società. Se infatti il fine della pena deve essere il reinserimento sociale e la prevenzione di ulteriori crimini, lo stato dovrebbe ricorrere maggiormente alle misure alternative perché più efficaci del carcere (8 detenuti su 10 una volta liberi tornano a delinquere, mentre chi usufruisce di misure alternative torna a delinquere 2 volte su 10).

Siamo solidali con i detenuti che, con grande capacità di auto-organizzazione pacifica e nonviolenta, sono entrati in sciopero per l’abolizione dell’ergastolo. Anche le forze politiche democratiche e l’associazionismo cattolico e laico dovrebbero cogliere la tempestività di questa iniziativa per rilanciare una campagna culturale ampia e diffusa. La tremenda dizione "fine pena: mai" è, infatti, una inciviltà giuridica, una negazione dell’impianto costituzionale del sistema delle pene. L’ergastolo è pura afflizione di menti e corpi, è vendetta di Stato, soprattutto per la concezione contemporanea del tempo e dello spazio. Perché l’ergastolo è, nello stesso tempo, metafora della materialità della punizione eterna e "non luogo" rispetto ad una vita che non esiste più, essendo il futuro schiacciato sul presente, per l’assenza di ogni progetto di speranza. Il legislatore, oggi, produce norme giustizialiste, proibizioniste, securitarie, tese alla bulimia carceraria.

Noi contrapponiamo alla necessità di nuovi codici che rilancino la concezione costituzionale della pena, riducano le fattispecie di reato, diversifichino le sanzioni (modulando le pene alternative), applicando il "diritto penale minimo e mite" (con pene di stampo equo, più brevi e più certe).

L’ergastolo non è affatto marginale. Quasi 1500 detenuti lo subiscono; e a loro vanno aggiunti tutti coloro che sono internati a vita, seppelliti nei vergognosi ospedali psichiatrici giudiziari. La Costituzione nega la legittimità dell’ergastolo, stabilendo la finalità rieducativa della pena. Le obiezioni avanzate per negare l’abolizione dell’ergastolo si basano sull’asserita prevenzione del carcere a vita nei confronti delle forme più gravi di criminalità. Esse non hanno fondamento, come è, del resto, riconosciuto da quasi tutti i paesi europei. L’esperienza giuridica insegna che, in generale, la gravità della pena, oltre un certo limite, non ha affatto efficacia preventiva; essa è, invece, assicurata dal restringimento delle aree di impunità, dall’efficienza del sistema giudiziario, nonché dalla rapidità del processo. Abbiamo, quindi, un’occasione importante per rilanciare una battaglia democratica, di sinistra, per lo stato di diritto.

Giustizia: se la povertà estrema diventa indizio di delinquenza

di Pietro Ancona

 

Img Press, 12 marzo 2009

 

La Giustizia italiana, accusata spesso a torto o a ragione di lassismo, di essere molto "comprensiva" con i delinquenti che verrebbero rilasciati subito in libertà e così frustrano il lavoro compiuto dagli investigatori per assicurarli alla Legge, si mostra molto dura verso i rumeni, i rom, gli extracomunitari che subiscono un processo con relativa condanna o assoluzione.

È noto a chi legge gli atti che la ragazzina di Ponticelli accusata probabilmente dalla camorra di avere sottratto una neonata dalla sua abitazione e di avere tentato di rapirla, processata dopo otto mesi di detenzione e dopo avere subito la violenza del branco che subito dopo l’evento ha bruciato i campi dei rom disperdendone le famiglie che li abitavano, riconosciuta innocente dal Tribunale è rimasta in carcere lo stesso condannata a tre anni e sei mesi dopo un processo sulla cui equità molti hanno dei dubbi a cominciare dal fatto che è stato negato ad Angelica la traduzione degli atti e il diritto al gratuito patrocinio.

Una pena che segnerà per sempre la sua vita se mai uscirà dal carcere dove è rinchiusa. I due rom accusati dello stupro della Caffarella sono stati riconosciuti estranei ai fatti. Fatti misteriosi dal momento che la collaborazione della polizia rumena, a detta degli stessi rom, è stata abbastanza violenta e rivolta a farli confessare ad ogni costo. Mi domando come facevano i rumeni a conoscere i tanti particolari del luogo dello stupro. E se li avessero appresi durante gli interrogatori dagli stessi poliziotti rumeni?

In ogni caso restano in carcere con una motivazione che sembra abbastanza speciosa: sono accusati di uno stupro compiuto da incappucciati. La vittima dichiara di non essere in grado di riconoscere il violentatore. Sentito in tv dalla signora da me come da milioni di altri telespettatori. Restano in carcere per i reati di calunnia ed autocalunnia che francamente sembrano essere richiamati per non lasciarli in libertà. In quanto agli stupri compiuti in contemporanea a Milano, Bologna e Roma ed ai danni di una ragazza sudamericana e di due ragazzine quattrordicenni resta qualche interrogativo legato al fatto che sono avvenuti alla vigilia del varo della legge sulla "sicurezza" che ha introdotto discutibili elementi nel nostro codice penale e nei provvedimenti di polizia a cominciare dalla schedatura dei senza tetto, dei "barboni" che avverrebbe non dal ministero del welfare e della solidarietà ma da quello degli interni quasi si trattasse di potenziali delinquenti.

La povertà estrema è diventata indizio di delinquenza e motivo di schedatura! La rumena che uccise in modo certamente preterintenzionale a seguito di un alterco una ragazza romana è stata condannata a sedici anni di carcere, il massimo possibile della pena per questo reato! Il Tribunale ha ricercato tutte le possibili aggravanti per comminare una pena che in generale va da quattro ai sei anni effettivi. In atto è in carcere. Non si sa niente della ragazzina che era stata bollata come sua complice!

E questo dopo essere stata al centro, assieme ad una giovane amica minorenne pure arrestata per lo stesso delitto, di una intensa campagna di stampa che ha fatto scempio della sua privacy e l’ha descritta come assassina e mostro!! Anche i due rom di Catania accusati da una signora di avere tentato di rapire la sua bambina sono stati assolti dopo avere subito il carcere ed una martellante campagna di stampa rivolta ad alimentare la mostruosa leggenda degli zingari che rapiscono i bambini. L’assoluzione è avvenuta nel silenzio totale dei mass media e non è detto che i due disgraziati non siano stati trattenuti in carcere con altre motivazioni.

Sappiamo tutti che la giustizia è assai pesante verso i poveri e spesso assai indulgente e comprensiva verso i ricconi o i potenti. Se le carceri sono popolate da povera gente non è un caso. Se un potente viene sorpreso con le mani nel sacco al massimo di fa gli arresti domiciliari o qualche giorno di prigione in condizioni di particolare favore come si è visto nel caso di Del Turco che riceveva tutti i giorni altri potenti assai preoccupati del suo stato di detenzione! In ogni caso, il messaggio che viene dalla durezza della punizione anche di innocenti come la povera Angelica è un "guai ai poveri!" oltre che naturalmente un "guai agli stranieri".

Penso che i magistrati che non condividono questo pesante orientamento repressivo dovrebbero chiedete l’apertura di un dibattito sulla Giustizia per denunziare gli eccessi di indurimento dei comportamenti investigativi e repressivi e delle sentenze che riguardano casi che giornali forcaioli ed una destra xenofoba e classista reclamano tambureggiando proclami di odio senza fine. Non è possibile accettare uno Stato che diventa sempre più Stato di Polizia e due codici penali, uno per i potenti, per la borghesia della politica, della finanza, delle professioni, l’altro per i poveri che viene continuamente aggiornato e peggiorato.

Giustizia: ingiuste detenzioni; imputati assolti in 20% processi

di Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 12 marzo 2009

 

Ogni giorno, in Italia ci sono persone che vengono messe in carcere pur essendo innocenti. Non c’è da stupirsi e non è un fatto così raro. Anzi. Prendiamo ad esempio Napoli. Dinanzi alla Corte d’Appello del capoluogo campano sono 497 i procedimenti pendenti per risarcire ingiuste detenzioni. 497 persone che chiedono un risarcimento perché sono state arrestate e poi prosciolte. Come dire che a Napoli ogni giorno si arresta e si tiene ingiustamente in carcere una persona. Ogni giorno, se non di più.

Ma, Napoli non è un eccezione. Bari, ad esempio, conta 382 procedimenti per ingiusta detenzione. Catanzaro né ha un po’ meno. "Solo" 246. Ed ancora. L’errore nel mettere un innocente in carcere non solo rappresenta un dramma umano, ma anche un costo. 235,83 euro è la cifra di risarcimento per ogni giorno di ingiusta detenzione mentre, se si è stati agli arresti domiciliali, la cifra è un po’ ridotta: 117,91 euro. Sta di fatto che l’Italia non spende poco per questi errori. Solo nel 2007 sono stati risarciti ben 29.097.000 di euro.

Ma nella mala giustizia non c’è solo il carcere. Ci sono anche i processi che finiscono con un’assoluzione. Secondo una ricerca dell’Euripes, circa il 20% dei processi terminano in Italia con un’assoluzione. Tradotto significa che, nel 20% dei casi presi a campione, il Pm ha sbagliato nel chiedere il rinvio a giudizio. Errori che, per dirla con Carnelutti, fanno patire a tanti imputati innocenti il processo come pena. Errori che contribuiscono al cattivo funzionamento della giustizia.

Giustizia: Speziale, Pappalardi… e i due romeni "violentatori"

 

www.radiocarcere.com, 12 marzo 2009

 

Cronaca di tre errori giudiziari. Della serie: sbagliare è umano, perseverare diabolico.

 

Antonino Speziale

2 febbraio 2007. L’ispettore dei polizia Filippo Raciti muore a Catania durante gli scontri avvenuti dopo il derby Catania- Palermo.

27 aprile 2007. Antonino Speziale viene arrestato con l’accusa di omicidio volontario e resistenza a pubblico ufficiale.

5 maggio 2007. Il tribunale del riesame per i minori di Catania conferma l’ordinanza cautelare in carcere per l’indagato.

4 giugno 2007. Il gip di Catania, Alessandra Chierego, revoca l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per sopravvenuta mancanza di indizi. Alla base della decisione del Gip, una perizia dei Ris di Parma. Il Pm di Catania impugna il provvedimento del Gip.

2 luglio del 2007. Il Tribunale del Riesame ripristina la custodia cautelare in carcere per Speziale.

7 dicembre 2007. La Corte di Cassazione annulla con rinvio l’ordinanza con la quale il 2 luglio del 2007 il Tribunale del Riesame aveva ripristinato la custodia cautelare in carcere nei confronti di Speziale.

24 gennaio 2008. Il Tribunale del riesame per i minorenni di Catania, accoglie la richiesta del Pm Angelo Busacca e dispone la misura cautelare degli arresti domiciliari in comunità per Speziale.

29 aprile 2008. La Corte di Cassazione annulla senza rinvio l’ordinanza con cui il Tribunale del Riesame per i minorenni di Catania aveva, il 24 gennaio scorso, disposto gli arresti domiciliari in una comunità per Antonino Speziale. Secondo la Cassazione non ci sono a carico di Speziale indizi di colpevolezza in ordine all’omicidio dell’Ispettore Raciti.

 

Filippo Pappalardi

27 novembre 2007. Pappalardi viene sottoposto a misura cautelare nel carcere di Velletri. L’accusa: ha ucciso i figli Ciccio e Tore. I due fratellini di Gravina di Puglia scomparsi il 5 giugno del 2006. Il Procuratore Capo di Bari, Emilio Marzano, dichiara: "Abbiamo quasi raso al suolo Gravina. In base agli elementi che abbiamo Ciccio e Tore non sono morti per mano del padre".

25 febbraio 2008. I corpi di Ciccio e Tore vengono ritrovati casualmente in una cisterna di Gravina. I primi accertamenti rilevano che i due bambini sono caduti per cause accidentali.

28 febbraio 2008. Il Procuratore Emilio Marzano e il Pm Antonino Lupo, affermano: "La situazione non cambia. Pappalardi nelle intercettazioni telefoniche potrebbe riferire proprio questo quando dice: non dire dove sono i bambini altrimenti mi ammazzo".

3 marzo 2008. La Procura di Bari dà parere negativo sulla scarcerazione di Pappalardi. I Pm ribadiscono l’impianto accusatorio e l’accusa di duplice omicidio volontario aggravato dal vincolo di parentela e dai futili motivi.

8 marzo 2008. Angela Rosa Nettis, presidente del Tribunale del riesame di Bari, al Corriere della Sera dichiara che, anche alla luce del ritrovamento dei corpi di Ciccio e Tore, avrebbe tenuto in carcere Pappalardi.

4 aprile, Il Pm di Bari, riconosce l’errore, e chiede la liberazione di Pappalardi. Il Gip accoglie la richiesta. Pappalardi è un uomo libero.

 

Lo stupro della Caffarella

14 febbraio 2009. Roma. Una ragazza è violentata nel parco della Caffarella. Il sindaco Alemanno dichiara: "Si tratta forse di due persone con accento dell’est e carnagione scura, forse due rom".

16 febbraio. Il Pm di Roma, Vincenzo Barba, si concentra su due cittadini rumeni.

17 febbraio. Viene fermato un cittadino rumeno con i capelli biondi. Si tratta di Alexandru Istoika Loyos. Gli inquirenti sono arrivati a Loyos dopo il riconoscimento fotografico fatto dalla vittima, anche se il fidanzato non si è detto certo del riconoscimento. Alle ore 19, Loyos viene portato in questura e alle 20, 30 gli viene prelevato un campione di saliva.

18 febbraio, ore 2 del mattino. Loyos, dopo essere stato per ore in questura, viene interrogato dal Pm Barba. Confessa la violenza e chiama in causa un altro cittadino rumeno. Si tratta di Karol Racz, che viene arrestato a Livorno.

Il Pm Barba incarica la polizia scientifica di rilevare il dna e le impronte papillari su tutti i reperti sequestrati.

19 febbraio. Karol Racz viene interrogato in carcere dal Pm Barba. Si dice innocente e afferma di avere un alibi.

20 febbraio. Il Gip, Valerio Savio, applica la misura cautelare in carcere per i due cittadini rumeni.

2 marzo. La polizia scientifica consegna gli esami del dna sui reperti sequestrati. Conclusioni: il dna non è dei due arrestati. Il Pm Barba incarica la professoressa Carla Vecchiotti di effettuare nuovi esami.

5 marzo. La genetista Carla Vecchiotti, dopo aver analizzato i mozziconi di sigaretta rinvenuti sul luogo del fatto e i tamponi prelevati al pronto soccorso, conferma che il dna rinvenuto non appartiene ai romeni Loyos e Racz.

9 marzo. Il Pm Barba, nonostante gli esami del dna, insiste dinanzi al Tribunale della libertà per l’applicazione della misura cautelare nei confronti dei due indagati e dichiara: "I due sono quanto meno concorrenti morali nel fatto. Il loro ruolo potrebbe essere riqualificato come concorrente non necessario nell’ambito della contestazione di violenza di gruppo".

10 marzo. Il Tribunale della libertà di Roma, presieduto da Francesco Taurisano, annulla l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per i due romeni.

Giustizia: a rischio povertà; aumentano i furti nei supermarket

di Francesco Mimmo

 

La Repubblica, 12 marzo 2009

 

La crisi morde, anche nei bilanci familiari. Gli italiani sono sempre più poveri e con il numero di disoccupati (+370 mila senza lavoro in più da inizio anno) cresce anche il numero di chi chiede assistenza: alle parrocchie, alle associazioni di volontariato, ai centri antiusura e addirittura alle Onlus che distribuiscono alimentari gratis.

L’allarme arriva dalle associazioni del terzo settore. A rischio sono le fasce più deboli della popolazione come gli anziani. E lo dimostra il boom di furti da parte di pensionati nei supermercati: +4,1%. Ma il vortice della crisi rischia di trascinare nella povertà interi strati del ceto medio.

Sono proprio le associazioni del terzo settore a gestire questo welfare informale e di emergenza, nato per indigenti e senza tetto e che negli ultimi mesi ha avuto un’impennata di richieste. I numeri sono stati forniti ieri in un incontro a Montecitorio tra il Pd e Caritas, Comunità di S. Egidio, Adiconsum, Save the children e associazioni per i senza fissa dimora. "Le categorie non protette dagli ammortizzatori sociali stanno scivolando inesorabilmente giù verso la povertà - dice Francesco Marsico della Caritas - per altro l’indebolimento dei redditi era cominciato già da tempo e la crisi ha dato lo scossone finale".

Il problema, ora, però è che "stanno diventando più fragili le reti di protezione informale, a partire dalla famiglia. Ed è questa la novità che rende più drammatico il panorama". Quadro confermato dalla Comunità di Sant’Egidio: "Nei supermercati sono aumentati del 4,1% i furti da parte degli anziani nel solo 2008 - dice Daniela Pompei - e nei centri della Comunità c’è stato un exploit di richieste laddove è cominciata la distribuzione di generi alimentari". L’assalto ai luoghi di distribuzione di generi alimentari e delle mense è confermato dalla Fondazione Banco Alimentare: "Da anni - dice con amarezza il direttore Marco Lucchini - la povertà è un problema cronico, ora il livello è salito e c’è stata una tracimazione. Le associazioni lo segnalavano, ma l’unica risposta era una pacca sulla spalla".

L’Adiconsum, invece, sottolinea il problema delle famiglie indebitate: "Stanno esplodendo le domande di assistenza nei nostri centri antiusura da parte di famiglie sovra indebitate che non riescono a far fronte ai pagamenti e c’è il rischio che migliaia di famiglie precipitino nell’illegalità".

Un allarme che trova conferma nei dati di Bankitalia. Aumentano infatti le difficoltà delle famiglie e delle imprese nel pagare mutui e prestiti. E cresce anche la stretta delle banche sul credito ai privati. Alla fine del 2008 il tasso di insolvenza ha raggiunto il valore più elevato degli ultimi 10 anni, escludendo il picco di fine 2003 in seguito al fallimento di Parmalat. Il tasso di insolvenza (il rapporto tra le nuove sofferenze e il numero dei finanziamenti) dopo aver oscillato negli ultimi cinque anni intorno all’1%, nel quarto trimestre 2008 è salito all’1,5% (un po’ sopra il +2% per le imprese e al +1% per le famiglie). Le sofferenze sono in "rapida crescita" dalla metà dell’anno scorso. Rallenta, invece, il credito alle imprese: dal +8,5% al +2,3% di gennaio.

Giustizia: con la riforma di processo una semplificazione dei riti

di Laura Pernigo (Responsabile Processo Civile Anf)

 

Italia Oggi, 12 marzo 2009

 

A una prima lettura il disegno di legge sullo sviluppo e la competitività approvato il 4 marzo scorso in senato, che interviene anche sul processo civile, costituisce un passo avanti in quanto corregge diverse negatività presenti nel testo licenziato in prima lettura alla Camera. In particolare, vanno visti con favore diversi punti come il ripristino della attuale formulazione dell’art. 183, con esclusione del potere del giudice di concedere i termini solo "per gravi motivi"; la modifica del regime di accollo delle spese a carico della parte che abbia rifiutato la proposta transattiva (art. 91) con la riduzione alle sole spese maturate dopo la proposta rifiutata.

È positiva la previsione di inserire nel contenuto della citazione l’avviso al convenuto della decadenza dall’eccezione di incompetenza secondo la nuova formulazione dell’art. 38; l’agevolazione della notifica a più parti in unica copia presso il medesimo avvocato, con l’estensione dell’art. 170, comma 2, alla notifica della sentenza e del gravame; la limitazione della testimonianza scritta ai soli casi di accordo delle parti; la soppressione della previsione di inammissibilità del ricorso in cassazione nel caso di due sentenze conformi.

E infine è vista con favore l’abolizione del rito societario e del rito del lavoro per i danni da incidente stradale che tante inutili complicazioni hanno sin qui prodotto. Le modifiche sommariamente indicate, insieme ad altre, sembrano smorzare un poco l’impronta autoritaria del processo voluta dalla camera, che tanto aveva sfavorevolmente impressionato per l’evidente vanificazione del principio dispositivo e la compressione dei diritti di difesa.

Certo rimane la riduzione esasperata dei termini a carico delle parti con il chiaro favor per l’estinzione dei processi; rimane la testimonianza scritta, quasi una rinuncia alla giurisdizione; rimane il filtro in Cassazione. Rimangono diversi aspetti critici che verosimilmente non saranno adeguatamente corretti nel passaggio alla camera. Con particolare favore va poi vista la delega per la semplificazione e riduzione dei riti che, naturalmente dovrà essere ulteriormente meditata ma che rappresenta per la prima volta un inizio di visione sistematica.

Unificazione dei riti e omogeneità degli atti introduttivi sono gli aspetti prioritari di una riforma processuale, in termini di snellezza, semplificazione, chiarezza e, dunque in termini di rapidità ed efficacia. Sin qui tali aspetti erano stati totalmente ignorati da un legislatore teso solo a tagliare i termini a favore delle parti.

È pertanto senz’altro positivo il passo avanti rappresentato dal disegno di legge delega, anche se non potrà che essere parte di una strategia più ampia, che tocchi tutti gli aspetti di appesantimento e negatività, a partire dall’inadeguatezza degli organici e dalla geografia giudiziaria. Perché la riforma della giustizia civile non è solo riforma del processo.

Giustizia: "diritto all’espulsione", con condanne sotto i due anni

di Debora Alberici

 

Italia Oggi, 12 marzo 2009

 

La Cassazione infligge un duro colpo alle indagini della polizia nelle quali sono coinvolti i clandestini. Acquisiscono automaticamente il diritto ad essere espulsi se la condanna, che dovrebbero scontare in Italia, non supera i due anni.

Lo ha stabilito la prima sezione penale della Suprema corte che, con la sentenza n. 10752 di ieri, ha accolto il ricorso di un immigrato coinvolto in un’indagine della polizia sul traffico di stupefacenti e condannato a pochi mesi, che aveva invocato il diritto ad essere espulso per non scontare il carcere qui da noi. Insomma, lo straniero si era visto rigettare dal magistrato di sorveglianza di Firenze la richiesta di applicazione del decreto di espulsione come sanzione sostitutiva della detenzione.

Secondo il giudice, infatti, già il pm del Tribunale di Trieste aveva negato il nulla osta all’allontanamento, perché era in corso una indagine sul traffico di stupefacenti che coinvolgeva l’immigrato, raggiunto da un decreto di custodia poi revocato dal giudice del Riesame. Contro queste disposizioni l’uomo ha fatto ricorso in Cassazione e lo ha vinto. Il Collegio di legittimità ha ritenuto legittima la richiesta del clandestino ad essere espulso, sottolineando che in questi casi siamo nel campo "delle misure alternative alla detenzione".

Ora gli atti sono stati rimessi al magistrato di sorveglianza di Firenze perché riesamini il caso. Questo perché, motivano i giudici di legittimità nella sentenza, "se lo straniero versa nelle condizioni di legge per poter usufruire della sanzione alternativa dell’espulsione e debba scontare una pena detentiva anche residua non superiore a due anni per un delitto lieve, questi diventa titolare di un diritto ad essere espulso con esclusione di qualsiasi potere discrezionale del giudice di merito circa la sua concedibilità o del potere del pm a rilasciare il nulla osta".

Ma non basta. La sanzione sostitutiva dell’espulsione, anche se diversa dalle misure alternative al carcere che puntano al reinserimento del condannato, ha lo scopo di "deflazionare la popolazione carceraria", scrive la Cassazione, "allontanando dal territorio dello Stato quegli stranieri, non appartenenti alla Comunità Europea, che non sono in regola col permesso di soggiorno, purché si tratti di pene contenute (inferiori a due anni) e non siano di particolare gravità. Vi è, dunque una sorta di rinuncia da parte dello Stato alla pretesa punitiva a fronte del vantaggio immediato di evitare un sovraffollamento del circuito carcerario".

Giustizia: intercettazioni; il primo sì della Camera al ddl Alfano

di Stefano Sofi

 

Il Messaggero, 12 marzo 2009

 

Le posizioni ormai erano chiare ed era chiaro soprattutto che non si sarebbero spostate di un solo millimetro. Non ieri, almeno: dunque Pdl e Lega da una parte, Pd e Idv dall’altra, Udc astenuta. E così non sono passate, come da copione, né la questione di pregiudizialità richiesta dal Pd né quella di merito avanzata dall’Idv sul ddl intercettazioni già approvato dalla commissione Giustizia dopo estenuanti trattative anche all’interno della maggioranza sui punti più controversi.

Stop agli abusi sulle intercettazioni, dispone il ddl Alfano: si potranno continuare a fare per i reati di mafia e terrorismo, mentre per tutti gli altri saranno possibili solo in presenza di "evidenti indizi di colpevolezza"; tra le altre novità previste dal ddl, da tre a sei mesi di carcere per i giornalisti (emendamento Bergamini) che pubblicano ascolti destinati alla distruzione.

L’Aula della Camera, a scrutinio segreto, ammesso dal presidente Fini (poiché "il testo incide sui diritti di libertà garantiti dalla Costituzione"), ha respinto senza fatica entrambe: la prima con 278 no, 212 sì e 18 astenuti, la seconda con 292 no, 197 sì e 18 astenuti. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano tira un sospiro:"Ero sereno, ora sono soddisfatto". "Di questo voto plaude solo la criminalità" commenta invece Donatella Ferranti, capogruppo Pd alla Camera che poco prima aveva illustrato le ragioni del suo schieramento: "Un ddl incostituzionale, che limita fortemente l’uso delle intercettazioni come mezzo per la ricerca della prova e ridimensiona irragionevolmente il potere investigativo".Al leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, non era bastato il tempo a disposizione per argomentare i suoi "12 perché il ddl è incostituzionale".

Comunque è convinto, Di Pietro, che approvando questo disegno di legge la Camera "farà un vero e proprio abuso di funzione" costringendo la Corte Costituzionale a intervenire. Sentendo scorrere ore decisive non solo l’opposizione si era particolarmente mobilitata, ieri, nella speranza di alimentare qualche dubbio dell’ultima ora. La Fnsi, Articolo 21, l’Unione nazionale Cronisti, ma anche quella degli editori, la Fieg, avevano fatto sentire ancora una volta le loro ragioni.

E sulla materia del ddl si era espresso ieri anche il garante della privacy, Francesco Pizzetti: "Dal punto di vista della protezione dei dati dei cittadini - ha spiegato - ci interessa che non siano pubblicate informazioni false, notizie acquisite in modo illecito, che non ledano inutilmente la dignità delle persone".

Dichiarazioni le sue, immediatamente adottate e sventolate da numerosi esponenti della maggioranza. "Pizzetti cancella ogni dubbio" diceva Maurizio Gasparri. "Pizzetti ribadisce l’importanza della riforma" insisteva Enrico Costa. Schieramenti più che mai opposti, dunque. Finché non s’è arrivati al voto finale.

L’Udc s’è astenuta. Roberto Rao spiega: "La questione che non ci convince è quella relativa alla norma degli evidenti indizi di colpevolezza"che continua ad essere sbilanciata a favore del diritto alla riservatezza a danno della possibilità di effettuare indagini utili, siamo invece fiduciosi che sulla norma relativa ai giornalisti e al loro diritto-dovere di cronaca e di informazione possano trovarsi in aula ulteriori correttivi".

Giustizia: regioni non applicano riforma di Sanità penitenziaria

 

Ansa, 12 marzo 2009

 

"Si prenda esempio da Pisa e dalla Regione Toscana rispetto alla riorganizzazione dei servizi di medicina penitenziaria": lo afferma in una nota Ermete Realacci (Pd) annunciando una interrogazione parlamentare al ministro della Salute sulla mancata applicazione in alcune regioni del Decreto del 1 aprile 2008 "il quale ha disposto le modalità e i criteri per il trasferimento, dal dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Dipartimento della giustizia minorile del ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale, di tutte le funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali, afferenti alla sanità penitenziaria".

"A Pisa infatti - spiega Realacci - come nel resto della Toscana grazie alla sensibilità e correttezza della Regione e delle Asl in particolare della Asl che ho potuto constatare direttamente, hanno trovato piena e integrale applicazione le direttive contenute nel decreto. Altre Regioni - prosegue Realacci -, come Lombardia, Calabria invece non stanno applicando il decreto e questo oltre a causare i comprensibili disagi, incertezze, lesione di diritti al personale medico e paramedico impiegato, mette anche a rischio un principio intoccabile, ovvero quello della continuità assistenziale e del diritto alle salute delle persone detenute".

Lazio: una Carta della Qualità per l’esecuzione penale esterna

 

Redattore Sociale - Dire, 12 marzo 2009

 

Zaccagnino: "Ridurre la recidiva attraverso l’inclusione sociale". Solo il 19% di coloro che hanno usufruito delle misure alternative torna a delinquere, contro il 70% di chi esce dal carcere. E nel Lazio il dato scende al 15%.

Non un mero adempimento di legge e neppure un semplice vademecum dei servizi offerti, ma uno strumento concreto che gli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) del Lazio adotteranno per contribuire alla sicurezza sociale e per migliorare l’offerta diretta a tutte quelle persone che hanno commesso un reato e che possono accedere alle misure alternative. È questo l’obiettivo della Carta della qualità elaborata dagli operatori degli Uepe del Lazio e presentata questa mattina a Roma, presso la sede del Cnr di Piazzale Aldo Moro, 7.

"Abbiamo voluto presentare pubblicamente questo documento, che riteniamo fondamentale per l’Amministrazione penitenziaria e per i cittadini ai quali il servizio si rivolge - ha dichiarato il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Angelo Zaccagnino. "La Carta - ha proseguito - è importante perché consente di realizzare la partecipazione degli utenti ai quali i servizi sono indirizzati alla vita della nostra istituzione penitenziaria".

"La Carta non si limita a descrivere quello che gli Uepe fanno, ma intende anche misurare la qualità del servizio - ha precisato il provveditore, illustrando lo spirito del progetto. "È un documento di ottanta pagine - ha precisato -, ma non è un semplice adempimento burocratico, non si limita a regolamentare l’accesso ai servizi e neppure vuol essere uno strumento pubblicitario".

Si tratta invece di uno sistema attraverso il quale i Servizi dell’Amministrazione penitenziaria hanno l’opportunità "di fare un lavoro pubblico e di mettersi alla prova, provando a uscire fuori dal sistema di autorefenzialità". La Carta inoltre rappresenta "uno strumento per lo sviluppo di forme di collaborazione con le istituzioni e con i privati e per la migliore gestione dei singoli servizi".

Ma vi è anche un altro obiettivo, e non certo secondario, alla base di questo progetto. "La Carta è un modo per partecipare alle politiche della sicurezza di cui si parla da tanto tempo in questo Paese" ha detto Zaccagnino. E quello che l’Amministrazione penitenziaria può fare in questo senso è "garantire la certezza dei percorsi di reinserimento sociale per le persone che hanno commesso reati e che possono accedere alle misure alternative alla detenzione", contribuendo così a combattere il fenomeno della recidiva. "In questo modo facciamo sicurezza sociale - ha spiegato il provveditore -. Ognuno fa sicurezza attraverso i propri compiti istituzionali, e questo è il nostro modo di tentare di ridurre la recidiva attraverso l’inclusione sociale". D’altra parte gli studi sulla recidiva concordano nel dire che questa è molto più alta tra chi esce dal carcere rispetto a chi ha usufruito delle misure alternative. "Il 70% circa contro il 19% a livello nazionale, e nel Lazio il dato scende al 15%", conclude Zaccagnino.

Lazio: "Ricomincio da qui", trovare lavoro scontando la pena

 

Redattore Sociale - Dire, 12 marzo 2009

 

Bilancio del progetto di reinserimento lavorativo promosso dal Provveditorato regionale del Lazio. Formati tecnici delle luci, fonici e macchinisti teatrali. E alla fine quasi tutti hanno trovato un lavoro.

Si chiama "Ricomincio da qui", ed un progetto promosso dall’Amministrazione penitenziaria e finanziato dalla Cassa delle Ammende all’indomani dell’indulto. Ma la cosa più interessante è che alla fine dell’iter gran parte delle persone coinvolte ha trovato una collocazione lavorativa. "Il progetto che abbiamo portato avanti nel Lazio è consistito in un percorso di formazione e inserimento lavorativo per tecnici teatrali", spiega Rita Andrenacci, direttore dell’Ufficio di esecuzione penale esterna del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, a margine della presentazione della Carta della qualità degli Uepe, che si è svolta questa mattina a Roma.

"Il percorso è durato un anno, ha coinvolto 15 persone e si è articolato attraverso borse lavoro e tirocini. Alla fine gran parte dei partecipanti ha trovato una collocazione lavorativa nel teatro e non solo". Nello specifico il progetto, che è stato portato avanti in collaborazione con l’associazione Inscena, ha avuto come obiettivo la formazione di figure professionali di tecnico delle luci, fonico e macchinista teatrale. Alla fase formativa è seguito uno stage presso il Festival di Todi e presso alcune manifestazioni dell’estate romana, mentre i tirocini formativi si sono stati effettuati a Roma in collaborazione con i teatri Il Vascello, Ambra Jovinelli, Sala Umberto, Brancaccio e Nuovo Teatro Colosseo.

La seconda fase del progetto è partita invece a settembre 2007. "I partecipanti - prosegue Rita Andrenacci - hanno seguito percorsi di inserimento lavorativo attraverso borse lavoro attivate in realtà molto diversificate tra loro, tra cui le biblioteche del Comune di Roma e diverse cooperative sociali". La particolarità di questa seconda fase è che ha riguardato persone particolarmente svantaggiate. "Avevano problemi di salute o una lunga storia di devianza alle spalle - precisa -. Si trattava infatti di casi particolarmente difficili, anche perché erano persone di età abbastanza elevata e senza un’esperienza lavorativa spendibile".

Lombardia: nelle carceri della regione 3.000 detenuti di troppo

 

Milano Cronaca, 12 marzo 2009

 

Cresce l’emergenza delle carceri a Milano e in Lombardia. A San Vittore, il più grande dell’intera regione, si contano 1.554 detenuti presenti sui 702 posti previsti come capienza regolare e con una soglia di "tolleranza" pari a 1.117 posti. In pratica ci sono 437 detenuti in più rispetto a quanto consentito dalla normativa. Uno scenario che non cambia di molto se esteso alla situazione di tutte e 19 le carceri lombarde: sono 5.423 i posti disponibili totali (416 donne, 5.007 uomini), ma le persone reali che stanno dentro le celle sono 8.228.

Dati che finiscono per gonfiare un andamento nazionale in crescita: oggi in Italia rispetto alla fine del mese di gennaio si contano 1.300 detenuti in più per una popolazione carceraria complessiva che si avvicina rapidamente a quota 61mila unità. È questa l’attuale situazione nei 206 penitenziari italiani, che dai 59.060 detenuti presenti il 31 gennaio 2009 è passata alle 60.350 presenze del 28 febbraio 2009. Esprime preoccupazione il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione di categoria dei Baschi Azzurri del Corpo.

"Spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe: "Con una media costante di 1.000 ingressi al mese e in assenza di veri provvedimenti deflattivi, le carceri italiane rischiano di diventare roventi nei prossimi mesi estivi in cui potremmo arrivare ad avere oltre 65mila detenuti. Si tenga conto che la capienza regolamentare dei nostri penitenziari è di circa 43mila posti: averne oggi quasi 61mila vuol dire, soprattutto per i poliziotti penitenziari che lavorano nella prima linea delle sezioni detentive, condizioni di lavoro particolarmente stressanti e difficoltose, anche dal punto di vista della propria sicurezza individuale. Si tenga conto che gli organici del Corpo di Polizia Penitenziaria registrano carenze quantificate in ben oltre 5mila unità. Questo dovrebbe far comprendere quali e quanti disagi quotidianamente affrontano le donne e gli uomini del Corpo, cui va la riconoscenza e la gratitudine non solo del Sindacato che rappresento ma, ne sono convinto, di tutta la Nazione".

Il Sappe avanza allora la proposta: "tenuto anche conto che oggi abbiamo il 51% dei detenuti imputati, il 46% definitivi ed il 3% internati bisogna intervenire riformando l’esecuzione penale esterna".

Palermo: parenti dei detenuti costretti a non essere più persone

di Valentina Cucinella

 

La Repubblica, 12 marzo 2009

 

Già alle sei del mattino i dintorni dell’Ucciardone cominciano a popolarsi. Sono i parenti dei detenuti che affollano ogni giorno piazza della Pace in attesa di incontrare i congiunti o magari soltanto di scambiare qualche parola attraverso le sbarre. La piazza come luogo per fumare, discutere, animarsi. E poi ci sono i personaggi del rione, i locali. Che raccontano la vita del quartiere.

Sono le sei del mattino, una folla di uomini e donne attraversa la strada in silenzio. Sono incappucciati per il freddo, con pesanti sacche nelle mani, attraversano la strada portando con sé rabbia e solitudine. Si fermano davanti all’imponente edificio e di colpo i loro volti s’irrigidiscono: siamo a piazza della Pace e le solenni mura dell’Ucciardone sembrano alzarsi verso il cielo. È una piazza alberata e spaziosa, ma qui, a onta del nome, la speranza non è di casa. Questa è la piazza dell’attesa e della lontananza, e a raccontarla sono i familiari dei detenuti. "Ogni volta che vengo qui, mi dimentico di essere una persona. Qui, la dignità la tolgono anche a noi che siamo i familiari".

Così esordisce Anna, capelli biondi e un forte accento napoletano. Lei è una mamma, ed è qui per parlare con suo figlio. "Possiamo vedere i nostri familiari solo il mercoledì - dice - abbiamo un’ora sola a disposizione per dirci tutto quello che c’è da dire. L’attesa è lunga e restiamo qui, in questa piazza, ad attendere che ci chiamino e ci facciano incontrare i nostri cari. Una piazza che diventa così la nostra casa". La piazza come luogo per fumare, discutere, animarsi. La piazza per mantenere un contatto con chi sta scontando dietro le sbarre la propria pena.

"Aspettiamo qui - dice Francesco, mentre si accende una sigaretta - i bambini possono giocare e correre nella piazza, ma quando piove, diventa tutto più difficile. Non c’è uno spazio dove potersi fermare e siamo costretti a stare dentro la sala d’attesa, dove ci dimentichiamo cosa sia la dignità". La sala d’attesa è una stanza angusta e stretta. La prima tappa di una lunga ed interminabile attesa. Le pareti sono sporche, l’aria è pesante e la luce entra a malapena dal piccolo portone di ferro. "Qui lasciamo gli oggetti metallici nelle cassette - spiega Francesco - e può accadere che restiamo anche tre ore in questa stanza, perché mancano le chiavi per chiudere le cassette dove depositare gli oggetti e le borse. Così dobbiamo aspettare che tornino gli altri familiari per poter entrare nella seconda stanza".

Dopo interminabili ore di attesa, si accede alla seconda sala. Ed è qui che si "fa la buca", il controllo, cioè, delle sacche che i familiari portano ai detenuti. Sono altre ore di attesa. Poi, finalmente, il colloquio. "Ci sono otto stanze, ma ne vengono utilizzate soltanto tre - continua Francesco - perché manca il personale. Siamo circa centocinquanta famiglie e ci sono solo tre stanze a disposizione".

Gli animi si accendono. Le voci si fanno più concitate. Filomena non usa mezze misure e dice quello che pensa: "Con noi familiari ci sono anche i bambini. Non c’è uno spazio per loro e, stando qui tutto il giorno, hanno bisogno di essere cambiati e di utilizzare il bagno. Ma i bagni sono sporchi, li troviamo sempre pieni di merda. Ce li fanno trovare così. Non è giusto, e non per noi, ma per i piccoli. Questa è una violenza che si fa sui bambini. Loro non c’entrano nulla. Vengono qui per trovare i loro genitori che stanno scontando la pena.

Gente che ha sbagliato, ed è giusto che paghi. Ma non devono pagare i loro figli". A Filomena si uniscono gli altri familiari e, nella piazza, si diffonde un coro di voci indignate. Paola è una ragazza dai tratti del viso delicati: "Quello che vorremmo - dice - è che si facesse una distinzione tra i carcerati. Se un uomo ha rubato perché non aveva lavoro e doveva portare il pane a casa non può essere trattato come uno che, invece, ha ucciso o ha compiuto atti di violenza su minori.

Qui dentro, invece, nessuno si preoccupa di distinguere i reati. Il carcere dovrebbe essere il luogo dove i soggetti vengono recuperati attraverso un percorso di rieducazione. All’Ucciardone, invece, ti tolgono la dignità e dopo ti lasciano morire. Di freddo, di solitudine, di abbandono". Non ci sono riscaldamenti, il freddo gela anche l’anima di chi si dice davvero pentito dei propri errori, e persino l’acqua per lavarsi è fredda.

"Un giorno ho portato una giacca a mio marito - continua Paola - ma non mi hanno permesso di dargliela, non so per quale ragione. Li lasciano morire dal freddo. E che dire della rieducazione? Per centinaia di detenuti non ci sono neppure corsi di formazione o percorsi didattici di qualunque tipo". Basta poco a incendiare gli animi. Il tamtam dei commenti presto lascia il posto alla rabbia e all’invettiva: "Qui ci trattano come animali - grida Filomena - per il personale dell’Ucciardone il carcerato deve stare male e quindi devono stare male con lui anche i suoi parenti".

Altre voci, altri cori carichi di rabbia. "Ci vessano - aggiunge Anna - poliziotti, carabinieri, agenti. Loro sono uomini in giacca e cravatta, che stanno seduti dietro una scrivania. E non si rendono conto che in questo modo abusano regolarmente del loro potere". Nicola ascolta, ma se ne sta in disparte. Cammina lungo la piazza fumando una sigaretta. E si abbandona a un luogo comune: "È strano - dice - è strano come la giustizia funzioni per alcuni e per altri no. C’è gente che continua a sbagliare, ma chissà per quale motivo qui dentro non ci entra e continua a vivere tranquillamente".

Intanto, verso mezzogiorno, alcuni familiari si preparano per accedere nella seconda sala. Usciranno soltanto nelle prime ore del pomeriggio e si soffermeranno ancora nella piazza. "Anche se - conclude Anna - quando usciamo, abbiamo solo il desiderio di andare via da qui e tornare a sentirci uomini e donne". Via, dunque, dalla piazza della rabbia e delle voci che vogliono farsi sentire attraversando le spesse mura del carcere. Via dalla piazza dove la speranza del riscatto ogni mercoledì se ne va lontano per lasciare il posto alla solitudine.

Napoli: quale futuro dopo Nisida?... spesso c’è solo Poggioreale

di Luigi D’Urso

 

La Repubblica, 12 marzo 2009

 

Rispondo alla lettera di Luisa Bossa pubblicata il 9 marzo. Luisa Bossa, nostra rappresentante al Parlamento, ha ben individuato il nocciolo della questione: il dopo. Questo dopo fa paura: al detenuto quando sta per finire di scontare la sua pena e non sa cosa fare; ai cittadini onesti che non vogliono ritrovarsi in giro la stessa persona a delinquere. E allora?

I ragazzi di Nisida raggiungono l’età adulta, delinquono nuovamente e si aprono per loro le porte di Poggioreale e da qui entrano ed escono, due, tre quattro volte e anche più, se prima non vengono ammazzati o muoiono di droga.

Ve lo racconta uno che insegna da tredici anni in questo carcere nei corsi di scuola media e vi può assicurare che molti di loro hanno grandi capacità professionali e offrendogli delle possibilità di inserimento nel mondo del lavoro potrebbero cambiare vita. Ai parlamentari, tramite il deputato Luisa Bossa, posso solo stigmatizzare l’articolo 1 del dpr del 30.06.2000 n. 230 sulle norme del nuovo ordinamento penitenziario che al comma 1 recita: il trattamento degli imputati sottoposti a misura preventiva della libertà consiste nell’offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali. La legge c’è, bisogna solamente concretizzarla. Questo comma non rimanga solo sulla carta, ma sia riempito di contenuti per un vero inserimento dei detenuti nella società civile e lavorativa.

Savona: Barisone (Rc); il Sant’Agostino peggior carcere d’Italia

di Laura Sergi

 

Il Ponente, 12 marzo 2009

 

Sono passati alcuni anni dall’inchiesta del settimanale "Oggi" sui peggiori carceri in Italia. Sul numero del 18 gennaio 2003, ecco Savona brillare come fanalino di coda, fra le strutture visitate, con valutazione complessiva "gravemente insufficiente". Triste primato quello della Casa Circondariale Sant’Agostino, che addirittura vedeva il risultato falsato da gravi imprecisioni, quali l’indicazione della presenza di lavabo con acqua fredda nello spazio separato con la "turca" mentre l’unica acqua a disposizione per l’igiene personale era, sino a quel periodo, il lavandino ad utilizzo multiplo cucina/igiene in cella, tra i letti. Dopo pochi mesi, nel maggio dello stesso anno, analoghe denunce trovavano spazio sul periodico "Madre - il mensile della famiglia", col titolo: "Carceri - un mondo senza speranza?".

Come disse giustamente Graziella Mascia, allora deputata di Rifondazione Comunista, dopo una visita, "qui non ci saranno grosse situazioni di scontro fra i detenuti, ma in quale altro carcere devi indossare la biancheria umida e farla asciugare con il calore del corpo?" L’umidità di questo ex convento medioevale per metà interrato, riadattato a Casa circondariale ("carcere "sarebbe infatti definizione errata per il Sant’Agostino, che dovrebbe ospitare principalmente detenuti in attesa di giudizio), è uno dei problemi che affligge tutti coloro che vi passano il loro tempo nell’inedia e nella disperazione.

Poi c’è il problema del sovraffollamento cronico. Sostiene Haidi Giuliani, ex senatrice più volte in visita al nostro istituto, che si finisce col ritenere che ci siano situazioni peggiori (come Marassi) solo perché, coi grandi numeri, viene meno il contatto umano con personale di sorveglianza e addetti, cosa che in una piccola struttura, pur decrepita ed ignobile come quella savonese, è l’unico lato positivo.

Giorgio Barisone è responsabile del settore carceri della Liguria per il Prc e ha partecipato a decina di visite nei sette carceri regionali. Ascoltiamolo direttamente.

 

Dal triste giorno in cui hai fatto tre giorni di "ferie" al Sant’Agostino, questa è la tua battaglia. E per poterla continuare hai mandato giù anche qualche boccone amaro all’interno del Partito nei momenti più difficili…

Correva il 2002 e la risposta ad un mio ricorso per "condanna in contumacia" dalla lontanissima Genova giungeva probabilmente a piedi sino a Savona. La procedura d’urgenza di cui era stata investita si limitò ad un timbro in fondo ad un foglio, e venne recapitata a Savona quando già un magistrato si era preso cura del mio caso e mi aveva liberato. Sono stato contento di uscire ma, come ho detto ai miei compagni della cella 7: "Non vi dico che mi dispiace andarmene, però…".

Ho avuto degli amici veri, in quei frangenti, un dolore grande quando uno di loro, successivamente, è venuto a mancare. I rapporti con il Partito al momento sono buoni, ma non nego che qualche volta che non mi ritrovo in alcune scelte, mando giù per poter continuare la mia battaglia: far conoscere a tutti quali sono le condizioni del Sant’Agostino di Savona e dei carceri di tutta Italia. Ma cosa crede la gente che passeggia tranquillamente per strada? Che sarei rimasto così, se il carcere mi avesse avvelenato "dentro"? Ci sono tanti motivi per cambiare vita in peggio, e non in meglio come vorrebbe il principio costituzionale del recupero del detenuto. E, in quei posti, basta un nonnulla per compiere il grande salto e diventare delinquente davvero. Ti basta non ti venga riconosciuto un piccolo diritto, ti venga fatto un sopruso, un’angheria e…

 

Quali sono i diversi approcci con cui visitate le carceri? E di cosa andate alla ricerca?

C’è l’approccio che io preferisco: alla cieca, possibilmente non preannunciando la visita. Ci si reca davanti al cancello, si suona il campanello ed eccoci pronti (rigorosamente quali collaboratori d’ufficio di deputati o consiglieri regionali). E così con la Mascia, la Giuliani, l’europarlamentare Vittorio Agnoletto, Ramon Mantovani, Sergio Olivieri, Marco Nesci (consigliere regionale del Prc) ed altri ancora, siamo andati più volte alla ricerca del contatto diretto con i detenuti (beninteso, alla presenza del personale di sorveglianza) e a parlare con loro, mai delle singole vicende giudiziarie ma dei problemi della struttura e della vita quotidiana. Quando c’è qualcosa che non va lo si intuisce.

Nesci intervistato dopo la visita di febbraio 2009 subito, allora cerchiamo di capire. Non è che sempre si esprimano in piena libertà, a volte giungono successivamente lettere con particolari segnalazioni: è normale aver timore, purtroppo, di eventuali ritorsioni. Poi cerchiamo di conoscere gli indirizzi che segue la direzione del carcere sul tema della sanità: ad esempio, se sono state attivate tutte le procedure di convenzioni con le Asl, etc. Non è che dire "carcere" voglia dire una cosa standard per tutte le strutture. C’è quel carcere che si attiva per il metadone, altri meno attenti, quello che si preoccupa che il personale della cucina abbia anche considerazione di chi non vuole toccare carne di maiale, o che riesce a coordinare pure orari particolari in periodo di "ramadan", quello che ha un regime interno molto duro, quello in cui i parenti possono far pervenire anche generi alimentari. Ma, ad esempio, questo non può succedere a Savona per la mancanza di una stanza da adibire ai necessari controlli.

 

Hai ancora l’elenco di tutto quello che ti hanno restituito, da qualche parte: carne in scatola, dolci e cioccolata perché tu sei goloso, dentifricio, sapone, carta igienica.

Sì, al Sant’Agostino queste cose le devi comprare col "servizio spesa".

Ora, questa è un problema da risolvere per tutti coloro che non hanno disponibilità economica e facilmente possono diventare "dipendenti" dei più facoltosi compagni di cella. Una famiglia non può scontare due pene: vivere nell’indigenza perché un familiare è recluso e doversi pure preoccupare di fargli avere del denaro per procurarsi generi di prima necessità. A proposito, la carta igienica: ai tempi del mio stazionamento, ma anche sino a pochissimi mesi fa, veniva assegnata in ragione di un rotolo ogni quindici giorni (provate voi a farvelo bastare!). Ora la situazione è un po’ migliorata, ma siamo ancora lontani dal necessario. Io avevo atteso due giorni, poi, per avere il dentifricio…

 

L’11 febbraio scorso avete fatto l’ultima visita e messo in luce anche nuove difficoltà.

Sì, ci sono grosse problematiche di sovraffollamento, in totale violazione del decreto del Provveditore regionale che prevedeva in maniera "tassativa" - almeno così diceva "Il Secolo XIX" del 20 settembre 2003 - al massimo quaranta posti. Una situazione incresciosa: si raggiunge facilmente il numero di ottanta, in letti a castello a tre piani, in stanze che sono adatte per 3-4 persone e che invece vedono starcene 9 per 24 ore.

Sono esasperati i movimenti fisici, quelli più innocui: se in tre girano per la cella, che fanno gli altri? Sono obbligati a stare seduti o sdraiati sul letto. E l’inedia fa da corollario perenne anche per la mancanza di attività lavorativa. I detenuti per primi vorrebbero essere utili anche nelle piccole cose: ad esempio, nel dare una mano di bianco alle celle, che sono sempre scure per le macchie di umidità. Ma le cose si intoppano per i tagli di oltre il 50% dei fondi destinati alle casse delle carceri.

Al Sant’Agostino l’educatore le tenta tutte per far passare il tempo a chi può, ma è da solo e pochi sono i volontari che possono offrire collaborazione. Per l’aria in cortile pare di essere realmente "animali in gabbia". Non ci sono sale di informatica. E i posti di lavoro "interno", pur a rotazione, sono logicamente limitatissimi.

 

E i problemi igienici?

Negli ultimissimi anni, dopo quella minima rispolverata alla struttura di cui si fece un gran parlare, la situazione è lievemente migliorata per l’acqua nei gabinetti in cella e impianti di aspirazione.

Rimane pesante la situazione docce, esattamente come descritta nella "scandalosa" foto di "Oggi" del 2003. E dai cessi alla turca, come segnalato dai detenuti e confermato dal personale di sorveglianza, escono grossi topi/pantegane che creano una situazione incredibile, sia dal punto di vista della vivibilità che da quello sanitario. Le celle del piano inferiore, semi interrate e senza prese d’aria diretta, sono state nuovamente riaperte. È pazzesco pensare di riuscire a stare per 24 ore consecutive in una situazione di perenne umidità. Su tutto, a mitigare le cose, c’è il buon rapporto tra detenuti e gli incaricati della sorveglianza che, a Savona, ha meno problemi di "sottodimensionamento" di personale rispetto alle altre strutture liguri.

 

Problema drammatico: il nuovo carcere in località Passeggi. Sì o no?

Senz’altro sì, se il carcere avesse funzioni di recupero sociale e se in carcere si andasse solo come ultima alternativa ad ogni altra possibile pena risarcitoria. Ha anche ragione chi lamenta la distruzione di un’area paesaggistica, comunque a pochi passi da una discarica annunciata, ma qui c’è un problema serio di invivibilità dell’esistente struttura. Le direttive statali indicano che le nuove strutture carcerarie debbano essere di grandi dimensioni, come in tutte le cose del resto e purtroppo: grandi discariche, grandi inceneritori, grandi centrali elettriche, etc. Su tante cose mi sento di oppormi e di portare avanti il principio secondo cui, per essere in sintonia con l’ambiente che ci circonda, occorrono piccoli investimenti: piccole centrali e piccole discariche… perché ognuno si faccia carico dei propri problemi. Ho il fondato timore, però, che portare avanti questo principio anche sul tema del carcere significhi tenerci per sempre il Sant’Agostino. Questo mi fa inorridire. Quindi, sì, fatelo pure ai Passeggi. Se invece potessi essere io a decidere, e l’ho già indicato in passato, secondo me la soluzione dell’area della Metalmetron era l’ideale. Vi si opposero i proprietari di casa del circondario che temevano un abbattimento del valore dell’immobile, quando però attorno al Sant’Agostino le abitazioni stesse sono definite signorili. Secondo me, in più, un carcere nelle vicinanze porta sicurezza, per il via vai di forze dell’ordine; ma ormai è chiaro che le nuove direttive indirizzino verso un posto isolato.

 

Era stata proposta anche una Casa Circondariale nel vecchio San Paolo…

Avremmo ottenuto anche la sistemazione di una zona che sta cadendo a pezzi e che attende qualcuno che con pochi spiccioli ci metta le mani sopra e rada al suolo tutto, per favorire una grande speculazione immobiliare. Non solo, ma si sarebbe potuto pensare di usufruire del lavoro di molti detenuti per una vera collaborazione con la città: un carcere aperto per costruire una città più aperta e solidale. Un sogno, appunto.

Gorizia: soltanto otto detenuti che stanno scontando una pena

 

Messaggero Veneto, 12 marzo 2009

 

Soltanto 8 detenuti che stanno scontando una condanna e 18 imputati sottoposti a custodia cautelare. Questo lo scarno computo, nell’ultimo aggiornamento fornito dal Sappe (sindacato di polizia penitenziaria), della popolazione carceraria che "affolla" la casa circondariale di via Barzellini.

Parlare di affollamento in questo caso appare davvero un termine improprio se rapportato alla media del numero di detenuti che sono ospitati nelle altre sedi carcerarie del Friuli Venezia Giulia ma la situazione della casa circondariale del capoluogo isontino resta decisamente sui generis visto che ormai da tempo sono state chiuse alcune sezioni (un piano intero più il ridimensionamento del piano terra), tutto a causa della inadeguatezza della obsoleta struttura di via Barzellini balzata in primo piano a livello nazionale nell’ottobre del 2005 quando tre sloveni evasero "smontando" letteralmente i vecchi mattoni di una parete.

La soluzione, come è noto, resterebbe sempre il trasferimento in un’altra sede ma per adesso non è stato possibile individuare alcuna alternativa concretamente in grado di diventare la nuova collocazione del carcere goriziano, e il risultato è che la casa circondariale del capoluogo isontino resta una sede più che "dimezzata".

Restano quindi intatti gli interrogativi su quali siano le prospettive di sopravvivenza a lungo termine per la sede carceraria goriziana se non sarà trovato un altro sito in grado di ospitare la casa circondariale e se a fronte di una capienza teorica di 80 posti ne potranno essere sfruttati ancora poco più di un quarto tant’è vero che la capienza reale è attualmente di una trentina di posti. Se non altro non si può parlare di problemi di sovraffollamento visto che non si arriva mai a Gorizia sopra quota 30-32 detenuti ospitati.

In tutti gli altri carceri della regione invece il numero dei detenuti supera di gran lunga la capienza massima come denunciato a più riprese dal Sappe che chiede urgenti provvedimenti per migliorare la situazione. A Pordenone ci sono oggi come detto 68 detenuti su una capienza di 53, a Tolmezzo 273 per una capienza di 148, a Trieste 214 detenuti per 155 posti e a Udine 190 su una capienza di 112.

 

Spunta l’ipotesi di Fogliano

 

Un grosso punto interrogativo. È quello che continua a caratterizzare il futuro del carcere di Gorizia, sottodimensionato, inadeguato e obsoleto. Tanto che c’è chi continua a paventare il rischio di una prossima chiusura, eventualità peraltro mai prospettata ufficialmente a livello ministeriale o da parte delle autorità carcerarie.

Ciclicamente tornano a circolare voci al riguardo, ma come s’è detto la possibilità di una chiusura - che comporterebbe anche il trasferimento di una quarantina di operatori e agenti di polizia penitenziaria che attualmente lavorano in via Barzellini con gli immaginabili disagi per chi risiede da anni con la famiglia a Gorizia - resta remota.

D’altro canto nel giugno del 2008 era scattata una vera e propria operazione ridimensionamento con i detenuti che dovevano scontare una pena trasferiti in altre case circondariali della regione e nel carcere del capoluogo isontino erano rimasti una trentina scarsa di detenuti, ovvero il numero medio attuale di "ospiti" della struttura di via Barzellini.

Una riduzione dell’attività carceraria dovuta alle condizioni di serio degrado di parte della struttura che secondo qualcuno poteva preludere alla chiusura definitiva della casa circondariale goriziana. "In realtà si tratta di voci che periodicamente saltano fuori - conferma il segretario provinciale della federazione nazionale sicurezza della Cisl Corrado Patruno -, ma non c’è mai niente di davvero ufficiale.

Certo che occorrerebbe un’altra sede, una struttura adeguata ad ospitare un carcere". Già, un’altra sede. Individuare un sito adeguato fino ad ora è risultata una missione impossibile. L’ipotesi più concreta, come si ricorderà, era rimasta per lungo tempo quella di trasferire la casa circondariale nell’ex caserma "Pecorari", soluzione che era stata caldeggiata anche dall’ex giunta comunale di centro sinistra ma l’opposizione del consiglio circoscrizionale di Lucinico prima e della amministrazione Romoli poi avevano finito per escludere l’opzione dell’ex caserma lucinichese.

Resta allora da non sottovalutare l’ipotesi di procedere a una ristrutturazione, magari parziale visto il numero non certo esorbitante di detenuti che si trovano mediamente nel carcere goriziano, proprio della sede di via Barzellini. Ma ci sarebbe anche un’altra opzione che potrebbe essere presa in seria considerazione, quella di trasferire la casa circondariale fuori da Gorizia e precisamente a Fogliano, dove esiste una struttura, precedentemente adibita a caserma, che risponderebbe potenzialmente ai requisiti necessari per ospitare una sede carceraria.

Empoli: è nato il primo carcere italiano riservato ai transessuali

 

Redattore Sociale - Dire, 12 marzo 2009

 

La struttura sorgerà ad Empoli, in provincia di Firenze, dispone di 26 celle collocate su due piani e supera i mille metri quadrati. Gelli: "Così si crea un ghetto".

Nasce in Italia il primo carcere riservato esclusivamente a detenuti transessuali e transgender. Sorgerà ad Empoli, in provincia di Firenze, nella casa circondariale del Pozzale, che finora ospitava donne con problemi legati all’abuso di alcol e droga. L’obiettivo è di iniziare ad ospitare i primi reclusi transessuali a partire da aprile. Per questo motivo sono in corso lavori di adeguamento e ammodernamento dell’edificio, e il personale di custodia sarà sottoposto ad uno specifico corso di formazione.

Il progetto è già stato presentato al ministero ed ha già ottenuto un primo e significativo ok. L’edificio è poco più grande di mille metri quadrati ed ha ventisei celle spaziose collocate su due piani. Non mancano sala ricreativa, biblioteca, laboratorio dentistico, infermeria, campo di calcetto e pure un ettaro di terra annesso con ulivi e una serra con possibilità di produzioni agricole. Federico Gelli, vicepresidente della Regione Toscana, si dichiara contrario: "Capisco le buone intenzioni - dice - ma temo che in questo modo si crei un ghetto. Prima di pronunciarmi definitivamente vorrei studiare il progetto nei dettagli, ma le perplessità sono molte".

Viterbo: incontro per riflettere su necessità di abolire l'ergastolo

 

Comunicato stampa, 12 marzo 2009

 

Venerdì 13 marzo alle ore 16,30 presso la sala della Provincia di Viterbo in Via Saffi, 49 Arci Solidarietà Viterbo promuove l’incontro-dibattito "La Clessidra senza Sabbia - una riflessione sulla necessità di abolire l’ergastolo".Interverranno Gennaro Santoro (Associazione Antigone), Nicola Valentino (Coop. Sensibili alle foglie), Angiolo Marroni (Garante dei diritti dei detenuti del Lazio). Sarà letto un contributo di riflessione di un gruppo di persone condannate all’ergastolo detenute nella Casa Circondariale di Viterbo.

Coordinerà il dibattito Simonetta Brighi (Arci Solidarietà Viterbo).

Teatro: la Fortezza; danzare nella gabbia cieca della reclusione

 

www.klpteatro.it, 12 marzo 2009

 

Armando Punzo, regista e anima trainante della Compagnia della Fortezza, nella conferenza stampa di presentazione dello spettacolo a Castiglioncello, racconta come circa trent’anni fa, passeggiando per le strade di Milano, si fermò davanti alla vetrina di un negozio in cui era esposta una scatola da scarpe. Dentro la scatola c’erano dei topini piccolissimi, che si agitavano in continuazione e ballavano roteando su se stessi in un ritmo vorticoso. Punzo li definì "topini-dervishi". Rimase colpito da quest’immagine, poi per lungo tempo rimossa.

Oggi afferma che il suo "Marat-Sade" ha molto a che fare con quei topini-dervishi.

Difficile, a priori, capire cosa intenda: aspetto così di vederli sul palco questi topini-dervishi, o quel che Punzo ha fatto di loro.

La scena, costruita con tubi innocenti quasi fosse un cantiere aperto, si illumina, mentre il volume di una musica dal ritmo ossessivo sale, martellante, e tornerà per tutta la durata dello spettacolo, accompagnata e incalzata dal suono di un tamburo e dai campanelli del banditore. La scena è polverosa, cancerosa di vite consunte nell’inazione della reclusione. La prima vera azione, forse l’unica, è costruirsi la prigione, innalzare la gabbia dalla quale cercare di fuggire, da cui appellarsi al pubblico, attraverso la quale guardare fuori come al riparo da troppa commistione con la vita, quella vera.

Il testo di Peter Weiss mette di fronte Marat, l’uomo-rivoluzione e De Sade, l’uomo-trasgressione, l’uomo liberato. Dentro la gabbia (un’altra) del testo, Punzo tesse la trama della poesia inutilmente tragica della reclusione e della mancanza di speranza: del cerchio cieco. La libertà e la rivoluzione, scelte reali e consapevoli per De Sade, utopico futuro per Marat, diventano ossessione dei reclusi, che girano in circolo senza riuscire a trovare la via d’uscita, la propria strada.

Il mefistofelico De Sade-Punzo diviene cerimoniere e regista di una danza vorticosa che sempre riporta al punto di partenza, danza circolare che scava un buco in cui scompaiono il desiderio, la libertà e la rivoluzione.

La follia altro non è che parossismo dell’emozione: qui si innesta l’alto valore emotivo di lavori come quello della Compagnia della Fortezza, dove ciò che si porta in scena è la specificità di una condizione umana particolare, in questo caso quella carceraria, e l’esemplificazione della condizione umana in generale, perché, come dice Punzo, le carceri di fuori sono ancora più estese e subdole di quelle istituzionali.

La rivoluzione, quindi, si configura quale atto mancato, incontro fallito tra lo spirito e la sua meta. Qui si incontra il teatro e il suo senso: dionisiaca liturgia, forza creatrice di un mondo altro. Dalla danza circolare emerge il caos, disordine primigenio, creatore di nuova vita. Perciò il direttore non può far altro che calare il sipario, oscurare la scena. Lo stare rinchiusi è una condizione che non porta a niente, che non risolve niente. L’idea, se non agita, è una gabbia dalla quale non si esce. Si gira in tondo. Come i topini-dervishi dei ricordi di Punzo.

Immigrazione: Lampedusa, la terra promessa diventata galera

di Emanuele Crialese

 

L’Unità, 12 marzo 2009

 

Uno scoglio in mezzo al mare. Una strada lunga 13 chilometri che si estende da Levante a Ponente. Pietre e cespugli. Il mare cristallino. Le case da finire, sparse lungo il paesaggio brullo e ventoso. Un faro in mezzo al mare. Terra di confine. Porta d’Europa. Da quando me ne sono andato nel 2002 sembra che il cambiamento più lampante consista nella massiccia presenza di tutte le divise italiane. Dai militari, alla polizia, finanza, capitaneria e carabinieri. C’è confusione e agitazione. I pescatori non sono andati in mare a pescare e sono saliti in piazza a protestare, insieme agli altri isolani, contro la costruzione del nuovo centro detenzione, voluta dal governo, in applicazione della nuova legge che prevede la detenzione di tutti coloro che sbarcano sull’isola senza un documento di riconoscimento.

Negli ultimi anni i nuovi arrivati venivano accolti, sfamati e quindi identificati nei centri preposti. Una volta identificati venivano invitati a lasciare il paese il prima possibile. Molti di loro rimanevano a lavorare, altri partivano verso la Francia, Belgio, Germania. Per qualche anno la situazione sembrava essere sotto controllo. Da qualche mese il governo ha deciso di dare una dimostrazione di valore e di forza adottando una linea dura; tutti i nuovi arrivati dovranno essere detenuti fino a identificazione e rimpatrio o permesso di soggiorno o accettazione della domanda di asilo politico.

Il ministero degli interni è rappresentato da un ministro leghista l’onorevole Maroni. La lega Nord è un partito politico giovane che ha come ideologia dominante la scissione dell’Italia del Nord dal resto del paese. La Lega Nord propone il federalismo, propone un nuovo nome per una parte del territorio del Nord Italia che vorrebbero, in futuro, chiamare ufficialmente "La Padania". Alla domanda se sono Italiani o Padani, rispondono Padani. Sono uomini che danno un immagine determinata, sicura, ma decisamente dura nei confronti degli stranieri che approdano sul loro-nostro territorio. Il loro messaggio al paese è: saranno finalmente i leghisti a proteggere l’Italia dall’orda Straniera che ci minaccia e ci priva delle nostre libertà. Eccone degli esempi: i telegiornali italiani cominciano a riempirsi di storie aberranti che vedono soprattutto come protagonisti gli stranieri: violenze commesse da romeni, zingari, tunisini, qualche italiano agli arresti domiciliari perché lui una casa ce l’ha. L’onorevole Maroni dichiara che questo approdo selvaggio favorisce anche il traffico di organi umani...!

La soluzione deve essere trovata in nome del popolo italiano ( o Padano?) ed eccola pronta. L’applicazione della nuova legge appena approvata deve essere la conseguente apertura di centri di detenzione (prigioni nel vecchio gergo). Quindi si procede a trasformare i centri adibiti all’accoglienza e alla identificazione dei nuovi arrivati, in centri di detenzione che però rimangono strutturalmente identici ai centri accoglienza.

Obama chiude Guantanamo e Maroni apre dei centri di detenzione sull’isola di Lampedusa. Nel 900 gli americani costruivano la famosa Ellis Island, un isola artificiale sulle rive dell’Hudson, per contenere le migliaia di persone arrivate ogni giorno da tutto il mondo. Gli uomini di governo vogliono chiaramente dare anche esempio e dimostrazione a tutti i desiderosi di arrivare in Italia che i tempi son duri e questo scoraggerà anche gli imbarchi dall’Africa. Ma dove si può "scoraggiare" i nuovi arrivati, lontano dagli occhi di tutti e tenerli "al fresco" per diciotto mesi, invece che i sei da sempre concordati?

Ci vuole un isola. Giusto, giusto nel Sud Italia siamo pieni di isole! Dall’isola non si scappa, l’isola è sicura, su un isola lunga 13 chilometri e piena di sassi, non c’è scampo per i fuggiaschi...

Per la prima volta i Padani e gli Italiani possono stare tranquilli, non arriverà più nessuno qui su da noi, sono tutti giù, imprigionati nell’isola più a Sud d’Europa. I residenti permanenti a Lampedusa sono 6000. È una terra occupata da famiglie che vivono tutto l’anno su uno sasso in mezzo al mare che geograficamente è riconosciuto come ultimo pezzo di terra europea. Lampedusa è una gemma che appartiene ai lampedusani, in primis, ma appartiene anche a tutti i viaggiatori che decidono di andarla ad esplorare. Ne arrivano di molti e per la maggior parte ne arrivano dal nord Italia. I lampedusani sono molto ospitali e cercano di mantenere la loro tradizione.

Nei mesi estivi a Lampedusa arrivano oltre diecimila turisti da tutte le pari d’ Italia. Per i lampedusani è un momento di euforia dopo il lungo inverno passato isolati in mezzo al mare, è un importante momento di scambio, di apertura. Da un punto di vista economico, quei tre-quattro mesi di turismo possono corrispondere al mantenimento di una famiglia lampedusana per tutto un inverno. L’arrivo del turista è vita per la comunità che vive e sopravvive di quelle uniche risorse.

Da qualche anno a questa parte sull’isola ci abitano anche un migliaio di uomini armati. Non ho niente contro le forze dell’ordine, ma c’è un inevitabile disagio visuale quando si vede, in un territorio cosi piccolo, una così alta concentrazione di uomini armati. Penso ai bambini lampedusani, agli adolescenti che vivono circondati dal mare e dalle divise e le armi.

Come se l’isolamento naturale di un mare non bastasse a contenere la solitudine di una popolazione che avrebbe tutti i diritti di sentirsi libera di circolare su quel piccolo pezzo di terra. Capisco la loro amarezza, farebbe rabbia a chiunque vedere lo stato o il governo inviare contingenti armati e non occuparsi affatto della vera sicurezza dei cittadini lampedusani che non hanno nemmeno un ospedale dove correre in caso di necessità.

Il mare intorno rende impossibile un ricovero entro i 30 chilometri dal luogo e dal momento dell’incidente. Le donne lampedusane devono andare a partorire negli ospedali di Palermo. Il malato terminale deve trasferirsi da parenti, se ne ha, in qualche città di Italia e passare i suoi ultimi mesi lontano da casa e dai suoi cari.

Nel 2008 sono sbarcati e ripartiti da Lampedusa circa 35.000 "clandestini". Molti di loro sbarcano sullo scoglio lampedusano dopo mesi di viaggio, di maltrattamenti, di furti e violenza che subiscono lungo il percorso, semplicemente perché sono uomini vulnerabili e nullatenenti. Molti non sanno nemmeno di essere sbarcati su un isola e chiedono della stazione ferroviaria.

L’uomo si è sempre spostato sulla terra e sul mare nei secoli dei secoli e per diverse ragioni. Oggi l’uomo che lascia la sua terra senza passaporto, lascia a casa una famiglia che dipende dalla sua abilità di procurarsi lavoro fuori dai confini della miseria in cui si trovano tutti i suoi cari. Non ha scelta.

L’uomo parte nonostante tutti i pericoli che lo aspettano, tanto vale morire che tornare a mani vuote. Lo scrivevano in centinaia di migliaia nelle parole di carta (lettere) di uomini e donne appartenenti alle famiglie di chissà quanti di noi italiani emigrati all’estero.

Se i 35.000 arrivati a Lampedusa nel 2008 fossero stati trattenuti al centro detenzione, sarebbero stati in 35.000, su una popolazione di 6.000 civili e almeno 2.000 militari. Per questi motivi capisco l’ indignazione dei lampedusani che sfilano con i tunisini appena usciti (evasi?) avvicinandoli senza pistole o manganelli, come si conviene quando si incontrano altri uomini liberi. Nessuno stato civile può trasformare in prigionieri uomini liberi fino a prova contraria. Questo lo dicono le associazioni di tutela dei diritti umani. Tutti gli uomini hanno diritto ad un processo, se sospettati colpevoli di un reato, prima di essere messi in prigione.

Ci sono sempre stati uomini che partono perché fuggono, dalla legge o dalla guerra. Tra i due c’è un enorme distinzione: quelli che fuggono dalla legge hanno commesso qualche reato e sono perciò considerati dei criminali. Nel mondo ci sono molti italiani che hanno commesso reati e sono stati accolti e protetti da altri paesi, d’altronde una percentuale di malfattori tocca a qualunque stato e paese in tutto il mondo da sempre e per sempre temo.

Punto a capo. Oltre questo punto c’è un abisso che sprofonda nella disperazione di chi sta fuggendo da una guerra o da un genocidio...

Non hanno passaporto perché nel paese da cui provengono non lo rilasciano. Anche loro saranno sommariamente imprigionati in attesa che lo stato decida se dare asilo. Questo modo di vedere lo straniero, potrebbe portare all’abbrutimento, alla rabbia e disprezzo, potrebbe portare fino all’azione di bruciare un uomo indiano mentre dorme sulla panchina di una stazione.

Risultato della linea dura: i disperati continueranno ad arrivare e verranno rinchiusi in prigione per un anno e mezzo. Le loro famiglie, che hanno risparmiato per pagare il viaggio, rimangono senza alcuna possibilità di sopravvivenza, il loro viaggiatore è per giunta diventato un fuorilegge e probabilmente dovrà vedersela con le autorità del suo paese d’origine, forse altri mesi di galera insieme a tutti quelli che hanno osato partire, prima di poter riabbracciare la famiglia, se sopravvissuta. Ma state tutti pur certi che i disperati continueranno ad arrivare come e più di prima perché semplicemente non hanno scelta.

Il 18 febbraio 2009 gli uomini rinchiusi da mesi nel "vecchio" centro accoglienza "nuovo" centro detenzione di Lampedusa, appiccano il fuoco ai loro alloggi ed evadono sparpagliandosi sull’isola. Non c’è bisogno di essere dotati di poteri magici per dire che c’era da aspettarselo. Adesso i militari dovranno stanare con le armi gruppi di uomini che fuggono all’interno di una bellissima prigione naturale del sud Italia. Ecco i primi risultati del piano messo in atto in nome del popolo italiano.

Ma i nuovi Padani o leghisti del Nord sono o non sono italiani? "Concendiamo" ai Padani la loro libertà in modo che possano finalmente distinguersi dal resto d’Italia. Finalmente i Padani indipendenti, con un loro governo, una loro chiara identità, un passaporto padano. Diamo ai Padani la possibilità di gestirsi autonomamente come chiedono dall’inizio della loro giovane storia. Quando e se avranno nostalgia della loro vecchia Italia potranno entrare senza problemi. Basterà esibire la carta d’identità valida per l’espatrio.

Immigrazione: tutti i sindacati dei medici contro il Dl sicurezza

di Anna Rita Cillis

 

La Repubblica, 12 marzo 2009

 

Non sarà una "possibilità" per i medici che lavorano nelle strutture del Servizio Sanitario Nazionale quella di denunciare l’immigrato clandestino che si rivolge a loro ma piuttosto un "obbligo". Così la pensano le principali sigle sindacali dei camici bianchi italiani che operano all’interno di strutture pubbliche e che a distanza di poche settimane tornano a fare muro intorno all’emendamento contenuto nel Ddl sulla sicurezza (passato al Senato, ora all’esame della Camera) che di fatto abroga il comma 5 dell’articolo 35 del decreto 25-7-1998 "secondo cui l’accesso alle strutture sanitarie da parte di uno straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all’autorità".

"Se dovesse passare l’emendamento", spiega Massimo Cozza, segretario nazionale della Cgil Medici, "di fatto noi medici che lavoriamo nel servizio pubblico saremmo obbligati a denunciare l’immigrato clandestino. I nostri uffici giuridici hanno studiato a fondo l’emendamento e anche il Ddl sulla sicurezza. I medici del Ssn, o che lavorano per enti convenzionati, rivestono la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, quindi se l’immigrazione clandestina è reato, ed è perseguibile d’ufficio, ogni funzionario è obbligato, se ne ha notizia, a denunciare il clandestino altrimenti sarebbe lui stesso perseguibile penalmente".

Anao, Assomed, Cimo Asmd, Aaroi, Fp Cgil medici, Fvm, Federazione Cisl medici, Fassid, Fesmed e Federazione Medici Uil Fpl, tornano all’attacco e chiedono chiedono quindi al Parlamento "di non approvare l’emendamento che creerà non pochi problemi anche di tipo pratico in tutti gli ospedali italiani". E, seppur non arriveranno a scioperare useranno tutti gli strumenti legali: fino "alla Corte di giustizia europea passando per la Corte costituzionale", dicono all’unisono.

Immigrazione: per i clandestini vietato registrare figli anagrafe

di Mario Reggio

 

La Repubblica, 12 marzo 2009

 

Per iscrivere all’anagrafe i nuovi nati occorrerà avere il permesso di soggiorno. Spunta comma nel ddl. Medici in rivolta: no all’obbligo di denuncia. Maroni: rischio banlieue.

"Non siamo spie, la misura è colma". Insorgono i sindacati dei medici: saremo obbligati - affermano - a denunciare l’immigrato clandestino che si presenterà in una struttura sanitaria per essere curato, e chi di noi non lo farà commetterà un reato penale. Il governo ha sempre sostenuto che l’abrogazione della norma che vietava la denuncia da parte del medico non avrebbe comportato sanzioni, e che in sostanza il medico avrà la facoltà, e non l’obbligo, di denunciare. Ma secondo gli uffici legali dei sindacati ciò è falso: il medico è pubblico ufficiale, l’immigrazione clandestina è reato, ergo - questa è la loro tesi - il medico è passibile di denuncia e condanna penale se non segnala gli irregolari. Tutto ciò come effetto del ddl sulla sicurezza passato al Senato ed ora all’esame delle commissioni alla Camera. Il ministro Maroni replica: "Non c’è alcun obbligo per i medici". E aggiunge che "esiste un rischio di violenza, un rischio banlieue in certe periferie delle città".

Ma da quel testo spunta un altro attacco alla dignità delle persone: stavolta tocca ai neonati figli di immigrati clandestini. In base ad un comma dell’articolo 45, senza la presentazione del permesso di soggiorno i bambini non potranno essere registrati all’anagrafe. L’effetto sarebbe il moltiplicarsi di un esercito di bambini "invisibili", con genitori che non esistono e nessuna possibilità di essere curati. In più, il rischio del moltiplicarsi dei parti clandestini. Partiamo dal rischio dei "bimbi invisibili".

Attualmente è in vigore la legge del ‘98, primo governo Prodi, che esonera tutti i cittadini stranieri dal presentare il documento di soggiorno per compiere atti di stato civile. La segnalazione della soppressione di questa deroga arriva dall’Associazione dei giuristi per l’immigrazione, che ha scovato il codicillo nelle pieghe del ddl sulla sicurezza. "La norma si configura come una misura che scoraggia la protezione del minore e della maternità - affermano i giuristi - Una norma che appare incostituzionale sotto diversi profili". Le conseguenze sarebbero drammatiche: i bimbi resterebbero senza identità, c’è il rischio nel caso del parto in ospedale che non vengano consegnati ai genitori e siano dichiarati in stato di abbandono. Una situazione che porterebbe al proliferare dei parti clandestini.

Una scelta della maggioranza che fa il paio con l’emendamento, presentato dalla Lega Nord, approvato in commissione ed in aula Senato, che obbliga i 120 mila medici delle strutture pubbliche e convenzionate a denunciare il paziente senza permesso di soggiorno. Una misura che non esiste in nessun Paese europeo (salvo il Germania, dove però non sono previste sanzioni per il medico obiettore e quindi viene ignorata).

I medici hanno annunciato che useranno tutti gli strumenti legali, "fino alla Corte di giustizia europea passando per la Corte costituzionale". È questa la posizione di tutti i sindacati medici. Massimo Cozza, segretario dei medici Cgil dichiara: "I 120 mila medici che rispetteranno la deontologia e la Costituzione diventeranno loro stessi clandestini".

Droghe: più reati e consumatori, politica di rigore che ha fallito

di Anais Ginori

 

La Repubblica, 12 marzo 2009

 

"Il bilancio di decenni di proibizionismo è devastante: consumo di droghe in crescita, in condizioni sanitarie sempre più precarie, rafforzamento planetario delle organizzazioni criminali e nascita di narcostati".

Jeffrey Miron insegna economia alla Harvard University. È un convinto anti-proibizionista ma la sua non è un battaglia ideologica: parla dati alla mano. Sulla possibilità di legalizzare le droghe ha scritto un libro e uno studio sottoscritto da oltre cinquecento economisti americani. Droghe libere: cos’è la sua, una provocazione? "Non ho particolare gusto per gli stupefacenti ma è necessario prendere atto del fallimento del proibizionismo".

Ci fornisca dei dati. "In America, la " war on drugs" costa più di 44,1 miliardi di dollari ogni anno. Un detenuto su sei è legato a reati di droga. Nonostante ci siano più di 1,2 milioni persone fermate per possesso di droga, ci sono ancora 28 milioni di consumatori".

Legalizzare le droghe sarebbe un regalo alle organizzazioni criminali. "Al contrario. Finora il proibizionismo ha arricchito la criminalità, innalzando i prezzi. Quando le leggi diventano più severe, aumenta l’insicurezza, crescono reati violenti e omicidi". Lei ne fa una questione economica: c’è anche un aspetto morale.

"L’uso di droga rovina la vita delle persone. Ma bisogna riconoscere che le politiche dei governi non hanno funzionato. Negli Usa, una tassa sulla vendita di droghe frutterebbe 32,7 miliardi di dollari con cui condurre politiche sanitarie per contrastare la tossicodipendenza". La legalizzazione della droga provocherebbe un’impennata dei consumi. "Soltanto in un primo tempo e non in misura rilevante. L’abbiamo visto per l’alcool. Prima e dopo il proibizionismo i consumi non si sono sensibilmente modificati".

Droghe: meno sequestri di sostanze, e più persone "segnalate"

di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone)

 

Italia Oggi, 12 marzo 2009

 

Si apre oggi a Trieste la Quinta Conferenza Nazionale sulle droghe. I dati sono inequivocabili: è in forte calo l’attività di sequestro delle sostanze (addirittura del 10%), mentre crescono del 7,5% le segnalazioni di tossicodipendenti all’autorità giudiziaria. I lavori della conferenza di Trieste saranno tutti tesi a verificare l’impatto della legge Fini-Giovanardi sulle droghe approvata in extremis nel 2006, prima della fine della legislatura, sotto la forma inusuale di emendamento al decreto legge sulle Olimpiadi invernali di Torino.

L’aumento delle segnalazioni di consumo e spaccio e il contestuale decremento delle quantità di droghe sequestrate potrebbe avere la seguente spiegazione: l’attività di contrasto di polizia si è principalmente spostata verso i piccoli consumatori di droghe sintetiche o leggere. La cosiddetta "legge Fini-Giovanardi" ha abolito la distinzione tra droghe leggere, quali la cannabis, e droghe pesanti, quali l’eroina o la cocaina; inoltre ha previsto un aggravamento delle sanzioni amministrative e penali.

La quantità delle sanzioni amministrative è cresciuta tra il 2004 e il 2007 di ben il 62,6%. Sono invece numericamente diminuiti gli inviti formali a seguire un programma terapeutico di recupero. Di interesse è anche il dato relativo ai detenuti in carcere. Al 30/06/2006, ossia un mese prima dell’approvazione dell’indulto, i tossicodipendenti in carcere erano il 26,4% della popolazione detenuta. Sei mesi dopo l’indulto la percentuale è scesa al 21,4%. Segno che molti dei beneficiari del provvedimento di clemenza erano tossicodipendenti.

Percentuale che si è assestata sino all’attuale 26,8%. Ciò significa che a tre anni dalla entrata in vigore della legge la percentuale dei consumatori di sostanze stupefacenti in carcere è leggermente aumentata. Tutto ciò nonostante la legge del 2005, che a sua volta aveva modificato la cosiddetta ex Cirielli sulla recidiva a soli due mesi dalla sua entrata in vigore, avesse elevato a sei anni il residuo pena da dover scontare per accedere alla misura alternativa dell’affidamento terapeutico di cui all’articolo 47-ter dell’ordinamento penitenziario.

La percentuale degli alcool-dipendenti è rimasta del tutto invariata tra il giugno del 2006 e oggi. La percentuale di detenuti tossicodipendenti è inferiore alla percentuale di detenuti in carcere per violazione della legge sulle droghe. Alla fine del 2004 erano ristretti in Italia per violazione dell’art. 73 dpr 309/90 il 38,8% dei detenuti (e ben il 53,6% dei detenuti stranieri), percentuale che varia di poco alla fine del 2005 (38,9 e 50,6%), alla fine del 2007 (37,4 e 47,6%) e al 30/6/2008 (38,2 e 49,5%).

Per quanto riguarda le misure alternative alla detenzione al 30.06.2006 erano in corso 11.646 affidamenti ordinari, che coinvolgevano 533 tossicodipendenti, e 4.053 affidamenti terapeutici. Oggi sono in corso 2.363 affidamenti ordinari, che interessano soli 182 tossicodipendenti, e 1.072 affidamenti terapeutici. Molti detenuti escono anticipatamente dal carcere non usufruendo di misure apposite per i tossicodipendenti. Ciò accade perché la legge in vigore rende più complicato l’accertamento della condizione di tossicodipendenza affidando un ruolo meno pregnante ai Servizi pubblici per le tossicodipendenze.

Per quanto riguarda i procedimenti penali pendenti cresce del 31,5% il numero dei procedimenti per spaccio e del 44,5% il numero degli imputati per violazione dell’art. 73. Anche in seno alle Nazioni Unite le norme sono principalmente ispirate a logiche di controllo. La prima delle tre più importanti convenzioni Onu sulle droghe risale al 1961 (Single convention on narcotic drugs e successivo protocollo del 1972).

Le successive risalgono al 1971 (Convention on psychotropic substances) e al 1988 (Convention against illicit traffic in narcotic drugs and psychotropic substances). Le tre Convenzioni hanno costruito un sistema di controllo universale sulla coltivazione, produzione, esportazione, importazione, distribuzione, commercio e possesso di sostanze narcotiche (oppio e derivati, coca e cannabis). L’International narcotics control board (Incb) è l’organismo responsabile del rispetto delle norme dei trattati, ha inoltre il delicato compito di trovare un equilibrio fra Paesi consumatori e Paesi produttori.

Nel 1998, l’assemblea generale dell’Onu ha dedicato una sessione speciale al problema delle droghe; nella Risoluzione del primo febbraio del 1999 e nella successiva dichiarazione sui principi guida nella domanda di riduzione delle droghe, per la prima volta compare, senza demonizzazioni e con tante cautele, il termine "reduction harm".

Il Parlamento europeo ha di recente approvato norme di sostegno a politiche nazionali e locali di riduzione del danno (distribuzione controllata di siringhe, terapia metadonica ecc.). Su questo tema si confronteranno sempre a Trieste associazioni e comunità in lavori paralleli a quelli ufficiali governativi.

Droghe: Italia; 320mila persone in cura per uso di stupefacenti

 

Redattore Sociale - Dire, 12 marzo 2009

 

Sono 40 mila i consumatori frequenti di eroina, altrettanti quelli di coca. In 546 mila consumano abitualmente cannabis, ma gli "occasionali" sono quasi 5 milioni.

La Relazione annuale al Parlamento sulle tossicodipendenze stima che in Italia nel corso del 2007 circa 320 mila persone abbiano fatto uso di stupefacenti e avuto bisogno di cura e trattamento. I consumatori frequenti di eroina sono stati 40 mila, stessa cifra per i consumatori frequenti di cocaina. Le persone che hanno consumato con frequenza la cannabis sono state 546 mila, ma gli "occasionali" sono quasi 5 milioni. I dati si riferiscono a una fascia di popolazione di 39 milioni di italiani tra i 15 e i 64 anni: in percentuale i 40 mila consumatori di eroina equivalgono allo 0,1% della popolazione, percentuale identica quella per la cocaina, mentre quella dei consumatori di cannabis si attestano sull’1,4% della popolazione totale considerata. Le percentuali crescono se si considerano i dati e i numeri assoluti di coloro che consumano almeno una volta la sostanza nel corso dell'anno. Per l’eroina siamo allo 0,3% con 120 mila persone; di cocaina hanno fatto uso 860 mila persone (il 2,2% della popolazione totale), mentre per la cannabis arriviamo a 5.460.000 persone, ovvero per il 14% della popolazione totale.

I decessi. Con 589 decessi si registra nel 2007 un incremento del 6% rispetto all’anno precedente. L’età media al decesso è progressivamente aumentata (dai 33 anni del 2001 ai 35 del 2007). La quota di morti attribuibili ad intossicazione da sostanze vede l’eroina stabile al 40%, mentre quella riconducibile alla cocaina è passata dal 2,3% del 2001 al 6,1% del 2007.

Droghe: Giovanardi; "riduzione del danno", utile per "aggancio"

 

Redattore Sociale - Dire, 12 marzo 2009

 

"È un bene se è uno strumento per agganciare il tossicodipendente e guarirlo". Il commento all’apertura della quinta Conferenza nazionale in corso a Trieste.

"La riduzione del danno è un bene se significa che il metadone e la distribuzione delle siringhe sono uno strumento per agganciare il tossicodipendente e guarirlo, ma è un male se finisce con il cronicizzare la situazione. Su questo abbiamo trovato un accordo con don Ciotti". È questo il primo commento di Carlo Giovanardi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alla droga, all’apertura della quinta Conferenza nazionale in corso a Trieste. Giovanardi difende i risultati finora ottenuti dal contrasto alle dipendenze, citando la percentuale dello 0,1% di consumatori abituali e dello 0,4% di chi fa uso di eroina: "Se invece che fare prevenzione e informazione attuassimo la liberalizzazione che qualcuno ci chiede, di sicuro il dato relativo ai consumatori non sarebbe così basso, ma schizzerebbe fino a oltre il 10%".

Bisogna dunque continuare con la battaglia partendo proprio dai consumatori ed è a loro che Giovanardi rivolge l’invito alla responsabilità individuale. "Se il professionista che consuma cocaina vi rinunciasse, porterebbe un grande beneficio alle popolazioni dei paesi produttori, che vengono sfruttati ogni giorno a causa del traffico di sostanze". Non va però confusa - sottolinea il sottosegretario - la lotta alla droga con la lotta alla criminalità organizzata che "anche se venisse privata di questo traffico per sua natura saprebbe riciclarsi e puntare su altre attività illecite, come lo sfruttamento della prostituzione. Un auspicio per il futuro: "Che il contrasto avviato nel corso degli anni continui e porti a un reale ulteriore decremento dei consumatori".

Droga: Casellati; facciamo entrare Comunità dentro le carceri

 

Asca, 12 marzo 2009

 

"La legislazione italiana in materia di droga è all’avanguardia grazie alle riforma Fini-Giovanardi". Lo ha detto alla Conferenza sulla droga a Trieste il sottosegretario alla giustizia, Maria Elisabetta Alberti Casellati, annunciando che con il Sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, Carlo Giovanardi, "si sta lavorando per realizzare un progetto con il quale far entrare le comunità di recupero dentro le carceri per dare una speranza che spesso la detenzione nega". Il sottosegretario Casellati ha concluso affermando che "tutta la comunità internazionale deve cooperare per raggiungere la riduzione tanto della richiesta quanto dell’offerta di sostanze stupefacenti".

Droghe: Antigone; in carcere 27% detenuti è tossicodipendente

 

Comunicato stampa, 12 marzo 2009

 

Dichiarazione di Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone. Droghe: "carceri piene di tossicodipendenti; siringhe e preservativi andrebbero previsti". "Il proibizionismo è fallito. Il governo concentra i suoi sforzi per perseguire i consumatori di droghe leggere piuttosto che il narcotraffico. I dati ministeriali sono eloquenti. Crescono esponenzialmente i tossicodipendenti in carcere. Oggi hanno raggiunto la quota del 27% del totale della popolazione detenuta. E si consideri che molti non vengono riconosciuti tossicodipendenti proprio per evitare che possano fruire dei benefici previsti dalla legge. Gli elevatissimi consumi di droghe leggere e pesanti in Italia richiedono l’abbandono di politiche repressive (fallimentari) e il rilancio di politiche sociali, di riduzione del danno e finanche di decriminalizzazione della vita quotidiana dei tossicodipendenti.

Infine per chi sta in galera, pragmaticamente bisognerebbe prevedere la possibilità di usare preservativi e di disporre di siringhe mono-uso per evitare inutili contagi di malattie come l’aids."

Droghe: 50% comunità di recupero rischia chiusura per i debiti

 

Notiziario Aduc, 12 marzo 2009

 

Allarme Comunità di Accoglienza. La metà rischia di chiudere per debiti. È la denuncia lanciata ieri a Roma da un cartello di comunità e servizi di assistenza che ha presentato alla Camera il manifesto "A Trieste senza dogmi né pregiudizi" con cui critica l’impostazione della conferenza nazionale della droga che si apre domani nel capoluogo giuliano.

Mentre il fenomeno del consumo di droga risulta in aumento, l’Italia disinveste dai servizi terapeutici sul territorio, tanto che le Regioni italiane vi investono dallo 0,7 al 1,5% massimo del Fondo sanitario regionale e che metà delle comunità ha tanti crediti con il pubblico da rischiare la chiusura.

La conferenza di Vienna in corso ci dice che l’Italia è il secondo Paese europeo per consumo di cocaina dopo la Spagna, tra il secondo e il terzo nel mondo per uso di cannabis dopo Canada e Repubblica Ceca, ma anche il secondo paese europeo per consumo di eroina dopo l’Inghilterra - ha spiegato Riccardo De Facci, responsabile droghe del Coordinamento nazionale delle Comunità di accoglienza - Abbiamo anche oltre 7mila operatori del pubblico e almeno altrettanti del privato sociale, che rappresentano il sistema di intervento sulle sostanze più ampio e strutturato del mondo. Negli ultimi anni, però, si assiste all’umiliazione dei servizi pubblici e più della metà di quelli privati rischia di chiudere.

Le rette che il pubblico riconosce alle strutture sono tuttora esigue, anche se dagli anni Novanta ad oggi il numero degli utenti risulta triplicato. In almeno tre regioni - ha denunciato De Facci - abbiamo ritardi di pagamento delle rette di anche cinque anni, con rette che vanno in media da 30 euro a 90, con punte di 130 a Trento e Bolzano. Questo rappresenta una messa in discussione del diritto d’accoglienza delle persone.

Oltre al danno, la beffa: è ridicolo che nell’ultimo mese alcune Regioni abbiano proposto che società finanziarie rilevassero questi crediti, per cartolarizzarli e avere, dunque, un pagamento certo e immediato ma decurtato del 20%. Una situazione critica che, dunque, sarà riproposta con forza sia dentro sia fuori dalla Conferenza del Governo.

Droghe: negli Stati Uniti "Centri di recupero" invece delle carceri

 

Apcom, 12 marzo 2009

 

Sono due le importanti misure decise ieri dalla Casa Bianca per far fronte al narcotraffico: il capo della polizia di Seattle, Gil Kerlikowske, è stato nominato ‘zar della drogà ed è stato deciso di puntare sul recupero dei criminali piuttosto che sulla loro incarcerazione. Entrambe le misure, scrive The Washington Post, dimostrano ancora una volta quanto sia lontana l’amministrazione Obama dai metodi utilizzati dalla gestione Bush.

Ma che relazione c’è tra lo zar e le comunità per tossici al posto delle prigioni? A dare la spiegazione è stato ieri lo stesso Kerlikowske che, dopo essere stato nominato dal vice presidente John Biden, che da senatore si è occupato a lungo della lotta al narcotraffico, ha detto che per arginare i traffici dei cartelli della droga dall’esterno, soprattutto dalle frontiere messicane, bisogna ridurre la domanda interna di stupefacenti. "Il problema della droga nel nostro paese è un problema di sofferenza umana. E sia come poliziotto che come essere umano posso dire di aver sperimentato gli effetti che le droghe possono avere", ha detto riferendosi al suo figliastro maggiore arrestato in passato per crimini legati alla droga. Non si sa ancora con quali fondi, ma il governo intende investire di più sulle comunità di recupero in cui inviare gli arrestati per droga che non hanno compiuto atti violenti.

Zimbabwe: braccio destro Premier denuncia abusi sui detenuti

 

Asca, 12 marzo 2009

 

Roy Bennett, viceministro e braccio destro del Premier Morgan Tsvangirai, ha denunciato, poco dopo il suo rilascio, le condizioni dei detenuti in Zimbabwe dichiarando che in carcere vengono commessi gravi abusi dei diritti umani. "Ci sono evidenti abusi dei diritti umani dietro queste mura", ha spiegato Bennett ai giornalisti e ai sostenitori del partito del Movimento per un Cambiamento Democratico nella sede provinciale di Mutare. Bennett, che ha trascorso un mese dietro le sbarre con l’accusa di complotto contro il presidente Robert Mugabe, ha detto che le celle sono sovraffollate e che i prigionieri ricevono un piccolo pasto al giorno. "Mentre ero dentro sono morte cinque persone e la polizia penitenziaria ha impiegato dai 4 ai 5 giorni per rimuovere i cadaveri. La situazione è penosa", ha aggiunto.

Giappone: record di violenze domestiche, nel 2008 25 mila casi

 

Ansa, 12 marzo 2009

 

Sono stati oltre 25.000 i casi di violenza domestica riconosciuti nel 2008 in Giappone, una cifra che rappresenta un record assoluto. Secondo i dati della Polizia nazionale, che nel conteggio include solo gli episodi di violenza denunciati dalle vittime e riconosciuti dalle autorità, nel 2008 si è assistito a un incremento del 20,1% dei casi rispetto all’anno precedente,dei quali 2.534 giudicati gravi (+13,2% sul 2007), mentre gli episodi acclarati di stalking sono stati 14.657 (+8,9%).

 

 

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