Rassegna stampa 9 maggio

 

Giustizia: la nuova sfida nordista... sulla pelle degli immigrati

di Marcello Sorgi

 

La Stampa, 9 maggio 2009

 

La polemica sull’apartheid nella metropolitana di Milano, nata da una discutibile uscita del leghista Salvini (posti esclusivi per milanesi, separati da quelli degli immigrati), ha svelato una nuova sfida che sta prendendo corpo, tra Bossi e Berlusconi, tra Lega e Pdl, nella prateria elettorale nordista da sempre strategica per il centrodestra. Cominciata da settimane, cresciuta in una serie di scontri parlamentari e ieri esplosa sulla proposta che il presidente della Camera Fini s’è affrettato a definire "incostituzionale", la vicenda non ha nulla a che vedere con la campagna gossipara sulle veline, il premier e il suo prossimo divorzio dalla moglie. È piuttosto una partita politica classica, come non se ne vedevano da tempo.

Il terreno della competizione, che ha già portato la maggioranza a una serie di rovesci parlamentari, è quello della sicurezza e dell’immigrazione. Tema assai familiare alla Lega e ben presente nell’immaginario delle famiglie settentrionali. Perché è al Nord che, stavolta più di altre, la sfida si gioca. La posta in palio è il controllo delle tre maggiori regioni - Piemonte, Lombardia, Veneto - in cui, pur con una prevalenza del centrodestra, il centrosinistra ha mantenuto insediamenti importanti - come la Provincia di Milano o il Comune di Torino, o la stessa Regione Piemonte - che presto potrebbero essere rimessi in ballo.

Quando il ministro dell’Interno Maroni va in tv a far capire che sulle ronde metropolitane ci può essere anche una crisi di governo, quando la Lega litiga sui "medici-spia" o sui "presidi-spia".

Quando la Lega non si tira indietro neppure di fronte a proposte inaccettabili come quella di riservare posti a sedere solo per i milanesi sulla metropolitana, non parla solo al suo elettorato tradizionale. Cerca piuttosto di allargare il suo campo tra gli elettori e all’interno del popolo (con la "p" minuscola) della Libertà, eccitato dalle continue uscite spettacolari del Cavaliere, ma anche deluso dalle marce indietro a cui spesso lo costringe il suo ruolo di premier.

Per Bossi c’è insomma la concreta possibilità - se riuscirà a ottenere un buon risultato alle europee e alle amministrative di giugno - di riaprire con più forza il tavolo delle trattative interne al centrodestra per le regionali del prossimo anno. A quel tavolo, infatti, e negli antichi confini della "Padania" e della secessione, è sicuro che la Lega arriverà con tre candidati per le tre Regioni in cui si vota nel 2010.

Poi farà pesare l’eventualità di essere diventato, o di star per diventare, il primo partito del Veneto e quello a maggior velocità di crescita in Piemonte, da Cuneo (dove punta ad assumere la guida dell’amministrazione provinciale con la compagna del ministro Calderoli, Gianna Gancia) a Verbania (dove avrebbe potuto rivendicarla). E rivendicherà il proprio apporto strategico in Lombardia, in cui, tanto per fare un esempio, la ricandidatura dell’attuale presidente Pd Penati alla presidenza della Provincia di Milano è fortemente insidiata dalla ritrovata alleanza tra il Pdl e il Carroccio.

Proprio perché la volta scorsa, presentandosi da sola, finì per dare in molte realtà una lezione a Berlusconi e un vantaggio al centrosinistra, la Lega - ora che è rientrata pienamente nella coalizione berlusconiana - non s’accontenta più di apparire solo come l’alleato indispensabile per vincere al Nord. Dove può, punta a vincere, grazie anche all’alleanza con il Pdl, e a diventare il partito più forte. È per questa ragione che Bossi rifugge programmaticamente l’agenda "romana" della politica, su cui si misurano, con risultati alterni, l’opposizione di Franceschini e Di Pietro e la nervosa collaborazione-competizione di Fini. Al "suo" popolo, il Senatùr vuol far capire che al Nord - e dal Nord - è lui che detta la linea. E ogni volta che gli avversari interni al centrodestra cercano di dare al Carroccio una fregatura in Parlamento, è in grado di costringere il Cavaliere a fare un nuovo decreto per rimediare.

Dura finché si vuole (a nulla possono, ad addolcirla, le cenette di Arcore), la sfida ha tuttavia un primo e un secondo tempo. Il primo è quello a cui stiamo assistendo, e si concluderà il 7 giugno con i risultati delle europee e del primo turno delle amministrative. Il secondo si svolgerà nelle due settimane che vanno dal 7 al 21, la domenica dei ballottaggi, e soprattutto il giorno in cui si apriranno le urne del referendum. Se i risultati del 7 saranno buoni o buonini per Berlusconi, come dicono i sondaggi, e addirittura trionfali per Bossi, diventerà fortissima la tentazione, per il Cavaliere, di gettarsi a capofitto nella campagna referendaria, ottenere il quorum per la riuscita della consultazione - sconfiggendo l’astensione e portando nei seggi la metà degli elettori più uno - e attribuirsi poi una plebiscitaria vittoria dei "Sì", insieme con la medaglia antipartitocratica che è naturalmente connessa al referendum.

Ma la vittoria dei "Sì" - è bene ricordarlo - comporta una legge elettorale, da approvare subito dopo, in cui il premio di maggioranza viene attribuito al partito - e non alla coalizione - che prende più voti: in altre parole, nelle condizioni attuali, un lasciapassare per il Pdl per liberarsi degli alleati riottosi e governare in futuro praticamente da solo. Non si tratta quindi solo di una nuova riforma e di un nuovo ritocco alle già traballanti regole del gioco della Seconda Repubblica: quello del 21 giugno è, sarà, tornerà a essere un referendum su Berlusconi.

Così si capisce anche perché la Lega giocherà solo il primo tempo della partita: puntando a far vincere già al primo turno i candidati (soprattutto i propri) alle amministrative, e ritirandosi nell’astensione al secondo. In cui, invece, toccherà al solo Berlusconi capire se, spingendo la gente verso le urne e verso il voto referendario, voterà per davvero a proprio favore, o contro sé stesso.

Giustizia: estremismo leghista peggiora i rapporti nel governo

di Massimo Franco

 

Corriere della Sera, 9 maggio 2009

 

Il sentore di razzismo trasmesso dalle proposte di alcuni esponenti leghisti è stato avvertito da tutti, Lega compresa; e isolato. Ma quella che viene avvertita come un’invasione degli immigrati irregolari continua a provocare una reazione in bilico fra diritto a respingere i disperati e intolleranza.

Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, avverte lucidamente il pericolo. E ieri ha invocato "la cooperazione internazionale" come antidoto ad un’insicurezza e ad un allarme sul territorio nazionale, destinati ad alimentare gli istinti peggiori. Per questo il centrodestra difende il rimpatrio in Libia di 227 clandestini, deciso nelle ultime ore: seppure con distinguo e polemiche fra Umberto Bossi e gli alleati, Gianfranco Fini in testa.

È la nuova frontiera della competizione elettorale per le europee, che i lumbard presidiano affidandosi a parole d’ordine sempre più radicali; e costringendo il Pdl al gioco difficile di inseguirli e insieme moderarli. Fra esigenze di sicurezza e diritti degli emigrati extracomunitari, in questa fase prevalgono le prime.

E non bastano né le proteste delle Nazioni unite, delle organizzazioni internazionali e dell’opposizione, né le critiche del Vaticano ad invertire la priorità. L’impressione è che il governo ritenga di avere con sé la maggioranza del Paese. E forse perfino settori dell’opposizione, allarmata per quelle che chiama le "leggi razziali" berlusconiane; e tuttavia attenta a non apparire troppo corriva con la cultura dell’accoglienza comunque e del diritto d’asilo, sostenute dalla Chiesa cattolica. Così, il centrosinistra parla dell’Italia come di un Paese avviato a introdurre "la deportazione"; e sfigurato da una deriva da apartheid tipo Sud Africa prima di Nelson Mandela.

Eppure, Antonio Di Pietro ammette che l’immigrazione va controllata: aggiunge però che occorre evitare di trasformare l’Italia in un Paese razzista. E il Pd deve fare i conti soprattutto con le parole eterodosse di Piero Fassino. L’ex segretario dei Ds definisce "il respingimento alle frontiere un’azione legittima di contrasto" dei clandestini. Anzi, togliendo spazio alla demagogia ricorda che è previsto dall’Ue ed è stato "praticato anche durante il governo di centrosinistra".

Il rischio, vistoso, è che la campagna elettorale esasperi due visioni contrapposte. La prima è quella della Lega, convinta di poter mettere in difficoltà il Pdl e togliergli voti al Nord martellando contro gli immigrati; e pronta ad esaltare non solo sulle pagine della Padania le misure prese dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni, come controprova del successo delle ricette leghiste. Gli attriti con Fini ormai sono pubblici: anche se nel caso dei rimpatri il presidente della Camera avalla le scelte del Viminale, pur riconoscendo il rischio di ledere il diritto d’asilo richiamato dall’Onu.

Ma anche alcuni settori berlusconiani sono irritati dal protagonismo della Lega Nord. Palazzo Chigi rivendica l’intesa con la Libia che ha riportato in Nord Africa i clandestini. È irritato, però, dall’estremismo calcolato del partito di Bossi: un atteggiamento che perpetua la guerriglia nel centrodestra e permette agli avversari di accreditare la tesi di un governo subalterno a Bossi: tesi magari strumentale, ma che sta trovando più di un appiglio.

Non bastasse, si cronicizza la tensione fra centrodestra e mondo cattolico in materia di immigrazione: traspare perfino dalla prosa prudente dell’Osservatore romano. In seguito ai rimpatri, il Vaticano accusa apertamente il governo di violazioni dei diritti. Palazzo Chigi sembra rendersi conto che ogni uscita razzista può picconare l’immagine del Paese sul piano europeo. Il dramma del Pdl è che non sa come fermare la Lega; e teme invece di essere costretto a inseguirla lungo un percorso segnato a tavolino per moltiplicare e incassare i voti della paura.

Giustizia: Fini; posti riservati a milanesi offesa a Costituzione

 

La Stampa, 9 maggio 2009

 

Valanga di critiche sulla proposta choc del leghista Matteo Salvini di riservare alcuni vagoni del metrò ai milanesi. Il presidente della Camera Fini boccia la provocazione che "offende le persone e la Costituzione a prescindere dalla razza, dalla lingua e dalla religione". "Basta leggere la Costituzione per capire che proposte come quella non si fanno", ha chiosato Fini durante un incontro presso la Fiera campionaria con alcuni studenti milanesi.

La sua proposta di Salvini ha scatenato anche le ire del Pd. Per Franceschini niente di nuovo sotto il sole ma la semplice "conferma della giustezza delle critiche al ddl sicurezza, accostato alle leggi razziali del 1938". Paolo Ferrero, segretario del Prc, accusa la proposta di essere "squallidamente razzista, becera e incivile che si commenta da sola", mentre per Claudio Fava di Sinistra e libertà "siamo ben al di là del razzismo, siamo ormai all’imbecillità". Mentre Pierfrancesco Majorino, capogruppo del Pd in Comune a Milano, ha chiesto al sindaco di "cacciare i leghisti dalla giunta perché non vogliamo che la città sia governata da una forza intollerante".

Il sindaco di Milano Letizia Moratti getta acqua sul fuoco e assicura che la sicurezza dei mezzi pubblici è già garantita. "A Milano servono più agenti per la sicurezza e non le sparate di Salvini", ha detto il presidente della Provincia Filippo Penati. Sorpreso ma non troppo, Matteo Salvini, che, interpellato ieri dall’Ansa, minimizza l’accaduto, definendo "una battuta, una provocazione" l’ipotesi di destinare delle vetture ai soli milanesi.

"Mai parlato di vetture destinate agli extracomunitari, sfido chiunque a dire il contrario! - ha detto - Stamani piuttosto, rispetto alle giuste lamentele espresse dalla nostra candidata alle provinciali Raffaella Piccinni, che ha ricordato come le donne non possano più sentirsi sicure su alcune linee dei mezzi pubblici a Milano, causa l’invadenza e la maleducazione di molti extracomunitari che non hanno alcun rispetto delle donne, cosa verificabile da chiunque prenda un mezzo pubblico e abbia gli occhi per vedere, ho proposto di riservare dei posti alle milanesi così come si faceva per gli invalidi di guerra e del lavoro. Perché su alcune linee del metrò e dei bus il livello di insicurezza è così alto per i passeggeri che saremo costretti a chiedere a breve dei posti riservati per le persone per bene".

Giustizia: la vicenda di Alberto Stasi… "presunto colpevole"

di Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 9 maggio 2009

 

Pavia, 30 aprile. Il Gup Stefano Vitelli deve decidere sulla colpevolezza o meno di Alberto Stasi, accusato dell’omicidio di Chiara Poggi. A carico di Stasi i Pm hanno prodotto i risultati di diverse consulenze tecniche disposte nei mesi scorsi. Consulenze suggestive, ma che non hanno prodotto conclusioni univoche.

Manca, in altre parole, una prova certa circa la colpevolezza di Stasi. Il Giudice Vitelli si ritira in camera di consiglio per la decisione e, dopo circa quattro ore, pronuncia il suo verdetto. Anzi la sua non decisione. Né condanna, né assoluzione per Stasi, bensì nuove perizie. Secondo il Giudice Vitelli infatti sono emerse: "significative incompletezze di indagine che per la loro potenziale rilevanza devono essere oggetto di un approfondimento istruttorio". Una decisione che lascia perplessi. Se infatti i risultati probatori delle indagini fatte a carico di un imputato sono incerti, tanto da far emergere dubbi sulla sua colpevolezza, si proscioglie e non si cercano altre prove.

Diverso appare il ragionamento del giudice di Pavia. Non trovo le prove per la tua colpevolezza e allora le cerco, disponendo nuove perizie. Stasi è un presunto colpevole. Ma c’è di più. Le perizie disposte dal Giudice Vitelli attengono ad accertamenti scientifici senza certezza. Capire perché Stasi non si è sporcato le scarpe di sangue a casa di Chiara o stabilire l’ora della morte della vittima, sono esperimenti destinati a produrre conclusioni incerte. E allora perché queste nuove perizie? Per arrivare a una condanna basata sull’incertezza della prova?

Giustizia: vicenda di Carlo Marcelletti; morte di un indagato

 

www.radiocarcere.com, 9 maggio 2009

 

Palermo. 6 maggio 2008. Il prof. Carlo Marcelletti viene sottoposto agli arresti domiciliari perché indagato per truffa aggravata ai danni dello Stato, peculato e concussione. Nel corso dell’indagine la Procura di Palermo intercetta la sue telefonate, ma con scarsi risultati. Se non uno. I Pm scoprono incidentalmente che Marcelletti si è scambiato alcuni sms definiti "hard" con una tredicenne. Una condotta di certo criticabile, ma dall’antigiuridicità tutta da verificare. Ma non solo.

È questo uno dei tanti casi in cui le intercettazioni da mezzo di ricerca della prova, si tramutano in mezzo di ricerca del reato. Mutazioni giuridiche. Comunque sia, la notizia dell’arresto di Marcelletti è in prima pagina su tutti i giornali. Il grande luminare è alla gogna. La presunzione di non colpevolezza, ormai una frase insensata. Marcelletti si dimette dall’ospedale Civico di Palermo.

Passano i mesi e l’indagine penale diventa un’ossessione. Un’angoscia profonda che si amplifica a causa dei lunghi tempi di attesa. L’indagine di Marcelletti si protrae per un anno. Una durata eccessiva, viste le ipotesi di reato contestate. Un’indagine che, come tante altre, si fonda sull’incertezza. Incerta la fondatezza delle accuse, incerti i tempi e gli epiloghi. È così che, per dirla con Carnelutti, il processo diventa pena. Una pena che può far morire. Come accaduto a tanti indagati che si sono uccisi o si sono ammalati per un’indagine penale.

Roma. 6 maggio 2009. Il Prof. Carlo Marcelletti muore.

Modena: Bertolini (Pdl); enti e fondazioni "aiutino il carcere"

 

Il Nuovo Giornale, 9 maggio 2009

 

"Anche gli Enti locali e le fondazioni bancarie devono intervenire finanziariamente per migliorare le condizioni strutturali di lavoro degli Agenti della Polizia Penitenziaria e di sicurezza all’interno di carcere di Modena". È questo l’appello lanciato dall’on. Isabella Bertolini, del direttivo del Pdl alla Camera e coordinatore provinciale di Modena, nel corso della visita ufficiale al carcere di Modena alla presenza del presidente della commissione giustizia del Senato Filippo Berselli.

"Il rapporto tra numero di detenuti e agenti di Polizia penitenziaria - ha detto Bertolini nel corso di un incontro con le autorità organizzato all’interno del carcere dal sindacato di polizia penitenziaria Sappe - fa della realtà modenese la peggiore d’Italia. Esiste poi un’emergenza nell’emergenza, che a Modena raggiunge picchi da record, legata al fatto che il 75% dei detenuti sono extracomunitari. Porterò sul tavolo del governo il problema relativo al necessario potenziamento degli organici ed il tema drammatico della presenza abnorme di extracomunitari.

Chiedo però anche l’impegno concreto degli enti locali con un contributo tangibile. Le fondazioni bancarie, che a Modena svolgono da anni un ruolo fondamentale nel finanziamento di importanti progetti per la collettività, potrebbero svolgere un ruolo determinante. Penso all’impianto di videosorveglianza del carcere, attualmente inadeguato che potrebbe essere potenziato e completato, così come al potenziamento della dotazione tecnologica, strumentale ed strutturale per migliorare le condizioni di lavoro della Polizia Penitenziaria e la qualità della vita dei detenuti. Fino ad ora l’impegno degli enti locali in questo senso è stato inesistente. È tempo che ognuno faccia la propria parte".

Reggio Emilia: detenuto aggredisce il medico e quattro agenti

 

La Gazzetta di Reggio, 9 maggio 2009

 

Nelle strutture carcerarie di via Settembrini continuano gli episodi di violenza e le aggressioni ai danni di agenti della polizia penitenziaria. L’ultimo fatto si è verificato proprio ieri all’interno del carcere della Pulce, dove un detenuto marocchino, dopo una colluttazione con un detenuto cinese, ha aggredito il medico che lo visitava e poi si è scagliato contro gli agenti di custodia: quattro di loro sono rimasti contusi e hanno riportato lesioni non gravi. Michele Malorni, il segretario provinciale del Sappe, il maggiore sindacato della polizia penitenziaria, torna a lanciare l’allarme sicurezza negli istituti penitenziari reggiani.

"Entrambi - sostiene Michele Malorni - hanno raggiunto un livello di sovraffollamento mai raggiunto prima. Le due strutture ospitano ben 650 ospiti, la cui maggioranza è rappresentata da cittadini extracomunitari e irregolari per i quali si sostengono ingenti spese di mantenimento". Il sindacato Sappe, prima che accada qualcosa di più grave, sollecita l’Amministrazione penitenziaria a predisporre un immediato trasferimento di almeno un centinaio di detenuti dalla casa circondariale e 30 internati dall’Opg, in modo da poter alleggerire i reparti di detenzione dove sono ammassati fino a 75 persone.

Il sindacato Sappe infine chiede che il Ministro della giustizia emetta un decreto di chiusura definitiva del reparto di detenzione femminile, per poter utilizzare quegli spazi per la custodia di ospiti maschi. "Siamo preoccupati - conclude il segretario Malorni - per le criticità nelle quali gli agenti della polizia penitenziaria degli istituti reggiani sono costretti a lavorare".

Pisa: intesa tra gli enti locali, per il reinserimento dei detenuti

 

Il Tirreno, 9 maggio 2009

 

Rinnova il proprio impegno il "cartello" di enti pisani impegnati da anni sul fronte del reinserimento socio-lavorativo dei detenuti, in particolare quelli in esecuzione penale esterna. È stato sottoscritto in questo senso un protocollo d’intesa tra l’Asl 5, la Società della Salute della Zona Pisana, l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (Uepe) e la Provincia, con gli assessorati al sociale e alle politiche del lavoro.

Questo atto rappresenta il proseguimento dell’esperienza avviata dal 2007, con analogo protocollo, che ha portato alla creazione di un gruppo operativo multi professionale formato dai referenti di Uepe, Ufficio alta marginalità della Società della Salute, Sert, Centri per l’impiego, Servizio sociale territoriale.

Tale esperienza ha prodotto nell’arco dei due anni buoni risultati, tra cui l’attivazione di 6 borse-lavoro a vantaggio di altrettanti detenuti. Il protocollo contiene elementi innovativi rispetto al precedente, come spiegano gli assessori al sociale Manola Guazzini e alle politiche del lavoro e formazione Anna Romei, "promuovendo percorsi di reinserimento sociale e lavorativo individualizzati".

La fase di prima valutazione del detenuto spetta all’Uepe, mentre il Servizio Sociale Territoriale provvede ad apportare la conoscenza della situazione socio-familiare, l’Ufficio alta marginalità si occupa dell’accesso ai servizi zonali di tipo socio-assistenziale e il Sert delle problematiche di dipendenza o di rischio recidiva.

È infine il Centro per l’impiego a svolgere il colloquio di orientamento ed il bilancio di competenze per una spendibilità immediata della persona sul mercato del lavoro. La fase successiva, che impegna l’intero gruppo multi professionale, è quella dell’elaborazione del progetto individualizzato, dove vengono specificati obiettivi, risultati attesi, azioni, modalità di verifica. È su questa base che l’Uepe o il Sert stipuleranno l’apposita convenzione con l’azienda individuata.

Parma: pestaggio di un detenuto, tre agenti rinviati a giudizio

 

La Gazzetta di Modena, 9 maggio 2009

 

Sono stati rinviati a giudizio dal Gup Pietro Rogato i due agenti del carcere di Parma indagati per aver pestato Aldo Cagna, detenuto per l’omicidio della laureanda in medicina Silvia Mantovani. Un terzo agente di custodia - assistente capo - è stato rinviato a giudizio per favoreggiamento. Secondo l’accusa, Cagna, 30 anni, sarebbe stato condotto fuori dalla cella e picchiato selvaggiamente. I due agenti l’avrebbero spintonato, buttato a terra, trascinato per le scale del carcere e poi colpito a calci e pugni. L’episodio principale sarebbe avvenuto l’1 febbraio 2007. In seguito l’assistente capo avrebbe "consigliato" al recluso di non dire al medico del carcere la causa delle lesioni. Processo il 28 settembre.

Bergamo: poesia e arte in carcere; premiati detenuti via Gleno

 

L’Eco di Bergamo, 9 maggio 2009

 

Ricordi di vita, bilanci di un’esistenza, speranze per il futuro. I sentimenti e i pensieri più profondi dei detenuti della casa circondariale di via Gleno anche quest’anno hanno trovato voce e forma nei testi di prosa e poesia del concorso artistico-letterario "Pensieri ed emozioni", coordinato da Filippo Frigeni. "La libertà della parola - ha sottolineato durante la premiazione di ieri Silvio Bordoni, poeta e collaboratore del progetto - è stata regina in questi scritti che hanno superato i confini della retorica e dell’ipocrisia".

Testi originali, scritti con una prosa a volte incalzante, a volte più malinconica, che raccontano frammenti di esistenze difficili, che parlano di scelte sbagliate:"Quello che emerge con forza in ognuno di essi - ha fatto notare Bordoni - è la forza liberatoria del pensiero e dell’immaginazione, di quel soffio magico che costituisce l’atto creativo e che ciascuno di noi, indistintamente, conserva nel profondo del cuore".

Per la sezione dedicata alla poesia il primo premio è andato a "Incrollabile" di Felix O., "una poesia stupenda, degna di un vero poeta in cui la passione del vivere abbraccia la parola", mentre al secondo posto si è classificato il componimento di Franco M. "Valore". Il ritmo e il contenuto originale di "Let me go" di Lorena A.H. è stato invece premiato con il terzo posto.

Tre i premi anche per la sezione racconti. Primo classificato "Adrenalina allo stato puro" di Angelo M. che grazie alla narrazione dal ritmo incalzante fa rivivere al lettore anche meno trasgressivo emozioni che sono concesse a pochi.

Un piccolo gioiello di narrativa, così è stato giudicato dalla giuria, il secondo classificato, "Luka", un racconto breve che parla di una barca, "la passione ragionata, il primo amore" di Ico C. Terzo posto per "Storia di ordinaria vita di clandestino" di Moncef G., il racconto in presa diretta di chi partito dalle coste dell’Africa in cerca del "paese dei balocchi" si è ritrovato a fare i conti con la clandestinità e le sue conseguenze.

Due le segnalazioni per questa sezione: "Assassinio alla mano" di Riccardo L. e "La vera storia del fuoco" di Tomas O. Per la prima volta il concorso "Pensieri ed emozioni" si è aperto anche alle produzioni artistiche di falegnameria, ceramica e panificazione, legate alle attività di formazione della casa circondariale.

Primo classificato "Omaggio a Gille Villeneuve" di Giuseppe B., riproduzione in balsa del bolide di Formula 1, secondo posto per "Gocce di rugiada" di Elisabetta O., ceramica incastonata con coloratissime "gocce" di pietre dure e infine, ex equo, "Mandolino" di Gjergj M. e "Cesto di pane", vera e propria creazione artistica realizzata dal laboratorio di panificazione.

"I risultati raggiunti - ha commentato il presidente della giuria Ivo Lizzola - dimostrano che se lavoriamo a noi stessi con disciplina e cura nascono cose sorprendenti". Presente alla consegna dei premi anche il direttore del carcere, Antonio Porcino che ha ricordato come l’obiettivo di queste e altre iniziative sia quello di "offrire ai detenuti la possibilità di intraprendere un percorso responsabile, fatto di ordine e abitudine al lavoro, che pone le basi per un futuro reinserimento nella società".

Libro: "Un carcere nel pallone" i detenuti-calciatori di Opera

 

Ristretti Orizzonti, 9 maggio 2009

 

In un libro di Francesco Ceniti, per Laruffa Editore, la vicenda straordinaria della squadra di detenuti-calciatori di Opera. È di prossima uscita il libro "Un carcere nel pallone" del giornalista Francesco Ceniti, con prefazione di Candido Cannavò, per Laruffa Editore.

Dall’esperienza esaltante del campionato vissuta dai detenuti-calciatori del "Free Opera" - la squadra di calcio composta da detenuti del carcere di Opera (Mi) e iscritta, dal 2003 al 2005, a un regolare campionato dilettantistico, caso unico in Europa - è nato un reportage che analizza con sensibilità e rispetto l’universo oscuro delle carceri e la spinta vitale che pure è possibile ritrovare dietro le sbarre.

Attraverso questa particolare squadra di calcio e le passioni che, dentro e fuori dalle mura blindate del carcere, animano il mondo del pallone, Ceniti ha raccolto storie di vite bruciate, di scelte sbagliate, di errori personali e, a volte, pure giudiziari. E ha raccontato i campionati di quella improbabile squadra, su cui nessuno avrebbe scommesso, e che poi ha catturato l’attenzione dei media e del mondo esterno per i suoi successi.

Una vicenda straordinaria per i detenuti-calciatori e pure una visuale diversa sulle troppe ombre della reclusione. Gli allenamenti, le dinamiche dello spogliatoio, le vittorie e le sconfitte, tutto come in un qualunque campionato dalle divisioni minori alla serie A, tutto come per qualunque squadra. Ma tutto dentro un carcere. Dentro le emozioni e i rimpianti degli uomini che attraverso la squadra hanno ritrovato una ragione di vita.

"Nella costruzione del lavoro di Ceniti c’è un tramite singolare, prodigioso, magico: il pallone. Mister Ball, questa sorta di tesoro d’infanzia, di divinità pagana, di collettore universale di passioni, lui il Signor Pallone è stato il mezzo prezioso di collegamento, ma forse anche una finzione, un alibi per raggiungere un luogo proibito e raccontare qualcosa di diverso. Sul traguardo c’era, in realtà, una dolorosa, struggente, edificante antologia di vita. Il mosaico umano di questo libro" (dalla prefazione di C. Cannavò).

Hanno dato sostegno e appoggio all’iniziativa e assicurato la presenza per la presentazione del libro, che si terrà entro l’anno, i campioni del mondo Renato Gattuso, Marco Materazzi e Josè Altafini.

Francesco Ceniti, nato a Roma nel 1969, è cresciuto in Calabria, dove si è laureato in Lettere Moderne con una tesi in Storia contemporanea sul Vietnam (filmando nel Paese asiatico un reportage a vent’anni esatti dalla fine della guerra). Dopo l’università (e lasciati i campi di calcio "frequentati" con alterne fortune fino alla serie C2) ha perfezionato i suoi studi alla Luiss con un master in Giornalismo e Comunicazione d’impresa. Giornalista professionista, è stato redattore presso numerose testate nazionali e regionali. Dal 2000 vive a Milano e dal 2003 lavora per la "Gazzetta dello sport". Nel 2004 ha pubblicato (sempre per Laruffa editore) il romanzo "I cassetti perduti".

Immigrazione: asilo negato senza verifiche e inferno dei campi

di Gian Antonio Stella

 

Corriere della Sera, 9 maggio 2009

 

"Anche in Libia c’è un Cir, un centro italiano per i rifugiati, aperto a tutti", ha detto il ministro dell’Interno. Sapete quante persone ci lavorano? Una. E solo da lunedì. E senza mezzi. E senza il riconoscimento di Tripoli. Che del resto non ha mai riconosciuto manco la Convenzione di Ginevra sui rifugiati.

È chiarissima quella carta ginevrina del 1951. Ha diritto all’asilo chi scappa per il "giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche". Altrettanto netto è l’articolo 10 della Costituzione: "Lo straniero al quale sia, impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge".

Vogliamo prendere una storia a caso, dall’inferno dei campi libici? Ecco quella di una donna eritrea, cristiana, nel documentario "Come un uomo sulla terra" di Andrea Segre: "Ero in prigione con un’amica eritrea incinta, la rabbia le aveva deformato il viso, il marito cercava di difenderla perché il poliziotto le premeva la pancia col bastone dicendole: "Hai in pancia un ebreo, andate in Italia e poi in Israele per combattere gli arabi".

Un’altra donna: "Preferivamo morire piuttosto che doverci togliere la croce al collo. Piangevamo, se questa era la volontà di Dio l’accettavamo, ma la croce non la volevamo togliere. Cristiani siamo e cristiani rimarremo. E loro ci sbattevano contro il muro. Mentre gli uomini venivano picchiati noi urlavamo. Gli uomini venivano frustati sotto la pianta dei piedi fino a perdere i sensi".

Situazioni agghiaccianti. Denunciate già nel 2004 da una Missione tecnica in Libia dell’Unione europea, dove si parlava di abusi, arresti arbitrari, deportazioni collettive... Confermate nel febbraio 2006 dalla deposizione del prefetto Mario Mori, il direttore del Sisde, in una audizione al Comitato parlamentare di controllo: "I clandestini vengono accalappiati come cani, messi su furgoncini pick-up e liberati in centri di accoglienza dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi...". La visita al centro di accoglienza di Seba lo aveva turbato: "Prevede di ospitare cento persone ma ce ne sono 650, una ammassata sull’altra senza rispetto di alcuna norma igienica e in condizioni terribili".

Per non dire di certe deportazioni nei container blindati come quella raccontata da Anna ("Presto sotto il sole di luglio il container diventò un forno, l’aria era sempre più pesante, era buio pesto. I bambini piangevano. Due giorni di viaggio senza niente da bere, né da mangiare.

Alcuni bevevano le proprie urine") in "Fuga da Tripoli / Rapporto sulle condizioni dei migranti in transito in Libia", a cura dell’Osservatorio sulle vittime delle migrazioni "Fortress europe". Osservatorio secondo il quale in soli cinque anni "dal 1998 al 2003 più di 14.500 persone sono state abbandonate in mezzo al deserto lungo la frontiera libica con Niger, Ciad, Sudan ed Egitto. Molti deportati, una volta abbandonati nel deserto hanno perso la vita".

E per non dire ancora degli stupri, come nella testimonianza di Fatawhit: "Ho visto molte donne violentate nel centro di detenzione di Kufrah. I poliziotti entravano nella stanza, prendevano una donna e la violentavano in gruppo davanti a tutti. Non facevano alcuna distinzione tra donne sposate e donne sole, Molte di loro sono rimaste incinta e molte di loro sono state obbligate a subire un aborto, fatto nella clandestinità, mettendo a forte rischio la propria vita".

Forzature? Lasciamo la risposta al comunicato ufficiale del Servizio Informazione della Chiesa Italiana: "Non possiamo tollerare che le persone rischino la vita, siano torturate e che l’85 per cento delle donne che arrivano a Lampedusa siano state violentate". Per questo i vescovi non hanno dubbi: è "una vergogna" che siano state respinte persone che "hanno già subito delle persecuzioni nei rispettivi Paesi". Posizione ribadita dall’Osservatore Romano: "Preoccupa il fatto che fra i migranti possa esserci chi è nelle condizioni di poter chiedere asilo politico. E si ricorda anzitutto la priorità del dovere di soccorso nei confronti di chi si trova in gravi condizioni di bisogno".

Questo è il nodo: la scelta di tenere verso gli immigrati in arrivo una posizione più o meno dura, compassionevole 0 "cattiva", come ha teorizzato tempo fa Maroni, spetta a chi governa. Ed è giusto che sia così. La decisione di "fare di ogni erba un fascio", rifiutare ogni distinzione e respingere chi arriva senza neppure concedergli, per dirla coi vescovi, almeno la possibilità di dimostrare che ha diritto all’asilo, è però un’altra faccenda.

Che non solo rinnega una storia piena di esuli politici (da Dante a Mazzini, da Garibaldi ai fratelli Rosselli a don Luigi Sturzo) ma, secondo Laura Boldrini e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, fa a pezzi le regole vigenti poiché "tutti gli obblighi internazionali" e anche la legge italiana "vietano tassativamente il respingimento di rifugiati o richiedenti asilo". Quanti erano, su quella barca respinta, quelli che avrebbero avuto diritto ad essere accolti? Risponde Christopher Hein, Direttore del Cir, il Consiglio italiano per i rifugiati: "Generalmente tra i disperati che arrivano a Lampedusa quelli che chiedono diritto d’asilo sono il 70% ma di

questi solo la metà ottiene lo status di rifugiato. Gli egiziani o i maghrebini, per esempio, difficilmente lo chiedono. Del resto difficilmente lo otterrebbero. Gli stessi cinesi non lo chiedono mai. Ora, poiché tra i passeggeri di quella nave riportati in Libia non c’erano maghrebini, egiziani 0 cinesi, è presumibile che almeno il 70% avrebbe chiesto asilo.

E di questi, con ogni probabilità, la metà ne aveva diritto. Il che significa che l’Italia ha respinto almeno un centinaio di persone alle quali la nostra Costituzione garantiva il soccorso". Non possono farlo adesso? "La vedo dura. In tutta la Libia, dico tutta (non sappiamo neppure quanti siano i centri libici di detenzione, pare 25) abbiamo una persona Che si è insediata da quattro giorni. Senza avere ancora il riconoscimento delle autorità. Veda un po’ lei...".

Immigrazione: quando si afferma l’illegalità e la disumanità

di Randolph Ash

 

Aprile on-line, 9 maggio 2009

 

In una trionfalistica conferenza stampa il ministro dell’interno Maroni ha parlato di "svolta storica" e di un "nuovo metodo di affrontare l’immigrazione clandestina". Il suo trionfalismo è non soltanto risibile, è anche agghiacciante se si pensa che è riferito non ad un carico di mercanzie avariate, ma ad esseri umani disperati che chiedono aiuto.

I leghisti ci avevano già provato qualche anno fa con una proposta altrettanto storica: quella di sparare sui barconi e affondarli con tutto il loro carico umano. Costretto a rinunciare allora a quella brillante soluzione dell’immigrazione clandestina (per la verità avanzata dal suo capo Umberto Bossi), ora che è ritornato al governo della Repubblica e alla guida del ministero dell’interno, Roberto Maroni ha concluso un accordo, anche questo storico, con la Libia perché si riprenda i profughi che partono dalle sue coste e rischiano la vita sulle carrette del mare per arrivare nel nostro paese.

Le organizzazioni umanitarie, italiane e internazionali, prima tra tutte l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, hanno immediatamente protestato. Notizie di stampa e ampie testimonianze ci dicono che coloro che partono dalla Libia, dopo un viaggio che dura mesi di stenti dai loro paesi di origine, nell’attesa di imbarcarsi vengono sottoposti a vessazioni di ogni tipo da parte delle autorità libiche: estorsioni, violenze fisiche, stupri. Riportati dalla nostra marina militare in quello stesso paese, vi è ogni ragione di ritenere che verranno trattati nello stesso o peggiore modo, per finire in qualche lager nel deserto libico e scomparire così agli occhi del benevolo Occidente.

Disumano, sì, ma anche e soprattutto illegale. Maroni non ha bisogno di consultare il suo collega agli esteri per sapere che l’Italia è tra i firmatari della convenzione di Ginevra del 1951 (con il protocollo aggiuntivo del 1967), così come della convenzione contro la tortura del 1984. Non c’è bisogno di essere esperti di diritto internazionale per sapere che quelle convenzioni obbligano gli stati firmatari a rispettarne il testo, che è vincolante allo stesso modo di qualunque legge interna. Ora, la convenzione del 1951 impone alle autorità di uno stato l’obbligo di accogliere i rifugiati e i richiedenti asilo, definiti come persone "che hanno una fondata paura di essere perseguitati nel loro paese di origine a causa della religione, razza, nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo sociale o di opinione politica" (art.1, c. A). La convenzione distingue tra migranti per ragioni economiche, verso i quali non c’è obbligo di accoglienza, e rifugiati o richiedenti asilo, che si è obbligati ad accogliere.

E allora come si fa a sapere di chi si tratta? A prima vista non è possibile, ovviamente: si tratta in ogni caso di povera gente bisognosa di aiuto. Ma poiché la legge è legge, il governo italiano (come quelli di tutti i paesi civili del mondo) ha istituito una procedura per verificare se il richiedente asilo abbia davvero il diritto (non una benevola concessione, ma un diritto) di rimanere nello stato in cui arriva in base all’articolo 1 della convenzione. Le commissioni per il diritto di asilo operano a pieno ritmo già da diversi anni per fare questa cernita; con il risultato che a circa la metà dei richiedenti asilo è stata riconosciuto il diritto di rimanere nel territorio dello stato o è stata accordata una qualche protezione temporanea (art. 32 della convenzione).

Ma, si dirà, i profughi sono stati intercettati in alto mare, non sul territorio italiano, quindi la convenzione non si applica. Il mare è terra di nessuno, quindi lì io faccio come mi pare. Brillante furbizia! (all’italiana?), eccetto che la nave che li ha raccolti era una nave militare, appartenente allo stato italiano, a tutti gli effetti parte del suo territorio, e su di essa vigono le leggi italiane e le convenzioni stipulate dall’Italia.

In ogni caso la convenzione all’art. 33 vieta espressamente l’espulsione o il respingimento verso un paese dove la vita o la libertà del rifugiato possano essere messe in pericolo, prima che ne sia stato verificato - non dal governo, ma dall’autorità giudiziaria (art. 16) -- il buon diritto a rimanere sul territorio dello stato di arrivo. Aggiunge anche una serie di clausole di favore per la concessione di un alloggio, per lo svolgimento di un’attività lavorativa, per l’ottenimento della cittadinanza, per il ricongiungimento familiare - tutte cose da libro dei sogni, ampiamente disattese dall’attuale come da precedenti governi.

Non basta. A queste norme si aggiungono quelle della convenzione contro la tortura del 1984 (firmata dall’Italia) che all’art. 3 proibisce il "refoulement", cioè il respingimento "di una persona verso uno stato dove vi siano fondate ragioni di ritenere che possa essere sottoposto a tortura" e precisa che la norma si applica non solo allo stato di arrivo, ma a qualunque altro stato dove "la persona possa essere respinta, espulsa o estradata".

Questo è precisamente ciò che è successo e può succedere in Libia, dove esistono motivi più che fondati che i profughi possano essere torturati o minacciati nella loro vita o libertà. Non solo perché il regime libico è quello che è, ma anche e soprattutto perché la Libia è uno dei pochi paesi del pianeta a non avere firmato né la convenzione sui rifugiati del 1951, né quella sulla tortura del 1984, e quindi non è obbligata, neppure formalmente, a rispettarle.

Ma l’Italia sì. Pensavamo che con la fine dell’amministrazione Bush fosse stato posto un freno all’illegalità internazionale. Dobbiamo mestamente prendere atto che in Italia il suo epigono Berlusconi ne ha raccolto il testimone.

 

 

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