Rassegna stampa 13 maggio

 

Giustizia: dal Governo una "illegittima difesa" del ddl-sicurezza

di Monica Maro

 

Aprile on-line, 13 aprile 2009

 

Berlusconi non ha dubbi: pur di fermare la diatriba tra Lega e An che rischia di indebolire il governo scende in campo a difesa del ministro degli Interni: "Gli accordi con la Libia li ho gestiti io - ha sottolineato - li ho sottoscritti io, Maroni esegue quegli accordi che sono stati assunti direttamente da me". Il nodo del contendere sono i "respingimenti" degli migranti, che hanno scatenato le polemiche con le opposizioni e con gli organismi internazionali. "Non sono disperati, hanno pagato il biglietto" taglia corto il premier. Oggi lo scontro si è spostato in Parlamento dove il governo ha posto la fiducia su tre maxiemendamenti per approvare velocemente le norme del disegno di legge sicurezza.

Ieri, arrivando a Sharm, il premier aveva escluso che a bordo dei barconi vi sia qualcuno che possa godere del diritto di asilo. "Le statistiche lo confermano", aveva sottolineato. Oggi, il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, da Sharm el Sheik, torna sulla vicenda dei "respingimenti", che hanno scatenato la polemica con l’opposizione e sceglie di "difendere" il ministro Maroni, attaccato dalle opposizioni e condannato dall’Europa.

"Questi barconi - spiega il premier - non sono fatti occasionali ma frutto di una organizzazione criminale che offre a chi vuole venire in Italia la possibilità di venirci a pagamento". E poi: "Sono persone che hanno pagato un biglietto. Non sono persone spinte da una loro particolare situazione all’interno di questi paesi dove si è vittime di ingiustizie ma sono reclutati in maniera scientifica dalle organizzazioni criminali".

Dichiarazioni che lasciano "senza parole" la capogruppo al Senato del Pd Anna Finocchiaro: "Non ho parole, non ho parole". Che ci sia "una organizzazione criminale" dietro ai viaggi degli immigrati "è certo - aggiunge Finocchiaro - ma non capisco cosa voglia dire Berlusconi visto che chi sale sui barconi vuole arrivare in Italia, non sono reclutati, sono sfruttati. È gente che fugge dalla miseria, dalla guerra, dalla disperazione. Credo che Berlusconi con questo modo di dire e non dire suggerisce che gli immigrati siano delinquenti. È un modo di anticipare la sentenza".

Ma le esternazioni di Berlusconi hanno un duplice scopo: fermare la polemica tra Lega e An assumendo in prima persona la responsabilità dei rimpatri difendendo Maroni. "Gli accordi con la Libia li ho gestiti io - ha sottolineato - li ho sottoscritti io, Maroni esegue quegli accordi che sono stati assunti direttamente da me. Gheddafi sta rispettando gli accordi che aveva preso con me". E, in secondo luogo gettare il virus della divisione all’interno dello schieramento avversario: così il premier si spertica nell’elogia delle posizioni di Piero Fassino e Francesco Rutelli sul tema dell’immigrazione. "Mi fa piacere che i due esponenti del Pd che non abbiano ritenuto uno scandalo il respingimento dei migranti - che ci sia anche nell’opposizione qualche persona di buon senso che non segue fino in fondo l’ideologia".

Ma Franceschini non ci sta, parla di uso immorale e strumentale della vicenda dei clandestini: "I barconi pieni di disperati sono stati trasformati in uno spot elettorale per le prossime elezioni, come se fossero un manifesto per raccogliere voti" e, quanto alle polemiche nel Pd, assicura che nel partito non esiste nessun distinguo "noi diciamo tutti la stessa cosa: i respingimenti, cioè rimandare gli immigrati clandestini nei loro paesi deve avvenire, ma vanno rispettate le regole e le norme internazionali, si tratta di rispettare la dignità dell’uomo, le leggi italiane e quelle internazionali".

Oggi, come preannunciato, lo scontro si è spostato in Parlamento dove il governo ha posto la fiducia su tre maxiemendamenti per approvare velocemente le norme del disegno di legge sicurezza. Il primo voto è previsto per domani alle 10,30. E vanifica, di fatto, le correzioni apportate nell’ultimo mese grazie alle lotte della società civile - in primo luogo i medici - e dell’opposizione.

È stato lo stesso presidente della Camera, Gianfranco Fini, a spiegare che la richiesta del Governo non ha alcun profilo di inammissibilità. "Essendo problematico o comunque opinabile l’adesione alla Costituzione delle norme in esame, lungi dalla presidenza ledere le prerogative sovrane dell’Assemblea", ha detto in Aula la terza carica dello Stato.

La presidenza non può dichiarare inammissibili gli emendamenti su cui il Governo ha chiesto, stamane, di porre la fiducia. Emendamenti che peraltro, osserva Fini, riproducono il lavoro delle Commissioni. "Il regolamento - sottolinea ancora - esclude la questione di fiducia solo sugli argomenti per i quali è prescritta obbligatoriamente la votazione per alzata di mano o a scrutinio segreto".

Naturale e "doveroso" per il presidente dei deputati della Lega, Roberto Cota, porre la fiducia. "Noi manteniamo le promesse fatte ai cittadini", sottolinea.

"Queste norme - osserva il capogruppo del Pd a Montecitorio, Antonello Soro - hanno profili evidenti di incostituzionalità. Con l’introduzione del reato di clandestinità, medici e presidi saranno costretti a fare la spia: i pubblici ufficiali saranno comunque costretti a denunciare la presenza di immigrati privi del permesso di soggiorno".

L’Idv ha disertato il comitato ristretto della Commissione Giustizia, convocato di prima mattina, "per ragioni politiche molto chiare". Federico Palomba, vice presidente della Commissione Giustizia, in una lettera aperta alla Presidente della Camera, Giulia Bongiorno, per comunicarle la decisione, scrive: "Considero la riunione totalmente inutile ed offensiva perché volta semplicemente a far recepire all’opposizione le imposizioni del Governo prodromiche alla questione di fiducia".

In aula il Pd boccia la scelta dell’esecutivo: la richiesta di fiducia contravviene alle sollecitazioni del Capo dello Stato e del Presidente della Camera, viola la logica del voto a scrutinio segreto previsto dal regolamento. La ratio, sottolinea Soro, "è quella di predeterminare e garantire" una sfera di diritti costituzionali e di materie sulle quali i deputati possano votare liberamente a scrutinio segreto, senza subire il vincolo della disciplina di partito.

"La tutela di diritti fondamentali rilevanti implica la prevalenza della libertà del Parlamento rispetto al valore della stabilità del Governo". Al fondo di questa decisione - è l’accusa di Soro - "c’è l’esplicita e dichiarata sfiducia nei confronti dei deputati della maggioranza con i quali, come ha detto il ministro Maroni, non si possono correre rischi".

Si mobilitano anche le forze della sinistra. Rifondazione comunista, alla presenza del segretario nazionale Paolo Ferrero, organizza per mercoledì 13 maggio alle 13.00 un presidio contro l’approvazione del pacchetto sicurezza davanti piazza Montecitorio.

Giustizia: politiche forti con i clandestini e deboli con i razzisti

di Gian Antonio Stella

 

Corriere della Sera, 13 aprile 2009

 

"Sono lieto di dire che ci costituiremo parte civile contro questa persona", aveva detto Roberto Maroni a un convegno rilanciato in tv davanti a centinaia di migliaia di telespettatori. Non poteva sopportare, lui, come ministro degli Interni e come leghista, che un conduttore di "Radio Padania Libera" si sfogasse con parole razziste e antisemite contro quel "nasone" di Gad Lerner.

Quindi si impegnava ufficialmente: al processo intentato contro Leo Siegel, "voce" dell’emittente del Carroccio, lui sarebbe stato al fianco del direttore de "L’Infedele". È da tempo che Maroni batte e ribatte sullo stesso tema: "Sono anni che dicono che siamo razzisti. All’inizio mi dava fastidio. Ora non ci bado più. Lo vedo come uno stereotipo che non ha effetto nell’opinione pubblica che sa bene che non lo siamo".

E le sparate di Bossi sui neri chiamati "bingo bongo"? "L’ha detto un secolo fa!". E i barriti di Borghezio contro i "marocchini di merda"? "Posizioni isolate dalle quali ci dissociamo". L’ultima volta l’ha detto tre giorni fa a Vicenza, ribadendo che la Lega vuole sì essere "essere padrona a casa propria" ma "non è razzista e xenofoba".

La decisione di costituirsi parte civile al fianco di Gad Lerner e contro il conduttore di "Radio Padania Libera" per quegli sfoghi razzisti (il testo è non solo agli atti del processo ma anche sul sito internet del giornalista) sarebbe stato insomma un gesto di svolta. La prova provata che il ministro degli Interni usa il pugno duro non solo coi clandestini che vengono da fuori ma anche con gli xenofobi intestini. Un gesto importante soprattutto in questi giorni in cui la linea durissima sul fronte dell’immigrazione, compresi coloro che avrebbero diritto all’asilo politico, rischia di essere come minimo "fraintesa".

Macché. L’ultimo giorno utile per la costituzione è scaduto ieri. E come sia finita lo ha raccontato lo stesso Lerner in una lettera al presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna: "Mi duole segnalarti che oggi - nella prima udienza del processo cominciato davanti al giudice monocratico dell’ottava sezione penale di Milano - né il Viminale né l’onorevole Maroni hanno presentato richiesta di costituzione come parte civile.

E ciò nonostante mi fossi premurato di ricordare per tempo al suo staff che si trattava dell’ultima scadenza utile per mantenere quella promessa". Titolo della lettera messa online: "La promessa del marinaio Maroni". Per carità, il ministro dirà che chi di dovere gli aveva spiegato che non era possibile tecnicamente. Può darsi. Ma ci poteva almeno provare. Poteva farsi dire di no dal giudice. A volte anche un gesto può avere un significato profondo. Un piccolo gesto, nei giorni giusti. E non è arrivato.

Giustizia: Pecorella (Pdl); sì a ddl, ma se non c’era la fiducia…

di Alessandro Calvi

 

Il Riformista, 13 aprile 2009

 

Alla fine, la fiducia la voterà anche Gaetano Pecorella. Qualche riserva su singole norme del pacchetto sicurezza, però, il deputato del Pdl la ha ancora. E non è l’unico, tanto che, dice, "senza la fiducia, qualche emendamento in aula ci sarebbe stato". L’impianto generale del ddl non si discute anche se, due mesi fa, la sua firma comparve in fondo alla lettera firmata da altri 100 parlamentari del Pdl contro l’inserimento del reato di clandestinità e contro la fiducia sul pacchetto sicurezza.

 

Onorevole Pecorella, come sarebbe andata a finire se il governo non avesse messo la fiducia sul pacchetto sicurezza?

Guardi, la legge alla fine l’avrei votata perché contiene una serie di norme condivisibili come quelle contro la criminalità o sul decoro urbano. Poi, ci sono norme che lasciano perplessi e sulle quali c’è ancora una riserva, come quella che riguarda l’imprenditore che subisce una estorsione che, così come è, non condivido.

 

Lei è tra coloro che chiesero di non mettere la fiducia e che si dissero contrari al reato di immigrazione clandestina, ora si troverà a votare entrambe le cose.

Quella posizione era legata soprattutto all’obbligo del medico di denunciare i clandestini. Era una norma che non condividevo anche perché si tratta di un reato che non prevede condotte, quello di clandestino è uno status. Questa norma è venuta meno. La situazione è cambiata.

 

C’è però chi dice che questa, come anche quella sui presidi-spia, sono norme assorbite di fatto dalla previsione generale sulla clandestinità.

Non è così. Il medico ha l’obbligo del referto ma con un limite: che non comporti l’apertura di un procedimento penale. Dunque, con i clandestini il medico non ha questo obbligo. In ogni caso, si tratta di norme per le quali sarà necessaria una fase di adattamento. È una norma che ha carattere generale, il legislatore tornerà a intervenire sulle singole situazioni.

 

Insomma, la versione che voterà la Camera non sarà quella definitiva?

Dovrà comunque tornare al Senato dove qualche correzione sarà possibile. Diciamo che è una risposta a una fase di lassismo e che c’era bisogno di riportare ordine nelle scuole, nelle città e anche nella politica della immigrazione. Penso al Bertold Brecht nell’Animo buono di Sezuan. Questo è un inizio per superare l’emergenza della vita quotidiana. Un po’ di durezza è necessaria.

 

Anche nei respingimenti?

Occorrono soluzioni razionali per cui chi ha diritto di essere ospitato non può essere respinto. Serve ordine, nel rispetto dei diritti umani.

Giustizia: Cossiga chiede a Napolitano, la "grazia" per Sofri

di Ida Rotano

 

Aprile on-line, 13 aprile 2009

 

L’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga invia una lettera aperta al capo dello Stato: "Non credo che mi faccia velo la mia antica amicizia verso Adriano Sofri, alla cui colpevolezza non ho mai creduto anche a causa della farfugliata sentenza di condanna e dei caratteri del movimento comunista di Lotta Continua che mai ha praticato la lotta armata, se Le chiedo di voler concedere la grazia ad Adriano, una grazia che gli farebbe vivere in piena libertà una vita che già si avvia dolorosamente al suo termine a causa di gravissimi mali", scrive Cossiga a Napolitano. "Credo che Lei vorrà accogliere questa mia richiesta - aggiunge - che si pone nella linea della pacificazione nazionale e del riconoscimento di una memoria condivisa.

Il senatore a vita Francesco Cossiga ha inviato questa lettera al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: "Signor Presidente, come tutti gli italiani ho molto apprezzato, quale contributo a una memoria condivisa e a una Nazione infine moralmente pacificata, quanto da Lei detto in occasione del 25 aprile, Festa della Liberazione della Patria dal nazifascismo e quanto successivamente da Lei detto e fatto in occasione della Giornata della Memoria per le vittime del terrorismo, anche con l’atto altamente nobile e altrettanto nobilmente messo in atto con la loro partecipazione, di far incontrare al Quirinale, la casa di tutti gli italiani, la vedova del commissario di pubblica sicurezza Calabresi e la vedova del povero ferroviere anarchico Pinelli, sulla cui misteriosa morte mai è stata detta una parola chiara e convincente. Non credo che mi faccia velo la mia antica amicizia verso Adriano Sofri - alla cui colpevolezza non ho mai creduto anche a causa della farfugliata sentenza di condanna e dei caratteri del movimento comunista di Lotta Continua che mai ha praticato la lotta armata -, se Le chiedo di voler concedere la grazia ad Adriano, una grazia che gli farebbe vivere in piena libertà una vita che già si avvia dolorosamente al suo termine a causa di gravissimi mali.

Lei, signor Presidente che è un uomo retto e giusto non può trascurare la circostanza che, se anche fosse vero che il Sofri è stato il mandante dell’uccisione del commissario Calabresi, mandanti politici, culturali e morali potrebbero essere considerati i firmatari del famoso appello che indicava in Luigi Calabresi il torturatore e l’assassino dell’anarchico Pinelli.

Il 13 giugno 1971 infatti il settimanale L’Espresso, allora diretto dal grande giornalista democratico Eugenio Scalfari, pubblicò un articolo di Camilla Cederna, intitolato "Colpi di Scena e Colpi di Karate" e sottotitolato "Gli Ultimi Incredibili Sviluppi del Caso Pinelli", in cui si accusava, da un lato, il Commissario Luigi Calabresi della morte di Giuseppe Pinelli e, dall’altro, tutto l’apparato istituzionale per la protezione che gli garantiva. In calce a questo articolo c’era un appello in cui, sulla base di queste argomentazioni, si chiedeva apertamente alle autorità competenti di intervenire contro il commissario Calabresi ed i suoi presunti protettori. Nell’appello si leggono termini inequivocabili, come "commissari torturatori, magistrati persecutori, giudici indegni".

L’appello si conclude con la richiesta di ricusazione di tutti gli interpreti che, fino ad allora, avevano avuto un ruolo nella vicenda. Questo appello, presentato come lettera aperta, fu sottoscritto da numerose personalità ed ebbe un numero di adesioni crescente nei giorni seguenti, tanto che L’Espresso decise ripubblicarlo nei due numeri successivi. Sull’ultima pubblicazione, uscita il 27 giugno 1971, si contano 757 firme, tra le quali molti esponenti di primissimo piano nel mondo della politica, del giornalismo e della cultura in genere, tutti elettori o simpatizzanti del Partito Comunista o di altri partiti di sinistra".

"L’appello diceva: Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio, Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile. Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha nascosto le trame di una odiosa coercizione. Oggi come ieri - quando denunciammo apertamente l’arbitrio calunnioso di un questore, Michele Guida, e l’indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica, nelle persone di Giovanni Caizzi e Carlo Amati - il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a tale fiducia senza la quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione. Una ricusazione di coscienza - che non ha minor legittimità di quella di diritto - rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni. Noi chiediamo l’allontanamento dai loro uffici di coloro che abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini.

I suoi firmatari erano tra gli altri Enzo Enriques Agnoletti, Giorgio Amendola, Laura Betti, Giorgio Benvenuto, Alberto Bevilacqua, Giorgio Bocca, Liliana Cavani, Lucio Colletti, Tullio De Mauro, Umberto Eco, Giulio Einaudi, Federico Fellini, Dario Fo, Renato Guttuso, Margherita Haker, Ferruccio Parri, Pierpaolo Paolini, Vittorio Ripa di Meana, Umberto Terracini, e infine il grande giornalista combattente di tante battaglie per la libertà Eugenio Scalfari e il grande filosofo Noberto Bobbio, da tutti oggi celebrato come padre delle libertà e della democrazia".

"D’altronde credo che la vedova Calabresi e suo figlio Mario nell’accettare di incontrare la signora Pinelli si siano proprio posti sulla strada della pacificazione generale. La vedova Calabresi ha riconosciuto che non fu atto temerario, ma largamente giustificato dalle circostanze, che la signora Pinelli denunciasse il commissario per l’assassinio del marito; e la signora Pinelli incontrando la vedova Calabresi ha riconosciuto che le responsabilità del commissario di polizia nella morte del marito dovevano inquadrarsi nel clima politico del periodo e nella politica di repressione poliziesca dello Stato di cui il Calabresi era un dipendente. Perché quest’incontro fosse esaustivo mancava però la terza vittima: Adriano Sofri.

E a questa assenza Lei può riparare concedendo la grazia a questo amico, esponente di un movimento che fu tra i più duri nell’opporsi ad ogni minaccia di involuzione autoritaria dello Stato. D’altronde, signor Presidente, Lei che ha avuto una rigida formazione rivoluzionaria secondo la dottrina marxista-leninista, non può essere per principio contro la violenza, e non può porre sullo stesso piano la violenza di uno Stato borghese, ancorché formalmente democratico, e cioè quella che è stata esercitata contro il Pinelli, e la violenza contro lo Stato borghese che forse si era macchiato anche di tremende stragi e che sarebbe stata esercitata in spirito di vendetta proletaria da un movimento comunista: che tale era Lotta Continua. Credo che Lei vorrà accogliere questa mia richiesta che si pone nella linea della pacificazione nazionale e del riconoscimento di una memoria condivisa da Lei.

Spero che Lei, signor Presidente, in coerenza con la sua cultura e la sua militanza democratica e comunista, saprà compiere questo atto di coraggiosa equità".

Giustizia: Alberti Casellati; per Piano carceri mancano i fondi

 

Ansa, 13 aprile 2009

 

Il sovraffollamento nelle carceri "è una vera e propria emergenza, registriamo un aumento di 800 detenuti al mese". Lo ha detto dai microfoni di Radio Anch’io il sottosegretario al Ministero della giustizia con delega alle carceri, Maria Elisabetta Alberti Casellati.

"Un problema non nuovo - ha detto - che finora è stato risolto con indulti e amnistie, cosa che noi non vogliamo assolutamente più fare". Per questo, ha aggiunto, "abbiamo studiato un Piano straordinario che consiste in sostanza in tre interventi che dovrebbero portare ad un aumento di 18mila posti nelle carceri: 5.000 nei prossimi due anni con il completamento di carceri già in costruzione. Poi, in altri due anni l’allargamento delle strutture già esistenti, con la costruzione di nuovi padiglioni, infine è prevista la costruzione, anche con il coinvolgimento di privati, di 18 nuovi penitenziari".

Il grande problema però, ha ammesso il sottosegretario, "sono i fondi": il Piano avrebbe un costo di circa 1 mld di euro, ma, ha detto Alberti Casellati, "attualmente abbiamo a disposizione 200 mln ai quali si aggiungono circa 130 mln della cassa delle ammende. Per il resto dovremo valutare come reperire i fondi, soprattutto in un momento particolare come questo in cui il Governo è impegnato con la ricostruzione in Abruzzo".

Giustizia: Cgil; ma quale Piano carceri? l’emergenza è adesso

 

Comunicato stampa, 13 maggio 2009

 

Nei giorni scorsi è stato consegnato al Ministro della Giustizia il cosiddetto Piano Carceri realizzato dal "Commissario Straordinario" per l’edilizia penitenziaria, nonché Capo del Dipartimento A.P., nonché Capo della Polizia Penitenziaria, Franco Ionta, che in ragione di un impegno di spesa quantificabile in circa 1,5 miliardi di euro consentirà, in 18 regioni, un aumento di circa 18mila posti detentivi, di cui circa 5mila sembra entro il 2011.

Interventi strutturali rilevanti che, forse, offriranno una qualche soluzione temporanea per i prossimi anni, peraltro tutta da verificare, ma che certo rappresentano l’unica risposta che il Governo ha saputo contrapporre sia alla presunta domanda di maggior sicurezza che a suo dire proverrebbe dalla collettività, sia al pesante sovraffollamento delle attuali strutture penitenziarie.

Basteranno? Noi siamo convinti di no, soprattutto perché nell’immediato, a fronte di una situazione che oggi possiamo definire senza tema di smentita allarmante su tutto il territorio nazionale, basta leggere l’ultimo grido di allarme lanciato pubblicamente anche dalle organizzazioni sindacali della regione Sardegna ieri l’altro, nessun provvedimento concreto è stato predisposto per deflazionare le carceri e migliorare le condizioni di lavoro del personale di Polizia penitenziaria, fin qui addirittura ridotto di ben 5600 unità dall’organico nazionale fissato dal d.m. 8 febbraio 2001.

Perché in attesa di vedere realizzati quegli obiettivi, la popolazione detenuta ha già - per la prima volta nella storia delle Repubblica - raggiunto e abbondantemente superato quota 62.000 presenze, un primato davvero poco invidiabile se si pensa che nel 2006, peraltro con il contributo dell’attuale maggioranza, fu licenziata dal Parlamento la legge che dava il via all’indulto con 61.372 presenze!

A condizioni date, se non saranno presto adottati interventi strutturali anche di altra natura, il rischio che avvertiamo concretamente con l’approssimarsi della stagione estiva e l’inevitabile aumento delle tensioni interne - questioni di cui dovranno farsi carico il Ministro della Giustizia e il Capo del Dap - è che il sistema imploda coinvolgendo pericolosamente il sistema di sicurezza e di protezione della società civile e, in particolare, le sorti dell’esiguo personale di Polizia Penitenziaria rimasto ancora in servizio negli istituti di pena - secondo noi non più di 18.000 unità ormai -, quotidianamente esposto, come del resto testimoniano le centinaia di aggressioni di cui sono rimasti vittime i colleghi dall’inizio dell’anno, a rischi intollerabili per l’incolumità personale.

Quel piano, che oltretutto dovrà anche tener conto delle decisioni che stanno per essere assunte dalla maggioranza sul tema dell’immigrazione clandestina, riteniamo possa avere senso solo se sostenuto, accompagnato da scelte politiche tese superare alcune scelte legislative compiute nel passato, a limitare il più possibile gli ingressi in carcere per i reati minori, di nessuna pericolosità sociale, ad agevolare il maggior ricorso alle misure alternative alla detenzione potenziando l’esecuzione penale esterna; ma soprattutto, ad avviare con la massima celerità un tavolo di confronto sugli organici di tutte le sedi e servizi penitenziari, a formalizzare un piano di assunzione di almeno 8000 unità della Polizia Penitenziaria che contemperi anche l’ottimizzazione delle risorse disponibili al sistema.

Da quest’ultimo punto di vista, in particolare, nonostante l’argomento sia stato più volte dibattuto anche con il Ministro Alfano, a cui fu consegnata la disponibilità a discutere da parte sindacale, salvo il fumoso recupero del personale di Polizia Penitenziaria impiegato negli spacci di cui il Capo del Dipartimento continua a parlare nei suoi giri sul territorio, peraltro dimenticando di dire che per le rappresentanze del personale, e la Fp Cgil in particolare, quel recupero dovrà essere preceduto dalla restituzione alle proprie sedi delle numerose unità che allo stato sono distaccate d’ufficio presso il Ministero della Giustizia, il Dipartimento A.P., i Provveditorati regionali, gli Uepe e le Scuole di formazione, per quanto è dato di sapere ad oggi non esiste neppure un progetto di riassetto dei modelli organizzativi e di lavoro finalizzato a valorizzare le risorse umane disponibili!

Questioni in eludibili che andranno quanto prima discusse e risolte, diversamente il Ministro e il Capo del Dipartimento A.P. saranno presto costretti a fronteggiare la mobilitazione del personale. Questo è un "Piano" che per come è stato presentato, invece che rappresentare il tentativo di "fare per risolvere", sembra la soluzione del " fare per costruire". E intanto le persone detenute continuano ad aumentare!

 

Mauro Beschi, Segretario Nazionale Fp-Cgil

Francesco Quinti, Responsabile Nazionale Comparto Sicurezza Cgil

Giustizia: Ugl; no a indulto, serve intervento riorganizzazione

 

Sesto Potere, 13 maggio 2009

 

"Serve una giustizia che funzioni e apprezziamo che il ministro Alfano non ricorra ad indulti: se le carceri sono affollate, con tantissimi detenuti in attesa di giudizio, è occorre un intervento sulla organizzazione della giustizia ormai al collasso".

Lo ha dichiarato il Segretario Nazionale Ugl Ministeri, Paola Saraceni che richiama l’attenzione "sulle carenze organiche di Procure e Tribunali; sulla mancata riqualificazione del personale e sulla carenza di risorse per le attrezzature delle cancellerie. La macchina giudiziaria può funzionare solo se si mette mano alla sua organizzazione. E proprio sulla disorganizzazione giudiziaria, tutti i sindacati di settore e il comitato di lotta hanno già preannunciato una manifestazione nazionale per il 28 maggio".

Messina: sopralluogo del Provveditore Prap al carcere Gazzi

di Emanuele Rigano

 

www.tempostretto.it, 13 maggio 2009

 

Appurati alcuni limiti della casa circondariale, ma anche punti positivi come il nuovo teatro o la sala operatoria. L’assessore Fichera ha promesso un apporto economico per la realizzazione di una struttura prefabbricata da allocare nell’area adiacente alla "zona colloqui".

Lo scorso sabato, 9 maggio, si è riunita un’apposita Commissione della Provincia Regionale di Messina per un sopralluogo presso la struttura penitenziaria di Messina Gazzi. L’incontro è stato organizzato a seguito della mozione presentata dal Capogruppo dei Democratici Autonomisti Tonino Calabrò, votata in aula da tutte le forze politiche (vedi articolo in basso), attraverso la quale venivano evidenziate le carenze della struttura e i disagi esistenti nella casa circondariale di Messina.

Condizioni che hanno convinto il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Sicilia, Orazio Faramo, ultimamente a Messina per un convegno sui percorsi di reinserimento lavorativo dei detenuti, a garantire la sua presenza al sopralluogo all’interno della struttura, accompagnato dal Direttore Calogero Tessitore. Insieme a loro l’Assessore alle politiche attive del lavoro Renato Fichera, e i consiglieri provinciali Tonino Calabrò, Lalla Parisi e Maurizio Palermo.

Il carcere di Messina Gazzi è sicuramente una struttura sovraffollata e necessita di appositi interventi soprattutto in un’ala dove è presente una buona parte della popolazione carceraria; interventi che potranno essere effettuati con un apposito project-financing, in attesa che vengano sbloccati i fondi strutturali destinati dal Cipe per l’edilizia carceraria.

La delegazione ha potuto comunque constatare che all’interno si trova un nuovissimo teatro con circa un centinaio di posti e, cosa più importante, da circa un anno è attiva una eccellente sala operatoria con annessi locali di degenza, funzionante e garantita da una equipe di medici del policlinico di Messina.

Struttura che oltre a rappresentare il fiore all’occhiello di Messina Gazzi, è unica nel suo genere sul territorio nazionale. Durante il sopralluogo, l’assessore Fichera, a nome dell’Amministrazione provinciale, ha assunto l’impegno di contribuire economicamente alla realizzazione di una struttura prefabbricata con adeguati servizi igienici, da allocare in un’area adiacente alla "zona colloqui", da destinare all’accoglienza dei parenti dei detenuti. Ciò per eliminare l’inconveniente creato dalla precaria tettoia posta sul marciapiede di fronte al muro di cinta del carcere.

La delegazione, inoltre, solleciterà l’Ausl 5 di Messina affinché provveda a rifornire Gazzi dei farmaci previsti per legge a favore dei detenuti. La visita è terminata presso i locali lavanderia e in una parte dell’area riservata alla popolazione femminile. A tale riguardo, il provveditore Faramo ha comunicato ai consiglieri Calabrò, Parisi, Palermo e all’assessore Fichera, che è sua volontà adibire un immobile confiscato alla mafia in Sicilia per accogliere le detenute in carcere con bambini al seguito, affinché le stesse possano scontare la loro pena senza provocare il trauma delle inferriate ai minori. Gli stessi saranno accompagnati nella quotidianità dalla presenza di assistenti sociali e potranno utilizzare un apposito parco giochi. Il tutto sotto la massima sorveglianza della polizia penitenziaria.

L’incontro ha rappresentato un primo passo del percorso già intrapreso dalla Provincia Regionale di Messina in favore della rieducazione e di percorsi di reinserimento (da parte del Presidente Ricevuto e dall’assessore Fichera durante il convegno del 29 aprile a Palazzo dei Leoni) in collaborazione con il "Garante per i Diritti dei Detenuti per la Regione Sicilia", senatore Salvo Fleres.

Nuoro: polizia penitenziaria; situazione carcere è insostenibile

 

La Nuova Sardegna, 13 maggio 2009

 

Per le carceri isolane, e in particolare per Badu ‘e Carros, l’anno zero è già qui. Almeno sotto il profilo delle carenze degli organici, un fatto non nuovo negli istituti penitenziari sardi. Tradotto in altri termini significa che la sicurezza degli istituti è garantita dai salti mortali che il personale ha compiuto e compie, al senso del dovere degli agenti che vanno a lavorare sempre e comunque. Ieri mattina davanti a Badu ‘e Carros si sono ritrovati gli agenti per un sit-in al quale hanno aderito un po’ tutte le sigle: Cgil, Cisl, Sinappe, Osapp, Cnpp, Uspp e Sappe. Mancava solo la Uil, ma quel in questo scioglilingua il fattore comune è la denuncia di una situazione che, semplicemente, non è più sostenibile.

"C’è un fatto nuovo: che il direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, Franco Ionta, ha formalmente ammesso che la Sardegna è una delle criticità del sistema". Lo dice Raimondo Atzeni, della segreteria regionale della Cisl e delegato aziendale per il sindacato a Nuoro. Ionta, che agli inizi della carriera fu magistrato in servizio proprio a Nuoro, ha ben presente la situazione sarda e di Badu ‘e Carros in particolare, e sabato mattina, nell’isola per incontrare i vertici del provveditorato penitenziario regionale, ha pubblicamente ammesso una verità finora sottaciuta.

Ossia il problema degli organici, al quale però, al di là del riconoscimento, non seguirà un rimedio. Perchè non ci sono assunzioni, non ci sono trasferimenti, non c’è nulla all’orizzonte che faccia prevedere la fine di un sistema di lavoro nel quale tutte le garanzie e diritti per gli agenti penitenziari vengano rispettati. Dietro la porta c’è il problema delle ferie estive: con organici ridotti all’osso ora, dove è problematico persino usufruire del giorno di riposo settimanale, anche i quindici giorni canonici sono fortemente a rischi.

"E quello che non si dice è che oggi il dramma maggiore lo vive il settore femminile. Per le poliziotte penitenziarie la situazione è ancora più problematica. Si prenda ad esempio proprio Badu ‘e Carros: delle 15 poliziotte in organico, due sono distaccate in altri istituti, una è in maternità e quindi usufruisce del tempo parziale, due sono impegnate nei servizi amministrativi. Sette colleghe si distribuiscono su quattro turni nell’arco delle 24 ore.

Vuol dire che spesso una sola è in servizio su due piani. Traete voi le conclusioni", aggiunge Atzeni. E c’è poi da dire che l’età media degli agenti in servizio nell’isola è alta. Anche 27, trent’anni con le chiavi in mano a presiedere le celle. Chiedere sacrifici è sempre più difficile. "Serve innalzare il livello della discussione", dicono i sindacati, che hanno anche incontrato Silvestro Ladu, presidente della commissione Diritti civili del consiglio regionale. Gli agenti proseguono la protesta, l’estate, con i suoi problemi a orologeria, è in agguato. - Simonetta Selloni

Ravenna: detenuti messi in saletta ricreativa, agente aggredito

 

www.romagnaoggi.it, 13 maggio 2009

 

"Nel pomeriggio di ieri a Ravenna un detenuto affetto da problemi psichiatrici ha proditoriamente aggredito un assistente capo ed un vice sovrintendente di polizia penitenziaria procurando loro lesioni guaribili rispettivamente in 30 e 3 giorni".

A darne comunicazione il Coordinatore Provinciale della Uil Pa Penitenziari di Ravenna, Giacomo Pasquale che aggiunge: "Esprimo la nostra totale vicinanza e solidarietà agli agenti feriti. Particolarmente all’assistente cui hanno diagnosticato l’infrazione della quinta costola".

"Ormai è vera emergenza Penitenziaria in Emilia Romagna - afferma Domenico Maldarizzi del Coordinamento Regionale della Uil - Gli Istituti della Regione scoppiano con i 4.400 detenuti a fronte dei 2.274 previsti. Anche la CC di Ravenna il sovraffollamento è molto grave. Sono 157 i detenuti, di cui 14 allocati in un camerone nella sezione semilibertà e 7 sistemati in una saletta ricreativa". Quello di Ravenna è solo l’ultimo episodio di una stagione di violenze negli istituti penitenziari emiliani che ha determinato il ferimento di molti agenti penitenziari.

"Da tempo - continua Domenico Maldarizzi - abbiamo posto la questione delle violenze in danno di personale penitenziario. Purtroppo continua il silenzio della stampa e delle Istituzioni su questa incredibile situazione. È antipatico dirlo ma non osiamo immaginare e pensare cosa sarebbe accaduto a parti inverse. Intanto il numero di feriti in Emilia aumenta quotidianamente (Bologna, Rimini, Piacenza, Reggio Emilia, Modena, Saliceta) e tenere il conto diventa sempre più difficile.

È assurdo che un Corpo di Polizia debba pagare tale salatissimo dazio per assicurare ordine disciplina all’interno degli istituti nel silenzio e nell’indifferenza del Provveditore Regionale e dei vertici romani. Oramai la pazienza del personale è agli sgoccioli ed in mancanza di provvedimenti certi e concreti la risposta non tarderà ad arrivare con proteste e manifestazioni anche eclatanti. Nelle prossime ore chiederemo al Provveditore Regionale di essere convocati e questa volta certamente non potrà sottrarsi alle sue responsabilità".

Bari: Sappe; 1 agente e 90 detenuti, inclusi i presunti terroristi

 

Asca, 13 maggio 2009

 

"Abbiamo notizie che i due presunti terroristi di Al Qaida siano rinchiusi al terzo piano della famigerata seconda sezione ove sono rinchiusi altri 90 detenuti vigilati da un solo agente". Lo denuncia il segretario regionale pugliese del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria), Federico Pilagatti, in una nota nella quale ricorda i numerosi cantieri tuttora aperti nel carcere di Bari e i "grossi problemi di sicurezza", peraltro con un muro di cinta "da più di un anno completamente sguarnito".

"Il Sappe - aggiunge - ritiene che solo la professionalità, il sacrificio, la serietà e la correttezza dei poliziotti penitenziari baresi hanno finora evitato situazioni pericolose, ma fino a quando si riuscirà a far fronte alle esigenze, dovute soprattutto alla carenza del personale?". "È necessario - conclude Pilagatti - sottoporre i presunti terroristi ad un controllo più adeguato, alla chiusura della II sezione, ad innalzare il livello di sorveglianza dell’istituto presidiando il muro di cinta, e poi sfollando il carcere di detenuti in maniera corposa al fine di ristabilire le minime condizioni igienico-sanitarie e di sicurezza".

Saluzzo: nel carcere impianto di produzione di birra artigianale

 

www.ecodelchisone.it, 13 maggio 2009

 

Ospiti qualificati per l’inaugurazione dell’impianto per la produzione della birra artigianale, all’interno del carcere "Rodolfo Morandi" di Saluzzo: la presidente della Regione Mercedes Bresso, l’assessore regionale all’Agricoltura Mino Taricco, il presidente della Provincia Raffaele Costa, il vescovo di Saluzzo Giuseppe Guerrini e il sindaco Paolo Allemano.

Il direttore del "Morandi", Giorgio Leggieri, l’ha definita "una giornata importante per questo istituto di pena e per tutto il territorio. Siamo di fronte ad un’iniziativa progettuale che ha come obbiettivo la creazione di percorsi di reinserimento lavorativo che non si scontrino con i vincoli della detenzione. È solo il primo passo di un lungo percorso che porterà all’aumento delle opportunità lavorative dei carcerati".

Il birrificio è gestito dalla cooperativa sociale "Pausa Cafè", che già vanta dal 2005 un’analoga esperienza presso la Casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino, dove è in funzione un centro di produzione agroalimentare che risponde a requisiti d’eccellenza per caffè e cacao.

Al "Morandi", nei locali concessi in comodato d’uso gratuito dall’Amministrazione penitenziaria, è stato allestito un impianto per la produzione di birra ad alta fermentazione: 10 ettolitri al giorno (130-150.000 bottiglie, più il confezionato in fusti, all’anno), sul mercato dai 7 euro in su. Tempi di produzione dai 25-30 giorni per la birra in fusti e altri sette giorni per quella in bottiglia.

Il progetto ha consentito la creazione di cinque posti di lavoro, di cui tre destinati a persone detenute, che si avvarranno dell’esperienza del mastro birraio Andrea Bertola. Gli ingredienti utilizzati sono presidi Slow food o di Terra madre.

Inizialmente saranno cinque le birre prodotte: Tosta, premiata con le 5 stelle dalla guida alle "Birre d’Italia 2009"; Chicca, con la particolarità dell’utilizzo innovativo del caffè; Taquamari, arricchita da cereali provenienti dal Sud del mondo; Pils, prodotta con le tradizionali tecniche boeme; Saaz in fiori; Due,½ a bassa gradazione, in alta qualità ispirata alla tradizione belga. La commercializzazione avverrà nel circuito "Eataly" e nei supermercati Coop.

La Casa di reclusione "Morandi" consta di una forza di personale di Polizia penitenziaria di 184 unità effettive, il personale amministrativo è formato da 18 unità ripartite tra l’area educativa, amministrativa, contabile e informatica. La popolazione detenuta è attualmente di 375 persone, suddivise in quattro circuiti a media sicurezza, due ad alta sicurezza, una sezione destinata a reati di riprovazione sociale, una sezione di indagati e un reparto destinato a detenuti in regime di semilibertà. La presenza di stranieri è del 40 per cento circa.

Lecce: arrestati 16 agenti della stradale, pigliavano "mazzette"

 

Corriere della Sera, 13 maggio 2009

 

Andava avanti da anni. Forse decenni. Lo stabiliranno gli investigatori che ieri hanno messo agli arresti 16 agenti della Polizia stradale di Lecce. L’accusa è aver garantito a oltre 100 imprese leccesi e brindisine il transito di veicoli senza eseguire controlli e ricevendo in cambio regali e denaro. Insomma, per la Procura di Lecce in città esisteva un’organizzazione "parallela", un’associazione per delinquere finalizzata a concussione ambientale e falso ideologico. Sono questi i reati dei quali dovranno rispondere i 16 agenti che si sono visti notificare l’ordinanza di custodia cautelare in carcere del gip Ercole Aprile, su richiesta del pm Guglielmo Cataldi.

Funzionava così: loro non controllavano carichi e documenti dei mezzi di varie ditte di trasporti. Aziende e commercianti ricambiavano per le mancate contravvenzioni con somme di denaro, generi alimentari (per esempio mozzarelle) o altri benefit. Il tutto secondo una specie di tariffario pensato in funzione del settore economico in cui era impegnata l’azienda.

A indagare sui colleghi della Polizia stradale sono stati uomini della Mobile e della stessa Polstrada L’indagine è scattata a giugno 2008 sulla base di un esposto anonimo arrivato in Procura, che riferiva di presunti illeciti commessi da un gruppo di poliziotti e indicava le aziende coinvolte. Le intercettazioni telefoniche sulle utenze di alcuni sospettati hanno fatto il resto. Una conversazione del presunto leader della banda, l’ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, lascerebbe intendere che l’attività illegale possa aver fruttato a ciascun agente 40.000 euro in 3 anni. Tanto che Reggio, in un’altra telefonata, parlava con un collega della possibilità di anticipare la pensione. Gli uomini arrestati saranno sostituiti entro due giorni. Per dare un segnale di discontinuità sarà avvicendato anche il dirigente della stradale di Lecce, Cosimo Cucurachi, prossimo alla pensione ed estraneo all’inchiesta.

Immigrazione: politica dei respingimenti, tra ipocrisie e realtà

di Sergio Romano

 

Corriere della Sera, 13 maggio 2009

 

Uno dei maggiori esponenti del Partito Democratico, Piero Fassino, dichiara che "respingere i barconi non è uno scandalo". La conferenza dei vescovi italiani disapprova il respingimento dei migranti e il reato d’immigrazione clandestina. Il rabbino di Roma evoca il ricordo di una nave carica di ebrei a cui fu impedito lo sbarco sulle coste americane. E il Partito democratico reagisce alle vicende degli scorsi giorni con un coro di voci discordi: da quelle di coloro che condannano il razzismo del governo o definiscono la sua politica "scandalosa", a quelle di coloro che approvano, con sfumature diverse, la linea di Fassino.

Tralasciamo la Cei e il rabbino. La prima rivendica la missione universale della Chiesa e parla in ultima analisi di se stessa e della propria vocazione. Il secondo è custode del passato ebraico e sente l’obbligo di ravvivare in ogni occasione la fiamma della memoria. Né l’una né l’altro hanno o avranno responsabilità di governo. Diverso, invece, è il caso dell’opposizione. Un partito che ha governato e si propone di tornare al potere non può limitarsi a sentenziare che le soluzioni del governo sono sbagliate, illegali e immorali. Deve contrapporre proposte utili e idee praticabili. Non può dire, ad esempio, che il problema deve essere affrontato e risolto negoziando accordi bilaterali per la restituzione dei migranti ai Paesi di cui sono cittadini. La formula ha dato buoni risultati nei Balcani, dove gli albanesi avevano un evidente interesse a collaborare con il governo italiano. Ma è destinata a produrre risultati mediocri quando l’altro Stato, come nel caso di alcuni Paesi nord-africani, controlla male il proprio territorio, ha una frontiera meridionale porosa ed è lieto di sbarazzarsi di persone che aggravano la sua situazione sociale.

Il solo accordo che ha qualche possibilità di funzionare è quello con la Libia. È un bell’accordo? No. Non ci piace che i migranti vengano inviati in un Paese dove saranno trattati, nella migliore delle ipotesi, con una rude indifferenza. Non ci piace che il governo italiano abbia respinto in tal modo anche coloro che avevano il diritto di chiedere asilo; e il presidente della Camera ha fatto bene a ricordare che il problema non può essere eluso. Ma l’accordo con i libici, purché osservato da Tripoli, è il solo che abbia qualche possibilità di scoraggiare il traffico di carne umana sulle coste del Mediterraneo.

L’opposizione non può dimenticare che l’Italia, come la Spagna, è il più esposto e il più vulnerabile dei Paesi mediterranei. Siamo desiderabili perché siamo vicini, abbiamo un lunghissimo confine marittimo e apparteniamo al "sistema di Schengen ", vale a dire a una grande area in cui il controllo dei passaporti è stato abolito.

Sperare che l’Italia possa difendersi dall’immigrazione clandestina con gli strumenti di cui si servono i Paesi meno vulnerabili è una illusione. Se può essere di qualche consolazione ricordo che gli Stati Uniti adottano verso i profughi cubani (una categoria che dovrebbero trattare con particolare benevolenza) la stessa politica: li accolgono se sono riusciti a sbarcare, li cacciano se vengono fermati in mare.

Il Partito Democratico, quindi, non può limitarsi a criticare. Se vuole essere credibile deve accettare l’ipotesi dei respingimenti, magari con maggiori controlli italiani e internazionali sui campi dei rifugiati in territorio libico, o chiedendo, nello spirito delle dichiarazioni di Fini, che le domande d’asilo vengano raccolte e verificate in Libia. Gli sarà più facile, in tal modo, cercare di correggere quelle parti della legge sulla sicurezza che puzzano di xenofobia e rispondono alle idiosincrasie della Lega piuttosto che alle reali esigenze del Paese.

Immigrazione: Onu; grave preoccupazione per i respingimenti

 

www.unimondo.org, 13 maggio 2009

 

"Grave preoccupazione" per il rinvio in Libia degli immigrati intercettati in mare diretti in Italia. L’ha espressa il portavoce del Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon che ha sostenuto la missiva dell’Unhcr al Governo italiano. Farhan Haq, portavoce del Segretario generale, ha ribadito che l’Unhcr è la "voce guida dell’Onu per quanto concerne i rifugiati, e i rapporti con Roma su questo tema saranno gestiti dallo stesso commissariato, nella persona del suo alto rappresentante, Antonio Guterres". Haq ha precisato che il Palazzo di Vetro di New York, che è in contatto quotidiano con l’agenzia dei rifugiati, "rispetta la richiesta contenuta nella lettera dell’Unhcr al governo italiano".

Ieri, in una lettera inviata al governo italiano dall’Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati pur riconoscendo che "l’immigrazione irregolare rappresenta una difficile sfida per l’Italia e gli altri paesi dell’Unione Europea", continua tuttavia ad esprimere "forte preoccupazione per la politica attualmente adottata dall’Italia che mina l’accesso all’asilo nell’Ue e che rischia di violare il principio fondamentale del non-respingimento contenuto nella Convenzione del 1951 sullo status di rifugiato, nella legislazione dell’Ue così come in altre convenzioni internazionali sui diritti umani". "Il principio di non respingimento - sostiene l’Unhcr - non comporta alcuna limitazione geografica. Gli stati sono obbligati a rispettarlo in qualunque luogo nel quale esercitino la loro giurisdizione, mare aperto incluso".

Le preoccupazioni dell’Unhcr sono acuite dal fatto che la Libia non ha firmato la Convenzione sullo status di rifugiato del 1951 e non possiede una legge sull’asilo né un sistema di accoglienza e protezione dei rifugiati. "Non esiste quindi alcuna garanzia sulla possibilità di ottenere protezione internazionale in Libia da parte di chi ne ha titolo".

Ciò nonostante, l’Unhcr sta facendo il possibile per fornire assistenza umanitaria e di base ai migranti rinviati in Libia dall’Italia. L’Alto Commissario "si appella al governo italiano affinché riammetta sul proprio territorio coloro che sono stati rimandati indietro dall’Italia e che sono stati identificati dall’Unhcr come richiedenti asilo. Le loro domande di asilo sarebbero quindi vagliate in conformità alla legge in Italia".

L’Unhcr, inoltre, sottolinea che "il 75% circa dei 36.000 migranti sbarcati sulle coste italiane nel 2008 - due su tre - ha presentato domanda d’asilo, sul posto o successivamente, mentre il tasso di riconoscimento di una qualche forma di protezione (status di rifugiato o protezione sussidiaria/umanitaria) delle persone arrivate via mare è stato di circa il 50%". "Nel 2008, il maggior numero di domande di asilo in Italia è stato presentato da cittadini provenienti dalla Nigeria, seguiti da persone in fuga dalla Somalia e dall’Eritrea, dall’Afghanistan, dalla Costa d’Avorio e dal Ghana".

Padre Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli di Roma, sede italiana del Jesuit service refugee, l’organismo dei Gesuiti che si occupa dell’accoglienza dei profughi in diversi Paesi del mondo, ha invitato le forze politiche ad "andare a visitare i lager in Libia". "I campi di raccolta degli immigrati sono dei lager, abbiamo diverse testimonianza di donne violentate, mentre molti immigrati sono ricattati dalle guardie che chiedono denaro, e non si tratta di fatti isolati".

Per questo, dice, "A chi oggi esulta chiediamo di andare a vedere cosa accade in Libia prima di esultare. Peraltro - spiega il gesuita - non bisogna dimenticare che in Libia la gente di colore viene discriminata". Infine padre La Manna ha sollevato la questione degli accordi con la Libia che - come afferma il Tavolo Asilo - "non lascia grande spazio alla tutela concreta dei diritti umani".

Oggi si terrà il voto alla Camera blindato dalla fiducia sui tre maxiemendamenti del contestato disegno di legge sulla sicurezza, che tra l’altro introduce il "reato" di immigrazione clandestina che scatta per chiunque soggiorni in Italia senza avere i documenti in regola, nonché l’estensione da due a sei mesi del periodo massimo di soggiorno nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) e la reintroduzione della norma che autorizza le "ronde" di associazioni di cittadini. Critiche anche nei confronti dell’articolo che impone agli stranieri di esibire il permesso di soggiorno per accedere a un’ampia gamma di prestazioni pubbliche.

Le associazioni della società civile hanno ripetutamente espresso forti critiche sul "pacchetto sicurezza" e, più di recente, sulla decisione del Governo di porre la fiducia sulla votazione. Diverse associazioni cattoliche hanno anche chiesto ai parlamentari "di far ricorso, di fronte all’impossibilità di una discussione in aula, allo strumento dell’obiezione di coscienza".

Immigrazione: ecco i "delinquenti" che vengono con i barconi

di Mariagrazia Gerina, Massimiliano Di Dio e Cesare Buquicchio

 

L’Unità, 13 maggio 2009

 

Il presidente del consiglio Berlusconi dice che sui barconi che in queste ore vengono respinti dalla Marina italiana "ci sono persone reclutate in maniera scientifica dalle organizzazioni criminali", dice che pochissimi di loro "hanno i requisiti per chiedere il diritto d’asilo". Si sbaglia. Su quei barconi c’è stato Tedros, 30enne eritreo laureato ed incarcerato perché non allineato al partito al potere. Proprio ieri ha avuto i documenti da rifugiato politico. C’è stato Saied, adolescente afgano fuggito dalla guerra. C’è stata Aisha scappata dall’Eritrea e picchiata e violentata per mesi in un centro di detenzione in Libia. Ecco le loro storie.

Tedros. Tedros ha 33 anni, è laureato in scienze sociali e nel suo paese, l’Eritrea, si occupava di educazione e assistenza alle persone disabili. È arrivato in Italia l’estate scorsa, il 30 luglio 2008, a bordo di una delle carrette del mare su cui secondo Berlusconi ci sarebbe solo "gente reclutata dai criminali". Sulla sua carretta erano in ventisei, uomini, donne e un bambino. Prima l’arrivo a Lamepedusa, poi il trasferimento nel centro d’accoglienza per richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto, alle porte di Roma. Proprio ieri il governo italiano gli ha consegnato i documenti che gli consentiranno di restare in Italia come rifugiato politico. Altri, arrivati con lui, stanno ancora attendendo di essere ascoltati dalla Commissione che esamina le richieste d’asilo.

Non esattamente un criminale. E nemmeno un sovversivo. Tedros, Tedy per gli amici, dopo la laurea, come il governo eritreo impone, si è iscritto al partito unico, il Pfdj che sta per "People front for Democracy and Justice": "Il nome è buono, il resto meno ed è richiesta assoluta obbedienza ai dettami del partito", racconta Tedros, che ha scontato con 8 mesi di carcere l’essere stato giudicato, con un pretesto qualsiasi, non sufficientemente allineato. Uscito da lì, è iniziata la sua fuga. Sulle orme della moglie, che, in Italia dal 2004, lo aveva preceduto nel tragitto dall’Eritrea alla Libia a Lampedusa. Ora lei fa la colf a Genova, e anche lui, con i documenti in tasca, potrà cercare lavoro.

Abdul. A trent’anni A.H. ha detto basta. Non voleva più né fare la guerra né subire le vessazioni e le torture del governo sudanese. Per questo è fuggito dal Darfur. Lo chiameremo Abdul, nome di fantasia, perché quel che resta della sua famiglia è rimasto in Sudan e le ritorsioni non sono finite per loro.

Tutto comincia quando A.H. viene spedito al fronte, dove si muore e Abdul che è di una tribù ostile al governo centrale subisce continue vessazioni. Dopo tre anni in divisa chiede una licenza e lo sbattono in un carcere militare dove subisce ogni specie di tortura. Quando viene ferito non gli permettono di riabbracciare i suoi. E quando fugge a casa i militari vanno a riprenderselo. Al suo posto arrestano il padre: lo torturano e lo uccidono. E dopo di lui uccidono i suoi fratelli. Nessuno rivela dove si nasconde Abudl, che solo un anno fa, attraversando il deserto a piedi e penando per guadagnare i 1200 euro da consegnare ai trafficanti egiziani, riesce a scappare in Italia, dove chiede l’asilo. Il Centro italiano per i rifugiati, che ha raccolto la sua storia, lo assiste. E alla fine Abudl ce la fa. E se la Marina lo avesse respinto?

Saied. Saied è partito dall’Afghanistan che aveva 9 anni e, tappa dopo tappa, ha percorso l’intera odissea dei ragazzi afghani in fuga dalla guerra. Aveva 18 anni Saied, quando, 2 anni fa, nascosto sotto un camion proveniente dalla Grecia, ha raggiunto la destinazione finale: Italia. Anzi, più precisamente: Roma. "Dalla stazione Termini, prendere il 175, scendere alla stazione Ostiense", recitavano con precisione le istruzioni. Pakistan, Turchia, Grecia. Ogni tappa un espediente per mettere da parte i soldi, pagare i trafficanti e proseguire il viaggio fino all’approdo finale, sulle panchine di piazzale Ostiense diventata ormai l’ambasciata on the road della diaspora afghana. Da lì, il passa-parola l’ha portato fino al Centro Astalli, il centro per rifugiati gestito dai gesuiti. Ora Saied, che, rifugiato politico, ha imparato l’italiano e studia per prendere la licenza media, fa il mediatore culturale, ha uno stipendio e da un paio di mesi vive in un appartamento.

Aisha. "Sono scappata dall’Eritrea perché non volevo essere reclutata nell’esercito e mandata nella guerra senza fine contro l’Etiopia. I miei fratelli e sorelle erano nell’esercito e non sono mai più tornati a casa. - a raccontare questa storia è una donna eritrea, la chiameremo Aisha, lei l’ha raccontata a Medici Senza Frontiere in uno dei centri di detenzione per immigrati di Malta ed è raccolta nel rapporto "Not Criminals" -. In Libia sono stata messa in un centro di detenzione dove sono stata violentata e picchiata diverse volte. Sono stata trattata come una schiava dalle guardie e dai soldati. Sono stata una schiava per due anni e non avevo possibilità di fuga - spiega Aisha -. Quando mi sono imbarcata speravo di diventare libera. Poi quando sono stata rinchiusa in un centro di detenzione a Malta ho perso la speranza e ho avuto problemi cardiaci e gastrici. I ricordi delle violenze e delle botte sono riaffiorati ed è stato difficile stare in quel posto con tante altre persone".

Mohammed. "Lavoravo come camionista per un’azienda statale impegnata nella ricostruzione dell’Afghanistan. Era il 7 maggio di due anni fa, un gruppo di talebani ha rapito me e altri quattro colleghi. Tre di loro sono stati uccisi. I loro cadaveri sono stati lasciati davanti al palazzo dove lavoravamo". Mohammed, quarantenne afghano, è salvo per miracolo. "Mio zio ha pagato 10mila dollari per liberarmi". Chi ha ucciso i suoi colleghi, però, non dà garanzie per la sua vita futura. E così, alcuni mesi dopo, lui decide di lasciare per sempre il suo paese. Un viaggio lungo, fatto di stenti e paura. Prima l’Iran, poi la Turchia. "A Istanbul - ricorda - ho preso un gommone e siamo riusciti a raggiungere le acque territoriali della Grecia ma siamo stati respinti dalle autorità locali. Ci hanno fatto buttare tutti i nostri vestiti e soldi, ho perso il mio passaporto, la patente e 700 euro". Il gommone cerca di tornare indietro ma la polizia turca lo respinge. Mohammed teme di morire in mare ma alla fine è la Grecia a dare ospitalità a lui e a suoi connazionali. "Ci hanno portato in un campo dove siamo rimasti per sette giorni, dicevano che non era possibile fare richiesta di asilo, che dovevamo andare ad Atene". Ed è lì che l’uomo si dirige senza scarpe, con soli pochi indumenti addosso. Denuncia anche violenze da parte della polizia. "Per nessun motivo - rivela - mi hanno colpito sulla testa con un bastone elettrificato e sono caduto". Si risveglia con un braccio rotto in un ospedale, Mohammed. "Avevo paura di avvicinarmi alle autorità per chiedere asilo, così ho pagato un trafficante: 2500 euro per potermi nascondere dentro un tir che ha attraversato il mare in una nave". Lo sbarco a Venezia solo il 13 marzo scorso.

Ike. "Ero un insegnante di matematica - racconta ancora Ike, somalo, nel rapporto "Not Criminals" -. Tre dei miei colleghi sono stati uccisi, la mia scuola è stata chiusa e ho perso il mio lavoro. Sono scappato dalla Somalia perché la mia casa non era più sicura, una mina è esplosa vicino alla mia casa e mi ha ferito. Altrimenti sarei restato, non sarei arrivato qui".

Titty. Titty è giovanissima, ha 21 anni ed è un disertore. In Eritrea anche le donne sono costrette ad arruolarsi e mentre indossano la divisa spesso sono costrette a subire violenza sessuale da parte dei militari uomini. Da tutto questo Titty è fuggita, a bordo di un camion stracarico ha varcato il deserto. Eritrea, Sudan, Libia. E da lì è salpata per l’ultimo viaggio, a bordo di una delle carrette che Berlusconi vuole respingere perché piene di "gente reclutata da criminali". Titty che non si è fatta reclutare nemmeno dall’esercito eritreo a Lampedusa è sbarcata un anno fa. In questi dodici mesi ha imparato l’italiano, ha frequentato un corso per operatore socio-assistenziale, ha incontrato un ragazzo eritreo. Il governo italiano non le ha riconosciuto il diritto all’asilo ma le ha assicurato comunque una "protezione sussidiaria".

Sama. "Ho attraversato il deserto per sfuggire alla violenza della Somalia e ho raggiunto Tripoli quando la mia gravidanza era quasi al termine - racconta Sama anche lei in fuga dalla guerra e in cerca di un futuro per sua figlia -. Il giorno della mia partenza ho comprato un paio di forbici nuove e le ho custodite con cura. Volevo che restassero pulite. Mia figlia è nata il primo giorno di barca. Un uomo e una donna mi hanno assistita durante il parto: lui mi bloccava le braccia; lei ha tagliato il cordone ombelicale con le mie nuovissime forbici. Eravamo in 77 su quella barca, eravamo talmente schiacciati che non riuscivamo nemmeno a muoverci. I giorni successivi il mare era agitato. L’uomo e la donna si tenevano stretti a me e io stringevo forte a me mia figlia, temevo potesse finire in mare. Nei quattro giorni successivi abbiamo sofferto molto per la mancanza di cibo e acqua, anche mia figlia perché il mio seno era stato asciugato dalla paura e la fame".

Adam. Adam ha poco più di vent’anni. È sudanese. Come Abdul faceva il soldato, nel Darfur. Costretto ad arruolarsi, è scappato dall’esercito e dal suo paese per sottrarsi alla guerra. In Italia è arrivato cinque anni fa in gommone, gettato dagli scafisti libici sulle coste di Lampedusa. Adesso lavora all’Ikea, dove è stato assunto a tempo indeterminato, e vive a Roma, in una casa in affitto.

Sahra. Non ricorda il momento in cui ha deciso di scappare. Sahra, 32 anni, somala, sa però che tutto è avvenuto in nome della guerra. Aveva 16 anni. "Le ragazze venivano violentate da gruppi di dieci, venti uomini" racconta. "Per proteggermi, mio padre mi chiese di sposare un uomo più grande di me. Non ne ero innamorata, tuttavia mi sentivo più sicura, avemmo anche un figlio". Un giorno, "quel maledetto giorno", Sahra attendeva il suo secondo figlio. "Sono tornata a casa e la nostra abitazione non esisteva più" sussurra. "Sotto le macerie ho visto le teste del mio bambino, di mio padre". Forse è in quel momento che la donna decide di lasciare la Somalia. "Non avevo soldi né cibo, dormivo in strada, dovevo difendermi dagli animali, dagli uomini". Al sesto mese di gravidanza, Sahra inizia il suo lungo viaggio verso il Sudan. Per un tratto, l’aiutano alcuni giovani connazionali. "Rimasi per giorni nel deserto con una bottiglia d’acqua e alcune fette biscottate. La fame mi provocava forti dolori allo stomaco, il feto nella pancia cresceva ed io ero magra, disidratata". Partorisce per miracolo mentre attraversa altri stati africani. "Ero convinta di non riuscire a sopravvivere, toccandomi sentii il capo e i capelli della creatura. Nacque all’improvviso, ma la spinta fu tanto violenta da far sbattere la testa alla neonata. Le feci un nodo al ‘cordolinò per non fare uscire più il sangue, proprio come mi aveva detto mia madre. Pensavo fosse morta, non piangeva né si muoveva. Dopo un po’, forse ero svenuta, la toccai. Era viva. Decisi di chiamarla Iman, in onore del nostro Dio".

L’ultimo approdo è in Libia dove Sahra e la piccola Iman trovano l’aiuto anche di un medico italiano. È lui a pagare i mille dinari necessari per farla imbarcare per l’Italia. "Eravamo oltre cento persone - ricorda -. Ogni giorno moriva qualcuno. Sul fondo della barca c’era acqua, pensavo che non ce l’avremmo fatta ma per fortuna ci avvistò un aereo.

Fummo trascinati fino a Lampedusa e una volontaria si prese cura di me e mia figlia". La piccola viene però affidata a una famiglia. Le gravi difficoltà economiche di Sahra sono un ostacolo insuperabile per i servizi sociali. Tuttora la donna la vede mezz’ora, una volta al mese. È proprio questa la sua nuova battaglia.

India: l’On. Zamparutti ha visitato Angelo Falcone nel carcere

 

www.newsitaliapress.it, 13 maggio 2009

 

Il padre, Giovanni Falcone e il deputato Elisabetta Zamparutti chiedono di commutare il diritto di visita nella possibilità di fare o ricevere telefonate dall’Italia.

"Ho visto Angelo dopo un anno e mezzo, l’ultima volta era novembre del 2007. Erano circa 5 mesi che non parlavo con lui perché le autorità indiane mi impediscono di telefonargli. Bisogna risolvere questa situazione".

Lamenta Giovanni Falcone, il padre del giovane Angelo condannato a 10 anni di carcere in India in primo grado insieme all’amico Bobbio Simone Nobili per possesso di stupefacenti, 18 chili di hascis. Di ritorno dalla visita al figlio nella prigione di Nahan nell’India settentrionale, l’ex carabiniere afferma: "Fisicamente sta bene. Anche rispetto alla foto fatta un anno fa sta meglio. Il problema principale è la mancanza di contatti con la famiglia. L’autorizzazione per ricevere delle telefonate in carcere deve arrivare dal ministero indiano".

Una questione di cui si sta occupando la deputata radicale eletta nelle liste del Pd e leader del movimento "Nessuno tocchi Caino", Elisabetta Zamparutti che ha accompagnato Giovanni per verificare le condizioni di detenzione a Nahan di Angelo e del suo compagno di sventure Simone Nobili, oltre che di un terzo, Vincenzo Minuno, e di un quarto, Franco Terzi, detenuto ad Ambala. "Per Angelo e Simone - dichiara il deputato - l’attesa dell’appello è una prospettiva che li fa ancora sperare. Sono, comunque, psicologicamente tesi".

La Zamparutti continua riferendo le condizioni nelle quali ha trovato i due connazionali: una cella di due metri per due metri e mezzo, niente branda per dormire e pasti a base di riso e lenticchie. "Possono lavarsi, ma non è garantita l’acqua calda". Il leader del movimento "Nessuno tocchi Caino" sottolinea poi come "prima di tutto i detenuti stranieri sono penalizzati rispetto a quelli locali, che hanno diritto a visite periodiche, e dovrebbero almeno essere autorizzati ad una telefonata settimanale. Alternativa che il giorno della visita è stata concessa con una telefonata alla madre di Angelo Falcone".

"Su questo fronte stiamo lavorando - ribadisce la Zamparutti -, ma serve anche la pressione del Governo italiano. Ho presentato un’interrogazione al ministro Frattini e ho parlato anche col ministro Alfano. È essenziale che in caso di condanna definitiva di Falcone e Nobili, i nostri connazionali possano scontare la pena in Italia, ma il problema centrale è che con l’India non esiste alcun trattato di estradizione o rientro: è una lacuna da colmare".

Situazione diversa, invece per Franco Persi. "Anche è in attesa di appello, ma è risiede da anni in India ed è sposato con una neozelandese. Ormai la sua vita è lì". Altra battaglia combattuta dal padre di Angelo Falcone è quella mediatica. "Io sono sempre in attesa che - conclude Giovanni - qualche programma televisivo importante si occupi della vicenda. Non bisogna dimenticarsi degli italiani nelle carceri del mondo. Noi paghiamo il canone e le tasse abbiamo il diritto di sapere cosa succede".

 

 

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