Rassegna stampa 3 giugno

 

Giustizia: indice globale della pace, Italia scende al 36° posto

di Nicol Degli Innocenti

 

Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2009

 

La crisi economica e finanziaria ha reso il mondo più precario e più violento, secondo il Global Peace Index pubblicato oggi. L’intensificarsi della tensione sociale e anche dei conflitti in molti Paesi è direttamente collegabile all’inasprirsi delle condizioni economiche e all’aumento dei prezzi dei generi alimentari e del carburante, ha affermato stamani a Londra Steve Killelea, fondatore dell’Indice globale della pace.

Lo dimostra il caso dell’Islanda, che lo scorso anno era al primo posto in classifica grazie alla sua stabilità politica e sociale mentre quest’anno è scesa al quarto posto in seguito alla crisi finanziaria e al suo impatto politico. Anche l’Irlanda, che ha subito un brusco rallentamento dell’economia, è retrocessa di sette posizioni uscendo dai "top ten".

In prima posizione c’è ora la Nuova Zelanda, seguita da Danimarca e Norvegia. I Paesi scandinavi dominano la parte alta della classifica, stilata secondo criteri stabiliti dall’Economist Intellligence Unit, mentre in ultima posizione c’è l’Iraq accompagnato da Afghanistan, Somalia, Israele, Sudan e Congo.

L’Italia è retrocessa di tre posizioni al trentaseiesimo posto, alle spalle della Gran Bretagna. Gli Stati Uniti sono all’83esimo posto su un totale di 144, peggio di Cuba, dell’Ucraina o della Bolivia, a causa dell’aumento della criminalità, della grande diffusione delle armi, dell’elevato numero di detenuti e della presenza militare all’estero.

La "discrezione" e quasi invisibilità delle forze armate, unita alla stabilità sociale, spinge in alto il Giappone, che è al settimo posto in classifica piazzandosi primo tra i Paesi del G7, di fronte al Canada. Bosnia Erzegovina, Egitto e Angola hanno registrato il più sensibile miglioramento nell’ultimo anno, mentre Madagascar, Lettonia, Messico e Sudafrica hanno subito il calo più verticale.

"Le cause della pace stanno diventando chiare e il beneficio economico per l’umanità è notevole, - ha rilevato Killelea. La pace ha un valore economico oltre a un reale valore umanitario. La nostra ricerca stima che l’impatto della mancanza di pace per l’economia globale sia di 48mila miliardi di dollari in dieci anni".

Giustizia: per 44% degli italiani nei partiti politici c’è corruzione

 

La Repubblica, 3 giugno 2009

 

I risultati della ricerca del Transparency International Italia. La sfiducia nei politici è forte. Soprattutto nel nostro Paese. Corruzione, i partiti battono tutti ma in pochi decidono di denunciare. Pochi credono che le misure di contrasto servano a qualcosa.

In testa alla classifica ci sono i partiti politici. E la cosa non suona come una novità. Stando ai dati del "Barometro della corruzione globale", nel mondo e in particolare nel nostro Paese, il binomio politica-mazzette appare sempre più solido. Le cifre parlano chiaro: alla domanda su quale organizzazione sia in assoluto la più corrotta in Italia, il 44% ha risposto i partiti politici. Complessivamente settore privato, Parlamento, media e magistratura non arrivano al 30%. Nessuno, insomma, è immune dalla corruzione. I dati parlano chiaro: in una scala che va da zero (assenza di corruzione) a cinque (estremamente corrotto), i partiti arrivano a 4,1; il privato a 3,2, i media a 3,4 e la magistratura a 3,5.

L’indagine condotta dal Transparency International ha coinvolto 73mila persone in 69 nazioni. A tutti è stato chiesto che tipo di percezione avessero della corruzione e come questa influenzasse le loro vite. I risultati vedono il primato, tutt’altro che invidiabile, dei partiti politici. Sono loro l’istituzione più corrotta. Ma anche il privato ha poco da sorridere. Rispetto a cinque anni fa, l’aumento è stato dell’8%. Ed ancora: più della metà degli intervistati considera la corruzione come un mezzo di pressione illecita ma assolutamente praticato da parte dei privati, per influenzare le politiche governative. Mazzette, dunque. Che più del 10% ammette di aver pagato (un quarto alla polizia).

Significativa poi la tabella che spiega quali siano i settori più colpiti dalla corruzione a seconda delle nazioni. I partiti politici si piazzano in testa, tanto per citare solo alcuni Paesi, in Argentina, Italia, Cile, Serbia, Gran Bretagna, India, Venezuela, Ungheria, Israele. Il settore provato viene additato nel Brunei, Pakistan Spagna, Svizzera, Danimarca, Norvegia. I magistrati prevalgono in Armenia, Bulgaria, Macedonia, Kosovo, Perù, Senegal e Uganda. Mentre il Parlamento si aggiudica il primato negli Stati Uniti, Panama, Romania e Indonesia.

Se poi si passa alla percentuale di quanti cittadini sono stati costretti a pagare una mazzetta negli ultimi 12 mesi, si vede che in testa si piazzano saldamente il Camerun, la Liberia, la Sierra Leone e l’Uganda. Altro aspetto da segnalare il paragone tra la ricerca fatta nel 2006 e quella odierna. L’aumento è generalizzato, in particolare quello che riguarda la giustizia dove c’è una crescita della corruzione di 6 punti percentuali.

A fronte di questo, inoltre, spicca un dato preoccupante. Pochissimi decidono di denunciare. Tre quarti delle persone testimoni di comportamenti illeciti hanno tenuto la bocca chiusa. Una tendenza legata alla sfiducia nei confronti delle politiche governative contro la corruzione: solo il 31% le considera efficaci, contro un 56% che non le lega ad alcune risultato. In Italia, poi, le cose vanno ancora peggio: solo il 16% reputa efficace il contrasto, mentre il 69% lo giudica totalmente inefficace. Una cifra ben al di sopra della media europea che vede il 24% soddisfatto (+8% rispetto all’Italia) e il 56% del tutto insoddisfatto (-13% rispetto all’Italia). Da notare, infine, che mentre in Italia solamente il 7% degli intervistati ritiene che il settore privato sia corrotto, la media europea è del 23% (+16%), con picchi di oltre il 50% nel nord Europa.

Giustizia: Alfano; dopo elezioni, al via riforma e piano carceri

 

Il Messaggero, 3 giugno 2009

 

"Separazione degli ordini di giudici e pm, nuova composizione del Csm, intercettazioni: subito dopo le elezioni", dice il ministro della Giustizia Angelino Alfano.

 

La giustizia italiana è ancora molto lenta, lontana da quella dei maggiori paesi europei, qual è il rischio?

"L’Italia ha già subito numerose condanne per la lentezza della sua giustizia alla quale stiamo cercando di rimediare attraverso Internet e la semplificazione delle procedure nel processo civile, attraverso il filtro per evitare che tutto e sempre vada in Cassazione, punendo la parte che gioca ad allungare i tempi del processo, favorendo le soluzioni extra processuali come la conciliazione civile. È uno sforzo ciclopico, ovviamente di legislatura e anche oltre. Stiamo procedendo e le riforme nel loro insieme sono ben delineate".

 

Riforme annunciate ma non ancora fatte?

"No. Molte già fatte. Approvate le norme antimafia nell’articolo 2 del ddl sicurezza abbiamo già fatto il più grande pacchetto di contrasto alla mafia dai tempi di Falcone al ministero della giustizia. Al centro vi è, ed è stata riconosciuta questa come la base per le conclusioni del G8, l’aggressione ai patrimoni mafiosi. Abbiamo approvato la riforma del processo civile. Il processo penale pende in commissione giustizia al Senato e dopo le elezioni avrà una importante accelerazione. Abbiamo in cantiere la riforma delle professioni (avvocati, notai, commercialisti) e tutto questo sarà inscritto dentro la cornice della riforma della Costituzione. Subito dopo le elezioni porrò la questione della riforma della giustizia in ambito costituzionale al presidente del Consiglio e ai due partiti della coalizione, Pdl e Lega".

 

Nel G8 dei ministri dell’Interno e della Giustizia quali soluzioni sono scaturite per contrastare la minaccia del terrorismo internazionale e quella della pirateria sui mari?

"È stato un G8 della concretezza perché su ciascun tema si è individuata una modalità di collaborazione importante. Contro il terrorismo è centrale la cooperazione e lo scambio di informazioni tra le forze di polizia e la mutua collaborazione tra i Paesi. L’obiettivo è quello di identificare i luoghi dove avviene la radicalizzazione dello scontro e le connessioni tra il traffico di armi e le organizzazioni terroristiche. Per la lotta alla pirateria, che l’Italia ha chiesto di inserire tra i temi del G8, è necessaria una collaborazione internazionale, anche includendo l’utilizzo delle Corti esistenti e la possibilità dell’istituzione di nuove Corti internazionali. Il problema è come poter processare i pirati dopo il loro arresto e come poter confiscare i beni da essi illegittimamente acquisiti".

 

Sui respingimenti il governo manterrà la linea dura?

"Ci troviamo in una condizione paradossale. Se le frontiere fossero una groviera alimenteremmo il senso di insicurezza come ha fatto la sinistra quand’era al governo. Volendo impedire questo, occorre fare quel che ha fatto il governo Berlusconi con accordi internazionali che rendano il respingimento come l’estrema ratio. È chiaro che la prima misura è quella di bloccare le partenze. Quando il centro di Lampedusa era pieno si gridava allo scandalo per il mancato funzionamento degli accordi con la Libia ora che il centro di Lampedusa è vuoto si grida allo scandalo contro i respingimenti".

 

Come assicurare il diritto d’asilo?

"Nella recente polemica con Malta, l’Italia si è fatta carico di doveri umanitari pur non avendo in quel caso specifico un obbligo. È chiaro che l’Italia è una Repubblica libera e sovrana, con delle regole che devono essere rispettate da tutti coloro che vogliono venire a viverci. Porremo al Consiglio Gai (dei ministri della giustizia e degli Interni) di domani e venerdì la questione che l’Europa deve essere viva e presente nel riconoscere all’Italia la particolarissima condizione di Stato confine. Lampedusa, Porto Empedocle, non sono il confine solo dell’Italia, ma quello dell’Europa che deve dimostrare di esistere. Anche i negoziati hanno dei costi e non possono essere addossati solo all’Italia che è paese di frontiera e di transito".

 

Nel ddl sulle intercettazioni che il 9 giugno prossimo va al voto dell’aula di Montecitorio resteranno il carcere per i giornalisti e le pesanti sanzioni per gli editori?

"L’obiettivo è quello di salvaguardare la privacy dei cittadini senza tagliare le unghie ai magistrati inquirenti. Di questo strumento si è fatto abuso e la spesa è andata fuori controllo, occorre fissare regole che siano davvero osservate. Il codice dice che si possono disporre le intercettazioni se sono "assolutamente indispensabili per la prosecuzione delle indagini". Ma evidentemente c’è stato un abuso della norma che ha portato a una spesa fuori controllo. Spero che il ddl sia approvato in tempi rapidi".

 

Qual è il suo prossimo obiettivo?

"La nuova sfida che dobbiamo affrontare è l’abbattimento dell’arretrato delle cause civili e penali. Per fare correre la giustizia bisogna smaltire questa pesante zavorra di arretrato, nonostante le riforme fatte è difficile immaginare che si possa accelerare se non si abbatte il peso dei vecchi processi".

 

Le carceri sono di nuovo stracolme, come farà ad evitare che esplodano?

"Ho ricevuto dal capo dell’amministrazione penitenziaria l’ipotesi del piano straordinario che presto porterò al Consiglio dei ministri per dare il via alla più grossa ristrutturazione penitenziaria mai fatta in Italia. Mi rendo conto che è un tentativo ambizioso e per questo stiamo coinvolgendo i privati. Abbiamo già preso contatti coi vertici della Confindustria per far sì che i privati abbiano ruolo e responsabilità nello svolgimento di questo importante compito".

 

Ministro Alfano, personalmente, che idea si è fatto sulle accese polemiche di questi giorni al premier Berlusconi?

"Ho lavorato al suo fianco per anni prima di diventare ministro ed è l’esatto contrario di come la sinistra del pettegolezzo vuol presentarlo. È sotto gli occhi di tutti quel che si verifica alla fine di ogni suo intervento pubblico: un’indescrivibile numero di ragazze e ragazzi letteralmente gli saltano addosso, gli stringono la mano, gli chiedono autografi, appuntamenti. Del resto basti vedere il numero di club spontanei che sorgono attorno alla sua figura (come "Meno male che Silvio c’è") per rendersi conto di come tutto questo entusiasmo abbia poi una traduzione politica immediata".

 

Siamo a tre giorni dal voto per il Parlamento europeo: che cosa accadrà?

"Noi speriamo di rappresentare il più grande gruppo dentro il Ppe e rileviamo che la sinistra non ha detto a quale gruppo parlamentare iscriverà i propri eurodeputati. Cioè mandano i propri in Europa con destinazione ignota. È la prova che non sono in grado di scegliere tra le grandi famiglie europee: quella popolare e quella socialista".

Giustizia: Franceschini; la riforma? purché non sia "vendetta"

 

Agi, 3 giugno 2009

 

"Affronteremo tutti questi argomenti in Parlamento anche in tema di giustizia. Purché non ci sia un intento vendicativo. Una cosa è far funzionare la giustizia, una cosa è vendicarsi dei magistrati. Il problema della giustizia in Italia non è come vengono trattati i potenti, che sanno difendersi da soli, ma come vengono trattati i cittadini, con processi che richiedono dieci anni, detenuti innocenti e costi enormi". Così il segretario del Pd, Dario Franceschini, ha risposto a Radio anch’io a una domanda sulle affermazioni del ministro della Giustizia circa le prossime riforme da attuare dopo il voto europeo.

Giustizia: sorteggio Csm; idea irrazionale e anticostituzionale

di Nello Rossi (Procuratore Aggiunto del Tribunale di Roma)

 

Il Riformista, 3 giugno 2009

 

Dopo il parlamento dei "nominati" il paese rischia ora di sperimentare il Csm dei "sorteggiati"? La voce circola con insistenza, senza smentite e prese di distanza. Il governo sarebbe pronto a proporre una riforma della legge elettorale dei membri togati del Csm imperniata sul "sorteggio" preliminare di una rosa ristretta di candidati - si dice cento - tra i quali i magistrati dovrebbero poi eleggere i loro rappresentanti. Pur filtrando dall’interno stesso della compagine governativa la notizia continua a suscitare incredulità. Almeno in chi ancora spera nella razionalità e nel buon senso della politica e non crede che sia consentito stravolgere, con espedienti grossolani, il testo e lo spirito della Costituzione.

Per quanto i sistemi elettorali conoscano infinite varianti - nella scelta dei collegi, nel calcolo dei voti, nell’attribuzione dei seggi - una elezione è una elezione. Presuppone una personale "vocazione" a candidarsi , espressa con l’accettazione della candidatura o con l’auto-candidatura; la disponibilità ad assolvere ad un compito diverso da quello normalmente svolto nella vita sociale e professionale; la consapevole assunzione di responsabilità per i risultati del proprio operato.

Il sorteggio degli eleggibili cancellerebbe tutto questo ed affiderebbe al capriccio del caso il primo e fondamentale momento del processo elettorale: la determinazione della platea delle persone tra cui l’elettore è chiamato a scegliere.

Una soluzione palesemente irrazionale, che restringerebbe preventivamente e senza criterio, le possibilità di eleggere i più adatti, i più meritevoli, i più motivati. Ed infatti nessuno si azzarda a proporre il sorteggio preventivo per altri tipi di elezioni o per selezionare i concorrenti ad una qualsiasi competizione di interesse pubblico (si tratti dell’ottenimento di un contratto o di un concorso).

Negando in radice l’essenza stessa del fenomeno elettorale, l’escogitazione "sorteggio degli eleggibili- elezione dei sorteggiati" entrerebbe poi in aperta rotta di collisione con la Costituzione che parla di "elezioni" vere, libere, aperte, realmente competitive, e perciò incompatibili con il marchingegno del sorteggio preventivo. Il progetto di depotenziare la rappresentanza del Csm aggirando - grazie ad un simulacro di elezioni - la viva sostanza del precetto costituzionale rischierebbe perciò di trasformarsi in un boomerang, come spesso accade alle mediocri astuzie.

Ai molti scontenti dell’attuale sistema elettorale del Csm, desiderosi di limitare il peso delle correnti, si può dunque consigliare di non infilarsi nel vicolo cieco di elezioni finte e di imboccare la via maestra. Ampliare al massimo l’offerta elettorale - consentendo la presentazione di liste di candidati sostenute anche da un numero esiguo di elettori - e lasciare all’elettore la massima libertà di scelta, prevedendo che una o più delle sue preferenze possano essere liberamente indirizzate verso i candidati meritevoli di liste diverse da quella votata.

Da un tale sistema emergerebbe, con ogni probabilità, una rappresentanza della magistratura più fedele, forte ed autorevole di quella attuale. Ma forse è proprio questo ciò che si vuole evitare.

Giustizia: al Csm voto di preferenza, per evitare le "correnti"

di Cosimo Maria Ferri (Componente del Csm)

 

Italia Oggi, 3 giugno 2009

 

Il 16 aprile 2009 la prima commissione del Csm aveva richiesto l’apertura di una pratica concernente le notizie stampa relative alla scarcerazione di 22 imputati di un maxiprocesso per il mancato deposito entro i termini di legge della motivazione della sentenza di primo grado da parte di una collega, già giudice del Tribunale di Bari e recentemente nominata presidente del locale tribunale per i minorenni.

La pratica si è ora chiusa con una delibera di archiviazione del procedimento non essendoci provvedimenti di competenza della prima commissione, con trasmissione degli atti ai titolari dell’azione disciplinare per quanto di loro competenza.

Personalmente ho votato contro il testo della delibera, non condividendo le motivazioni dell’archiviazione, basate sulla constatazione di una responsabilità estesa all’ufficio sotto il profilo del mancato controllo sui tempi di deposito della sentenza; è stato rilevato infatti che dal luglio 2008, e cioè dalla scadenza della proroga ultima del termine per il deposito, sino al febbraio 2009, epoca in cui la collega ha preso servizio presso il tribunale per i minorenni comunicando il mancato deposito delle motivazioni della sentenza, nessuno ha monitorato la situazione di ritardo nel deposito, con il risultato che in tutto quel periodo non vi sono stati nei confronti della stessa collega, impegnata nella stesura di una motivazione che riguardava 160 persone, né atti di sollecitazione, né provvedimenti (ulteriori) di sgravio totali o parziali da altre assegnazioni, che in qualche modo potessero far fronte alla emergenza processuale che si stava consumando.

La delibera non mi ha convinto poiché mi è apparsa troppo relazionata alla decisione assunta in sede di plenum di conferire un incarico direttivo alla collega, e porta nuovamente allo scoperto alcuni eccessi che si possono determinare a causa dell’influenza del correntismo interno alla magistratura, fino ad assumere (come in questa occasione) posizioni non del tutto neutre.

Alla collega coinvolta nell’episodio pugliese, la cui qualità professionale non è in discussione in questa sede, è infatti stato recentemente conferito dal Csm un incarico direttivo sulla base di una scelta guidata a mio avviso soprattutto da logiche correntizie. Alla luce dei fatti di oggi e del risalto che il "caso" delle scarcerazioni ha avuto sulla stampa, tale decisione rischia di manifestarsi come incomprensibile ovvero assunta quanto meno in modo affrettato, e ciò per almeno due ordini di motivi.

Il primo, di carattere più generale, riguarda la difficoltà con la quale la magistratura ed il Csm riescono a spogliarsi dell’influenza delle proprie correnti. Il secondo riguarda, più nello specifico, il difetto del Csm nel compiere le dovute verifiche e gli approfonditi controlli che dovrebbero caratterizzare le istruttorie di tutte le pratiche, in particolare di quelle che portano al conferimento di incarichi direttivi.

Ciò per dire che, evidentemente, nel caso in specie, il mancato deposito della sentenza oggi oggetto di polemiche era già ravvisabile e poteva e doveva costituire ulteriore elemento di valutazione ai fini della scelta per la nomina alla presidenza di un tribunale. In definitiva, a fronte di colleghi tutti di ottimo livello, la cosa più ragionevole era preferire il magistrato totalmente in regola con la diligenza professionale richiesta dall’art. 11 ord. giud, proprio con riferimento al rispetto dei tempi di deposito.

Detto questo non mi è apparso del tutto condivisibile, nella misura in cui non ha accennato a un minimo di autocritica, anche l’intervento di difesa con cui l’Anm ha preso posizione in merito. Sproporzionato nel suo non essere stato articolato evidenziando anche le mancanze cui, qualche volta, Csm e Anni, incorrono, se e quando si fanno sopraffare dalle pressioni delle correnti.

La riflessione su come superare gli eccessi del correntismo è da tempo oggetto delle attenzioni di ciascuno di noi. Per quanto mi riguarda, credo che essi debbano essere combattuti e superati non già attraverso una diversa rappresentanza quantitativa dei togati all’interno del Csm, ma piuttosto attraverso un revisione delle regole associative e dei sistemi di elezioni degli organi distrettuali e associativi tali da rendere davvero aperta a tutti, anche a prescindere dall’appartenenza alle correnti, l’Associazione nazionale magistrati e la possibilità di lavorare al suo interno.

Il lavoro portato avanti, negli ultimi anni, dal Csm in materia di nomine per incarichi direttivi attesta l’impegno svolto nella direzione di garantire, con solerzia, l’avvicendamento nelle posizioni apicali degli uffici giudiziari alla luce della nuova norma sulla temporaneità, fissata nel massimo di 8 anni di permanenza nell’incarico.

Bisognerà però insistere perché le decisioni assunte siano sempre più scevre dell’influenza esercitata dal correntismo interno all’organo di autogoverno: in un quadro ordinamentale ormai mutato, che conferisce al Csm il potere-dovere di esercitare con notevole ampiezza la propria discrezionalità nelle nomine dei dirigenti degli uffici, è assolutamente necessario adottare scelte obiettive, rigorose e inattaccabili.

Questo ulteriore precipitato dell’eccessivo spazio assegnato alle logiche correntizie ripropone, con forza, il problema di una modifica del sistema elettorale dei consiglieri togati del Csm: non già nel senso di ridurne il peso rispetto a quelli di estrazione laica, ma in direzione di un tendenziale affrancamento dall’influenza dei gruppi associativi nella scelta delle candidature. In tal senso, rivolgendomi anche alla magistratura associata, esprimo il mio invito a valorizzare e a discutere senza pregiudizi varie soluzioni alternative, fra cui quella di ricorrere, per la nomina dei membri togati del Consiglio, a un sistema elettorale in cui le candidature, anziché essere frutto delle designazioni delle segreterie dei gruppi associativi, siano determinate mediante sorteggio fra tutti gli appartenenti alla magistratura, in ragione di un numero ampiamente superiore a quello dei consiglieri togati; i candidati, così individuati, sarebbero comunque scelti dal voto degli elettori.

Tale soluzione, fra l’altro, avrebbe il pregio di salvaguardare il principio dell’elettorato passivo dei componenti provenienti dalla magistratura, stabilito dall’art. 104 e. 4 Cost., e darebbe comunque spazio alla volontà del "corpo elettorale" costituito da tutti i magistrati, che conserverebbero così il loro potere di scelta dei propri rappresentanti in Consiglio: tale scelta però, in questo modo (a differenza di adesso), potrebbe cadere su colleghi anche del tutto estranei alle correnti, ma non per questo meno validi e capaci. L’obiettivo di una simile riforma (che a mio avviso può costituire una interessante base di discussione) dev’essere, comunque, quello di restituire credibilità all’autogoverno dell’ordine giudiziario e di evitare che le degenerazioni correntizie espongano ulteriormente l’intera magistratura a polemiche dannose ed a rischi di delegittimazione.

Giustizia: su carceri "colpevole silenzio" di politici e magistrati

di Massimo Tomassini (Gip del Tribunale di Trieste)

 

Il Riformista, 3 giugno 2009

 

Siamo tornati ad una situazione simile, se non peggiore, a quella precedente la legge 241 in tema di indulto. Le carceri sono tornate ad essere sovraffollate, con conseguente impossibilità di gestione della popolazione detenuta in maniera conforme a quanto previsto dalla legge sull’Ordinamento Penitenziario.

I tassi di suicidi sono pure in aumento, e non si esagera nel dire che siamo di fronte a situazione potenzialmente esplosiva. Non stupisce il colpevole silenzio della politica al riguardo. Siamo, tra l’altro, in piena campagna elettorale, e si sa che un tema come quello del quale ci stiamo occupando è a dir poco impopolare.

Al tempo stesso si deve denunciare, con una certa amarezza, il silenzio assordante che sul punto la Magistratura anche associata ha in proposito serbato. Si è discusso dei presupposti per la carcerazione di un individuo; di gravi indizi di colpevolezza ed esigenze cautelari, ma veramente scarse sono le riflessioni su ciò che avviene dopo che un cittadino, specialmente se sconosciuto, materialmente entra in carcere. È quindi necessario ricordare con la massima forza possibile che la Magistratura, solo Organo dello Stato che può privare un cittadino della sua libertà, non può e non deve chiamarsi fuori dalla problematica della legalità all’interno di una qualunque struttura penitenziaria.

E per legalità intendiamo non solo le misure necessarie a che all’interno di dette struttura non si ripetano le dinamiche, spesso violente, che hanno portato taluni soggetti ad essere ristretti in prigione, ma anche quel complesso di diritti e di prerogative che l’Ordinamento, a partire dalla Costituzione per arrivare all’ultima delle circolari, garantisce proprio ai detenuti.

La Magistratura non può accettare che esistano "zone franche" ove la Legge dello Stato, di fatto, non conta più, e tutto è lasciato all’inventiva dei singoli ovvero all’estro del momento. La Magistratura non può rimanere indifferente ai "salti mortali" che non pochi Direttori di Istituti penitenziari debbono fare per consentire ai loro detenuti di poter semplicemente dormire in posizione orizzontale, e questo anche perché ormai gli odierni mezzi di comunicazione impediscono a chiunque di poter dire "io non sapevo che le cose stessero in questo modo".

La Magistratura non può tacere sul fatto che provvedimenti restrittivi emanati a seguito di procedimenti legittimi e corretti, nonché basati su un Codice di Rito ispirato al sacrosanto principio del garantismo, vengano poi sviliti da una fase esecutiva della sanzione segnata da manchevolezze che rendono la espiazione della pena una massa di umiliazioni e vessazioni.

La Magistratura non può tollerare che all’interno di una prigione si viva magari in otto in celle ideate per quattro persone e che vi sia, più in generale, un diniego di dignità personale che non solo non è consentito, ma è contro la legge e la stessa idea di civiltà.

La Magistratura, se non vuole essere "complice" di un andazzo da interrompere, e se vuole essere all’altezza che l’Ordinamento le attribuisce, deve essere pronta ad affermare, ad alta voce, che tutti i detenuti, siano essi beneficiari della presunzione di non colpevolezza, ovvero colpevoli dei delitti più orrendi, sono, compatibilmente con la loro condizione di restrizione, portatori di diritti pieni ed inalienabili, proprio come i soggetti liberi.

La soluzione di questo grave problema spetta al Legislatore, dal momento che la gestione del "Pianeta Carcere" esula dai compiti della Magistratura. Quest’ultima, però, deve essere protagonista di una attività di stimolo che induca il potere politico a farsi carico dell’attuale disagio, non stancandosi di ripetere che è la Legge, e la sua quotidiana applicazione anche negli aspetti teoricamente più banali, il vero garante della dignità di ogni detenuto.

Giustizia: gli arresti "facoltativi", ingolfano carceri e tribunali

 

La Repubblica, 3 giugno 2009

 

Un vento forcaiolo contagia gli italiani. E a farne le spese è l’ultimo anello della catena giudiziaria, il carcere, ma anche il lavoro dei magistrati che - oberati da decine di casi che si potrebbero evitare e che invece richiedono il loro impegno quotidiano per far rispettare i diritti di tutti - spesso non riescono a concentrasi sulle vere priorità della giustizia. Luigi Chiappero, presidente della Camera Penale di Torino, commenta così il dibattito che si è aperto in questi giorni sugli arresti in flagranza e sul mancato rispetto delle regole che vorrebbero per queste persone il giudizio immediato, senza passare dalle Vallette.

 

Avvocato Chiappero, condivide la denuncia secondo la quale non sarebbero adeguatamente applicate le norme che riguardano l’arresto in flagranza?

"È un allarme probabilmente fondato, ma prima ancora manca il buon senso, perché un po’ tutti, dal legislatore alle forze dell’ordine, ci siamo lasciati investire dal grido "tutti dentro!". C’è flagranza e flagranza: un conto sono le false generalità di chi viene sorpreso mentre viaggia tranquillamente sull’autobus, un altro quelle di chi, probabilmente, sta compiendo altre attività illecite come lo spaccio di droga, e allora può avere un senso fermarlo mentre si compiono ulteriori accertamenti".

 

Sta dicendo che bisognerebbe arrestare di meno?

"Certamente sì: sto invocando il buon senso di tutti, lo stesso buon senso che per anni ci ha consentito, a cominciare dalla polizia, di non far esplodere la situazione. Quando l’arresto è facoltativo, bisognerebbe ragionare prima di effettuarlo, pensando anche alla situazione delle carceri e al sovraccarico di lavoro di chi, dopo, dovrà occuparsi di quegli arrestati e magari non potrà lavorare su cose più importanti".

 

Che ne pensa della proposta del Prefetto di creare nuovi locali dove accogliere chi viene arrestato in flagrante?

"Tutte le idee possono funzionare, anche le vecchie camere di sicurezza svolgevano una loro funzione, spesso utile, ma non erano certo la panacea per risolvere ogni problema. Prima di inventare nuove soluzioni, però, ripeto che preferirei veder usare l’intelligenza, anche a rischio di rendersi impopolari, da parte di tutti quelli che sono chiamati a compiere delle scelte, dai livelli più alti come il Parlamento fino agli uomini delle forze dell’ordine che lavorano sulla strada e devono decidere se arrestare o no".

 

Però l’opinione pubblica punta il dito sui giudici che scarcerano, piuttosto che sui poliziotti o i Carabinieri che arrestano…

"Per favore, mi faccia dire con chiarezza che per fortuna ci sono giudici che scarcerano. Oggi si tende a negare che un magistrato possa e debba esercitare il suo giudizio sui reati che gli vengono sottoposti e che debba convalidare senza neppure una domanda tutti i casi che arrivano davanti a lui. Guai se fosse così! E meno male che c’è ancora qualcuno che ha il coraggio di rendersi impopolare. Ma a farlo dovrebbe essere prima di tutto il legislatore, che invece licenzia norme sempre meno garantiste".

 

Ma, come anche lei sottolinea, sono gli italiani a gridare "tutti dentro!" …

"Certo, tutti dentro. Tranne, naturalmente, me stesso, un mio parente o un mio amico, perché allora torna il garantismo".

Giustizia: Fleres (Pdl); le carceri rischiano emergenza sanitaria

 

Ansa, 3 giugno 2009

 

"È concreto il rischio di una imminente emergenza sanitaria nelle carceri". Lo afferma il garante dei diritti dei detenuti in Sicilia, il senatore del Pdl Salvo Fleres, secondo cui il sovraffollamento (ci sono 1.000 persone detenute in più rispetto alla data antecedente l’indulto), e le carenze igienico-sanitarie "determinano la seria possibilità della diffusione di malattie come la tubercolosi, l’Aids, malattie virali e veneree, e altre patologie infettive".

Fleres lamenta inoltre che "la mancanza di fondi, determina la scarsa o nulla assistenza medico-sanitaria, anche in condizioni di assoluta carenza igienica e di riscontrati casi di patologie infettive" e chiede al ministero della Giustizia "provvedimenti urgenti e mirati al fine di tutelare la salute e la dignità dei cittadini che vivono quotidianamente gli istituti penitenziari, dai carcerati agli uomini della polizia, al personale tutto dell’amministrazione penitenziaria, impedendo al contempo il rischio di diffusione fuori dalle mura carcerarie".

 

La Casa Circondariale di Messina

 

Il senatore Fleres scrive al Ministero della Giustizia chiedendo di intervenire al più presto per scongiurare il diffondersi di un’emergenza sanitaria. Il Garante punta si sofferma poi sul caso di un detenuto messinese.

Tornano ad accendersi i riflettori sul tema del sovraffollamento delle carceri italiane, e dunque, anche sul carcere messinese di Gazzi. Proprio sulla situazione della casa circondariale della città, qualche mese fa diversi erano stati gli interventi di sindacati e consiglieri provinciali che in più occasioni si sono mossi in favore dei detenuti. Oggi ne torna a parlare il senatore della repubblica nonché garante dei diritti dei detenuti Salvo Fleres che inquadra la situazione complessiva degli istituti penitenziari italiani, "zoommando" in particolare sulla realtà messinese.

Fleres torna a denunciare le diffuse carenze igienico-sanitarie degli anguste celle in cui sono costrette a coabitare per più di 20 ore al giorno fino alle 12-14 persone, "senza docce e volte anche con l’acqua razionata nell’unico lavello esistente, tutte condizioni ambiente "ideali" per la diffusione di patologie di diversa natura".

Il garante sottolinea dunque quanto alto sia il rischio di scoppio di una vera e propria emergenza sanitaria: "Le condizioni fatiscenti delle celle - continua il garante - con muri scrostati, presenza di scarafaggi e a volte anche di topi, umidità e freddo d’inverno e caldo asfissiante d’estate, sono a dir poco avvilenti. Inoltre, la mancanza di fondi, determina la scarsa o nulla assistenza medico-sanitaria".

Fleres chiede quindi che il Ministero della Giustizia affronti immediatamente la questione con provvedimenti urgenti. Ma il senatore si rivolge al ministro Alfano anche per segnalare la situazione di un detenuto del carcere di Messina. Lo fa attraverso un’interrogazione in cui viene raccontata la storia del sig. Parla "al quale viene diagnosticato un sospetto tumore e che, nonostante il Magistrato di sorveglianza ne abbia disposto il ricovero in una clinica per ulteriori urgenti accertamenti, viene mantenuto in carcere perché non si trova un posto letto per il necessario ricovero.

"I familiari - continua Fleres - preoccupati per la vita del loro caro che continua a perdere peso e a vomitare sangue, chiedono semplicemente che il "malato" venga curato. Non si chiede nessuno sconto di pena, né un condono, né qualsivoglia alchimia giuridica che possa favorire il detenuto, ma solo di intervenire immediatamente per accertare se il sig. Parla è affetto da tumore e, comunque, stabilita con certezza la diagnosi, intervenire per salvargli la vita. Nel caso in cui la vicenda dovesse precipitare - conclude il Senatore Fleres - non si può più parlare di "malattia" ma, quantomeno, di incuria e inettitudine e, in questo caso, vanno ricercati e puniti i responsabili".

Giustizia: Radicali; 2500 detenuti fanno lo sciopero della fame

 

Agenzia Radicale, 3 giugno 2009

 

Ha superato quota 2.500 il numero di adesioni dalle carceri italiane all’iniziativa nonviolenta dei Radicali sulla legalità e l’informazione.

Radio Carcere, la trasmissione di Radio Radicale dedicata alle carceri e alla giustizia, continua a tenere il conto del numero dei detenuti che comunicano la loro adesione alla iniziativa nonviolenta promossa da Marco Pannella per il diritto al voto delle persone detenute. 800 persone nel carcere Montorio di Verona (che in teoria ne potrebbe contenere 400) si sono unite ai 580 detenuti della Casa Circondariale di Rebibbia, ai 220 della Casa di Reclusione di Rebibbia, ai 516 detenuti e familiari del carcere di Cagliari, ai 50 familiari dei detenuti di Napoli.

In particolare i detenuti della Casa Circondariale di Verona - Montorio, comunicano di aderire alla mobilitazione delle carceri indetta da Radio Radicale, anche con una protesta pacifica, consistente nella battitura di oggetti metallici di proprietà personale, per la durata di alcuni minuti, alle ore 08.45 - 12.45 - 17.45. Questi i motivi principali della protesta: sovraffollamento della popolazione carceraria; mancata applicazione dei benefici di legge, ordinamento penitenziario e misure alternative; vitto dell’Amministrazione qualitativamente scadente e scarso.

Giustizia: Fleres (Pdl); garantire a detenuti esercizio diritto voto

 

Adnkronos, 3 giugno 2009

 

Istituire gli appositi seggi elettorali per garantire ai detenuti che ne hanno facoltà la possibilità di esprimere il proprio voto. È l’invito rivolto in una lettera dal senatore del Pdl Salvo Fleres, garante per i diritti dei detenuti per la Sicilia, ai direttori delle carceri italiane in vista delle prossime elezioni europee. Sono tanti, rileva il Garante, i detenuti ancora in fase di dibattimento processuale e, fino a quando la loro colpevolezza non sia determinata definitivamente e godano del diritto di partecipazione attiva alla vita politica e democratica, devono potere esercitare il diritto al voto, come sancito dalla Costituzione.

Per questo Fleres auspica "che il diritto al voto per i detenuti sia tutelato secondo legge, soprattutto in merito al diritto di segretezza e di libera espressione di volontà", invitando dunque "i direttori, il personale degli istituti penitenziari e gli stessi detenuti a vigilare, affinché ognuno possa esprimere il proprio voto senza interferenze e a segnalare alle autorità competenti e allo stesso Garante ogni violazione o limitazione al diritto di libera espressione del consenso elettorale".

Napoli: carcere in rivolta, detenuti chiedono condizioni umane

 

Ansa, 3 giugno 2009

 

Poggioreale si ribella alle disumane condizioni di vita dietro le sbarre. Detenuti allo stremo delle forze, costretti a vivere anche in dodici in una sola cella. L’arrivo dell’estate fa paura: epidemie e condizioni igieniche malsane renderanno infuocato il clima dentro al carcere.

Quattro ore di protesta per gli oltre 2.500 detenuti rinchiusi nella Casa Circondariale. Dalle 22.30 di lunedì fino alle 02.30 di martedì notte, i reclusi hanno lanciato urla di accusa contro il regime carcerario campano. "È vero, nella vita abbiamo sbagliato - afferma uno di loro - ma ora vogliamo solo essere trattati come esseri umani".

Condizioni veramente tragiche quelle che si vivono nel carcere. Celle studiate per tre persone ospitano, invece, fino a dodici detenuti. Vengono stipati come animali e costretti a riposare in letti a castello da tre piani. I letti superiori rasentano il soffitto e chi ci dorme non ha nemmeno lo spazio per alzarsi o mettersi a sedere.

Il caldo peggiora le cose. Le condizioni igieniche si fanno precarie e la puzza di sudore rende più difficile la convivenza. Esiste il pericolo concreto che dilaghino malattie infettive che si trasmettono attraverso il contatto della pelle.

La situazione è così tesa - raccontano i membri del personale del carcere - che se un detenuto osa lasciarsi andare a qualche flatulenza, viene pestato a sangue dai compagni di cella. La chiassosa protesta cade proprio alla vigilia della Festa della Repubblica. Non a caso i detenuti intonano slogan che auspicano la "riforma" dell’ordinamento giuridico italiano.

Le urla e gli oggetti gettati contro le sbarre delle celle costringono il personale a sospendere tutti i servizi assistenziali per motivi di sicurezza. Paramedici e guardie carcerarie hanno abbandonato tutti i padiglioni, isolando i detenuti. Alla base della protesta c’è la richiesta di migliori condizioni di vita. La costruzione di nuove strutture e l’abbassamento a quattro del numero di detenuti rinchiusi in ogni cella. Inoltre, anche l’aumento delle ore d’aria consentite ai carcerati meno pericolosi. Insomma, i detenuti non chiedono un nuovo indulto, né tanto meno un’amnistia, ma soltanto condizioni di vita "da esseri umani".

Firenze: in Opg Montelupo sovraffollamento cronico, va chiuso

di Donatella Poretti (Senatrice Radicali-Pd)

 

Agenzia Radicale, 3 giugno 2009

 

Lo scorso 1 giugno ho effettuato una visita all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino, insieme a Giulia Simi, candidata alle elezioni europee per la lista Bonino-Pannella e alla psicologa Luiza Tarcuta. A seguire il quadro della situazione che abbiamo trovato e relative valutazioni.

Sopralluoghi dell’Asl 11 di Empoli, ordinanze del Comune di Montelupo, ricorsi al Tar, sospensive, richiesta di chiusura da parte del garante dei detenuti di Firenze... tutte misure amministrative che negli ultimi mesi si sono succedute ma che hanno lasciato intatti i numeri dell’Opg. A dicembre gli internati erano 186, a marzo e aprile avevano toccato il picco di 196, oggi sono 184, e questo nonostante lo sfollamento di una decina (trasferiti ad altri Opg) e la chiusura di alcune celle della sezione Torre, le più fatiscenti di tutta la struttura.

Il risultato è però invariato: celle da tre "ospitano" almeno sei detenuti, che diventano due in quelle costruite per essere singole. Inoltre 102 persone sono in una sorta di limbo: fuori, ma devono rispettare regole ferree come nelle misure alternative, per cui basta poco per rientrare dentro.

Nonostante l’impegno del personale penitenziario e sanitario di questo Opg, è necessario rivedere alla radice l’impostazione dell’istituzione stessa. Dovrebbe prevalere la funzione della cura, ma il regolamento penitenziario lo rende impossibile, eppure gli internati sono tali proprio grazie ad un proscioglimento ed una perizia psichiatrica durante il processo: non vengono condannati ad una pena, ma ad una misura di sicurezza; in altri casi perché la perizia psichiatrica che li ha portati lì dentro è intervenuta mentre scontavano una condanna, o anche solo una misura cautelare in carcere.

L’evidente contraddizione di queste settimane è che quando l’Asl ha chiesto di non inviare più detenuti, e non superare la cifra di 169 (considerato come sovraffollamento accettabile, mentre la capienza della struttura è di 110) oltre la quale non può essere garantito un livello minimo di assistenza sanitaria, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha continuato a farlo, e quotidiani sono i nuovi ingressi.

L’ordinanza del Comune di Montelupo fiorentino, contro cui ha fatto ricorso il Dap, in particolare chiedeva la chiusura della sezione La Torre e della farmacia, di non superare i 169 internati nonché pulire e tinteggiare celle e spazi comuni. Misure in parte avviate, ma i contrasti tra Dap e Asl sottolineano la contraddizione della doppia funzione di un ospedale psichiatrico giudiziario, carcere e luogo di cura. Ulteriori difficoltà sono nelle strutture che sul territorio, per uscire dal circuito giudiziario, dovrebbero riassorbire persone con disagi psichici, ma che non sono in grado di farvi fronte.

Qualche numero sulla gestione sanitaria e sulla sicurezza evidenzia le difficoltà dell’Opg: l’assistenza sanitaria è garantita per ciascun reparto dalle 9 alle 18 con 1 o 2 psichiatri, 1 o 2 infermieri, 1 medico generico; il sabato pomeriggio e la domenica non ci sono psichiatri. Durante la notte, per tutta la struttura, c’è solo un medico di guardia e un infermiere; la sicurezza: gli agenti in forza effettiva (inclusi il nucleo traduzioni, piantonamento e amministrativi) sono 89, di giorno 1 o 2 per reparto e 40 per altre funzioni, oltre a 14-16 per l’amministrazione. Di notte (dalle 24 alle 8 di mattina) 6 agenti per tutta la struttura (1 per reparto, 1 in portineria e 1 mobile).

Polizia penitenziaria - che è bene ricordare - non solo non ha mai avuto alcuno tipo di preparazione per quel tipo di detenuti, ma non ha nessun supporto psicologico. In questi giorni sono stati una decina gli internati che hanno chiesto di votare alle prossime elezioni del 6-7 giugno.

Quanto sopra è esempio di una radiografia che dovrebbe essere disponibile per tutte le carceri, così come proposto dal disegno di legge che abbiamo depositato in Parlamento grazie alla collaborazione con l’Associazione Radicale "Il Detenuto Ignoto", secondo il principio che solo avendo a disposizione tutti i dati possono essere prospettate e realizzate le soluzioni.

La Regione Toscana nella fattispecie, così come le altre che ospitano Opg, dovrebbe approfittare del passaggio di queste strutture dalla medicina penitenziaria alla Sanità e alle sue nuove competenze in materia: l’Opg di Montelupo fiorentino andrebbe chiuso, riorganizzando un servizio solo territoriale e di cura per persone che hanno bisogno di assistenza sanitaria e non di sorveglianza da parte degli agenti penitenziari.

Torino: una notte in cella con altri 9, per terra e senza coperte

di Lorenza Pleuteri

 

La Repubblica, 3 giugno 2009

 

Il carcere, visto dall’interno. L’esperienza di un "nuovo giunto" costretto a passare dalle Vallette, quattro notti dure, prima di essere rimesso in libertà con il semplice obbligo di firma. A portare fuori la descrizione di quello che succede dietro le sbarre, nell’istituto congestionato dagli accompagnamenti di arrestati che invece potrebbero essere portati alle direttissime senza passare da qui, è uno dei due ragazzi anarchici fermati dalla polizia per aver ribaltato un banchetto de La Destra a Porta Palazzo, roba da manette facoltative. È sabato pomeriggio. I ricorsi fissati sulla carta, veicolati dai siti dell’area antagonista, partono dalla questura.

"Ma perché cazzo non sei morto in Senegal? Con questa frase - esordisce il detenuto testimone, Marco - viene apostrofato in via Grattoni un giovane centroafricano, da uno dei poliziotti che lo accompagnano. È lì per farsi prendere le impronte, come a me e a Fabio. Lo rivedrò alle Vallette". Oltre il portone blindato del Lorusso e Cutugno, "tocchiamo subito con mano il sovraffollamento. Poiché le sezioni normali traboccano di oltre 1600 reclusi, io, Fabio e altri passiamo le prime due notti in uno stanzino di emergenza di tre metri per quattro circa: il sabato dormiamo lì dentro in otto, la domenica in dieci. Si sta sul pavimento, dividendo le coperte che sono solo sei".

Poi, uno stillicidio. "Il lunedì mattina si va in tribunale. Una serie continua di passaggi, che inizia alle 7.30 circa per concludersi alle 14: cella dell’area giudiziaria del carcere, manette, cella del pullman, viaggio, via le manette, cella nel sotterraneo del tribunale, cella vicino all’aula dell’udienza, udienza, e di nuovo cella nel sotterraneo del tribunale, manette, cella del pullman, viaggio, via le manette, di nuovo carcere.

Alle tre del pomeriggio nello stanzino di emergenza arriviamo al top: 14 detenuti". Tutti in condizioni che è un azzardo definire dignitose. "Da tre giorni ho gli stessi vestiti e non ci si può lavare perché le docce sono solo nelle sezioni. Nel secondo pomeriggio si libera un posto nelle sezioni per me e Fabio. Finiamo al terzo piano del blocco B: celle per due persone. Ci separano. Io sono con uno zingaro slavo, del campo di strada dell’aeroporto, parente di uno che conosciamo".

Nella successiva ora d’aria, sempre parole di Marco, un altro antagonista arrestato dalla polizia gli "fornisce tempestivamente penna, buste e francobolli, per potere scrivere all’esterno". Sarebbe un diritto di tutti, avere il materiale per la corrispondenza. Ma "la spesa, cioè gli acquisti che i detenuti possono fare attingendo ai propri soldi, custoditi dal personale del carcere, arriva una volta alla settimana. A volte bisogna aspettare pure 15 giorni".

Parma: la vita nel carcere di Via Burla, raccontata dagli agenti

 

La Gazzetta di Parma, 3 giugno 2009

 

È vietata l’uscita a buona parte dei suoi ospiti. È vietato l’ingresso alle armi da fuoco (e da taglio) e ai cellulari che non siano quelli a motore e a quattro ruote dei professionisti in divisa degli accompagnamenti dei detenuti. Ingresso vietato, come vuole la tradizione, alle torte farcite con lime, ma anche alla frutta secca (i gusci di noce sembrano fatti apposta per nasconderci dentro qualcosa), alle polpette e ai cocomeri.

E poi, a sorpresa, alle arance. Nemmeno i classici agrumi possono essere portati a chi sta dietro le sbarre. "Sono all’indice da quando, in un altro istituto, ne fu scoperta una nella quale era stato iniettato un bel po’ di droga" allarga le braccia Augusto Zaccariello, comandante della Polizia penitenziaria di Parma.

Resta la battuta: "ti porterò le arance in carcere". Ma chi in cella ci sta per davvero le spremute se le deve fare con i tarocchi ufficiali, quelli venduti al soppravvitto interno. Varchi i cancelli di via Burla e senti scricchiolare i cliché. Tipo quelli di un’atmosfera cupa, di oppressione senza speranza. D’accordo, qui si sta perché obbligati e il sole lo si vede a quadretti e lo spazio è ridotto, mentre il tempo infinito, ma il rispetto per l’essere umano non manca. Il punto di partenza perché chi ha sbagliato riesca anche a ritrovare il rispetto per la legge.

"Qui si applica una sicurezza umana - prosegue Zaccariello. C’è gente entrata con la licenza elementare e uscita laureata. Mi viene in mente un detenuto al quale avevamo affidato la cura del verde: una volta scarcerato, continuava a venire da visitatore, per vedere se le sue piante stavano bene. Abbiamo avuto anche persone che non volevano andarsene".

 

Domani il "polpen day"

 

Domani 4 giugno i poliziotti penitenziari si asterranno dalla mensa di servizio negli istituti penitenziari di Parma, come in tutti gli altri istituti di Italia. Questo è quanto hanno deciso, per la giornata di domani le segretarie nazionali di Sappe - Osapp - Uil Pa Penitenziari - Cgil Fp Pp - e Ussp per l’Ugl.

Ancora una volta il personale di polizia penitenziaria è in mobilitazione. La situazione diventa ogni giorno sempre più critica ed insostenibile. Alle penalizzanti condizioni di lavoro, rese spesso in ambienti insalubri ed insicuri, il personale è costretto a subire la negazione delle ferie e dei riposi settimanali. Aumentano i carichi di lavoro e le responsabilità, ma si assottigliano gli stipendi per gli emolumenti non pagati. In questi giorni i detenuti hanno raggiunto quota 63mila detenuti, mentre a Parma siamo a 450 con due reparti chiusi. Ormai anche a nella nostra provincia non ci sono spazi materiali dove allocare i detenuti.

Cominciano le prime, rumorose proteste. Al personale si chiedono turni impossibili con il ricorso al lavoro straordinario, che poi non viene pagato, e si negano ferie e riposi. Un personale che, tra l’altro, soffre una grave carenza di organico. La misura è colma e la pazienza esaurita. Questa prima manifestazione del 4 giugno, nei programmi dei sindacati di categoria, è solo l’inizio di un percorso di dura contestazione. Negli istituti penitenziari, infatti, si affermano quotidianamente condizioni di lavoro illegali e si fa strame del diritto; gli agenti penitenziari sono oggetto di continue aggressioni e le condizioni detentive offendono la dignità e la civiltà.

La mobilitazione del 4 giugno con il primo "polpen day" è dunque in difesa dei diritti del personale e per un sistema penitenziario rispondente a canoni di civiltà.

Caserta: Prc; nell'Opg di Aversa condizioni inumane, va chiuso

 

Ristretti Orizzonti, 3 giugno 2009

 

Questa mattina, una delegazione parlamentare guidata dall’europarlamentare Giusto Catania (Prc-Se) si è recata in visita ispettiva presso il manicomio giudiziario di Aversa (Caserta) per verificare le condizioni di detenzione, anche alla luce della recente riforma della sanità penitenziaria. Nell’ospedale psichiatrico giudiziario sono presenti circa 270 internati e circa 180 agenti di polizia penitenziaria.

"Sono davvero scosso e preoccupato per quello che ho visto - ha dichiarato Giusto Catania - e posso assicurare che ho una lunga esperienza di visite in strutture detentive. Ho visto gli internati in celle sporche, umide e spoglie, in quattro o cinque per stanza, vestiti di abiti laceri e consunti.

La maggior parte di loro trascorre il tempo stesa a letto, anche in pieno giorno, in letti e materassi sporchi e consumati dal tempo. L’unico svago è fumare.

Le loro condizioni di salute e di igiene appaiono precarie e diversi di loro presentano anche segni di evidenti dermatiti. In molti casi parliamo di sofferenti psichici entrati in Opg per aver commesso reati minori che rimangono in questa struttura per anni, in regime di proroga della misura di sicurezza. Registriamo persino la presenza di un internato che ha ben 84 (ottantaquattro) anni! Sono scene che richiamano alla mente i manicomi chiusi con la legge Basaglia".

Nel 2008 la struttura di Aversa, a seguito della riforma della sanità penitenziaria, è affidata all’amministrazione penitenziaria per la parte detentiva e alla Asl di Caserta 2 per la parte sanitaria.

"Registro, poi, - ha proseguito l’europarlamentare di Rifondazione - l’assenza di una presa in carico sanitaria del sofferente psichico. Al momento della visita nessuno psichiatra era presente nell’Opg.

Il personale infermieristico e parasanitario è evidentemente sottostimato rispetto alle esigenze e opera in condizioni di precarietà. Nel reparto da noi visitato non c’è nemmeno uno spogliatoio. In più, mi è stato riferito dai lavoratori sanitari, che 12 dei 46 infermieri in servizio, non ricevono lo stipendio da diversi mesi. Ciò pregiudica ulteriormente la già ridotta capacità di assistenza sanitaria".

"Per quanto mi riguarda - ha aggiunto Catania - questo posto è a tutti gli effetti semplicemente un manicomio e come tale va chiuso e superato. La prima condizione da raggiungere è che il sistema sanitario si faccia carico di questa questione, senza fingere di non vedere. Quello che ho visto in questo posto, di internati che non escono perché non vi sono strutture residenziali alternative al carcere o di persone che giacciono abbandonate a se stesse in una cella, è inaccettabile e non ammette che si perda altro tempo o che si proceda in condizioni di precarietà. Per quanto mi riguarda - ha concluso l’eurodeputato - segnalerò le condizioni inumane e degradanti di detenzione alla magistratura di sorveglianza e ai vertici dell’amministrazione sanitaria e penitenziaria".

Rovigo: Cgil; il nuovo carcere nel 2012, ma con quanti agenti?

 

Corriere del Veneto, 3 giugno 2009

 

Sarà operativo a dicembre 2012 il nuovo carcere di Rovigo che potrà ospitare 210 detenuti, e che chiuderà quello attuale di via Verdi che attualmente ha una capienza per 66 persone. Lo spiega il capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Franco Ionta, nell’ambito del piano carceri nazionale che prevede l’istituzione di oltre 17.000 posti detentivi in aggiunta a quelli attuali su tutta la penisola.

Il nuovo carcere rodigino ha già un finanziamento individuato, 24 milioni di euro, nel cosiddetto fondo per le aree sottoutilizzate (Fas). Sorgerà alle spalle della cittadella socio-sanitaria di viale Tre Martiri, occupando un’area di nove ettari e mezzo a ridosso della Tangenziale est. L’edificio sarà alto quattro piani. Oltre alle celle che occuperanno dal secondo al quarto livello, al pianterreno sono previsti spazi operativi e per la preghiera, una sala polivalente, una palestra e l’infermeria.

Nel progetto compaiono anche la lavanderia, aule di formazione e laboratori. I lavori sono partiti due anni fa, e la scadenza contrattuale relativa al primo lotto è prevista per fine 2011. In ambito Triveneto quella di Rovigo è una delle quattro sedi che si amplieranno. Le altre sono Bolzano (da 108 a 220 posti), Pordenone (da 53 a 100) e Trento (da 99 a 220).

Sull’argomento il coordinatore regionale Cgil degli agenti penitenziari, Giampietro Pegoraro, conferma la tempistica del capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Franco Ionta. Ma lancia un avvertimento: "Non si hanno ancora notizie su quanti agenti saranno impiegati nella nuova struttura. Non si dovrà assolutamente ripetere la situazione attuale che vede un numero in continua riduzione di agenti a fronte - conclude Pegoraro - di un costante sovraffollamento della casa circondariale".

Su un piano più generale, il coordinatore regionale Cgil degli agenti penitenziari è a dir poco scettico sull’utilità del futuro carcere: "La sicurezza non si ottiene così. Basta vedere le statistiche, secondo le quali quattro persone su cinque che finiscono in carcere sono recidive".

Verona: lavoro per il reinserimento, Montorio all’avanguardia

di Antonio Andreotti

 

L’Arena, 3 giugno 2009

 

Settanta detenuti impiegati per una ditta, altrettanti sono occupati per il carcere. L’assessore regionale Valdegamberi in visita al progetto della Casa Circondariale.

Possono una ditta che offre lavoro e una cooperativa assicurare un ritorno sicuro nella società di chi delinque? Pare proprio di sì. Nella Casa Circondariale di Montorio da alcuni anni si porta a vanti un progetto di reinserimento attraverso il lavoro, precorrendo di anni la convenzione che il ministro della giustizia Angelino Alfano ha siglato il 2 maggio per realizzare un’agenzia nazionale di reinserimento e lavoro. La ditta Lavoro & Futuro e la Cooperativa Onlus Segni hanno avuto il plauso dell’amministrazione penitenziaria il 3 dicembre scorso e sono da considerarsi la seconda realtà nazionale. Il progetto di formazione e lavoro che portano avanti ha fatto sì che l’80 per cento di chi delinque non reitera.

Nei giorni scorsi ha varcato i cancelli del carcere per visitare questa realtà l’assessore regionale ai servizi sociali Stefano Valdegamberi, con l’intento di allargare questa iniziativa oltre i confini non solo di Verona ma del Veneto stesso in quanto il primato di lavoro in carcere e quindi di inserimento lavorativo nella società è proprio della Regione Veneto. "La sicurezza deve partire da qui, insegnando a chi sbaglia cos’è il sacrificio e il perché occorre attenersi a delle regole", ha detto Valdegamberi.

Tante le novità che hanno accompagnato la visita negli spazi destinati al lavoro, che accolgono 70 detenuti. La prima è che per la prima volta è stato possibile in un carcere filmare l’interno dei locali, a farlo è stata la troupe di Tele Arena. La seconda è che in meno di due anni gli spazi destinati alla ditta e alla cooperativa sono raddoppiati, ora i metri quadri messi a disposizione dalla Casa Circondariale sono 2.500. Soddisfatto il direttore Erminio Salvatore che sottolinea come a fronte di una popolazione carceraria che tocca le 900 unità lavorano ben 140, 70 per la ditta e altrettanti per il carcere. "A questo si aggiungono le tante altre attività scolastiche e di reinserimento", ha detto.

Giuseppe Ongaro, presidente della ditta Lavoro & Futuro, è soddisfatto tanto più che ora anche le serre dove lavorano e imparano un mestiere stanno andando bene. "Qui si porta avanti il progetto "Speranza nel verde" - 4mila le piante in crescita - e porterà alla formazione di 10 detenuti".

Ma questo è solo un assaggio di cosa possono fare una ditta e una cooperativa che si adoperano per il reinserimento di chi ha sbagliato in quanto, dice Ongaro "i vantaggi del lavoro socialmente utile sono tanti".

Il carcere diventa fabbrica con controllo di qualità, con il confezionamento di articoli promozionali per aziende, fiere. Sono più di 20 le aziende esterne che si affidano al lavoro dei carcerati. E la cooperativa offre anche tutoraggio lavorativo, sostegno psicologico. Si preoccupa di migliorare le condizioni economiche sociali e professionali dei soci lavoratori dando loro la possibilità di un futuro inserimento nelle società produttive come impresa artigianale o come attività lavorativa dipendente.

Milano: nasce un laboratorio di sartoria gestito dalle detenute

 

Ansa, 3 giugno 2009

 

Giovanni Di Rosa, giudice del Tribunale di Sorveglianza di Milano, insieme alla Cooperativa Alice, ha creato, in Italia, un laboratorio di sartoria gestito da detenute che vivono nelle carceri di Bollate e San Vittore. Il lavoro di queste donne è quello di confezionare toghe per i giudici.

L’idea è stata accolta con grande entusiasmo da moltissimi magistrati. In particolare, vale la pena di citare il primo cliente di questa sartoria molto speciale: Paolo Ielo, che giovedì prossimo debutterà in aula con la sua nuova toga. Fino ad oggi, i clienti delle carcerate sono stati una quindicina di uditori, ma il numero è destinato a crescere poiché la notizia di quel che si confeziona in questi laboratori si sta diffondendo da collega a collega via mail.

Qualche tempo fa, i magistrati si sono recati nelle carceri per farsi prendere le misure da queste donne, ricche di iniziativa e buona volontà. Durante la visita, hanno avuto modo di spiegare come l’apprendimento della pratica sartoriale costituisca un valido strumento di recupero e di inserimento nella società.

Rovigo: 7 giorni ingiusta detenzione, risarcito con 10mila euro

 

Corriere del Veneto, 3 giugno 2009

 

Accusato di violenza sessuale dalla ex convivente, ha dovuto scontare una settimana in carcere e venti giorni di arresti domiciliari. Assolto dalle accuse al processo di primo grado, tramite il suo legale Enrico Cappato ha chiesto di essere risarcito allo Stato per ingiusta detenzione e si è visto dare ragione ottenendo diecimila euro. A cantare vittoria è Salvatore Cacace, idraulico di 57 anni originario di Napoli ma da molti anni residente a Rovigo, finito nei guai il 7 agosto del 2004 a seguito di una denuncia della sua ex compagna, originaria di Potenza e di tre anni più giovane. La donna si era recata in questura sostenendo che il 30 luglio di cinque anni fa il napoletano avrebbe fatto irruzione a casa sua cercando di violentarla, finendo col procurarle delle ferite e minacciandola ripetutamente.

Come prova, la signora aveva prodotto un capo intimo lacerato e aveva mostrato i segni che l’ex convivente le avrebbe inferto durante l’atto sessuale. La vicenda, però, era apparsa subito controversa. Cacace aveva subito negato ogni addebito, sostenendo che sarebbe stato in grado di dimostrare la sua innocenza. L’idraulico partenopeo aveva affermato che al momento della presunta violenza sessuale era in compagnia della sua nuova convivente, una quarantenne che abita a Rovigo. Inoltre l’uomo pochi giorni prima, il 25 luglio, si era recato in Questura per denunciare la sua ex per minacce, producendo tre lettere firmate dalla donna piene di insulti e di frasi allusive sui guai cui sarebbe andato incontro entro pochi giorni. Minacce che, a posteriori, si sono poi concretizzate.

Arrestato per tentata violenza sessuale, oltre che per violazione di domicilio, minacce e lesioni, Cacace era stato incarcerato per una settimana e sottoposto ai domiciliari per venti giorni. Rinviato a giudizio, l’idraulico era stato processato. Nel corso del dibattimento il legale difensore Cappato aveva dimostrato che il suo assistito non era a casa della sua ex al momento della tentata violenza sessuale, ma assieme alla sua nuova compagna. A comprovare questo, anche un prelievo bancario. Una linea difensiva che ha pienamente convinto il collegio giudicante, visto che nel 2006 è arrivata l’assoluzione. Poi Cacace ha chiesto il risarcimento danni per ingiusta detenzione. Giorni fa la quarta sezione della Corte d’Appello gli ha dato ragione riconoscendogli un risarcimento di diecimila euro.

Verona: aggredito il Procuratore delle inchieste sui neonazisti

 

Corriere della Sera, 3 giugno 2009

 

Un’aggressione vigliacca, alle spalle. Il colpo sferrato con una bottiglia vuota, l’altra sera, da un giovane sconosciuto, ha fatto cadere a terra il procuratore capo di Verona, Giulio Schinaia. Ritornava dalla sagra parrocchiale di Avesa, una frazione del capoluogo, in collina. Medicato all’ospedale, le sue condizioni fisiche sono buone, fortunatamente. E oggi sarà già al suo posto, in ufficio. Ma le preoccupazioni sono forti.

"Un fatto del genere, qui non è mai successo", ha commentato il magistrato, lanciando un segnale alla comunità. "Purtroppo, c’è gente che con la violenza vuole risolvere le proprie questioni - ha aggiunto - è questo aspetto che mi interessa. A malincuore dovrò accettare la scorta". Il ragazzo che si è accanito contro di lui camminava, con un gruppo di amici - che parlottavano tra loro con espressioni scurrili - quando, all’improvviso, si è staccato prendendo di mira Schinaia, che li precedeva, anch’egli a piedi. Si stava dirigendo verso la propria auto parcheggiata poco distante, per far rientro a casa. Qualche battuta offensiva all’indirizzo del procuratore, poi la bottigliata e la fuga.

Subito sono scattate le indagini, a tutto campo. Una delle piste più accreditate dalla Digos porta dritto ai gruppi estremisti violenti: una piaga che Verona conosce bene. Una volta l’aggressione finì in tragedia: Nicola Tommasoli, ucciso con un calcio alla testa da cinque giovani, per una sigaretta. Schinaia, come procuratore capo, ha portato avanti anche questa inchiesta, in cui gli imputati sono accusati di omicidio preterintenzionale. Altre due indagini sono a un punto cruciale: è appena cominciato il processo a sette persone che il procuratore ha chiamato a rispondere, per direttissima, di un fatto accaduto la notte dello scorso 3 gennaio. Un’impiegata ha rischiato di perdere un occhio. I sette devono rispondere dell’accusa di lesioni aggravate dall’uso di oggetti contundenti, dalla premeditazione e dalla violazione della legge Mancino. Ancora: siamo alla vigilia dell’udienza preliminare a carico di 17 giovani, accusati di aver compiuto almeno una dozzina di aggressioni in città, a partire dal marzo 2006. Il gruppo gravitava nell’area degli skinhead del Fronte Veneto, molto attivo a Verona.

Dunque, con le dovute cautele, ce n’è abbastanza per cercare indizi negli ambienti frequentati dai possibili "nemici" di Schinaia. Lo stesso magistrato ha fatto capire che l’aggressione potrebbe essere legata ai suoi atti giudiziari. La pensa così anche Guido Papalia che, per molti anni, è stato alla guida della Procura di Verona. Schinaia era il suo vice.

"Purtroppo - dice Papalia - assieme alla stragrande maggioranza di giovani per bene, c’è una minoranza violenta, per lo più di estrema destra, che inquina la vita della città. Anch’io credo che l’aggressione al collega sia legata ad alcune sue inchieste. Peraltro, ricordiamolo, contestate da una parte della cittadinanza".

Le reazioni e gli atti di solidarietà al magistrato colpito sono arrivate. "Atto di violenza brutale, vile, inqualificabile, tanto più grave in quanto rivolto contro una persona che rappresenta a Verona una delle più alte autorità dello Stato", dichiara il sindaco leghista Flavio Tosi. "Spero - continua - che l’aggressore possa essere prontamente individuato e assicurato alla giustizia per un’esemplare punizione". Flavia Mogherini, della segreteria nazionale del Pd, con una punta polemica, dice: "La violenza contro il procuratore Schinaia, a cui esprimo solidarietà, con l’auspicio che possa continuare con efficacia il suo lavoro, trova sponda e legittimazione in parole di odio cui troppo spesso alcune forze politiche ricorrono".

Libro: "Diritti e castighi", di Lucia Castellano e Donatella Stasio

 

Ansa, 3 giugno 2009

 

Lucia Castellano e Donatella Stasio; Diritti e castighi (Il Saggiatore, pp. 294, 15 euro).

Produrre libertà anziché negarla: passa attraverso questo ribaltamento della realtà la strada per rendere finalmente umano il carcere, oggi più che mai trasformato dal sovraffollamento esagerato a contenitore di destini senza speranza. Dove il rischio di essere stritolati dai suoi meccanismi riguarda anche i soggetti "esterni": agenti di polizia penitenziaria, direttori, educatori, psicologi, familiari di detenuti. Nella terra desolata del sistema penitenziario qualche eccezione brilla, a dimostrare che immaginare percorsi diversi è possibile. Di questo parlano Lucia Castellano, direttrice del carcere di Bollate (Milano), e Donatella Stasio, giornalista del quotidiano Il Sole 24 ore, descrivendo l’"umanità cancellata" del carcere, lontanissimo dagli obiettivi di rieducazione e recupero dei reclusi pensati dalla Costituzione.

Il punto di partenza è disarmante: oggi i detenuti sono più di 61 mila, con un ritmo di crescita di 800-mille persone al mese; presto si sfonderà anche quota 70 mila, 20 mila persone in più dei posti disponibili. Davanti a questi numeri, ogni intervento appare impossibile. Un carcere "chiuso" verso l’esterno non può che produrre altri danni: sforna il 70 per cento dei recidivi in circolazione. E accoglie schiere di "nuovi barbari" - stranieri (38%) e tossicodipendenti (27%) - "parcheggiati in attesa di un fine pena che, breve o lungo che sia, li restituirà tali e quali, pronti per un nuovo giro di carcere, di emarginazione".

Eppure, ci sono tentativi di cambiare questo stato di cose. A Bollate, per esempio, da otto anni si lavora sul "trattamento avanzato" dei circa 750 detenuti comuni, che "nella scala gerarchica della pericolosità occupano l’ultimo gradino". È una esperienza ancora considerata sperimentale, che si scontra con l’impostazione di quegli istituti in cui ai detenuti non accade mai nulla. A Bollate i reclusi hanno la possibilità di lavorare, imparare il mestiere, percepire un piccolo stipendio. E di trovare un lavoro fuori, come è capitato a Franco, 34 anni, assunto come falegname a Milano.

I diritti fondamentali di una persona dovrebbero essere garantiti e difesi anche in un istituto di pena. Invece, diventano "privilegi" e gli obblighi dell’amministrazione "concessioni sovrane: il lavoro non è un diritto ma un ‘premiò per i raccomandati o per chi parla, per chi si allea con l’istituzione".

Il carcere - scrivono le autrici - "deve trasformarsi in un luogo in cui non c’è bisogno di esercitare il potere, già esercitato dal muro di cinta. Deve diventare un luogo in cui si organizza un servizio. Una grande utopia, forse. Ma come dice un proverbio maghrebino "Nessuna carovana ha mai raggiunto l’utopia, però è l’utopia che fa andare le carovane".

Immigrazione: fenomeno da governare e non da demonizzare

di Giorgio Pagano*

 

Il Secolo XIX, 3 giugno 2009

 

Il disegno di legge sulla sicurezza, approvato con il voto di fiducia alla Camera, approderà al Senato dopo le elezioni europee e amministrative, forse anche dopo i ballottaggi e il referendum del 21 giugno. C’è quindi il tempo per parlarne ancora.

L’opposizione di centrosinistra, la dissidenza nella maggioranza (legata a Gianfranco Fini) e la mobilitazione di ampi settori della società civile, mondo cattolico in primis, hanno portato a forti cambiamenti rispetto alle posizioni iniziali del governo. Non c’è più la schedatura, tramite impronte digitali, dei bambini rom, ed è stato eliminato l’obbligo di denuncia dell’immigrato irregolare da parte del medico o del preside. Rimane la misura-bandiera, il reato d’immigrazione clandestina, anche se la sanzione che prevedeva il carcere è stata declassata ad ammenda pecuniaria.

Restano misure odiose, che costituiscono un attacco ai diritti delle persone: come quello di sposarsi (non si potrà più fare senza permesso di soggiorno in regola). O quello di un minore orfano di ricongiungersi con l’altro genitore. Si prevede, inoltre, che l’iscrizione all’anagrafe sia subordinata alla verifica delle condizioni igienico-sanita-rie della casa in cui si vive: le moltissime famiglie (700.000 persone) che vivono in abitazioni senza

bagno e acqua calda perderanno il diritto ad avere un’identità, e quindi al voto e a tutti i servizi. Grazie al voto di fiducia, infine, sono tornate norme già bocciate dal Parlamento: l’aumento dei tempi di detenzione degli immigrati irregolari nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) e le ronde.

Ora, come ha scritto Giovanna Zincone sulla Stampa, non sappiamo cosa avverrà di fatto: "non sappiamo se il timore generato dall’annuncio di norme poi ritirate produrrà comunque effetti dolorosi: se scoraggerà la frequenza scolastica dei bambini, se spingerà le madri a non partorire in strutture pubbliche sicure o addirittura a ricorrere all’aborto clandestino, se indurrà malati anche gravi a non farsi curare". Così come "il reato d’immigrazione clandestina, anche se svuotato dei suoi effetti pratici più dirompenti, può diffondere un clima di diffidenza e di sospetto".

Il rischio più alto è proprio quello rinchiuso nella parola reato, "perché sembra dare un riconoscimento pubblico alla percezione già fin troppo diffusa che irregolare equivalga a delinquente". Come trattare in modo differenziato la badante che lavora onestamente, alla quale è scaduto il permesso di soggiorno, dai criminali veri? È una domanda a cui questa legge non sa dare una risposta.

C’è quindi un lavoro da fare per cambiare la legge, ma anche - se dovesse rimanere così - per limitare il più possibile i danni che provocherà. Il punto vero è che l’Italia, come hanno ricordato i vescovi al presidente del Consiglio, è già davvero una società multietnica, molto diversa da com’era venti o dieci anni fa. Lo dicono i numeri degli stranieri presenti: quattro milioni di regolari più un milione di irregolari. Le sole badanti, dicono le stime di Acli-colf, sono forse 1.200.000, la metà iscritta all’Inps, l’altra totalmente in nero.

Senza questi cinque milioni di lavoratori, "sarebbe la paralisi", hanno scritto Giuliano Amato e Massimo D’Alema sul Corriere della Sera. Si pensi appunto alle badanti, o a chi lavora nell’agricoltura, nell’edilizia, nelle migliaia di piccole imprese del Nord. Secondo uno studio di Caritas e Unioncamere nel 2050 gli stranieri potrebbero rappresentare il 20% della popolazione e i figli degli immigrati saranno in maggioranza nelle nostre scuole. E allora il punto vero è come governare questo processo, come dotare lo Stato e la comunità di un sistema di regole e di un modello di convivenza, oltre l’emergenza costante in cui regna la propaganda che illude e non risolve i problemi.

Va condotta una battaglia ideale e culturale, anche controcorrente. Bossi ha detto: "Io parlo con la gente, la gente vuole questo". Può darsi che sia così, anche se non vale per tutta la "gente". E comunque non è vero che tutto ciò che è popolare è giusto, e che tutto ciò che è impopolare è ingiusto. Tra Gesù e Barabba la "gente" scelse Barabba. "Chi esercita responsabilità pubbliche ha il dovere politico e morale di non parlare soltanto alle emozioni", scrivono Amato e D’Alema. Di non far leva sul sentimento della paura. Chi governa deve avere lo sguardo lungo, là dove i comportamenti spontanei, istintivi degli individui e della società possono averlo corto. Deve dare un indirizzo, a volte anche impopolare. Deve "educare", non solo "rappresentare" la società. Fare appello a ciò che di meglio c’è negli individui e nella società.

Certo, non basta richiamare l’articolo 3 della Costituzione, che vieta proprio le discriminazioni basate su razza, lingua e religione, o la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che afferma la necessità di rispettare "la diversità culturale, religiosa e linguistica".

O richiamare la dottrina sociale della Chiesa e l’antica citazione biblica "Amate dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto", particolarmente indicata per un popolo come il nostro, in cui il fenomeno migratorio è così presente nella storia. Non basta perché gli elementi valoriali della politica devono coniugarsi con degli interessi. Ma noi abbiamo l’interesse ad accogliere i lavoratori stranieri. Lavoro con amici trentini, che mi hanno spiegato così il recente successo del centrosinistra sia in Provincia sia in Comune: "I trentini sanno benissimo che senza gli immigrati i vigneti e gli alberghi chiuderebbero".

Abbiamo inoltre interesse ad avere una politica realmente efficace nel campo della sicurezza. Esasperando la paura non si risolve il problema. La logica repressiva non basta: lo prova il fatto che nell’ultimo anno gli sbarchi sono aumentati del 107% e i rimpatri hanno riguardato solo il 36% degli immigrati irregolari. La logica "più sanzioni-meno ingressi" non funziona: questa lotta alla clandestinità genera altra clandestinità, e reazioni razziste tra gli immigrati.

La clandestinità si vince coinvolgendo l’Unione europea in una politica europea dell’immigrazione, rendendo praticabile e conveniente l’ingresso regolare per lavoro e promuovendo politiche adeguate per l’integrazione. E, se è vero che la criminalità tra gli immigrati cresce, è vero anche che cresce in un clima di legalità debole, di mafie dominanti e di degrado urbano, che esisteva prima che l’immigrazione si estendesse. Quindi per una politica della sicurezza che dia risultati bisogna aggredire i nodi alla radice della malavita in Italia, dare risorse, e non tagliarle, alle forze dell’ordine, rendere più efficiente la giustizia, dotarsi di una nuova politica delle carceri. Ma nulla di tutto questo avviene. Si è solo individuato il nemico esterno: lo straniero.

Insomma, si sta preparando il peggio. L’immigrato è sempre più un ospite sgradito, i rapporti tra italiani e immigrati sono sempre più di diffidenza, la sicurezza è sempre meno garantita. Alla fine, di fronte all’inefficacia dello Stato, l’insofferenza suscitata ad arte potrebbe scatenare un "rondismo" senza controllo. Serve, da parte del centrosinistra, un "modello culturale diverso, incentrato sul primato della persona", come dice il presidente della Regione Toscana Claudio Martini. È questo il grande merito della legge regionale sull’immigrazione che si sta discutendo in Toscana: non inseguire la Lega e il berlusconismo sul loro terreno, tutelare la sicurezza senza soffiare sulla paura, accogliere in modo responsabile gli stranieri in una logica in cui essi godono di diritti e sono consapevoli di avere dei doveri.

 

* Giorgio Pagano, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete Città Strategiche).

Immigrazione: Toscana; assistenza sociosanitaria a clandestini

 

Asca, 3 giugno 2009

 

Dopo tre sedute è stata approvata la legge toscana sull’immigrazione, che prevede, tra altro, l’assistenza socio-sanitaria urgente anche ai clandestini.

Oggi l’aula ha approvato con 39 voti a favore e 11 voti contrari il ‘maxiemendamentò alla legge sull’immigrazione presentato dalla maggioranza. Tecnicamente, la modifica è stata introdotta come sub-emendamento di un emendamento all’articolo 6 già presentato e sostituisce l’intero testo di legge dall’articolo 6 al 37, trasformando gli articoli in commi. In questo modo sono venuti a cadere tutti gli emendamenti (quasi 70) presentati dal centrodestra e che facevano dilatare i tempi di discussione.

Poche le novità introdotte, tra le quali la specificazione in vari punti della riserva di determinati servizi e prestazioni ai cittadini stranieri "muniti di regolare permesso di soggiorno" (informazione e assistenza in favore dell’imprenditoria immigrata; attività di assistenza e consulenza del difensore civico regionale).

Permane, per tutte le "persone dimoranti" nel territorio regionale, "anche se prive di titolo di soggiorno", la possibilità di fruire degli "interventi socio-assistenziali urgenti e indifferibili, necessari per garantire il rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti ad ogni persona in base alla Costituzione ed alle norme internazionali".

Alberto Magnolfi (capogruppo di Fi-Pdl) ha definito la presentazione della modifica un "marchingegno che ci trova contrari e contrariati" e "che certo non contribuisce a rendere questa legge migliore". Roberto Benedetti (An-Pdl) ha sottolineato che saranno necessarie molte valutazioni su quello che è successo oggi in aula, e che rimane ferma l’opposizione del gruppo a una "legge che dà diritti di cittadinanza a chi non ha diritto".

Alberto Monaci ha invece osservato che l’atteggiamento della maggioranza in aula è sempre stato corretto e che si è deciso di operare nel migliore dei modi, cercando di arrivare all’adozione di una proposta di legge che potrà intervenire efficacemente sulla questione dell’immigrazione.

La legge toscana ha provocato un vivace dibattito, in particolare per la parte che prevede che tutte le "persone dimoranti" nel territorio regionale, "anche se prive di titolo di soggiorno", e quindi i clandestini, possono fruire degli "interventi socio-assistenziali urgenti e indifferibili, necessari per garantire il rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti ad ogni persona in base alla Costituzione e alle norme internazionali". "La legge - spiega l’assessore regionale alle politiche sociali Gianni Salvadori - si riferisce agli stranieri regolari e solo per quel punto è estesa a tutti.

Comunque l’assistenza sanitaria è garantita dalle leggi dello Stato, in primo luogo dalla Turco-Napolitano e dalla Bossi-Fini". La proposta, tra l’altro, punta alla valorizzazione dei titoli professionali acquisiti nei paesi d’origine e all’insegnamento della lingua italiana ma sostenendo il "mantenimento della lingua e della cultura di origine".

Garantite anche l’assistenza religiosa in carceri e ospedali, l’assegnazione di spazi cimiteriali, "la professione del culto in luoghi adeguati". Si promuove "l’estensione del diritto di voto", così come previsto dallo Statuto. Per quanto riguarda il diritto alla salute, la Regione lo promuove "come diritto fondamentale della persona" e si impegna a "rendere concretamente fruibili in ogni ente del servizio sanitario regionale tutte le prestazioni previste per i cittadini stranieri non iscritti al servizio sanitario regionale".

Verranno anche sviluppati "interventi informativi destinati ai cittadini stranieri non in regola con le norme di soggiorno" per "assicurare gli elementi conoscitivi idonei per facilitare l’accesso ai servizi sanitari e socio sanitari". La legge riserva un’attenzione particolare ai soggetti deboli (richiedenti asilo e rifugiati, minori e donne in stato di gravidanza, vittime di tratta e sfruttamento, detenuti). I cittadini stranieri destinatari della legge, infine, "accedono ai bandi per l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica". Contro la legge, nei giorni scorsi, il coordinatore regionale del Pdl Massimo Parisi ha annunciato la volontà di promuovere un referendum.

Usa: suicidio a Guantanamo, in attesa di decisioni sulla chiusura

 

Ansa, 3 giugno 2009

 

Nell’atteso discorso al mondo musulmano giovedì dal Cairo, il presidente americano Barack Obama citerà la decisione di chiudere Guantanamo come uno degli esempi del cambio di rotta dell’America. Ma in attesa di un piano preciso sul futuro della prigione, la maggioranza degli americani si dicono contrari alla chiusura, mentre uno dei 240 detenuti di Guantanamo in apparenza ha ceduto alla disperazione, togliendosi la vita. La morte dello yemenita Muhammad Ahmad Abdallah Salih, 31 anni, noto anche come Al-Hanashi, è stata definita "un apparente suicidio" da parte dei portavoce del Pentagono.

L’uomo risulta uno dei detenuti che si trovavano a Guantanamo fin dall’apertura della prigione, nel gennaio 2002. Se confermato, sarebbe il quinto suicidio dal quando la prigione nella base della U.S. Navy a Cuba è stata aperta. I militari americani, in una dichiarazione, hanno reso noto che Salih è stato trovato privo di sensi nella sua cella e dichiarato morto "dopo che sono state esaurite una vasta gamma di misure per cercare di salvargli la vita". La morte di Al-Hanashi aggiunge una nota drammatica al complesso dibattito in corso su Guantanamo. Obama ha annunciato a gennaio e ribadito più volte che il carcere chiuderà entro gennaio 2010. Il presidente americano ha indicato che i detenuti saranno divisi in varie categorie: alcuni sono destinati a venir trasferiti all’estero, altri andranno negli Usa, per essere processati o per restare a lungo in carceri di massima sicurezza federali in attesa di nuove leggi per loro.

Ma il Congresso fa resistenza di fronte alla prospettiva di avere sul suolo di casa presunti terroristi, tra cui alcuni membri di Al Qaida coinvolti in prima persona nell’attacco all’America dell’11 settembre 2001. E l’opinione pubblica manda segnali analoghi. Il 65 per cento degli americani, secondo un sondaggio di Gallup/Usa Today, ritengono che il carcere a Guantanamo non vada chiuso, mentre ben il 75 per cento è contro il trasferimento dei sospetti terroristi rinchiusi nelle prigioni dei loro Stati. Obama, prima di partire per il viaggio che lo porterà tra l’altro in Egitto per il discorso al mondo islamico, ha ribadito l’intenzione di chiudere Guantanamo entro l’anno.

Uno dei passaggi-chiave per la chiusura è legato alla disponibilità di vari paesi nel mondo di accogliere detenuti, e tra questi i più numerosi sono proprio gli yemeniti. L’amministrazione Obama non è orientata a trasferire in Yemen quelli di loro che vengano considerati non più un pericolo, perché teme che tornino in libertà senza alcun programma di riabilitazione.

Obama, in un colloquio che avrà domani a Riad con re Abdullah II, dovrebbe discutere la possibilità che sia l’Arabia Saudita ad accogliere molti yemeniti, per sottoporli a un programma ad hoc creato dal governo saudita. "Continuiamo a lavorare con gli alleati e con nazioni di tutto il mondo - ha detto il portavoce di Obama, Robert Gibbs - per discutere i passi necessari per chiudere Guantanamo, come il presidente ha promesso proprio all’inizio del suo mandato".

Usa: in Texas eseguita pena di morte; è la 200esima, dal 2000

 

Ansa, 3 giugno 2009

 

Ancora un’esecuzione capitale in Texas, che porta a 200 il numero dei condannati a morte uccisi con l’iniezione letale dal 2000, anno in cui l’allora appena eletto alla Casa Bianca George Bush lasciò la guida dello stato più "forcaiolo" d’America a Rick Perry. Ad essere messo a morte la notte scorsa nel penitenziario di Huntsville è stato Terry Lee Hankins, condannato a morte per l’assassinio dei suoi due figliastri nel 2001.

Le 200 esecuzioni compiute in questi nove anni nello stato che ha il triste record in campo di pena capitale rappresentano circa la metà delle esecuzioni compiute in Texas dal 1982. Ed il 35 per cento di tutte quelle eseguite negli Stati Uniti dal 2000.

Gloria Rubac, portavoce del Texas Death Penalty Abolition Movement, movimento che si batte per l’abolizione della pena di morte nello stato sud occidentale, ha detto che le esecuzioni rappresentano "la continuazione della politica razzista e di vero e proprio linciaggio" adottata nello stato in passato dal momento che la maggioranza dei condannati sono afroamericani. Manifestazioni contro la 200esima esecuzione si sono svolte di fronte al carcere di Huntsville, il cui braccio della morte è ormai tristemente noto in tutto il mondo, ma anche in diverse città nordamericane, come Montreal, ed europee.

Svizzera: pene "troppo miti" nuovo codice penale sotto accusa

 

Swiss Info, 3 giugno 2009

 

In vigore da soli due anni, il diritto penale svizzero è già rimesso in discussione. Le nuove disposizioni sono bersagliate da critiche incessanti di coloro che chiedono di fare retromarcia. La Camera del popolo vi dedica mercoledì una sessione straordinaria. La Camera dei Cantoni ne discuterà il 9 giugno.

Sotto accusa ci sono in primo luogo le pene pecuniarie, calcolate in aliquote giornaliere in base al reddito, e il lavoro di pubblica utilità, che hanno sostituito le pene detentive di durata inferiore a sei mesi, come pure la sospensione condizionale parziale delle pene. In questione c’è anche l’abolizione dell’espulsione dal territorio svizzero quale pena accessoria nelle condanne di stranieri.

L’idea di fondo della riforma del diritto penale era stata quella di mettere l’accento sul reinserimento sociale degli autori di delitti non gravi, per prevenire la recidiva. Quando commina la pena il giudice deve tener conto del delitto commesso, ma anche del futuro dell’imputato. Con una pena pecuniaria al posto di quella privativa della libertà si può per esempio evitare il pericolo che la persona condannata perda il posto di lavoro, innescando il circolo vizioso dell’emarginazione e della recidiva.

Un approccio contestato da chi ritiene che la pena debba avere un carattere punitivo. Stando a costoro, le pene più miti non sono dissuasive e di conseguenza la criminalità e la recidiva aumentano.

Queste due visioni continuano a scontrarsi, dando luogo a un dibattito pubblico infiammato, nel quale intervengono procuratori pubblici, giudici, responsabili cantonali dei dicasteri di giustizia, professori di diritto. Sin dai primi mesi dell’applicazione del nuovo diritto, ogni qualvolta che avviene un grave fatto di cronaca nera o che sono pubblicate statistiche sulla criminalità è chiamata in causa l’efficacia del nuovo diritto penale.

Su questo sfondo di polemiche, i politici hanno portato la discussione in parlamento. Deputati e senatori di diversi partiti hanno inoltrato una serie di atti parlamentari che sollecitano un regime penale più severo.

 

Valutazione in corso

 

La stessa ministra di giustizia e polizia Eveline Widmer-Schlumpf ha espresso pubblicamente il proprio scetticismo sull’efficacia delle pene pecuniarie, in particolare quelle sospese condizionalmente. Ha però anche precisato che per stabilire i cambiamenti, è dapprima necessaria un’approfondita analisi della situazione.

Il suo Dipartimento ha avviato una valutazione dell’efficacia delle nuove disposizioni del Codice penale. In tale ambito, alla fine di marzo, ha lanciato una consultazione dei Cantoni. A questi ultimi, oltre a dati e informazioni sulle loro esperienze, è richiesto il parere sull’opportunità di modifiche nel senso caldeggiato da vari atti parlamentari.

Il bilancio di questa inchiesta, conclusasi alla fine di maggio, dovrebbe fornire una prima panoramica della situazione in Svizzera, con qualche cifra concreta e globale. Finora, infatti, la controversia è sempre stata basata su interpretazioni teoriche e dati frammentari.

 

Situazioni diverse

 

Uno dei più recenti episodi che hanno ravvivato la diatriba sono state le dichiarazioni alla stampa, all’inizio di maggio, del direttore del Dipartimento di giustizia bernese Christoph Neuhaus, secondo cui nel suo cantone circa il 30% delle persone condannate a un lavoro di pubblica utilità non lo esegue e circa un terzo di coloro cui è inflitta una pena pecuniaria non la paga. I delinquenti utilizzano tutte le falle del sistema per sottrarsi all’esecuzione delle pene e le procedure per imporre le sanzioni sono troppo lunghe, ha sostenuto il politico democentrista.

Da un’indagine svolta in maggio dall’agenzia stampa Ats, sembra tuttavia che la situazione vari molto a seconda dei cantoni. D’altra parte, se molti responsabili cantonali registrano difficoltà di applicazione, pochi propendono per un ritorno alle vecchie disposizioni.

Per avere un quadro più preciso si dovrà attendere l’analisi dei dati ufficiali raccolti dal Dipartimento federale di giustizia e polizia (Dfgp), che ha annunciato un rapporto intermedio per il 2010. Diversi esperti di diritto penale hanno affermato che è ancora troppo presto per trarre delle conclusioni. Occorrono esaminare scientificamente gli effetti delle nuove disposizioni, hanno avvertito. Bisogna verificare se la criminalità in Svizzera è veramente aumentata e se c’è un legame di causa ed effetto tra questo fenomeno e le nuove norme penali, oppure se si tratta di un’evoluzione indipendente.

 

I partiti scalpitano

 

Ma l’Unione democratica di centro (Udc, destra conservatrice) non è disposta ad attendere per ottenere un inasprimento del diritto penale. Denunciando quello che definisce un diritto che "coccola i delinquenti" e "trascura gli interessi delle vittime e la sicurezza della popolazione", il più grande partito della Svizzera ha chiesto la convocazione di una sessione straordinaria del Consiglio nazionale per dibattere del tema.

L’Udc esige il ritorno alle vecchie pene privative della libertà inferiori a sei mesi, con o senza condizionale, l’abolizione delle pene pecuniarie e la soppressione della condizionale per le condanne a lavori di pubblica utilità. Queste richieste riceveranno manforte in parlamento sia dal Gruppo liberale radicale, sia da quello dei popolari democratici, evangelici e verdi liberali. Il Partito liberale radicale ha anche lanciato petizione su internet che chiede alle Camere federali di modificare rapidamente il Codice penale.

Anche un paio di parlamentari socialisti hanno chiesto più severità, ma nel campo dei reati sessuali o violenti. Chantal Galladé ha auspicato l’aumento da uno a tre anni della pena minima per stupro. Daniel Jositsch, che è professore di diritto penale all’università di Zurigo, ha sollecitato una perizia per verificare se i tribunali penali sfruttano il margine di manovra offerto dal quadro normativo.

Gli altri partiti di governo non daranno invece all’Udc il sostegno che chiede per la sua iniziativa popolare ‘Per l’espulsione degli stranieri che commettono reati’. Il testo prevede che vengano privati del permesso di soggiorno tutti gli stranieri condannati per assassinio, stupro, brigantaggio, traffico di droga, effrazione, tratta di esseri umani o abuso delle prestazioni sociali. Qualunque siano le decisioni che scaturiranno dai dibattiti parlamentari, una cosa è già certa: susciteranno vive emozioni.

India: padri di due italiani detenuti iniziano sciopero della fame

 

Ansa, 3 giugno 2009

 

Giovanni Falcone, di Rotondella, in provincia di Matera, e padre di Angelo - detenuto in India dal 9 marzo 2007, insieme a Simone Nobili, piacentino - ha iniziato uno sciopero della fame per sollecitare il Governo ad intervenire per favorire almeno un contatto con il figlio, con il quale non parla al telefono da otto mesi.

I due italiani sono stati arrestati con l’accusa di detenzione di 18 chilogrammi di droga, e dopo l’arresto del 2007 sono stati condannati, il 22 agosto 2008, a dieci anni di carcere, che stanno scontando in una prigione di Nahan, città a circa 500 chilometri da Nuova Delhi.

Dal 23 al 27 aprile scorso, Giovanni Falcone ha incontrato il figlio in un viaggio in India insieme alla deputata radicale eletta nel Pd Elisabetta Zamparutti: "Ma dopo - ha spiegato oggi Falcone - non sono più riuscito a parlare con mio figlio e non so se stia bene o male e se abbia bisogno di assistenza particolare". Falcone ha ricordato di aver denunciato al Garante delle comunicazioni e alla presidenza della Commissione di vigilanza sulla Rai "il silenzio che circonda la vicenda dei tanti italiani detenuti in altri Paesi".

Laos: 20enne inglese incinta condannata all'ergastolo per droga

 

Ansa, 3 giugno 2009

 

È stata condannata all’ergastolo la donna britannica incinta accusata di traffico di stupefacenti in Laos. Lo riferisce la Bbc. Samantha Orobator, 20 anni, residente a Londra, era stata fermata con 680 grammi di eroina a Vientiane, lo scorso agosto. Durante la sua permanenza in carcere è rimasta incinta a dicembre, in circostanze ancora tutte da chiarire. La legge laotiana prevede la condanna a morte automatica se si è condannati per traffico di droga: nel suo caso, questa è stata evitata proprio perché è incinta. Tuttavia, è probabile che la condannata sia trasferita in Gran Bretagna a scontare la sua pena, visto che nelle scorse settimane un accordo per lo scambio di detenuti è stato firmato dalle due nazioni.

 

 

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