Rassegna stampa 9 gennaio

 

Giustizia: il governo di Berlusconi... e il "bluff" sulla sicurezza

di Gianluca di Feo

 

L’Espresso, 9 gennaio 2009

 

In aumento stupri, rapine ai negozi e sbarchi di clandestini. La tanto sbandierata lotta al crimine del governo Berlusconi non ha cambiato la situazione. Ma nessuno lo dice.

Potevano stupirci con giochi di luce ed effetti speciali, con i soldati nelle strade e retate spettacolari. Ma alla fine le cose non cambiano: il primo bilancio della sicurezza nell’era Berlusconi è un bluff. La situazione migliora, certo. Ma i reati diminuiscono nell’identica maniera in cui stavano calando negli ultimi mesi del governo Prodi. Sì, perché i record annunciati in pompa magna da prefetti e questori sono tali solo grazie al confronto con il 2007, l’anno nero segnato dal boom dei crimini per effetto dell’indulto. La contabilità reale dell’Italia a mano armata non cambia. Anzi, in certi settori peggiora. C’è un picco di rapine contro i negozi. C’è un aumento in diverse città di quelle violenze sessuali che soltanto un anno fa avevano contribuito a far dilaniare il senso di insicurezza. E c’è un peggioramento drammatico dell’immigrazione clandestina dall’Africa: 36.800 persone sbarcate nel 2008, la cifra più alta negli ultimi dieci anni. Insomma, una debacle proprio su quel tema cavalcato dal centrodestra nell’ultima campagna elettorale.

Banditi alla cassa - Partiamo dal risultato migliore. Tutti i bilanci sbandierati per il capodanno mettono in evidenza un dato di sicuro effetto: il crollo delle rapine in banca. Tutto vero. Le statistiche che l’Ossif, l’osservatorio per la sicurezza dell’Abi, ha elaborato per L’espresso mostrano da giugno a ottobre - i primi mesi del governo Berlusconi - un calo del 26,7 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Complimenti? Pochi. Perché già nell’ultimo semestre prodiano il miglioramento era stato netto: oltre il 23 per cento di colpi in meno. Insomma, persino in questo caso il cambiamento è minuscolo. E la medaglia al valore va soprattutto agli istituti di credito, che hanno incrementato le protezioni spingendo i banditi verso obiettivi meno difesi. Sono così finiti nel mirino uffici postali, supermercati e negozi.

Le rapine agli esercizi commerciali sono in crescita quasi ovunque. A Milano i dati ufficiosi della questura, segnalano un boom: a metà dicembre ne erano state censite 626 contro le 460 dell’intero nefasto 2007, un terzo in più. Nella provincia di Bologna tra gennaio e novembre ne sono state contate 127 (7 per cento in più). A Napoli e a Bari le aggressioni ai negozianti sono in lieve aumento, nella capitale invece tocca alle Poste pagare il prezzo più caro. In tutta Italia però il primato negativo spetta alle farmacie. A Roma e Milano i colpi sono triplicati. Nel capoluogo lombardo si è passati da 131 a 267. Mentre i farmacisti si mobilitano, chiedendo più sicurezza, le altre categorie non danno visibilità all’allarme. Eppure erano state proprio le organizzazioni dei commercianti ad animare le proteste di piazza più clamorose contro il crimine.

Indulto - L’Italia delle statistiche criminali è un labirinto dove si fatica a trovare dati omogenei: di anno in anno cambiano i riferimenti territoriali e persino i criteri. È come se i numeri rispecchiassero la nostra atavica incapacità di coordinamento tra i responsabili dell’ordine pubblico. "È un caos, senza serie storiche, con procedure che risalgono all’epoca fascista", sintetizza il professor Giandomenico Amendola, autore per Liguori di Città, criminalità, paure: "Nessuno riesce ad avere basi per impostare una politica di sicurezza". "Quella che emerge è una criminalità a macchia di leopardo, senza aree omogenee. I dati sono controversi: diminuiscono i reati ma aumentano le persone denunciate", puntualizza Ernesto Savona, docente di criminologia alla Cattolica e direttore di Transcrime.

Così L’espresso ha dovuto attingere a fonti diverse. I bilanci, provvisori e parziali, di fine anno delle forze dell’ordine sono tutti positivi. C’è un dato però che tende ad uniformare le città del centro-nord: un calo dei reati totali nel 2008 tra il 15 e il 20 per cento, su cui incide soprattutto il crollo di furti e borseggi. Ed è sorprendente notare come questa flessione coincida in linea di massima con l’effetto determinato nel 2007 dall’indulto, la scarcerazione di massa senza prospettive di reinserimento che provocò un aumento dei reati predatori.

A crollare ora sono le rapine in banca, i borseggi, i furti di auto: gli stessi misfatti che - come evidenzia un’analisi scientifica di Giovanni Mastrobuoni e Alessandro Barbarino del Collegio Carlo Alberto di Torino - subirono la maggiore impennata dopo la clemenza del 2006. Tra le pochissime città che possono vantare un miglioramento anche rispetto al 2005 spicca Verona. In tutta Italia, però, se si cerca di esaminare settori senza legami con l’indulto, come omicidi e narcotraffico, allora i buoni propositi svaniscono.

Per gli omicidi, un orientamento arriva dal Web dove un gruppo di laureati in sociologia li censisce in tempo reale usando le cosiddette fonti aperte (www.delittiimprefetti.com). Nel 2008 hanno contato 609 morti violente: solo 10 in meno dell’anno precedente. In 158 casi il movente è classificato come mafioso e in 50 come rapina. Il primato di sangue va alla Campania (114) seguita dalla Lombardia (76).

Spot marziale - Il principale provvedimento show del governo è stato l’invio dei soldati nelle strade cittadine, sostenuto dal ministro Ignazio La Russa. Sono stati utili? Sicuramente, ma si è trattato di una misura essenzialmente di immagine. Il ministero dell’Interno ritiene che i tremila militari abbiano liberato 1.100 agenti e carabinieri. Per l’esattezza, con mille fanti davanti agli obiettivi sensibili sono stati recuperati 369 uomini delle forze dell’ordine; altri mille soldati hanno riscattato 778 poliziotti dalla sorveglianza dei centri immigrati; infine altri mille sono andati di ronda nei quartieri.

Mille è un numero evocativo, ma contrariamente allo spirito garibaldino di rivoluzionario si è visto poco. A Milano, per esempio, i 170 alpini che si sono alternati nei controlli di fatto hanno permesso di schierare una ventina di pattuglie al giorno. "Che senso ha impiegare l’esercito contro i piccoli spacciatori in una realtà come Torino?", commenta Fabrizio Battistelli, docente di sociologia alla Sapienza che ha appena pubblicato per Franco Angeli La fabbrica della sicurezza: "Non dimentichiamo che abbiano già le forze dell’ordine più numerose di tutta Europa, sarebbe assurdo pensare che tremila militari cambino la situazione". Una stima calcola che ci siano 355 mila uomini solo nei corpi di polizia nazionali: una massa che rende irrilevante il supporto dei soldati.

"Le ronde miste non possono risolvere i problemi di metropoli complesse come Napoli", aggiunge il professor Amendola: "Anche un’innovazione positiva come il poliziotto di quartiere poi è stata applicata in modo sbagliato. A Napoli ce ne sono sei per vigilare su due quartieri con 200 mila abitanti". Quanto ai carabinieri e ai poliziotti liberati dall’intervento dell’Esercito, senza addestramento e riqualificazione è difficile che diano contributi significativi. Ma alle forze dell’ordine mancano mezzi e uomini in tutti i reparti chiave.

E non ci sono fondi nemmeno per rimpiazzare i vuoti. Secondo l’Arma, nel 2009 servirebbero 450 milioni di euro per addestramento e manutenzione mentre il bilancio dello Stato prevede solo 270 milioni: il taglio andrà a colpire soprattutto la preparazione e quindi i risultati operativi. In tutte le città si lamentano carenze di personale proprio in quei settori determinanti per la sicurezza. Il questore di Treviso Carmine Damiano ha parlato di otto volanti in meno. Riccardo Ficozzi, combattivo segretario del Siulp fiorentino, definisce "lo sforzo richiesto alla polizia" come "superiore alle nostre possibilità: per mantenere gli impegni elettorali ci avviciniamo al collasso. La richiesta di maggiore impegno, si traduce in pattuglioni straordinari e doppi turni mentre registriamo una drastica riduzione di agenti e mezzi. Firenze nel 2008 ha perso 49 poliziotti, mai rimpiazzati". Il sindacalista cita un episodio surreale: "La Squadra mobile per pedinare un criminale si è dovuta far prestare la moto da un privato cittadino".

Violenza senza notizia - L’episodio della ragazza stuprata a Roma durante il party di Capodanno patrocinato dal Campidoglio, conquistato dal Pdl grazie a una campagna martellante sulla sicurezza, ha riacceso i riflettori su questo reato, dimenticato dopo gli slogan elettorali. Ma l’anno appena chiuso non ha visto miglioramenti degni di nota. Nella Capitale il questore ha riconosciuto l’aumento degli abusi sulle donne. In Lombardia i carabinieri nel 2008 hanno registrato 583 casi, stesso numero del 2007, 22 in più del 2006. Nella provincia di Milano a fine novembre erano 208, contro i 228 dell’intero 2008. L’espresso si è rivolto alla Mangiagalli, la struttura del Policlinico milanese che gestisce il Servizio di soccorso sulla violenza sessuale.

Al 12 dicembre i casi erano stati 325, la stessa cifra dell’intero 2007 molti più del 2006. Alessandra Kustermann, responsabile del Centro violenze sessuali, spiega che mentre gli stupri "da strada" sembrano in lieve calo, sono in aumento le aggressioni tra conoscenze occasionali. "Molte iniziative hanno dato i frutti sperati come una maggiore illuminazione notturna, gli autobus a chiamata e un aumento dei servizi pubblici. Tutti fattori che contribuiscono ad abbassare il numero delle aggressioni da parte di sconosciuti. Ma nel nostro centro registriamo un aumento degli stupri commessi da qualcuno incontrato in discoteca o presentato da amici; e sempre più spesso queste persone utilizzano le droghe dello stupro, sostanze che provocano perdita di coscienza e memoria, versate nei cocktail".

La droga ordinaria - Il settore della lotta agli stupefacenti è uno dei pochi che offre statistiche aggiornate su scala nazionale. Su questo fronte l’attenzione mediatica non sembra diminuita, anche a causa Ignazio La Russa dei reati causati dai tossicomani. Ma al dilagare del consumo non sembrano corrispondere attività di contrasto proporzionali. I dati ufficiali di giugno-novembre mostrano addirittura un calo delle quantità sequestrate rispetto agli stessi mesi del 2007: 14 tonnellate contro 18. Le forze dell’ordine hanno messo le mani su 3 quintali di eroina e 2,5 tonnellate di cannabis in meno. Positivo solo il bottino nella cocaina, 180 chili in più. A sorprendere però è il calo delle operazioni, 500 in meno, e soprattutto delle persone denunciate o arrestate, oltre 1700 in meno. Tutti gli esperti concordano su un fatto: in assoluto, questi dati hanno uno scarso rilievo statistico. Ne emerge però l’assenza di una mobilitazione straordinaria proprio su una materia che viene percepita come emergenza nazionale.

Assalto alle coste - Il ministro leghista Roberto Maroni ha fatto del contrasto all’immigrazione clandestina una delle priorità di governo. Finora però è stato sfortunato. Nel 2008 gli sbarchi dall’Africa sono moltiplicati, segnando un vertiginoso più 75 per cento: a Lampedusa e sulle coste di Calabria e Sardegna sono arrivati in 36.900. Sono cifre senza precedenti: i picchi del 98-99 erano dovuti soprattutto all’emigrazione dai Balcani lungo la rotta albanese, in rapporto con il conflitto del Kosovo.

Adesso invece i migranti arrivano dal Maghreb o dalla disperazione dell’Africa nera, partendo dagli scali libici riaperti dal governo di Tripoli dopo la vittoria elettorale di Berlusconi. In forte passivo anche il risultato dei rimpatri: nei primi sette mesi erano stati 4.082 su 14.420 nuovi arrivi e in tutto l’anno non dovrebbero avere superato gli ottomila. Mentre i bollettini delle questure sono pieni di espulsioni decretate ma teoriche, gli sforzi del ministro hanno permesso di noleggiare solo 38 voli charter per portare via 1199 extracomunitari.

Paura repressa - Se i reati non cambiano perché la percezione di insicurezza appare in calo? "Semplice: c’è un blackout nelle informazioni. I Tg e i grandi quotidiani non ne parlano quasi più", commenta Battistelli: "Dopo due anni spesi ad esaltare ogni delitto, la materia non è più nell’agenda politica del centrodestra: non ci sono più proteste di piazza che chiedono maggiore protezione".

Concorda Ernesto Savona di Transcrime: "Si è parlato molto meno di sicurezza e quindi si è creata sicurezza. Oggi la percezione del problema è di gran lunga inferiore rispetto a quanto accadeva in campagna elettorale, mentre i dati oggettivi sono sostanzialmente stabili. Ma non è un metodo solo italiano, accade così in tutti i paesi occidentali".

Il professor Amendola pone l’accento su un altro aspetto: "Questo governo abbassa l’ansia tentando di contestualizzare i delitti. Se c’è un omicidio e viene presentato come una vendetta privata, un litigio passionale o un’esecuzione di mafia, così non si crea senso di insicurezza". Molti omicidi restano così con moventi sospesi. Il tabaccaio ucciso nel Lodigiano a Capodanno: rapina o vendetta? Il gioielliere ammazzato nella sua villa da una gang romena alle porte di Roma: razzia o punizione? L’effetto silenziatore è stato paradossale a Napoli con l’omicidio di Antonio Metafora, avvocato settantenne molto noto ucciso nel suo studio in pieno centro.

La versione iniziale? Lite per uno sfratto: un giovane si è vendicato per l’ingiunzione contro la madre. Insomma un caso banale. Solo in un secondo momento è stato fornito un quadro diverso: il legale aveva dato lo sfratto a un garage di Secondigliano gestito dalla camorra e il killer era genero del boss Licciardi. Metafora era stato già minacciato, conosceva il pericolo ma non si era arreso, venendo punito con tre colpi di revolver: ai funerali è stato paragonato a Giorgio Ambrosoli, ma la storia è rimasta nelle cronache locali.

La crisi criminogena - Gli esperti sono convinti che il nuovo anno comporterà una sfida pesante: l’aumento dei reati predatori - furti e rapine - legato alla disoccupazione. Il questore di Treviso Damiano ha presentato lo scenario con chiarezza: "In quattro mesi hanno perso il lavoro 2.500 persone, metà delle quali straniere. Mi pare evidente che gente senza lavoro, per mangiare, si deve arrangiare in qualche modo".

"Il fenomeno sta emergendo con forza in Gran Bretagna, dove ci sono meno ammortizzatori sociali: la crisi sta facendo aumentare i reati di strada", spiega Savona. Ma l’impatto è stato misurato da uno studio di due professori, Riccardo Marselli e Marco Vannini: l’aumento di un punto del tasso di disoccupazione provoca 118 furti, 12 rapine e 0,2 omicidi in più ogni 100 mila abitanti. La loro analisi si spinge anche a calcolare il costo su scala nazionale per questi crimini da impoverimento: un miliardo di euro l’anno. E pensare che c’è chi teme un aumento della disoccupazione di due punti: una prospettiva, quella sì, da vera emergenza. Criminale, ma soprattutto sociale.

 

Hanno collaborato Giorgio D’imporzano e Paolo Tessadri

Giustizia: Berlusconi ora frena; per la riforma non c’è urgenza

 

Il Tempo, 9 gennaio 2009

 

La riforma della giustizia? Con calma. Silvio Berlusconi frena leggermente su quella che sembrava essere una delle priorità del suo 2009 e, parlando con i giornalisti a Palazzo Grazioli annuncia: "La riforma della giustizia si farà ma non c’è nessuna urgenza. Comunque, inizieremo ad esaminarla già dal prossimo Cdm. Io ritengo che nel giro di uno, due, tre Consigli dei ministri si possa arrivare ad una riforma condivisa".

Parole che, però, non devono trarre in inganno. Non sarà certo il premier a dialogare con l’opposizione. "Certo - spiega -, io non posso sedermi al tavolo con questi signori della sinistra che mi danno dell’Hitler o mi definiscono Videla. Però, se i miei ministri, nella loro autonomia, vogliono trattare con gli esponenti del centrosinistra non ci sono problemi per me. Stesso discorso vale anche per i capigruppo del Pdl che possono dialogare".

Ma, al di là delle finezze stilistiche e lessicali il dato resta: la riforma non arriverà in tempi brevi. Una frenata che sembra accreditare la versione non ufficiale secondo cui, in questo momento, il Cavaliere abbia voluto evitare di aprire un nuovo fronte all’interno di una maggioranza già in fibrillazione. Anche per questo, ad esempio, il Consiglio dei ministri previsto per oggi non è stato neanche convocato.

A tenere sulle spine il governo sarebbe, ancora una volta, la Lega. I parlamentari del Carroccio, infatti, non sarebbero in linea con il Pdl su una serie di temi legati alla giustizia: dalle soluzioni individuate per il problema carceri a quella delle intercettazioni. Tanto che proprio su quest’ultimo punto la maggioranza ha preso tempo.

La commissione Giustizia della Camera, che ha deciso di adottare il ddl del governo come testo base per riformare il sistema di ascolto delle conversazioni, ha fissato al 21 gennaio il termine per la presentazione degli emendamenti, "quando - si maligna nel Pd - si sarebbe potuto fissare molto prima".

"Abbiamo voluto prenderci tutto il tempo necessario - spiega il presidente della commissione Giulia Bongiorno - per approfondire il tema e per avere un confronto costruttivo". Ma nel centrodestra non si nasconde che le differenze ci sono e che una soluzione condivisa ancora non si è trovata.

Berlusconi e Forza Italia, ad esempio, vogliono che le intercettazioni siano possibili solo per reati di mafia e terrorismo, mentre An e la Lega non vogliono rimettere mano alla lista dei reati contenuta nel ddl del governo, che infatti hanno deciso di adottare all’unanimità. Vogliono che si possano disporre intercettazioni anche per altri reati tra cui quelli contro la Pubblica Amministrazione e cioè anche per corruzione e concussione.

Nell’esecutivo di An di ieri Ignazio La Russa è stato chiarissimo: le intercettazioni dovranno essere previste per diversi reati, ma il Pm che ne farà richiesta dovrà motivare puntualmente perché le consideri necessarie e quali saranno gli obiettivi dell’indagine. Il ministro della Difesa, poi, ha preso le distanze anche su un altro punto: basta con la crociata a favore della separazione della carriere. È sbagliato pensare di poter passare come "un rullo compressore" sulle toghe. Le riforme vanno fatte, avrebbe aggiunto, ma a favore dei cittadini e non contro la magistratura.

Nella riunione si sarebbe poi fissato un altro paletto: no ad ogni ipotesi di elezione diretta di magistrati come chiede invece a gran voce il Carroccio. E, sempre per restare in tema, nella riforma dovrebbe trovare spazio un giro di vite sulla legge del 1988 che ha introdotto la responsabilità civile dei magistrati. Una richiesta da sempre avanzata dai Radicali e ora appoggiata da molti esponenti del Pd (Pierluigi Mantini ha presentato una proposta di legge in proposito).

Giustizia: Why not; Alfano chiede trasferimento 7 magistrati

 

La Repubblica, 9 gennaio 2009

 

Trasferimento di sede e di funzione per sei magistrati di Salerno e Catanzaro, stop anche allo stipendio per il procuratore di Salerno, Luigi Apicella, di cui la Cassazione ha già chiesto il trasferimento cautelare. È la richiesta, in via d’urgenza, che il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha firmato nella tarda serata di ieri e che sarà inviata alla sezione disciplinare del Csm, già convocata per domani, sabato 10 gennaio. La decisione del ministro della Giustizia è stata presa alla luce degli accertamenti svolti dagli ispettori di via Arenula e dei documenti inviati da Palazzo dei Marescialli in merito allo scontro sulle due procure.

Oltre all’atto di incolpazione nei confronti di Apicella, gli altri magistrati di Salerno di cui Alfano chiede il trasferimento cautelare d’ufficio in via d’urgenza, sono i sostituti Gabriella Nuzzi e Dionigio Versani, che hanno messo sotto inchiesta i colleghi di Catanzaro e che hanno firmato il sequestro del fascicolo Why not dopo le denunce di Luigi De Magistris (l’ex pm di Catanzaro titolare di quell’inchiesta fintanto che non gli è stata avocata).

I magistrati di Catanzaro colpiti dal provvedimento del Guardasigilli sono invece il procuratore generale Enzo Jannelli, i sostituti Alfredo Garbati, Domenico De Lorenzo e Salvatore Curcio: si tratta delle toghe che hanno firmato il provvedimento di contro sequestro del fascicolo Why not e che hanno a loro volta messo sotto inchiesta i colleghi salernitani. In questo modo, al termine di un’istruttoria avviata dal suo ispettorato, il ministro Alfano ha esercitato con pugno di ferro l’azione disciplinare, potere che condivide con il procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito. Se però per quest’ultimo l’azione disciplinare è un obbligo di legge, per il Guardasigilli è una facoltà. Che Alfano ha voluto esercitare appieno, andando anche oltre la misura cautelare chiesta dal Pg della Cassazione soltanto per Apicella.

La procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità aperta dalla prima commissione nei confronti di Iannelli, Garbati, De Lorenzo, Curcio, Nuzzi, Apicella e Verasani, sarà chiaramente messa da parte se la sezione disciplinare del Csm accoglierà la richiesta del ministro Alfano (e del pg di Cassazione per quanto riguarda Apicella) di trasferire i suddetti magistrati.

Giustizia: intercettazioni; via alla discussione in Commissione

 

Ansa, 9 gennaio 2009

 

La scelta di adottare il Ddl Alfano come testo base dal quale partire è stata votata dai soli deputati del centro destra. Tutti, però, concordano sulla necessità di apportare modifiche al provvedimento, sebbene ci siano divisioni all’interno della stessa maggioranza: il premier Berlusconi vorrebbe limitare le intercettazioni ai soli reati di mafia e terrorismo, mentre Lega e An sono per l’adozione di vincoli meno restrittivi.

La Commissione Giustizia della Camera, presieduta dall’onorevole Giulia Bongiorno, ha avviato la discussione del disegno di legge Alfano sulle intercettazioni, adottandolo come testo base con i soli voti del centro destra, e ha fissato al 21 gennaio il termine ultimo per la presentazione degli emendamenti. La maggioranza, infatti, punta a presentare in aula il provvedimento già all’inizio di febbraio.

Il capogruppo del Pdl all’interno della Commissione, Enrico Costa, spera si possa arrivare a una formulazione del provvedimento - che tutti concordano debba essere almeno in parte modificato - che permetta di ottenere il consenso del centro sinistra, ma le divisioni permangono anche all’interno della stessa maggioranza: il Premier Berlusconi, infatti, vorrebbe limitare l’uso delle intercettazioni ai soli reati di mafia e terrorismo, mentre An e Lega pensano a vincoli meno restrittivi.

Così come è formulato oggi, il Ddl Alfano prevede che non si possano pubblicare gli atti dell’indagine preliminare fino alla conclusione dell’udienza preliminare e introduce restrizioni sia per i giornalisti (con pene fino a tre anni di carcere per chi pubblica le intercettazioni), sia per i magistrati (i reati per i quali potranno essere disposte le intercettazioni saranno solo quelli per cui è prevista una pena di almeno 10 anni, quelli su cui indaga la Direzione Antimafia, quelli contro la Pubblica Amministrazione se la pena prevista è di almeno cinque anni di reclusione, le ingiurie, le minacce, l’usura e le molestie; i sospettati potranno essere intercettati per non più di tre mesi, prorogabili in alcuni casi; servirà l’autorizzazione del Tribunale e non più solo del Gip per dare il via alle intercettazioni e queste non potranno essere utilizzate in procedimenti diversi da quello per il quale sono state autorizzate).

Giustizia: un Commissario per le carceri; avrà poteri speciali?

 

Ansa, 9 gennaio 2009

 

Un Commissario straordinario per le carceri con poteri speciali tali da superare pastoie burocratiche e contenziosi amministrativi. L’ipotesi è allo studio dei Ministeri delle Infrastrutture e della Giustizia, e - secondo quanto si è appreso - farà parte, assieme alle modifiche al Codice di procedura penale, del "pacchetto" di riforme che il Guardasigilli Angelino Alfano porterà in uno dei prossimi Consigli dei ministri, entro la fine di gennaio.

Giustizia: Radicali; serve Garante nazionale diritti di detenuti

 

Redattore Sociale - Dire, 9 gennaio 2009

 

Ieri, a Roma, nella sede del Partito radicale, si è tenuto un incontro con i garanti dei diritti dei detenuti regionali e comunali, promosso da Radicali italiani e dai parlamentari della delegazione radicale nel Pd, al quale hanno preso parte anche numerosi rappresentanti di associazioni che operano nel settore delle carceri e della giustizia.

Nel corso del dibattito è stata ribadita la necessità di istituire la figura del garante nazionale dei detenuti "su base autonoma, settoriale e decentrata a livello locale". Ciò consentirebbe di superare i limiti di azione dei garanti già istituiti a livello regionale e locale, permettendo "una seria ed effettiva tutela dei diritti fondamentali di tutte le persone private della libertà personale". Per giungere più rapidamente all’istituzione di questo organismo, dal confronto è inoltre emersa, spiega la nota dei radicali, "la proposta di chiedere al ministro degli Esteri la ratifica del protocollo opzionale della Convenzione Onu contro la tortura, documento che impone ai singoli stati firmatari di istituire entro un anno la figura del "Controllore dei diritti delle persone detenute".

Nel corso dell’incontro Rita Bernardini, deputata Radicale-Pd e membro della commissione Giustizia, ha assunto l’impegno a "presentare al più presto una proposta di legge sul garante nazionale dei diritti dei detenuti, che preveda per esso poteri ispettivi e di accertamento maggiori rispetto al mero potere di persuasione di cui sono attualmente dotati i garanti regionali e locali".

Giustizia: Radicali; indagine su Ospedali Psichiatrici Giudiziari

 

Agi, 9 gennaio 2009

 

"Dopo un altra visita all’Ospedale Psichiatrico di Montelupo fiorentino, la seconda nel giro di poche settimane, una interrogazione parlamentare, propongo alla Commissione Sanità del Senato, appellandomi direttamente al suo presidente Antonio Tomassini, di effettuare una indagine conoscitiva e delle audizioni dei responsabili sanitari degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari".

È quanto afferma la senatrice Donatella Poretti (Radicali-Pd), dopo una visita all’Opg di Montelupo fiorentino dove, denuncia, "può sembrare paradossale, ma è in realtà esemplificativo di una vicenda grottesca, che dopo essere rimasti senza acqua calda e termosifone per molti giorni a dicembre, l’impianto dell’ala ristrutturata (consegnato a settembre 2007) fa uscire dai rubinetti solo acqua calda, e così gli internati per berla devono metterla a raffreddare alla finestra!

Questa è la situazione cui mi sono trovata davanti stamani durante la visita ispettiva accompagnata da: Marco Bazzichi, membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani e Pietro Yates Moretti, vicepresidente Aduc (Associazione Diritti Utenti e Consumatori). Un esempio di come ristrutturare quella struttura è come gettare un bicchiere d’acqua in mare, sono soldi che sarebbe meglio impiegare in altro modo, ripensando alla radice un meccanismo infernale che non cura persone malate, e che non può che aggravare disagi mentali e psichiatrici già in essere.

Celle progettate per tre o cinque persone, ne ospitano sette o otto. La Asl di Empoli che certifica come in situazione di sovraffollamento non può essere garantito il livello minimo di assistenza sanitaria e il Dap continua ad inviare detenuti o internati. Un meccanismo perverso che decreta come persone che devono essere curate - e che infatti non vengono neppure condannate, ma prosciolte e a cui viene comminata una misura di sicurezza, o che vengono mandate in "cura" dalle carceri - vengono chiuse nelle celle, e sorvegliate dagli agenti penitenziari".

"Il sistema carcerario è definito spesso come la pattumiera della società, in questo sistema gli Opg sono il deposito di persone che non sono accettate neppure nelle carceri. Gli internati sono gli ultimi degli ultimi, non possono godere della riforma Basaglia e della fine dell’istituzionalizzazione del malato mentale, non possono godere dei benefici della legge Gozzini perché dipendono da perizie psichiatriche e da comunità terapeutiche che con le Asl di residenza dovrebbero realizzare programmi di recupero, un miraggio. Fino ad arrivare al paradosso che per chi non ha una residenza non avrà mai una Asl che se ne faccia carico e non riuscirà a uscire mai, gli ergastoli bianchi".

Giustizia: no a permessi "ad hoc" per consumare il matrimonio

 

Ansa, 9 gennaio 2009

 

La Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione (Sent. n. 3282/2008) ha stabilito che in carcere non può essere prevista alcuna tutela per le nuove famiglie. Gli Ermellini, rigettando il ricorso hanno infatti precisato che "il ricorso debba essere dichiarato inammissibile sostenendo una tesi infondata e contraria alla disciplina legislativa in materia.

Il motivo vero per il quale viene chiesta questa interpretazione anomala del permesso disciplinato dall’art. 30 O.P. è che il condannato non può beneficiare del permesso premio disciplinato dall’art. 30-ter, trattandosi di persona condannata all’ergastolo che non ha ancora maturato il diritto a beneficiarne, il che significa che non esiste un divieto assoluto di tutela di tale esigenza affettiva e umana, ma che i detenuti debbono trovarsi nelle condizioni di poter beneficiare della misura.

Ne consegue che sussistendo lo strumento giuridico per beneficiare della possibilità di incontrare i familiari nell’ambiente domestico, non vi è alcuna illegittimità costituzionale di una norma che ha come scopo ben altro che non un’esigenza naturale ed affettiva, sacrificata per lo stato di detenzione.

Non si comprende come tale esigenza debba avere una disciplina diversa se ad invocarla è un detenuto sposato rispetto ad uno non sposato, oppure se viene invocata da uno che si è sposato prima della detenzione o durante la detenzione. Tra gli eventi di particolare gravità può rientrare tutto ciò che ha carattere dell’eccezionalità e non il diritto ad avere rapporti sessuali, che per sua natura, non ha alcun carattere di eccezionalità".

Giustizia: il "detenuto fannullone", nuovo fronte per Brunetta?

 

Italia Oggi, 9 gennaio 2009

 

Oggi solo il 3% dei detenuti lavora per ditte esterne. A denunciarlo, il liberale Raffaele Costa. Costa, dalla sua Mondovì, ha fustigato per decenni il malcostume della pubblica amministrazione, denunciando i fannulloni ministeriali fin da quando Renato Brunetta, il ministro della Funzione pubblica assurto a fustigatore dei travet fannulloni, aveva i calzoni corti. Ora torna alla carica, Costa, inviando una lettera al ministro della Giustizia Angelino Alfano: ha visitato alcuni istituti di pena della provincia di Cuneo, passando in quei luoghi alcune ore della fine dell’anno. Saluzzo, Fossano, Alba: le celle dei penitenziari ospitano letti a castello, e i detenuti non lavorano. Solo qualcuno si occupa delle cucine, gli altri "ammazzano il tempo", specie coloro che hanno esperienze nel settore degli omicidi. Manca insomma lo strumento riabilitativo per eccellenza, ovvero il lavoro. Brunetta intervenga…

Giustizia: "serial killer vecchiette", chiesta condanna a 20 anni

 

La Gazzetta del Mezzogiorno, 9 gennaio 2009

 

Il sostituto procuratore del tribunale di Taranto, Maurizio Carbone, ha chiesto la condanna alla pena di 20 anni di reclusione per Ben Mohamed Ezzedine Sebai, il tunisino di 44 anni ritenuto il serial killer delle vecchiette uccise in Puglia negli anni Novanta. La richiesta di condanna, formulata nel corso di un processo con rito abbreviato, riguarda l’omicidio di Rosa Lucia Lapiscopia, di 90 anni, uccisa a Laterza (Taranto) il 21 agosto del 1997.

Sebai è già stato condannato con sentenza definitiva a quattro ergastoli per altrettanti omicidi commessi in Puglia, a 18 anni (in primo grado) per un altro delitto compiuto nel foggiano ed ha confessato di aver ucciso altre nove donne. Nel corso del processo in corso a Taranto, che riguarda quattro omicidi di altrettante anziane, un altro pm, Vincenzo Petrocelli, sempre oggi ha chiesto invece l’assoluzione del tunisino dall’omicidio di Celestina Commessatti, di 73 anni, assassinata a Palagiano (Taranto) il 13 agosto 1995.

Nella scorsa udienza, invece, il pm Antonella Montanaro aveva chiesto l’assoluzione del serial killer per gli omicidi di Grazia Montemurro, di 75 anni (uccisa a Massafra il 4 aprile 1997), e di Pasqua Rosa Ludovico, di 86 anni (morta a Castellaneta il 14 maggio 1997). Per due magistrati su tre, dunque, Sebai non è credibile.

Il tunisino è stato etichettato dalla pubblica accusa come un "mitomane" che vuole scagionare detenuti che ha conosciuto in carcere. Solo l’omicidio Lapiscopia, per il quale è stata chiesta oggi la condanna, era ancora insoluto. Per gli altri delitti erano stati condannati in via definitiva altri imputati che vengono ritenuti "assolutamente innocenti" dai loro difensori.

Il gup Valeria Ingenito nel corso dell’udienza ha respinto la richiesta di sospensione del processo e l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 52 del Codice di procedura penale nella parte in cui prevede la facoltà e non obbligo di astensione del pubblico ministero. L’eccezione era stata sollevata dal legale di Sebai, Luciano Faraon. Secondo il difensore, i pm Montanaro e Petrocelli, che hanno chiesto oggi l’assoluzione del tunisino per tre dei quattro omicidi confessati dall’imputato, "avrebbero dovuto astenersi per evidenti situazioni di incompatibilità visto che hanno sostenuto l’accusa di persone (ottenendone poi la condanna, ndr) che alla luce delle confessioni di Sebai risultano invece essere innocenti".

"La procura di Taranto è spaccata sull’attendibilità del serial killer delle vecchiette pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è credibile e va assolto dall’accusa di aver compiuto tre omicidi; per un altro pm è invece credibile e va condannato a 30 anni di reclusione". Lo evidenzia l’avv. Claudio Defilippi legale di sei delle otto persone (una si è suicidata in carcere dopo la condanna) detenute da lunghi anni "pur essendo innocenti".

Dei delitti per i quali gli otto sono stati condannati si è successivamente accusato Sebai. Defilippi chiede che il gup di Taranto Valeria Ingenito, dinanzi alla quale è a giudizio Sebai, disponga un confronto all’americana tra i suoi assistiti e il tunisino. E rilancia: "il fatto che i tre pm di Taranto non la pensino allo stesso modo sull’attendibilità di Sebai dovrebbe spingere il ministro della Giustizia a disporre un’ispezione in procura". Per Defilippi, vi è nel processo una "situazione di incompatibilità dei pm Montanari e Petrocelli".

"Questi - sottolinea - prima hanno chiesto ed ottenuto il rinvio a giudizio e la condanna definitiva di alcune persone che si proclamano da sempre innocenti (Vincenzo Donvito, poi suicidatosi, Francesco Orlandi e Vincenzo Faiuolo) e successivamente chiedono l’assoluzione per gli stessi omicidi per il serial killer".

Lettere: per la pace e la giustizia sociale… tra guerra e carceri

di Rosa Alba Casella (Direttrice della Casa Circondariale di Forlì)

 

Corriere Cesenate, 9 gennaio 2009

 

La giornata mondiale della pace, che dal 1968 la Chiesa celebra il primo gennaio di ogni anno, è certamente l’occasione per ricordare tutti i popoli che ancora vivono e soffrono gli orrori della guerra, in Africa, in Asia come nel Medio Oriente. Ne siamo bene informati, in quanto i mass media ci hanno abituato ad avere notizie di quello che accade in qualsiasi parte del mondo in tempo reale ed in questo bombardamento mediatico ci siamo quasi assuefatti a guerre, che comunque non ci toccano.

Certo ci indignano, ci preoccupano, ma solo per alcuni minuti o per alcuni giorni dell’anno. Per il resto restiamo indifferenti, quasi rassegnati all’ineluttabilità dell’homo lupus homini. Sappiamo che il male alberga nell’uomo e quindi abbiamo imparato a conviverci, forse senza impegnarci adeguatamente per vincerlo, senza sentirci responsabili di quello che accade intorno a noi.

Allo stesso modo diamo per scontata la pace alla quale siamo abituati da oltre cinquanta anni, senza considerare che si tratta di un bene prezioso ed allo stesso tempo molto fragile, in quanto nel mondo globalizzato in cui viviamo gli effetti di un conflitto si riverberano direttamente o indirettamente sugli altri paesi, non solo su quelli geograficamente vicini.

Quasi sempre le guerre si originano da desideri di ricchezza e di egemonia, ma non meno frequentemente dall’esigenza di affrancarsi dalla povertà, che rende tragiche le condizioni di vita di alcuni rispetto al benessere di altri, come ci ricorda il tema di questa giornata.

Nonostante il mondo in cui viviamo abbia raggiunto livelli di opulenza senza precedenti, la quantità di beni, cibo e servizi disponibili a livello globale sia superiore a quella di qualsiasi altra epoca, 862 milioni di persone, secondo le più recenti stime della Fao, sono sottonutrite, soprattutto nell’ Africa sub-sahariana e in Asia meridionale, perché non riescono ad accedere al cibo necessario per sopravvivere. Si tratta di persone che non hanno il potere di acquisto per ottenere la quantità di alimenti di cui hanno bisogno, talmente tanto povere da rischiare la loro sopravvivenza, così come quella dei propri figli ai quali non riescono a garantire una aspettativa di vita.

Le statistiche dicono che la povertà si è ridotta, ma è ben lontana dall’essere sconfitta e di conseguenza continua a mietere le sue vittime soprattutto tra i bambini e i malati, la cui sopravvivenza dipende dagli aiuti del cosiddetto mondo ricco, che in genere promette, ma non mantiene. Così nonostante i buoni propositi non si riesce ad invertire la rotta, a colmare il divario tra le diverse condizioni di vita degli uomini, che abitano lo stesso pianeta.

Giovanni Paolo II scriveva che il problema della disparità tra ricchi e poveri "si impone alla coscienza dell’umanità, giacché le condizioni in cui versa un gran numero di persone sono tali da offendere la nativa dignità e da compromettere conseguentemente l’autentico ed armonico progresso della comunità mondiale".

Oggi il problema della povertà sappiamo che investe anche parte della popolazione italiana, che vive in condizioni precarie. Nella nostra Italia ricca e benestante i poveri sono già il 5% e tale percentuale è destinata ad aumentare man mano che la crisi economica farà sentire gli effetti, provocando la perdita di nuovi posti di lavoro e quindi la fonte primaria di reddito. Il divario tra ricchi e nuovi poveri si amplia, generando situazioni di crisi all’interno delle famiglie indebitate, che possono anche sfociare in gesti violenti inconsulti, oltre che provocare tensioni sociali, quando la disperazione prende il sopravvento

Il cardinale Tettamanzi, che nell’omelia di Natale ha compiuto un grande gesto concreto di solidarietà, ha sottolineato che l’origine della crisi sta a monte dell’economia, perché la produzione e la distribuzione delle risorse implicano sempre un aspetto etico e non può dirsi etica un’economia che non metta al centro l’uomo, ma il profitto da perseguire ad ogni costo.

La povertà, infatti, non è soltanto la mancanza di risorse economiche, ma anche la carenza di valori, l’indifferenza verso gli altri, l’individualismo che ci corazza e ci impedisce di vedere i bisogni dell’altro, in una parola quello che oggi viene definito "sottosviluppo morale". E questa povertà mette a rischio la pace, non meno di quella economica.

La rincorsa del "bene-avere" ha oscurato spesso l’esigenza del "bene-essere", portando al disimpegno ed all’individualismo, a favorire gli interessi di alcuni a danno degli altri, alla frammentazione di progetti sociali e politici, radicati in prospettive di valori differenti e contrastanti. Si assiste ad una corsa generalizzata all’accumulazione, all’appropriazione delle risorse comuni sulla base della legge che il più forte ottiene di più, con conseguente ribaltamento di ogni logica retributiva e distributiva.

Nella nostra società in cui conta soltanto il benessere, cercato sconsideratamente, ed in cui ognuno cerca di allontanare da sé tutto ciò che dà fastidio o crea problemi, coloro che non riescono ad uniformarsi agli standard previsti dal consumismo e dal mito del successo vengono scartati e fatti sparire in quella discarica che è il carcere. Si tratta di extracomunitari, tossicodipendenti, senza fissa dimora e disabili mentali, la fascia degli outsider sociali, che si prestano a catalizzare le nostre ansie di sicurezza.

Don Ciotti oltre 10 anni fa, parlava del carcere come una specie di moderno lazzaretto, chiamato a contenere fasce di povertà culturale e materiale, di disagio e malattia e la situazione non è cambiata.

Su 58 mila detenuti in Italia, il 38 per cento è costituito, infatti, da stranieri e non certo perché l’immigrazione è la causa principale della criminalità, in quanto l’aumento dei reati commessi dagli stranieri non riguarda tutte le attività illecite, né tutti i livelli in cui vengono svolte: nel sistema di stratificazione sociale gli stranieri si trovano ancora nei gradini più bassi, per cui sono esclusi dalla possibilità di commettere determinati tipi di reato, che coinvolgono invece i ceti più elevati. L’alta percentuale di stranieri in carcere si spiega con le difficoltà di adattamento e di integrazione: si tratta, infatti di persone che in genere hanno progetti migratori finalizzati all’acquisizione del tenore di vita pubblicizzato dai mass media e raggiunto da un gruppo di riferimento e la loro scelta dell’illegalità è spesso determinata dalla difficoltà di raggiungere la meta prefissata del successo economico.

L’altro 30 per cento della popolazione detenuta è costituito dai tossicodipendenti: anche in questo caso l’incidenza non è legata allo status, ma alla commissione di reati in materia di droga, che in Italia costituiscono la prima causa di ingresso in carcere. Peraltro se molti dei tossicodipendenti sono imputati per reati di detenzione e spaccio, il 50 per cento di questi è incriminato per reati contro il patrimonio (furti, scippi e rapine), commessi per il bisogno di procurarsi la droga. Alla condizione di tossicodipendenza è collegata poi, anche se non esclusivamente la presenza di detenuti sieropositivi, e di persone affette da disturbi psichiatrici, spesso conseguenza dell’uso prolungato di sostanze, in particolare cocaina e droghe sintetiche.

In nome della sicurezza sociale, cercata ossessivamente quasi che fosse possibile blindare il male, assistiamo ad un aumento dei tassi di carcerazione, con conseguente sovraffollamento della popolazione detenuta, tanto da far apparire necessaria la costruzione di nuovi carceri, di cui si parla frequentemente ed insistentemente.

Il cardinale Martini alcuni anni fa affermava: "Preferirei che non si costruissero più carceri, ma ci preoccupassimo e ci impegnassimo nel costruire uomini, attraverso un’educazione fondata sul valore della persona", ritenendo che il carcere, in mancanza di altre soluzioni può servire come momento di emergenza per rompere una catena di violenza, per ricondurre alla ragione chi si è lasciato travolgere dall’istinto, dalla paura, dall’aggressività, ma che "non ci si può più illudere di ripulire la società riempiendo le prigioni".

"Chi sbaglia deve pagare" è questo l’assioma radicato nella nostra cultura. È convinzione diffusa che per superare il problema della criminalità basti contrapporre il negativo al negativo: più dure e durature saranno le pene, meno sarà la delinquenza. L’esperienza, anche di altri paesi europei dimostra che le cose non funzionano in questo modo, così come i tassi di criminalità degli Stati Uniti, in cui i livelli i detenzione sono superiori a quelli europei ed è previsto l’uso della pena di morte, come forma estrema di intimidazione.

Nel nostro ordinamento, l’idea di una pena esclusivamente retributiva, che risponda al criterio di "occhio per occhio, dente per dente", di una pena fine a se stessa, basata sull’emarginazione e sull’esclusione è superata dal principio costituzionale della pena finalizzata alla rieducazione.

La condizione si ne qua non per dare attuazione al dettato costituzionale consiste nel permettere al detenuto di mantenere la dignità, di preservare la sua integrità fisica e morale, di dare spazio alla scuola ed alla cultura, alle attività in comune ed al lavoro, considerati dall’ordinamento penitenziario come elementi del trattamento, attraverso i quali fornire al soggetto nuovi stimoli ed opportunità per modificare il proprio stile di vita, innescare processi di cambiamento.

Pena rieducativa significa rendere la detenzione un’occasione di ripensamento della propria vita, di acquisizione di risorse, competenze, opportunità, relazioni utili ad emanciparsi e ad assumere un ruolo positivo: non si può tacere, infatti, che molti sperimentano solo durante la carcerazione un modo di vita normale, beninteso come può esserlo quello all’interno dell’istituzione.

Il processo di rieducazione non può attuarsi senza il riconoscimento ed il rispetto della persona e della sua dignità, dell’inalienabilità dei suoi diritti e dei suoi bisogni. Comunemente abbiamo la tendenza a ridurre gli uomini, in particolare quelli che hanno sbagliato alle proprie azioni, senza riflettere che dietro azioni non condivisibili vi sono persone la cui storia non può risolversi nel gesto che hanno compiuto. "L’uomo della condanna è diverso dall’uomo del delitto, non è definitivamente congelato nel suo gesto." Può peggiorare, ma anche migliorare.

Una persona può se aiutata intraprendere un percorso diverso: ogni uomo ha diritto di riscoprire ed esprimere le proprie potenzialità, rivedere criticamente il proprio vissuto ed assumersene la responsabilità. Ma nessuno può cambiare se non lo si riconosce artefice del proprio cambiamento, se non è adeguatamente motivato a farlo, se non conosce atteggiamenti, modi di essere e di pensare nuovi con cui confrontarsi.

La reale inclusione sociale è un processo di assunzione di responsabilità condivisa, che implica la partecipazione dell’intera collettività: non cambierà niente in carcere, se non cambierà qualcosa fuori dal carcere, se continueremo ad ignorare che all’interno ci sono persone, alle quali deve essere concessa una seconda possibilità.

La realtà, anche quella rilevata da una recente ricerca sulla recidiva condotta nella provincia di Forlì-Cesena dimostra che l’esperienza del carcere marchia a fuoco, che la persona non si libera dello stigma di detenuto e quindi il ritorno nella società è caratterizzato da sentimenti di fatalismo, rassegnazione, sconforto, quando non addirittura segnato dalla paura del fuori. Ala pena si accompagna spesso anche la disintegrazione della famiglia, la perdita del lavoro, l’ impoverimento fino alla miseria, di conseguenza all’uscita dal carcere il cammino della vita assume una pendenza ancora maggiore ed il rischio di ruzzolamento diventa più elevato.

Se al momento della dimissione la storia problematica che ha condotto una persona in carcere si ripropone tale e quale era prima della detenzione, genererà nuove colpe ed il problema sarà risolto con l’irrogazione di una nuova pena, più severa della precedente per la recidiva. A quel punto la detenzione sarà stata inutile e non avrà prodotto alcuna sicurezza sociale.

Sicuramente non è semplice rompere l’anello principale della catena reato-carcere-reato, legato alle condizioni di esclusione sociale, di povertà economica e culturale: occorre un complessivo sforzo da parte della società in tutte le sue componenti (volontariato, mondo delle imprese, enti locali), ma anche lungimiranza politica e strategie coerenti per limitare il ricorso alla pena detentiva solo ai delitti più gravi, quelli di criminalità organizzata, quelli contro la persona e non per qualsiasi violazione di norme.

A tal fine occorrerebbe incentivare le misure alternative, che come le statistiche dimostrano riducono i tassi di recidiva, gli interventi di mediazione penale e la giustizia riparativa per trasformare il desiderio di vendetta della vittima in qualcosa d’altro. Lo strumento della mediazione penale, che nel nostro ordinamento è stata riconosciuta attribuendo alcune competenze al giudice di pace per i reati che sono espressione di una conflittualità minore (ingiurie, danneggiamenti, lesioni personali), consente di far fronte alla situazione critica prodotta dal reato tra vittima e reo attraverso soluzioni riparatorie idonee a ricomporre il rapporto spezzato.

Nel messaggio per la giornata della pace 2002 Giovanni Paolo II affermava che perdono e riconciliazione non costituiscono un’alternativa alla giustizia, ma risultano coessenziali all’idea stessa di giustizia, non nel senso di ignorare il delitto, ma nel senso che la giustizia non deve essere quella della bilancia, ma deve prevedere oltre al carcere anche altri strumenti tesi veramente al recupero.

È indubbio che la realtà attuale, sia a livello mondiale che nazionale, non è foriera di pace. La pace può crescere solo se alimentata dalla cultura della differenza, della tolleranza, dell’inclusione e dell’accoglienza, se l’approccio ai problemi è anche di tipo solidaristico. La pace nasce e fiorisce sul riconoscimento della dignità personale di ogni uomo e quindi dei suoi diritti e dei suoi doveri. Si costruisce e si mantiene non sulla buona volontà di alcuni o di gruppi impegnati, ma sulla sensibilità diffusa. Richiede interventi di prevenzione a livello educativo-culturale, oltre che politico-sociale laddove sussistono problemi umani di emarginazione e di abbandono.

Ciascuno di noi è responsabile, nel suo piccolo, della pace. Se la solidarietà fra le persone non si realizza nelle nostre case, nei nostri condomini, cosa possiamo pretendere dai grandi della terra? Se ignoriamo i bisogni dell’altro vicino a noi, come possiamo pensare che la povertà sia vinta? Occorre scompaginare la prospettiva come faceva don Benzi , diventare operatori di pace. La pace dipende anche da noi.

Sicilia: Fleres; sanità penitenziaria, ministero accoglie richieste 

 

Comunicato stampa, 9 gennaio 2009

 

Fleres, Garante dei diritti dei detenuti in Sicilia: "Il Ministero della Giustizia ha accolto le nostre richieste sulla sanità penitenziaria. Evitato il blocco dell’assistenza".

Il ministero della Giustizia ha trasferito all’amministrazione penitenziaria la somma di 6 milioni di euro per far fronte alle spese di assistenza da affrontare nelle more del passaggio delle competenze dalla stessa amministrazione penitenziaria alle Regioni.

Unitamente a questo provvedimento, l’Assessore alla Sanità, ripetutamente sollecitato dal Garante dei diritti dei detenuti, sen. Fleres, ha disposto la ricostituzione di una Commissione di studio che dovrà elaborare un piano di passaggio in grado di assicurare e migliorare l’assistenza sanitaria in carcere che, comunque, passerà tra le competenze della Regione.

"Sono molto contento dei due provvedimenti adottati - ha dichiarato il sen Fleres, Garante dei diritti dei detenuti per la Sicilia -. Ero certo che le mie ripetute segnalazioni al Ministro Alfano ed all’Assessore Russo avrebbero sortito l’effetto desiderato e scongiurato il pericolo della sospensione delle prestazioni sanitarie in carcere. Non posso però trascurare la necessità che si sblocchi immediatamente il concorso per psicologi penitenziari anche perché, purtroppo, il 2008 ha registrato un preoccupante aumento dei suicidi ed il 2009 si è aperto con alcuni casi assai gravi che ripropongono drammaticamente la situazione non solo in Sicilia, ma in tutto il Paese".

Il sen. Fleres, inoltre, ha ricordato che anche sul piano del lavoro qualcosa si sta sbloccando.

Proprio oggi, infatti, è andato in pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana il bando per i finanziamenti che i reclusi possono richiedere per l’avvio di piccole attività lavorative autonome in carcere, fino ad un importo di 25.000 euro in attrezzature e materie prime. In tal senso, il sen. Fleres, ha chiesto ai direttori delle carceri ed al Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria di dare ampia comunicazione del bando stesso, così da favorire l’inoltro delle istanze da parte dei reclusi.

 

Sen. Salvo Fleres Garante dei diritti dei detenuti della Sicilia

Bologna: Presidente Tribunale sorveglianza incontra il Garante

 

Comunicato stampa, 9 gennaio 2009

 

Il Presidente del Tribunale di Sorveglianza ha incontrato, presso il proprio ufficio nella mattina dell’8 gennaio, il Difensore civico regionale. Oltre ad essere un momento di reciproca conoscenza è stata l’occasione di una rassegna di problemi di comune interesse relativamente alle condizioni degli istituti penitenziari della Regione.

In particolare l’attenzione è stata portata, dal Presidente Francesco Maisto, sulla situazione dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia, nel quale è in corso un processo di mutamento necessario, volto al pieno inserimento nel sistema sanitario regionale,ma caratterizzato da varie criticità.

Così pure è stata sottolineata l’importanza di un’azione di informazione,di formazione e di accurati accertamenti, nella fase di primo ingresso dei detenuti e di monitoraggio del loro complessivo stato di salute psicofisica, per prevenire suicidi e morti "accidentali".

Ancora si è rilevato come la presenza crescente di migranti imponga una riflessione sulle modalità del trattamento penitenziario e sull’applicazione di misure alternative in relazione alla particolare condizione di queste persone.

Il Difensore civico della Regione, Daniele Lugli, ha consegnato al Presidente del Tribunale di Sorveglianza, Francesco Maisto, gli atti di un importante convegno su "Carcere: formazione e lavoro", promosso nel novembre del 2007 dalla Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, Desi Bruno. Gli atti sono stati stampati dalla tipografia Il profumo delle parole, presso la casa circondariale di Bologna. Il Difensore civico ne ha acquistato numerose copie allo scopo di garantirne la diffusione, sottolineando il proprio impegno, nell’ambito delle competenze attribuite, per la piena attuazione della legge regionale del febbraio 2008, relativa alle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale, con previsione anche dell’ufficio del Garante.

Il Presidente del Tribunale di sorveglianza ha evidenziato il valore di un sistema integrato di interventi, concordato tra Regione, Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria e Magistratura di Sorveglianza (pur nei limiti ordinamentali di presidio della Giurisdizione), per assicurare il rispetto dei diritti delle persone che si trovano sottoposte a misure restrittive, favorendone il recupero e il reinserimento sociale. Ha pure ricordato la difficoltà che il suo Ufficio incontra per un’efficace opera di sorveglianza in istituzioni collocate in varie località della Regione. Particolarmente critica è la disponibilità di un solo automezzo, cosa che limita fortemente la capacità di intervento tempestivo nei luoghi più distanti dal capoluogo regionale.

 

Desi Bruno, Garante dei diritti dei detenuti di Bologna

Pesaro: la direttrice del carcere "non c’è nessuna emergenza"

di Luca Fabbri

 

Il Messaggero, 9 gennaio 2009

 

Claudia Clementi: "Non ci sono materassi per terra, né abbiamo dovuto ricorrere al terzo o quarto livello per i letti a castello". Ma il sindacato degli agenti chiede alla Procura di acquisire le lettere di protesta dei detenuti.

Sulla Casa Circondariale di Villa Fastiggi si è aperto ormai un vero e proprio caso. Nonostante, infatti, la direttrice dell’istituto, Claudia Clementi, parli di opinione pubblica "ingiustamente allarmata", detenuti, sindacato e operatori che lavorano all’interno continuano a segnalare criticità. E in attesa che anche il sindaco Luca Ceriscioli insieme, tra gli altri, al deputato leghista, Luca Rodolfo Paolini e al candidato alla Provincia, Matteo Ricci, si rechino in visita al carcere è la direttrice Clementi ad uscire allo scoperto. Parlando di sovraffollamento, carenza organica e condizioni igienico-sanitarie dei detenuti.

"La grave situazione relativa al consistente numero di presenze negli istituti penitenziari italiani - spiega la direttrice Clementi - non è per fortuna vissuta in maniera emergenziale nella realtà penitenziaria pesarese. Non si è infatti finora avuta la necessità né di posizionare materassi in terra né di ricorrere al terzo o quarto livello dei letti a castello, come invece sta accadendo in numerosi istituti del territorio nazionale". Parole che sembrerebbero stridere con le denunce segnalate nelle lettere dei detenuti, con le parole del sindacato e dello stesso insegnante, Stefano Danti, che da anni lavora all’interno della casa circondariale. "La popolazione detenuta nelle sezioni circondariali dell’istituto di Pesaro - continua la direttrice - conosce le medesime caratteristiche che è dato riscontrare negli altri istituti italiani di analoga tipologia, ossia l’alta percentuale di soggetti migranti, di tossicodipendenti e di portatori di problematiche psichiatriche. È quindi vero che i detenuti assumono psicofarmaci, ma ciò accade nell’ambito di precisi piani terapeutici a tutela della salute di singoli soggetti, spesso già in terapia sul territorio a prescindere dall’esperienza detentiva. Per quanto concerne la tutela della salute, è assicurato un servizio di guardia medica che non copre l’intero arco delle 24 ore, con esclusione delle ore notturne, così come si verifica nella maggioranza degli istituti italiani di dimensioni medie come quello pesarese.

In ogni caso, la continuità assistenziale è garantita con ricorso ai servizi del territorio, alla stregua di quanto previsto per tutti i cittadini". Tutto a posto, o quasi, anche per quanto riguarda la carenza organica "che - spiega la direttrice Clementi - non appare altresì attestarsi sui livelli emergenziali conosciuti da altri istituti, anche questa comunque segnalata ai superiori uffici dell’amministrazione". Infine, dopo aver ricordato le proficue esperienze con le istituzioni locali a favore della popolazione detenuta, la direttrice torna sulle parole dei detenuti, in merito alla fornitura di materiale.

"La fornitura di materiale ai detenuti è attuata nel rispetto delle assegnazioni di bilancio - conclude - e quindi con attenzione rivolta ad eliminare gli sprechi e ad attuare le economie richieste dalle riduzioni di fondi che hanno interessato negli ultimi anni tutte le pubbliche amministrazioni. Ancora una volta, anche in questo ambito si deve sottolineare la differenza in positivo del nostro istituto rispetto ad altre realtà, dove il materiale igienico viene fornito ai detenuti solo previo acquisto da parte loro o dove vengono organizzate raccolte pubbliche o presso aziende del settore per reperire le dotazioni di fornitura".

Immediata la risposta del segretario regionale del Sappe, Aldo Di Giacomo, che, dopo aver chiesto alla Procura di Pesaro l’acquisizione delle lettere di denuncia dei detenuti, si dice "stupito dalle parole ingenue della direttrice, dato che a Pesaro è vero che la carenza organica non si attesta su livelli emergenziali, ma si è andati ben oltre l’emergenza".

Gorizia: carcere inadeguato da Governo non arrivano risposte

 

Messaggero Veneto, 9 gennaio 2009

 

Se, da una parte, c’è un lunghissimo elenco di edifici pubblici chiusi e abbandonati, di cui in pratica nessuno sa che fare, dall’altra, paradossalmente, c’è un’affannosa e, al momento, vana ricerca di spazi per un servizio che non può più essere svolto nella sede in cui si trova attualmente, ovvero il carcere.

Oggi è ancora attiva la struttura di via Barzellini, anche se fortemente ridimensionata, visto che non può ospitare più di 35 detenuti, ma la situazione, rispetto ai problemi più volte denunciati da politici e sindacati, ma anche dalle stesse autorità penitenziarie, non sembra essersi mossa di molto. Nei mesi scorsi in Prefettura era nato un gruppo tecnico di lavoro per individuare un’area oppure un’altra struttura in cui realizzare la nuova prigione, ma sugli esiti di questo lavoro nulla, a oggi, si sa.

Va anche sottolineato che la ricerca del carcere alternativo parte da un’esclusione, ovvero la caserma Pecorari di Lucinico, che era stata indicata come la più adeguata per questa finalità. L’opposizione del consiglio di quartiere prima e dell’amministrazione Romoli poi ha finito per far tramontare, però, quest’ipotesi e il gruppo tecnico insediatosi in Prefettura doveva, quindi, prendere in considerazione altre soluzioni.

Nel frattempo, peraltro, è intervenuta anche un’altra novità, ovvero la nuova presa di posizione del sindaco Romoli, il quale ha sostenuto, anche alla luce del ridimensionamento del numero di detenuti in via Barzellini, che la strada maggiormente praticabile sarebbe quella della ristrutturazione dell’attuale carcere.

Una scelta che, come si suol dire, salverebbe "capra e cavoli", per il fatto che, sia pure ridimensionato, il carcere a Gorizia sarebbe mantenuto evitando in questo modo anche rischi di chiusura del Tribunale e, inoltre, sarebbero decisamente più ridotti e, quindi, più accessibili i costi per realizzare la "nuova" struttura.

Una risposta alla proposta del primo cittadino, avanzata già qualche mese fa, non è però mai arrivata e quindi a oggi nulla ancora si sa sul futuro di questo servizio, quasi che i problemi della struttura di via Barzellini fossero svaniti con la riduzione del numero dei detenuti ospiti. In realtà non è così, visto che l’inadeguatezza del vecchio carcere rimane comunque e non soltanto per chi vive nelle celle.

C’è da rammentare che i problemi riguardano anche gli agenti che lì operano e gli amministrativi che vivono e lavorano in spazi decisamente non adatti alla loro attività. C’è molta attesa, quindi, per la scelta che il governo Berlusconi farà sul futuro del carcere.

Padova: voleva scaldarsi ex detenuto 55enne muore asfissiato

 

Il Mattino di Padova, 9 gennaio 2009

 

È morto asfissiato nel suo letto. Colpa di un braciere improvvisato: una carriola, e quattro stracci. Domenico Amarone, 55 anni, è la prima vittima del freddo (anche se in modo indiretto) a Padova.

L’uomo, ex detenuto ma da qualche anno operatore cimiteriale grazie alla cooperativa Giotto, è stato trovato esanime - ieri pomeriggio poco dopo le 15 - da tre amici che si erano preoccupati perché non lo avevano visto arrivare all’appuntamento. Domenico Amarone viveva in via Adige 25 in una sola stanza di una vecchia casa colonica della famiglia Dal Pra, camera messa a sua disposizione dal custode che vive anch’egli nella villa ormai fatiscente. Amarone aveva trasformato la stanza provvista di elettricità, ma non di riscaldamento, nella sua dimora abituale.

Ieri mattina, fra l’altro, Domenico Amarone era andato negli uffici della cooperativa Giotto per presentare un certificato medico. Sofferente di diabete, aveva chiesto di restare a casa qualche giorno per sottoporsi ad alcuni esami clinici. Poi era tornato nella sua casa: una stanza della villa che si trova in via Adige, fra Sacro Cuore ed Altichiero. E aveva acceso la stufa elettrica. Ma ieri faceva troppo freddo. E così ha pensato di accendere degli stracci dentro una carriola, senza pensare che stufa e fuoco gli avrebbero a poco a poco sottratto tutto l’ossigeno.

Domenico Amarone, originario di Villaricca (Napoli) era finito nei guai per la prima volta nel 1977 per un furto. Poi si era trasferito al nord e nel 1999 era stato arrestato dalla questura di Verona per una questione legata agli stupefacenti. La pena era diventata definitiva nel 2004. Nel 2006 aveva beneficiato dell’indulto e grazie alla cooperativa Giotto (era stato uno dei primi frequentare il corso di operatore cimiteriale predisposto dal Comune) era riuscito a trovare un lavoro ancora prima di uscire dal carcere.

Molti in cooperativa lo ricordano ancora per i suoi occhi azzurri e il suo volto spesso sorridente. "Era una persona che aveva avuto delle difficoltà, ma noi tutti ne abbiamo un buon ricordo - spiega Nicola Boscoletto, presidente della cooperativa Giotto - So che grazie al corso di operatore cimiteriale aveva trovato un lavoro fisso. Che vivesse lì? No, non lo sapevo. Noi seguiamo il percorso lavoratovi dei detenuti e degli ex detenuti. Comunque proprio stamattina (ieri ndr) l’avevo visto nei nostri uffici. Ci eravamo salutati". Amarone non è il primo morto per il freddo in questi giorni in Veneto. Nei giorni scorsi Antonio Zampirollo, 40 anni, senzatetto, veneziano di Castello, è morto a Vicenza a causa delle temperature rigide.

Ma ieri a Padova altre due persone sono state trovate senza vita nelle proprie abitazioni. Elia Donato, 79 anni, residente in via Montebello 16 è stato trovato in avanzato stato di decomposizione (almeno tre settimane). Ad avvisare i vigili del fuoco è stato un vicino che non lo vedeva più. L’uomo viveva solo: i suoi parenti ad Ascoli. Viveva sola anche Maria Giovanna Tivoli, 88 anni, residente in via Concordia 8. La donna, sofferente di cuore, è stata trovata supina sul pavimento dell’ingresso. La polizia è stata avvertita da alcuni parenti che risiedono a Biella.

Libri: "La notte che Pinelli", di Adriano Sofri, Edizioni Sellerio

 

Quotidiano Nazionale, 9 gennaio 2009

 

"Di nessun atto terroristico degli anni 70 mi sento corresponsabile. Dell’omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse, "Calabresi sarai suicidato". Adriano Sofri ritorna sul caso del commissario Calabresi, assassinato il 17 maggio 1972 a Milano, un omicidio per il quale l’ex leader di Lotta Continua è stato condannato con sentenza definitiva come mandante dell’attentato.

Lo fa attraverso il suo ultimo libro intitolato "La notte che Pinelli" (l’anarchico fermato per la strage del 12 dicembre e precipitato da una finestra della questura di Milano la sera del 15 dicembre 1969, durante un interrogatorio). Il contenuto del libro (Edizioni Sellerio) viene anticipato sul numero in edicola oggi del settimanale "L’Espresso". Sulla morte di Pinelli, Sofri non tira le conclusioni.

Sofri ricostruisce le varie versioni della caduta dalla finestra. Colpisce il fatto che l’orario della tragedia viene cambiato nel corso degli anni e delle inchieste. All’inizio si parla di mezzanotte, dopo una presunta frase trabocchetto di Calabresi ("Valpreda ha parlato").

Ma questa versione, che confermerebbe la presenza di Calabresi nella stanza mentre Pinelli cadeva, viene, suggerisce Sofri, cambiata: fino ad arrivare alle 19,30. Un gioco privo di ogni senso, perchè la ricostruzione di Sofri fa capire che Calabresi, in quel momento, in quella stanza non c’era. Le conclusioni del libro: lo Stato in quegli anni cavalca l’illegalità (ci sono anche parole di polemica con il giudice Gerardo D’Ambrosio, titolare di una delle inchieste); il commissario fa parte di quel sistema. Infine Sofri confessa di non sapere come è morto l’anarchico.

Ma sul commissario Calabresi l’ex leader di Lotta Continua afferma, smentendo le ultime rivelazioni, che tra Pinelli e Calabresi ci fosse un legame di amicizia. No, non c’è stata amicizia, dice convinto Sofri. Pinelli era intercettato, pedinato, da tempo sospettato. Alla Questura viene privato del sonno. Si voleva incastrarlo anche in relazione a due attentati, l’uno il 25 aprile alla Fiera di Milano, l’altro la notte dell’8 agosto a un convoglio ferroviario. Gran parte dell’interrogatorio di Calabresi verte proprio su questo

E ancora, secondo Sofri, Calabresi era convinto che la pista anarchica fosse quella giusta. La convinzione emerge dagli stessi interrogatori: sia di Pinelli che di un altro anarchico, Ardau, a cui Calabresi dice: "Non venirmi a raccontare (...) che sono stati i fascisti; la matrice è anarchica, fa parte della tradizione vostra". E poi c’è la figura di Pietro Valpreda, un anarchico parolaio, che si paragona a Ravachol, il bombarolo parigino dell’800, e che Calabresi considera capace di ogni nefandezza. Il guaio è che anche Pinelli diffida di Valpreda e lo considera pericoloso.

La novità di Sofri sul caso Pinelli è questa: "La notte che Pinelli" è il primo tentativo di ricostruire dalle innumerevoli carte legali - gli atti dei tanti procedimenti giudiziari - le giornate in cui Pinelli era detenuto nei locali della Questura di Milano.

Sofri parte dal pomeriggio del venerdì 12 dicembre 1969, dalla strage di Piazza Fontana. Il questore di Milano è Marcello Guida, nel 1942 direttore del confino politico cui venivano condannati gli antifascisti a Ventotene; il capo dell’ufficio politico (così si chiamava allora) è Antonino Allegra, anch’egli figura controversa. Luigi Calabresi è invece un funzionario giovane, moderno.

Subito dopo gli attentati si procede agli arresti degli anarchici: una pista rivelatasi alla fine falsa. Tra loro ci sono Pinelli e Pietro Valpreda (che rimarrà a lungo in carcere). Ma perché gli anarchici? Sofri rifugge da ogni teoria di complotto. Spiega che Guida e Allegra volevano compiacere le proprie predilezioni e i superiori a Roma: ma non è questo il punto. Il punto è che lo stesso Calabresi ne era convinto.

Diritti: quei poveri, invisibili nell’inverno, e i doveri dello Stato

di Tito Boeri e Paolo Garimberti

 

La Repubblica, 9 gennaio 2009

 

La colonnina di mercurio sotto allo zero e le strade innevate, forse più che il Natale o i Re Magi, ci fanno in questi giorni pensare ai senzatetto che, sempre più numerosi, vivono nelle nostre città. Nei centri urbani, nelle strade dove si concentra la ricchezza, offrono la manifestazione più stridente e insieme più appariscente di povertà. Accanto ai loro giacigli di cartone, vediamo infatti tutti i loro patrimoni: una coperta, un berretto, qualche sacchetto di plastica, scatole di latta, una bottiglia. Ma sono anche "poveri invisibili" perché non ci sono statistiche su di loro, non sappiamo quanti siano, da dove vengano, né cosa li abbia ridotti in quelle condizioni e osa facciano per sopravvivere.

Non riusciamo neanche a capirli, non sappiamo se considerarli degli anticonformisti (come nelle canzoni di Fabrizio De Andrè), degli ubriaconi, dei malati di mente oppure delle persone costrette a un’esistenza senza fissa dimora da una serie di eventi avversi, largamente indipendenti dalla loro volontà.

Da noi sono più invisibili che altrove. In altri paesi da anni esistono censimenti dei senza tetto, possiamo accedere a conteggi per quanto possibile accurati. Sarebbero, ad esempio, 750.000 negli Stati Uniti, quasi 100.000 in Australia. Contarli è fondamentale anche solo per pensare a cosa fare per aiutarli. Ancora più importante per valutare la scala degli interventi è capire quanti tra loro sono in qualche modo integrati nel tessuto sociale e, oltre ad avere bisogno di aiuto, sono disposti ad essere aiutati. Grazie al lavoro di due giovani ricercatrici, Michela Braga e Lucia Corno, alle borse Riccardo Faini e al contributo di 300 volontari, abbiamo finalmente un censimento dei senza fissa dimora nella città di Milano. Sono circa 4000. Poco più di 400 dormono in strada, gli altri sono distribuiti per due terzi in baracche e roulotte e per un terzo nei dormitori. Sono molti di più di quanti pensassimo e molti di più di solo qualche anno fa. La città dell’Expo2015 (che non prevede alcun intervento di edilizia popolare!) ha ormai lo stesso rapporto fra senza tetto e popolazione degli Stati Uniti. Se tutta Italia fosse come Milano, nel nostro paese ci sarebbero 150.000 senza fissa dimora, quasi dieci volte quelli stimati nel 2001 dalla Fondazione Zancan per la Commissione d’indagine sull’Esclusione Sociale.

Il dato più rilevante messo in luce dal censimento dei senza tetto è che si tratta in moltissimi casi di persone che mantengono un rapporto con il tessuto sociale e con il mercato del lavoro. In quattro su cinque, prima di perdere la casa e finire in strada, avevano un lavoro, per lo più come operai, badanti o artigiani. è stata proprio la perdita del lavoro o il fallimento dell’attività in proprio, l’evento scatenante (c’è sempre un concorso di cause quando si perde la casa) che li ha portati sulla strada. Più di uno su due tra chi dorme in strada svolge tuttora, per sopravvivere, un qualche lavoro saltuario (dal volantinaggio alla vendita di giornali agli angoli delle strade). Sono persone relativamente giovani (età media 45 anni) e con almeno dieci anni di istruzione e un diploma di scuola secondaria, soprattutto tra gli immigrati. Il 5 per cento ha addirittura una laurea. Questo ci dice che una fetta consistente dei senza tetto potrebbe rispondere ad interventi di sostegno e aiuti nella ricerca di un impiego stabile. In molti casi, quella dei senza dimora, è una condizione temporanea, certamente non pianificata per durare a lungo. Si comincia a dormire per strada pensando di rimanerci meno di un mese. Poi si finisce per restarci molto, molto più a lungo: cinque anni in media.

Molti senzatetto non hanno avuto alcun aiuto dallo Stato quando hanno perso il lavoro dati i buchi, ormai finalmente riconosciuti da tutti, del nostro sistema di ammortizzatori sociali. Neanche se il Comune concedesse loro una residenza fittizia e riempissero i formulari Isee potrebbero ricevere la social card, dato che hanno quasi tutti meno di 65 anni e non hanno figli con meno di 3 anni oppure non sono cittadini italiani. Come notato dalla Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora (www.fiopsd.org), i requisiti di accesso alla social card sembrano studiati apposta per escludere la maggioranza dei poveri e soprattutto "i poveri fra i poveri".

La Chiesa e la Caritas, assieme ad alcuni Comuni e molte organizzazioni di volontariato, da decenni forniscono assistenza ai senzatetto e spesso sono gli unici ad aiutare chi perde il lavoro, prima ancora che la casa. Il Cardinale Dionigi Tettamanzi, nella sua omelia di Natale, ha anche annunciato l’intenzione della Curia di Milano di creare un fondo per aiutare chi perde il lavoro e ha messo a disposizione di questo fondo 1 milione di euro. è un gesto di solidarietà molto bello, ma "una goccia nel mare della necessità", come riconosciuto dallo stesso Tettamanzi. In effetti, nella provincia di Milano ci sono già oggi più di 50.000 persone che hanno perso il lavoro e non ricevono sussidi, cui andrebbero meno di 2 euro a testa al mese attingendo alle risorse messe a disposizione dal Cardinale.

Il fondo Tettamanzi è stato finanziato in buona parte con l’8 per mille, tasse che possono essere devolute dal contribuente alla Chiesa cattolica e altre confessioni religiose riconosciute, anziché allo Stato. è un flusso di quasi un miliardo di euro all’anno. La stessa social card, che non arriva ai più poveri, arriva invece a molti frati e suore, che risultano nullatenenti anche quando vivono in comunità cui non mancano certo risorse.

Lo Stato non dovrebbe mai abdicare alla sua funzione primaria di aiutare direttamente i poveri e i disoccupati. Non è una funzione che può essere delegata alla Chiesa, compensandola poi in una varietà di modi non sempre trasparenti. Per intervenire efficacemente nel mare delle necessità ci vogliono aiuti finanziati da contributi obbligatori e trasferimenti basati su regole uniformi.

La Chiesa, il volontariato e le stesse buone pratiche, che esistono, perché esistono, a livello locale, sono inevitabilmente selettive. Non hanno i mezzi per raggiungere tutti. Bene allora che intervengano per integrare l’assistenza di base offerta dall’operatore pubblico. Bene che forniscano anche quei tipi di assistenza che lo Stato fatica ad offrire e che sono non meno importanti per chi vive ai limiti della marginalità sociale. Ma per favore, non confondiamo i ruoli.

Immigrazione: a Siracusa bufera legale sul Centro "Cassibile"

di Francesco Viviano

 

La Repubblica, 9 gennaio 2009

 

Centri di accoglienza per immigrati che spesso si trasformano in macchine mangiasoldi. Centri che in questi ultimi mesi sono sorti a macchia d’olio in tutta Italia per fare fronte all’ "emergenza clandestini".

E tra loro quello di Cassibile, in provincia di Siracusa, dove la Procura della Repubblica ha chiesto il rinvio a giudizio per i responsabili del centro di accoglienza "Alma Mater", il sacerdote Don Arcangelo Rigazzi e Marco Bianca, e tre imprenditori che avrebbero truffato lo Stato per milioni di euro, secondo l’accusa, gonfiando le fatture per "assistenza" agli immigrati che approdano sulle coste siciliane.

L’inchiesta vuole accertare (l’udienza preliminare si svolgerà il 27 gennaio prossimo) come mai lo Stato italiano abbia pagato e l’ "Alma Mater" incassato, 3.500 euro al giorno, per un mese, per assistere un solo immigrato ospitato nel centro di accoglienza. Non solo. Quel presidio (un ex magazzino per la lavorazione degli agrumi), stando alle varie ispezioni dell’Asl, dei Vigili del Fuoco, della Prefettura, della Questura e del Comune di Cassibile, sarebbe fuori legge perché non ha il certificato di abitabilità, mancano gli impianti antincendio, gli "arredi" non sono ignifughi e le uscite di sicurezza non sono idonee. Insomma, sarebbe inagibile eppure continua ad operare; e nei prossimi giorni, probabilmente, si aggiudicherà la nuova gara d’appalto per la gestione, che prevede il pagamento di 47 euro al giorno per ogni clandestino ospitato per un totale di oltre 3 milioni euro l’anno. Un bel business che secondo il pm di Siracusa, Antonio Nicastro, nasconde una grande truffa.

L’inchiesta, avviata su segnalazione della Questura di Siracusa, ha accertato che il centro "Alma Mater" avrebbe pagato fatture spropositate per alcuni rifornimenti. Per esempio, per la fornitura di 57 comodini per "arredare" le camerate, per un valore reale di 5.700 euro sono stati pagati 44 mila euro.

Il fornitore è un certo Michele Parisi, pregiudicato per associazione a delinquere, emissione di assegni a vuoto e truffa che, quando invitato dagli uomini della Digos a mostrare le fatture, dice che le aveva in una valigetta che gli è stata rubata. Sempre la Digos di Siracusa scopre che l’Alma Mater ha pagato 67 mila euro ad una lavanderia per pulire le lenzuola dei letti dove dormivano gli immigrati. Si è accertato che la "lavanderia", di Belpasso (Catania), aveva cessato l’attività sin dal 1996 e che, per convenzione con lo Stato, lenzuola e federe avrebbero dovuto essere usa e getta. Anche altre fatture risultano sospette, anche quelle relative ai lavori di "ristrutturazione" del centro di accoglienza che costarono 61 mila euro. La ditta era sorta lo stesso anno dell’affidamento dei lavori, ha "ristrutturato" con un solo muratore e l’unica fattura che ha emesso è quella nei confronti dell’"Alma Mater".

Stati Uniti: a Guantanamo 30 i detenuti in sciopero della fame

 

Associated Press, 9 gennaio 2009

 

È aumentato a trenta il numero di detenuti in sciopero della fame a Guantanamo, il carcere militare statunitense a Cuba dove sono rinchiusi i sospetti terroristi. Si tratta dell’adesione più alta da alcuni mesi a questa parte. Una portavoce militare statunitense ha dichiarato all’Associated Press che la crescita improvvisa potrebbe essere collegata al settimo anniversario della nascita della struttura.

Un responsabile della Marina, Pauline Storum, ha dichiarato che l’esercito statunitense sta monitorando da vicino lo stato di salute dei detenuti in sciopero della fame. I prigionieri iniziarono lo sciopero della fame nell’estate 2005 per protestare contro le loro condizioni e il confino indeterminato. Il numero massimo di detenuti che si sono rifiutati di mangiare è stato 131; nelle settimane recenti, sono stati dieci. I detenuti hanno accusato l’esercito di utilizzare metodi brutali per farli mangiare con la forza, accusa che gli Stati Uniti smentiscono. Ci sono circa 250 detenuti a Guantanamo.

 

 

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