Rassegna stampa 8 gennaio

 

Giustizia: con la proposta Violante-Mancino Csm più "politico"?

di Saverio Mancini

 

www.ilsussidiario.net, 8 gennaio 2009

 

Nelle prossime settimane dovrebbe entrare nel vivo il dibattito sulla riforma della giustizia (Csm, ordinamento giudiziario, processo penale, ecc.). Per non perdersi nel mare di parole che ci sommergerà, sarà opportuno cercare di capire la connessione esistente tra proposte di riforma e scelte politiche che le motivano. Una, in particolare, merita un’attenta riflessione.

Si consideri la proposta formulata dall’on. Violante - da ultimo nell’intervista al Corriere della Sera del 29 dicembre 2008 - di cambiare la composizione del Csm: un terzo eletto dal Parlamento, un terzo dai magistrati (attualmente i magistrati eleggono due terzi del Csm) e un terzo scelto dal Capo dello Stato. Afferma l’on. Violante che "così la magistratura, che ora è un settore totalmente autogestito, verrebbe integrato di più nel sistema costituzionale". La proposta Violante è stata ribadita e fatta propria ieri - suscitando, non a caso, l’immediata e significativa reazione dell’Anm - dal vice presidente del Csm Nicola Mancino, in un’intervista allo stesso quotidiano.

In realtà, se attuata, tale proposta non comporterebbe solo un ridimensionamento della componente dei magistrati all’interno del Csm, ma assesterebbe un colpo quasi mortale alla magistratura in quanto categoria organizzata e dotata di grande potere all’interno della società, perché colpirebbe in modo significativo l’Anm e con essa le correnti di sinistra che, come è noto, sono in grado di esercitare in essa una forte egemonia.

I magistrati eletti nel Csm sono infatti espressione delle correnti in cui si articola l’Anm e queste riescono a mantenere il controllo della categoria e a gestirne il consenso, soprattutto perché possono incidere in modo significativo sulla carriera e in genere sulle vicende professionali del singolo magistrato, proprio attraverso la componente di magistrati che attualmente ha la preminenza nel Csm. In altri termini: Csm e Anm sono due facce di un medesimo sistema di potere.

Proprio questo spiega perché sia sempre più diffuso tra i magistrati "comuni" un sentimento di diffidenza, se non di vera e propria avversione, verso il Csm, sentito come un organismo che, lungi dal garantire l’indipendenza del singolo magistrato, ne condiziona spesso negativamente l’operato: i suoi meccanismi burocratici, fondati su circolari sempre più simili alle grida manzoniane, costringono il singolo magistrato a cercarsi una "protezione" in una o più correnti dell’Anm, favorendo così il perpetuarsi di un sistema clientelare, del quale lo stesso magistrato finisce per essere paradossalmente complice e vittima. L’ipotesi di ridurre drasticamente la componente elettiva dei magistrati nell’ambito del Csm è in pratica un attacco frontale all’Anm.

Può essere casuale tutto ciò? Difficile crederlo. L’ipotesi più plausibile sembra che la componente più avveduta della sinistra si sia resa conto che non conviene più essere il referente politico di una magistratura che, per varie ragioni, appare sempre più "fuori controllo" anche a quelle forze politiche che in questi anni hanno tratto i maggiori vantaggi dall’azione di giudici e pubblici ministeri.

La tanto sbandierata autonomia della magistratura e del suo organo di autogoverno rischia dunque di trasformarsi in un boomerang per alcuni suoi storici sostenitori, che finiscono così per riscoprire la necessità di una "integrazione della magistratura nel sistema costituzionale". Questo nuovo clima politico potrà rivelarsi un’occasione preziosa se favorirà riforme in grado di tutelare il cittadino, sia da strumentalizzazioni di parte nell’esercizio del potere giudiziario, sia da indebiti condizionamenti esterni e interni della magistratura.

In quest’ottica sembra illusorio ritenere che un Csm più "politico" possa per sé solo costituire una migliore garanzia: dovranno essere ripensati, oltre alla composizione del Csm, anche il suo sistema elettorale e soprattutto il quadro delle sue competenze, che in questi decenni si sono dilatate a dismisura, stravolgendo il ruolo del Csm delineato nella Costituzione, la quale, sotto questo profilo, dovrebbe solo essere attuata.

Giustizia: Anm; stupiti e preoccupati da dichiarazioni di Mancino

di Paolo Passarini

 

La Stampa, 8 gennaio 2009

 

Sarà senz’altro vero, come assicurano le fonti ufficiali, che Giorgio Napolitano non era stato preventivamente messo al corrente da Nicola Mancino della sua intenzione di lanciare in un’intervista alcune importanti proposte per favorire una ripresa del dialogo tra le parti politiche sulla riforma della giustizia. È ovvio che Mancino, un politico che ha occupato anche la seconda carica della Repubblica, abbia, come dicono al Quirinale, "una sua autonomia".

E bisogna riconoscere che, in effetti, le sue due principali proposte (attribuire eccezionalmente al Parlamento la funzione di stabilire le priorità sui reati da perseguire e cambiare la forma di elezione del Consiglio Superiore della Magistratura) "non sono del tutto nuove". Ma forse non erano state espresse così decisamente, altrimenti non si spiegherebbe come mai ieri l’Associazione Nazionale Magistrati (ma anche la maggioranza dei togati del Csm) abbia espresso "sconcerto, amarezza, stupore e preoccupazione" e come, reciprocamente, il capogruppo del Pdl al Senato, Maurizio Gasparri, abbia invece parlato di "un segnale di disgelo" che "consente di riflettere più seriamente sui temi della riforma della giustizia".

D’altra parte, proprio il fatto che queste idee non fossero "del tutto nuove" autorizza a pensare che siano spuntate nel corso di qualcuno dei numerosi colloqui intercorsi in passato tra Napolitano e Mancino che, come vicepresidente del Csm, deve rispondere proprio a colui che ne è formalmente il presidente. Inoltre i rapporti tra i due politici sono antichi, consolidati e ottimi. E l’esigenza di rompere il gioco vizioso dei veti incrociati tra i due schieramenti è sentita da entrambi. È poi possibile che Mancino proponga di modificare la base elettorale per i componenti del Csm (attualmente due terzi di togati e un terzo di laici), attribuendone la nomina di un terzo al presidente della Repubblica, senza essersi premurato prima di sondare la sua opinione in merito? Per un altro verso, è assolutamente comprensibile l’assoluta riservatezza del Quirinale sull’altro punto, la titolarità dell’obbligatorietà dell’azione penale, che solleva delicate questioni costituzionali.

Nell’intervista al "Corriere della Sera", infatti, Mancino ha proposto che, vista l’eccedenza di "procedimenti pendenti", possa essere il Parlamento, con una maggioranza del "65-70%", cioè necessariamente comprendente almeno una parte dell’opposizione, a stabilire le priorità. Questa come "soluzione temporanea a situazioni eccezionali" e allo scopo di evitare che siano invece i pm a operare "la scelta dei processi".

"Il presidente della Repubblica - fanno notare al Quirinale - non può pronunciarsi nel merito di queste questioni". Ed è senz’altro così. Inoltre, questo è un punto controverso, tanto è vero che quello che viene considerato "il ministro-ombra della Giustizia", Niccolò Ghedini, ha espresso ieri serie perplessità in proposito.

In fondo, pur senza mai pronunciarsi nel merito fino alla fine, Napolitano ha fatto quanto poteva, guadagnandosi l’ostilità di Di Pietro, per agevolare l’approvazione del "lodo Alfano", sia pure al fine di evitare la famigerata "norma salva-processi". Non piacquero poi allo schieramento giustizialista neppure certe critiche al protagonismo di alcuni magistrati d’assalto, come De Magistris o la Forleo, per non parlare dell’ultimo intervento sullo scontro tra le Procure di Potenza e Salerno. Quindi Napolitano deve mantenere un atteggiamento prudente.

Giustizia Alfano; per la riforma del Csm, Mancino ha ragione!

di Liana Milella

 

La Repubblica, 8 gennaio 2009

 

Non poteva che piacere alla destra un’intervista di Nicola Mancino al Corriere in cui il vice presidente del Csm apre le porte alla riforma del Consiglio e alla fine dell’obbligatorietà dell’azione penale con l’aggiunta di espresse critiche agli arresti di Pescara e Potenza.

L’Anm è "stupefatta e amareggiata", i togati di palazzo dei Marescialli (Magistratura indipendente esclusa) sono "amareggiati e sconcertati", ma per le parole di Mancino è entusiasta il Guardasigilli Angelino Alfano: "Ho letto e valutato molto positivamente l’intervista e anche l’Anm dovrebbe esprimere una valutazione complessiva dello stesso tenore.

Non possono sempre gridare alla delegittimazione quando qualcuno esprime un’opinione dissenziente rispetto alla loro. Mancino ha detto delle cose sacrosante, ma anche altre che non condivido perché si discostano di molto dalle nostre proposte". Per certo il ministro della Giustizia si riferisce alla separazione di giudici e pm che Mancino non approva temendo un pm "ghettizzato nell’esclusiva funzione inquirente".

Il governo, come Berlusconi dice da mesi, si avvia a separare gli "ordini" per dar vita "agli avvocati dell’accusa e a quelli della difesa". Se il Pdl plaude (Niccolò Ghedini "dichiarazioni importanti ed equilibrate"; Maurizio Gasparri "un segno di disgelo"; Enrico Costa "sincera ma preoccupante denuncia dei metodi usati al Csm"), sulle toghe le tesi di Mancino sono un secchio d’acqua gelida. Reagisce per prima l’Anm che giusto ieri riuniva la giunta.

Rapido giro di tavolo, poi il presidente Luca Palamara dà il via libera a una nota molto dura su metodo e contenuti. Le valutazioni di Mancino sulle inchieste in corso sono "inopportune" soprattutto per il suo ruolo di presidente della sezione disciplinare. E l’ipotesi di ridurre l’attuale numero dei togati del Csm per riservarne una quota al capo dello Stato è inaccettabile. Nel frattempo, al Consiglio, passa di mano in mano il documento dei togati anti-Mancino. Tutti si chiedono perché abbia deciso di aprire alle riforme costituzionali. Qualcuno butta lì la parola dimissioni.

Ci si chiede se Napolitano sia d’accordo, ma sul Colle non c’è alcun turbamento per parole considerate un parere nel lungo dibattito sulla giustizia. Napolitano ha sempre insistito su riforme condivise e una modifica del Csm potrebbe far incontrare destra e sinistra. Il presidente peraltro lancia un altro segnale e impedisce al Csm di dare un parere sul decreto rifiuti che, ormai approvato, non ha più bisogno di giudizi.

I togati portano al plenum un documento senza la sigla di Mi. Antonio Patrono non condivide le critiche al correntismo. Proprio lui che, da segretario della corrente ne fece un cavallo di battaglia, dice che oggi "quest’influenza negativa si manifesta in meno occasioni, ma purtroppo nessuno ci crede". Unicost, Md, Movimento giustizia vedono una "delegittimazione" e trovano "inopportuni" i giudizi di Mancino.

Stoppano ipotesi d’intervento costituzionale. Pure Vincenzo Siniscalchi, laico del Pd, boccia il teorema Violante (Csm diviso tra togati, laici e di nomina presidenziale) perché sarebbe anomalo che il capo dello Stato, in quanto presidente del Csm, ne nomini una parte. Stroncatura anche dal presidente emerito della Consulta Valerio Onida che teme la "partitizzazione" del Csm ed è contrario a cedere sull’obbligatorietà ("Rispecchia il principio sacrosanto per cui i cittadini sono uguali davanti alla legge"). Mancino non piace del tutto neppure al Guardasigilli ombra del Pd Lanfranco Tenaglia che dice no alla "riforma costituzionale per il Csm".

Giustizia: Ghedini; Mancino ha raccolto l’invito del Quirinale

 

Corriere della Sera, 8 gennaio 2009

 

L’intervista di Mancino, una grossa novità? "Sicuramente sì, è molto importante dal punto di vista politico e in gran parte condivisibile. Mi sembra che il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, che ha una grande esperienza, capacità ed intelligenza, si sia reso conto, per la sua diretta esperienza fatta al Csm, che le riforme siano necessarie. Gliene dà atto uno come me che più volte ha polemizzato con lui". Niccolò Ghedini, il deputato del Popolo della Libertà, plenipotenziario parlamentare del premier Berlusconi in materia di giustizia, raccoglie "l’apertura" di Mancino. E dà il via libera anche alla proposta del "ministro ombra della Giustizia", Lanfranco Tenaglia: "Ci sia un Tribunale, e non più un solo giudice, in ogni Corte d’appello per decidere l’arresto degli indagati".

 

Lei ritiene che il vicepresidente abbia raccolto i recenti inviti del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano?

"Credo che il presidente della Repubblica stia svolgendo un ottimo lavoro. È preoccupato che il sistema funzioni e che si riesca ad arrivare ad una riforma condivisa e non si assista più a quanto abbiamo visto di recente. Penso che le dichiarazioni di Mancino siano correlate a ciò che è accaduto. Naturalmente Napolitano ha espresso degli auspici politici che Mancino traduce in proposte o suggerimenti tecnici".

 

È brutto segno che l’Associazione magistrati abbia risposto subito picche?

"Lo trovo un segnale molto preoccupante. Le affermazioni di Mancino erano molto calibrate, molto equilibrate. L’Anm si dimostra una volta di più un organismo sindacale squisitamente corporativo. Vuol dire che non accettano nemmeno le proposte della massima carica istituzionale della stessa magistratura. Il che equivale a dire che ogni modifica dello status quo per l’Anm è un tabù. Con questo atteggiamento non fanno altro che alimentare la sfiducia dei cittadini nei loro confronti dei magistrati: l’Anm si è messa addirittura contro l’istituzione che la rappresenta".

 

Ma Mancino resta contrario alla separazione delle carriere e chiede che resti fermi l’obbligatorietà dell’azione penale. Lei cosa dice?

"Per me la separazione delle carriere è un valore da perseguire, così come credo che senza l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, anche le linee guida del Parlamento sulle priorità della politica criminale sono un palliativo. Ma detto questo, quelle di Mancino sono proposte tecniche su cui si può discutere".

 

E quella del ministro ombra della giustizia, Tenaglia (Pd) di introdurre un collegio di tre giudici per decidere l’arresto?

"Secondo me si può fare, e penso che sia un’idea che sta valutando anche il ministro Alfano che sta lavorando alacremente al pacchetto giustizia".

 

Ma non c’è il rischio di impraticabilità concreta?

"Penso che le difficoltà si potranno superare se si istituirà un Tribunale apposito in ogni distretto di Corte d’appello".

 

Quando approderà al Consiglio dei Ministri, il famoso pacchetto?

"Penso che il Guardasigilli preparerà la sua relazione generale già per il prossimo Cdm. Poi in quelli immediatamente successivi verranno approvati i vari provvedimenti".

Giustizia: Violante; i magistrati, accettino di perdere qualcosa

 

Corriere della Sera, 8 gennaio 2009

 

"Un segnale importante, che viene da una delle principali personalità istituzionali del Paese che è stato ministro dell’Interno, Presidente del Senato e ora vicepresidente del Consiglio superiore. Un segnale che andrebbe subito colto dal governo e dalla maggioranza".

Così Luciano Violante, deputato del Pd ed ex presidente della Camera, per anni responsabile del comparto giustizia e istituzioni del maggiore partito della sinistra, commenta l’intervista di Nicola Mancino al Corriere. E all’Anm dice: "L’attuale dirigenza dell’Associazione magistrati deve capire che in un momento di crisi come questo, non bisogna perdere l’occasione di compiere le riforme: non è possibile che la magistratura sia l’unica a sottrarsi".

 

Le dichiarazioni di Mancino sono una grande novità?

"Certamente. Una riforma costituzionale anche della giustizia in un quadro generale di riforme di tutte le altre istituzioni (dal Parlamento, al Governo, alle Regioni) non può essere considerato un progetto che non possa essere intrapreso. Ormai, si cominciano a vedere varie personalità anche le più attente all’esigenze della magistratura, come i costituzionalisti Carlo Federico Grosso e Valerio Onida, che si pongono il problema di definire meglio i poteri del pubblico ministero in relazione all’esercizio dell’azione penale e al concetto di notizia di reato. Il vero problema è che oggi come oggi la magistratura è un potere dello Stato che non ha nessun contrappeso".

 

Deve ammettere che l’Associazione nazionale magistrati non sembra affatto pensarla come lei...

"L’attuale dirigenza dell’Associazione magistrati deve capire che in un momento di crisi come questo, non bisogna perdere l’occasione di compiere le riforme: non è possibile che la magistratura sia l’unica a sottrarsi. I dirigenti dell’Anm invece non riescono ad entrare nel merito dei problemi".

 

Il governo e la maggioranza sapranno cogliere l’apertura di Mancino?

"Il governo deciderà cosa fare. Quanto a me io rivolgo un appello ai magistrati".

 

Quale?

"A considerare che è il quadro istituzionale generale che sta cambiando. Tutti perdono qualcosa, e tutti guadagnano qualcosa. Il Senato federale non darà più la fiducia al governo. Alla Camera non si potrà fare ricorso all’ostruzionismo. Il governo potrà avere una corsia preferenziale per i suoi disegni di legge, ma non potrà mettere più la fiducia. Le Regioni dovranno abituarsi a gestire i propri bilanci e non potranno più contare su ripianamenti a piè di lista. La magistratura, come dicevo, dovrà avere dei contrappesi".

 

A quali rischi si espone il Paese, se non si cambia?

Dobbiamo cogliere l’occasione che si presenta adesso, mentre c’è la crisi economica internazionale, per adeguare il nostro sistema istituzionale. Altrimenti, quando la crisi finirà e gli altri Paesi ripartiranno, noi resteremo ancora in un pantano".

Giustizia: la legge uguale per tutti, ma per qualcuno non lo è

di Emile

 

www.radiocarcere.com, 8 gennaio 2009

 

La legge è uguale per tutti la giustizia no. Due casi a confronto.

Il primo. Una donna viene ricoverata d’urgenza per una gravissima emorragia interna. Immediato l’intervento chirurgico. Un intervento miracolosamente riuscito, una vita salvata. La paziente rientra nella propria abitazione, ma continua ad avere dolori all’addome. La febbre alta, il rientro in ospedale.

Una radiografia rileva una pezza nei pressi dello stomaco. La causa: un errore avvenuto al termine del precedente intervento. Le pezze imbevute di sangue scompaiono, il rischio è di chiudere l’operazione lasciandole all’interno. Per evitare ciò il ferrista alla fine dell’intervento conta le pezze. Conoscendo il numero di quelle utilizzate può infatti verificare che nessuna sia ancora dentro il corpo. Evidentemente il ferrista ha errato. Un errore a cui si pone rimedio riaprendo lo stomaco della paziente. Un errore che determina un processo penale per tutti coloro che hanno partecipato all’operazione, chirurgo, anestesista e ferrista. Un processo penale che si conclude con una condanna a mesi di reclusione e ad una somma di denaro quale risarcimento del danno.

Il secondo caso. Un giudice delle indagini preliminari su richiesta del Pm dispone la custodia in carcere di più persone. Il Tribunale del riesame dichiara illegittimi carcere e gogna mediatica. Il Tribunale certifica l’errore di Pm e Gip. Un errore che non ha comportato per i magistrati nessun processo e nessuna sanzione, né penale, né disciplinare, né economica. Un errore che paradossalmente non incide neanche sulla valutazione dell’attività lavorativa dei due magistrati. La legge è uguale per tutti, la giustizia no.

Giustizia: basta con gli slogan, serve una riforma bipartisan!

di Carlo Citterio (Magistrato della Corte di Cassazione)

 

www.radiocarcere.com, 8 gennaio 2009

 

L’apparente diffusa rinuncia dei giornalisti ad informare, adagiandosi invece sugli slogan dell’interlocutore politico di turno, quasi che l’obiettiva tirannia dei tempi mai consentisse di formulare l’inutilmente attesa domanda: "e quindi, cosa intende fare in concreto?", ci ha condotto all’attesa quasi messianica di un’indeterminata riforma della giustizia.

La panacea proposta nelle "risposte slogan", come soluzione di ogni problema che la quotidianità esalta, pare abusata per predisporre i cittadini ad accettare poi qualunque contenuto. Invece, proprio la complessità dei problemi, la pluralità dei temi e la delicatezza dei valori in gioco impone l’assunzione di responsabilità per una visione ed un approccio coerenti nelle non agevoli scelte di valore, prima tra tutte quella del miglior equilibrio tra tempo ragionevole dei processi, efficacia della giurisdizione e diritti di difesa.

Temi che non si affrontano e risolvono con gli slogan, e neppure con la ricorrente tentazione dell’autarchia della politica dei partiti (tacciano i tecnici, magistrati ed avvocati). È indispensabile intervenire sulle procedure, nel penale e nel civile, consapevoli delle conseguenze sistematiche degli interventi e, prima, delle ragioni e dei valori che li guidano.

Bisogna assicurare risorse di mezzi e uomini perché le modifiche invertano effettivamente la tendenza alla paralisi o, ed è forse pure peggio, alla risposta occasionale. È soprattutto necessario chiarire se la riforma (e meglio sarebbe parlare sempre di riforme) risponde ad esigenze di regolamento dei conti o alla volontà di finalmente realizzare quella giurisdizione efficace, in tempi ragionevoli, giusta ed uguale per tutti, che la Costituzione pretende ed i cittadini aspettano. Sconcerta, ma purtroppo non sorprende, come i temi ordinamentali (composizione del Csm, separazione delle carriere) vengano annunciati con semplicismi che mass media distratti accettano senza confronto.

Come dare la maggioranza dei componenti del Csm alla "politica" dei partiti e istituzionale per spoliticizzare la magistratura. O parlare di "2.000 pubblici ministeri senza controllo", quando è in applicazione da poco più un anno la nuova normativa di organizzazione delle procure (D.L.vo 106/2006 e l. 269/2006) che già fa dei procuratori della Repubblica i titolari esclusivi dell’esercizio dell’azione penale, con poteri di assegnazione discrezionale dei procedimenti, di determinazione dei criteri nell’esercizio dell’attività, di revoca motivata, di controllo delle richieste cautelari, poteri per legge sottratti all’immediata verifica del Csm.

Sarà perciò importante il più ampio e trasparente dibattito parlamentare, perché tutti gli aspetti dei problemi vengano effettivamente valutati per scelte - che la Costituzione attribuisce al Parlamento - le più adeguate. La modifica della geografia giudiziaria, con la soppressione dei piccoli tribunali (sul territorio ci sono i giudici di pace) e la razionalizzazione degli organici in relazione all’effettivo carico di lavoro, sarà il parametro per stabilire se la riforma annunciata è davvero nell’interesse dell’efficacia del sistema giustizia: un intervento che richiede accordo bipartisan, costoso in termine di consensi ma improcrastinabile.

Giustizia: Idv; mai indagini sulla corruzione se decide politica

 

Apcom, 8 gennaio 2009

 

Le reazioni dal mondo della magistratura alle dichiarazioni del vicepresidente del Csm Nicola Mancino sulla possibilità di far votare dal Parlamento i reati da perseguire sono giustificate: lo dice ai cronisti a Montecitorio il presidente dei deputati di Idv Massimo Donadi, secondo il quale "in Italia i politici già oggi si autoassolvono dai giornali o nei salotti televisivi da tutte le marachelle che hanno commesso. Non resta che dargli il potere di dire ai giudici su quali reati indagare e su quali non indagare per essere sicuri che la corruzione politica in Italia non venga mai più scoperta".

Giustizia: Pd; sì alla riforma per il Csm ma con legge ordinaria

 

Apcom, 8 gennaio 2009

 

Il Pd è favorevole a riformare il Csm attraverso la legge ordinaria. Lo ribadisce la capogruppo del Pd in commissione Giustizia Donatella Ferranti, sottolineando come "l’intervento del Vicepresidente Nicola Mancino contribuisce senza dubbio a enucleare alcuni aspetti critici del funzionamento del Csm e della Giustizia nel nostro Paese".

"Dopo quasi tre anni di esperienza nel delicato ruolo di guida quotidiana dell’organismo di autogoverno della magistratura, Mancino - osserva Ferranti- ha ritenuto di dare un autorevole contributo al dibattito, confermando l’ inopportunità della separazione delle carriere e indicando un’ipostesi di riforma costituzionale dello stesso Csm, che assicuri una prevalenza complessiva dei togati". "Sul punto il Pd nella conferenza nazionale sulla Giustizia – conclude - ha indicato delle precise proposte da attuare con legge ordinaria, presentate anche al ministro Alfano, che sono comunque a disposizione del confronto parlamentare per raggiungere l’obiettivo di un servizio Giustizia che sia funzionale ed efficace per l’attuazione dei diritti dei cittadini".

Giustizia: e continua l’inutile Calvario del processo di Rignano

 

Il Riformista, 8 gennaio 2009

 

Il procuratore capo Luigi De Ficchy e il pm Marco Mansi hanno firmato l’avviso di conclusione delle indagini per i presunti abusi sessuali avvenuti ai danni di alcuni bambini della scuola materna Olga Rovere di Rignano Flaminio. La notizia non è formale. Infatti le relative notifiche agli indagati non sono ancora arrivate. Avvocati e clienti lo hanno appreso dai giornali. Una sorta di notifica a mezzo stampa. Una triste consuetudine italiana.

Comunque sia, ora per alcune maestre si profila la richiesta di rinvio a giudizio e un probabile, inutile e costoso processo. Agli inquirenti, viene spontaneo dire: fermatevi. Perché dopo aver letto le denunce fatte da alcuni genitori e dopo aver raccolto confuse dichiarazioni di diversi bambini, sei persone sono finite in carcere. Sei persone, tra cui tre maestre e una bidella, che una mattina all’improvviso si sono viste portate in una cella del carcere Rebibbia di Roma. Sei persone detenute ingiustamente per 17 giorni. Una carcerazione dichiarata illegittima sia dal Tribunale del riesame di Roma che dalla stessa Corte di Cassazione. Due pronunce che hanno letteralmente smontato la fondatezza dell’indagine condotta dai Pm di Tivoli.

"Il materiale indiziario emergente dagli atti non integra la soglia di gravità richiesta". Così è scritto in queste decisioni. Tradotto: non vi sono indizi di colpevolezza, neanche gravi carico degli indagati. Ovvero non ce ne sono proprio. Ma, nonostante queste severe censure, si è continuato a fare indagini, a disporre perizie e ad ascoltare i poveri bambini attraverso l’incidente probatorio. Il risultato: le indagini non hanno portato a nulla. Le perizie concluse dai Carabinieri dei Ris di Messina non hanno trovato alcun riscontro oggettivo alle ipotesi dell’accusa. E i bambini, sottoposti a lunghi interrogatori e alle prevedibili pressioni dei genitori, hanno subito forse l’unico vero danno proprio da un’indagine che dopo il pronunciamento della Cassazione avrebbe dovuto finire.

Giustizia: "caso Romeo"; l’appaltatore ora vuole collaborare

di Guido Ruotolo

 

La Stampa, 8 gennaio 2009

 

L’ idea di prolungare la sua permanenza nella cella dell’hotel Poggioreale lo fa soffrire molto. È comprensibile, è uno stato d’animo generalizzato tra il popolo dei detenuti. Alfredo Romeo proprio non ce la fa più e ieri qualche segnale - una disponibilità alla trattativa - l’ha inviato alla Procura di Napoli: vuole essere nuovamente interrogato. Eufemisticamente, il suo legale, l’avvocato Bruno Von Arx, parla di ricerca di una "soluzione concordata" e della necessità di "stabilire un canale di dialogo con il gip". Insomma, Romeo potrebbe decidere di "chiarire", anzi di "collaborare".

Un po’ se l’aspettano in Procura, anche se frenano gli entusiasmi, e del resto c’è un precedente che depone a favore. Quando fu arrestato nel 1994 per la Mazzettopoli sotto il Vesuvio, Alfredo Romeo al terzo giorno di Poggioreale iniziò a parlare. E, dunque, se davvero Romeo decidesse di "collaborare", insomma se non si limitasse a confermare quello che è già emerso, c’è da scommettere che le novità potrebbero essere tante, e il quadro indiziario raccolto dalla Procura si rafforzerebbe ulteriormente.

Romeo potrebbe chiarire, per esempio, le sue relazioni pericolose con Renzo Lusetti e Italo Bocchino, i due parlamentari del Pd e del Popolo delle libertà nei confronti dei quali la Procura ha chiesto l’autorizzazione all’arresto. Lunedì scorso, Bocchino si è presentato in Procura per chiarire la sua posizione. Un monologo, il suo, che non è entrato nel merito delle intercettazioni che lo coinvolgono se non per chiarire i suoi rapporti amicali con l’immobiliarista finito a Poggioreale e ribadire la sua estraneità al "sistema Romeo".

Ma, allo stato, per i pm napoletani rimangono diverse "zone d’ombra" nella sua autodifesa. Ieri sera, a "Porta a Porta", sia Lusetti che Bocchino hanno proclamato la loro innocenza. Il vicepresidente del gruppo alla Camera del Popolo delle libertà, ha ribadito di avere avuto con Romeo "un normale rapporto di un politico con un imprenditore".

Renzo Lusetti ha parlato di "equivoco molto grosso": "Nelle conversazioni intercettate di Romeo, c’è un tono molto discorsivo, scherzoso, sul piano di un rapporto ironico tra noi due". E nel merito dei colloqui intercettati, Lusetti si è difeso: "Escludo categoricamente di essermi attivato presso chicchessia, anche verso alti magistrati del Consiglio di Stato, per poter influenzare in qualche modo una decisione.

Non l’ho mai fatto, non l’avrei mai fatto e non lo farò mai. Romeo è un imprenditore di valenza nazionale ed era vicino alla Margherita come ad altri partiti, aveva rapporti buoni con noi ed anche con altri". Sarà, ma per la Procura, la posizione di Lusetti si è aggravata all’indomani dell’interrogatorio di Romeo, che ha confermato che l’esponente della Margherita "si interessava" di fargli vincere gli appalti. Ieri, intanto, il gip ha emesso una nuova ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari per l’ex assessore del comune di Napoli, Giuseppe Gambale, e l’ex provveditore alle opere pubbliche, Mario Mautone.

Nelle motivazioni, il gip rileva che "permangono immutati i gravi indizi di colpevolezza", anche "a seguito degli interrogatori di garanzia e delle ulteriori attività d’indagine (in particolare, le dichiarazioni del sindaco Rosa Iervolino e del consigliere regionale Pasquale Sommese)".

Il sindaco aveva spiegato che nel maggio scorso aveva proceduto con un "rimpasto" di giunta, facendo fuori tra gli altri l’assessore Gambale proprio perché aveva avuto "notizie sull’esistenza delle indagini".

Nelle motivazioni, il gip, a proposito di Gambale e Mautone, afferma: "Il supino ripiegare le funzioni pubbliche di ciascuno e la rete di personale conoscenze a favore del Romeo", è altamente sintomatico della "pericolosità sociale" dei due.

La Procura di Napoli - in attesa dell’udienza preliminare nella quale il gip dovrà decidere se inoltrare in Parlamento la richiesta di utilizzazione delle intercettazioni telefoniche dei due parlamentari coinvolti, Lusetti e Bocchino, (i pm chiedono che si pronunci la Corte Costituzionale) - continua a svolgere attività investigativa, in particolare approfondendo il filone delle fughe di notizie (e non è escluso che depositerà nuovi atti quanto prima al Tribunale del Riesame, che dovrà discutere il ricorso presentato da Gambale). Ma la prossima settimana potrebbero anche essere sentiti Ciriaco De Mita e Giuseppe Fioroni.

Giustizia: una mobilitazione per la bimba detenuta a Cagliari

 

Liberazione, 8 gennaio 2009

 

Gli innocenti non devono stare in carcere. Si allarga il fronte che a Cagliari chiede un intervento urgente dei giudici per evitare che i bambini piccolissimi, figli di detenute, siano costretti a vivere nelle celle con la madre. Dopo le mobilitazioni del consigliere regionale della commissioni per i diritti civili Maria Grazia Caligaris e del deputato Amalia Schirru, che ha visitato il penitenziario di Buoncammino, sono numerose le prese di posizione affinché venga risolto il dramma di una bambina di neppure due anni.

"È sconcertante la presenza di una bambina di 22 mesi, figlia di un’extracomunitaria arrestata e processata per traffico di droga - taglia corto Schirru, che nei giorni scorsi è andata per la terza volta a visitare il carcere cagliaritano, da sempre alle prese con problemi di sovraffollamento e destinato (non si sa quando) ad essere trasferito - Trovo inconcepibile e assurda questa situazione. Occorre trovare velocemente un centro alternativo che ospiti bambina e madre: la donna è incinta e partorirà tra pochi mesi".

Il deputato del Partito Democratico annuncia un’interrogazione al ministro della giustizia Angelino Alfano, ma nel frattempo in città si fanno sentire anche le associazioni che lottano per i diritti civili. Non ci gira attorno il Comitato 5 novembre per i diritti civili che da tempo ha iniziato una campagna di informazione sulle condizioni di vita nella casa circondariale di Cagliari, studiato per 318 detenuti ma che spesso arriva ad ospitarne oltre 400.

"Il sovraffollamento - spiega il responsabile Roberto Loddo - è un male cronico della struttura. Spesso si arriva ad avere anche otto persone per cella. Ma c’è anche una emergenza sanitaria a causa delle condizioni di salute di molti detenuti". Un quarto dei detenuti, a quanto pare, soffre di malattie psichiche, mentre numerosi sono quelli sieropositivi o con infezioni da epatite B o C. Il sessanta percento è immigrato, mentre il venti soffre di problemi legati alla tossicodipendenza. "Mancano sezioni speciali per detenuti sieropositivi - concludono i volontari - mentre i tossicodipendenti dovrebbero essere avviati in comunità di recupero". Ma l’emergenza più sentita è quella della bambina africana che vive con la madre, attualmente in stato interessante e in attesa di partorire entro qualche mese.

Sanremo: condanna ex cappellano, chiedeva sesso ai detenuti

 

Secolo XIX, 8 gennaio 2009

 

Quello svolto dai cappellani nelle carceri italiane è "un servizio pubblico", la cui natura "è conclamata dalla normativa pubblicistica che lo governa, dall’assenza dei poteri tipici della funzione pubblica, dall’attività intellettiva e non meramente applicativa o esecutiva che lo caratterizza".

Lo sottolinea la Cassazione, confermando la condanna a 3 anni e 10 mesi inflitta dalla Corte d’appello di Genova a un ex cappellano, Giuseppe Stroppiana, all’epoca dei fatti in servizio nel penitenziario di Sanremo, ritenuto responsabile di concussione per aver indotto, tra il 1988 e il 1994, alcuni detenuti a concedergli prestazioni di natura sessuale, con la prospettiva di poter incidere sulla loro posizione giudiziaria.

Contro tale verdetto, l’imputato si era rivolto ai giudici di piazza Cavour, ritenendo insufficiente la motivazione inerente la sussistenza del reato di concussione. La Suprema Corte (sesta sezione penale, sentenza n. 12) ha rigettato il ricorso del religioso: "il cappellano non svolge una funzione pubblica legislativa o giudiziaria - sottolineano gli ermellini - né, dopo il ridimensionamento dei compiti originariamente attribuitigli, una funzione amministrativa, intesa come attività caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi, sicché non riveste la qualità di pubblico ufficiale"". Però, si legge ancora nella sentenza, "avuto riguardo ai compiti che la legge attualmente gli assegna e che sono funzionali all’interesse pubblico perseguito dallo Stato nel trattamento delle persone condannate o internate, il cappellano sicuramente svolge un servizio pubblico".

La riforma carceraria del 1975, ricordano i giudici di Palazzaccio, "tradendo in parte i propositi di laicizzazione della vita pubblica, continua a prevedere che il trattamento del condannato e dell’internato sia svolto avvalendosi anche della religione e a tal fine, mantiene il servizio di assistenza cattolica come servizio stabile e interno alla struttura penitenziaria".

In ogni caso, rileva la Cassazione, "non può sottacersi che, nella prospettiva di affrancarsi, con una qualche timidezza, da tendenze confessionali", la riforma carceraria "ha comunque rimosso il cappellano dal Consiglio di disciplina e dalla quasi totalità delle funzioni amministrative che il regolamento precedente gli conferiva". Il cappellano infatti è stato "privato anche del potere di controllo sulla corrispondenza, del governo della biblioteca, del potere di redigere i rapporti per l’osservazione del detenuto. I suoi compiti - conclude la Suprema Corte - di norma sono essenzialmente di natura religiosa e consistono nell’organizzare e presiedere alle pratiche di culto e nell’istruire e assistere i detenuti".

 

Spie in confessionale, Vescovo contro i giudici (Corriere della Sera, 15 giugno 1993)

 

"Assolvete il mio Parroco oppure dite come stanno le cose. Non si può tenere in sospeso un fatto di questa gravità". È la sollecitazione alla Giustizia del Vescovo di Ventimiglia Monsignor Giacomo Barabino, che fa così riesplodere la polemica sulla microspia fatta mettere in carcere a Sanremo dalla magistratura sotto un quadro della Madonna nei locali dove si svolgono i colloqui e le confessioni dei detenuti con Don Giuseppe Stroppiana, il cappellano della prigione. A denunciare il fatto, nei primi di marzo, fu lo stesso sacerdote che ne parlò pubblicamente in chiesa. A causa del segreto istruttorio non si riuscì a saperne di più e si diffusero allora le voci più strane: chi parlò di microspia utilizzata per carpire segreti dei croupier del Casinò, chi fece sapere che forse era un sistema per identificare i componenti di una pericolosa banda di spacciatori inseguita dagli inquirenti.

In ogni caso un fatto insolito e clamoroso. La Curia stilò un comunicato in cui difendeva il sacerdote e stigmatizzava l’ accaduto. La vicenda sembrò conclusa, specialmente dopo la conferma della regolarità dell’ inchiesta (di cui nessuno sapeva niente) espressa addirittura dal ministro della Giustizia, Giovanni Conso, chiamato in causa da una interpellanza parlamentare.

Invece il Consiglio Presbiteriale della Diocesi di Ventimiglia Sanremo, presieduto da Monsignor Barabino, ha riaperto la querelle. Una nota ufficiale ieri ha espresso "piena solidarietà al cappellano del carcere, ma deplora la grave offesa recata al Sacramento della confessione con l’introduzione di quella microspia in quel luogo solitamente utilizzato da un sacerdote".

Tale fatto è da "considerarsi più che deprecabile come l’ autorizzazione del provvedimento emesso dall’ autorità di polizia giudiziaria che, tra l’ altro, non avendo, nonostante sia passato ormai molto tempo, emesso alcun provvedimento nei confronti del cappellano del carcere, come un avviso di garanzia o altro, non dia la possibilità a un Cittadino rispettabile di difendersi se accusato di qualcosa". Il Consiglio Presbiteriale aggiunge anche che non si può mettere con il silenzio la parola fine ad un fatto così grave e constata che, a distanza di oltre tre mesi dal fatto, la magistratura non ha ancora acclarato la verità, mentre a suo tempo non erano mancati sospetti e indizi lesivi dell’onestà e dell’onorabilità di Don Stroppiana". Si ha dunque la conferma ora che il cappellano del carcere di Santa Tecla risulta sotto inchiesta, ma non si sa per quali motivi, né si conoscono le ragioni, le quali avevano spinto la magistratura ad autorizzare la "spiata".

Torino: trovato alloggio per clochard ad arresti sotto porticato

di Diego Longhin

 

La Repubblica, 8 gennaio 2009

 

Le ultime venti notti le passerà al caldo. L’obbligo di domicilio notturno, dalle 21 alle 7, non è stato sospeso, ma Paolo Manara, il clochard di 48 anni con diversi precedenti alle spalle, non dovrà per forza stare nell’open space dei portici di Porta Nuova, lato via Nizza. Il suo domicilio per gli agenti del commissariato Barriera Nizza da due anni e mezzo, dopo che è uscito l’ultima volta dal carcere.

Dopo l’intervento dell’avvocato Luca Cassiani (consigliere Pd di Palazzo Civico), che si è fatto carico di seguire il caso, è intervenuta la Croce Rossa. I volontari gestiscono per il Comune il dormitorio per l’emergenza freddo della Pellerina, dove ora Manara potrà contare su un posto letto. La svolta ieri, dopo la denuncia e il racconto delle notti nella cella senza sbarre di Porta Nuova apparsa su Repubblica.

Manara per la giustizia è un uomo socialmente pericoloso. Ha collezionato per furti, risse ed altri reati minori 14 anni di carcere a più riprese. Uscito dalle Vallette, dopo un controllo degli agenti del commissariato Nizza, sono scattate le misure di sorveglianza previste dalla legge: ritiro della patente e domicilio obbligato notturno. Non avendo una casa, non potendo rivolgersi a nessuno, come indirizzo gli è stato assegnato quello di Porta Nuova, per l’esattezza via Nizza numero 2, sotto i portici della stazione. Una condanna al gelo difficile da sopportare, soprattutto in questi giorni di freddo intenso. Oltre agli altri rischi del caso raccontati dal senza tetto: "Di notte succede di tutto, ci minacciano, ci vogliono dar fuoco, senza contare le risse". Ma se non si rispetta l’obbligo e se gli agenti, nei controlli a sorpresa, non ti trovano, si rischia di essere accusati di evasione. Con tutte le conseguenze del caso.

Dopo che la Croce Rossa si è resa disponibile, Manara si è presentato al commissariato e ha richiesto di cambiare il suo domicilio notturno, rifacendo la carta precettiva, il "libretto rosso" come viene chiamato dagli habitué che girano attorno a Porta Nuova. Richiesta accolta dalla polizia. Da ieri notte e fino al 26 di gennaio, quando sarà un uomo libero a tutti gli effetti, la casa di Manara non saranno più i portici di Porta Nuova, ma il dormitorio della Pellerina, dove gli agenti potranno controllare, quando vorranno la presenza, evitando al clochard di patire i gradi sotto zero, coprendosi con cartoni e coperte di fortuna lasciate dai volontari della associazioni.

Enna: intervento della Federcalcio per i detenuti senza palloni

 

Vivi Enna, 8 gennaio 2009

 

Nel rispetto dell’impegno preso qualche settimana fa, il presidente provinciale della Federcalcio, Attilio Mingrino, ha confermato l’interessamento della federazione ennese in favore dei detenuti nel carcere di Enna, che hanno lamentato la mancanza di palloni ed attrezzature sportive.

"Lunedì prossimo sarò a Palermo presso il Comitato regionale, al quale ho da tempo inoltrato la richiesta di avere dei palloni - ha dichiarato Attilio Mingrino - e mi è stato promesso che mi saranno dati cinque palloni. A questi palloni il comitato provinciale aggiungerà due mute di fratini di colore diverso e probabilmente un paio di porte da calcio smontabili, che si possono utilizzare in qualsiasi luogo".

Dunque la Federcalcio ha risposto positivamente l’appello, lanciato qualche settimana fa dai detenuti presso il carcere di Enna, i quali lamentavano che non aveva la possibilità di svolgere attività motoria perché mancavano di un pallone. Alla loro richiesta hanno risposto positivamente sia la Federcalcio che il Coni provinciale, due enti che anche in passato hanno collaborato con la direttrice Letizia Bellelli, organizzando anche delle attività che hanno coinvolto i due enti sportivi.

È evidente che all’interno del carcere ci vorrebbe la realizzazione di uno spazio dove potrebbe essere possibile organizzare delle partite di calcio a cinque, ma questo è un problema che dovrebbe essere risolto con la collaborazione del Ministero competente che ha la facoltà di concedere dei finanziamenti per la realizzazione di impianti sportivi all’interno di case circondariali. Intanto Federcalcio e Coni hanno risolto il primo problema che è quello di poter avere palloni, magliette e porte per giocare a calcio.

Immigrazione: conversione permesso soggiorno per giustizia

 

Immigrazione Oggi, 8 gennaio 2009

 

Per il Tar di Venezia il permesso di soggiorno per giustizia, concesso al lavoratore impiegato irregolarmente che deve testimoniare nel processo penale contro il datore di lavoro, può essere convertito in lavoro anche al di fuori dei flussi.

Un cittadino marocchino occupato irregolarmente nel 2002 aveva ottenuto dal datore di lavoro la promessa di assunzione e di regolarizzazione. Dopo pochi mesi era stato licenziato ed era stato assunto da altro datore di lavoro che aveva chiesto il subentro nella procedura di regolarizzazione.

Nel frattempo la Questura di Treviso aveva rilasciato allo straniero un permesso di soggiorno per motivi di giustizia poiché era stato avviato un procedimento penale a carico dell’originario datore di lavoro, accusato di false dichiarazioni nel procedimento di regolarizzazione e altri reati connessi all’immigrazione, e il Pubblico Ministero titolare dell’inchiesta aveva comunicato la necessità di escutere lo straniero come testimone.

Il permesso di soggiorno per giustizia veniva ripetutamente rinnovato fino a quando lo straniero nel 2008 ne chiedeva la conversione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. L’istanza veniva respinta dalla Questura sia perché il Pm aveva ritenuto la presenza dello straniero in Italia non più necessaria in relazione alle esigenze processuali sia perché secondo la stessa Questura il permesso di soggiorno per motivi di giustizia non poteva essere convertito, tanto meno in assenza del possesso di una quota di ingresso nell’ambito dei flussi di ingresso.

Il Tar di Venezia - al quale il lavoratore marocchino aveva presentato ricorso - dopo aver rilevato che il permesso di soggiorno per motivi di giustizia non è una tipologia sottoposta ad una disciplina organica ed unitaria, ma una tipologia di permesso che emerge in diverse fattispecie individuate dalle norme e dalla prassi, ha ritenuto di applicare al caso in questione il regime del permesso di soggiorno per protezione sociale previsto dall’articolo 18 del testo unico immigrazione (a tutela soprattutto delle vittime di tratta e gravi forme di sfruttamento) ritenendolo "il più correttamente assimilabile".

Di conseguenza - hanno precisato i giudici veneziani - "la corretta qualificazione del permesso di soggiorno ne comporta, sussistendone i requisiti, la convertibilità, ai sensi dell’art. 18, comma 5, del Dlgs 25 luglio 1998, n. 286, in permesso di soggiorno per motivi di lavoro e, contrariamente a quanto sostenuto dalla Questura nel secondo diniego, un tale esito non è subordinato alla disponibilità di quote relative alla programmazione dei flussi di ingresso, posto che è possibile una decurtazione di quelle per l’anno successivo ai sensi dell’art. 27, comma 3-bis, del Dpr 31 agosto 1999, n. 394".

Immigrazione: in Friuli negate le cure mediche ai clandestini

di Mario Porqueddu

 

Corriere della Sera, 8 gennaio 2009

 

"I clandestini, in teoria non esistono: però ci sono". La sintesi è di Danilo Narduzzi, capogruppo della Lega nel consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia. In effetti, i sindacati calcolano che in Friuli gli immigrati irregolari siano circa 20 mila, che tra loro ci siano 11 mila badanti, e che molti altri siano transfrontalieri che vorrebbero regolarizzare (diritti ma anche doveri) la loro posizione.

Insomma, gli irregolari ci sono e le conseguenze sono varie. In materia sanitaria, per esempio: il clandestino se sta male va dal medico, spesso al pronto soccorso, e chiede di essere curato. In questo non si distingue da chi ha il permesso di soggiorno o da un italiano. Ma a quel punto il dottore cosa deve fare?

L’azienda per i Servizi Sanitari numero 6, quella di Pordenone, ha invitato con una lettera tutte le strutture pubbliche della Regione a continuare nei programmi di assistenza e cura degli immigrati irregolari avviati dalla giunta di centrosinistra che ha governato il Friuli fino alle scorse elezioni. E infatti: "Bisogna curare e garantire assistenza a tutti, senza distinzione" afferma Luigi Conte, presidente dell’Ordine dei medici di Udine. Lui considera intollerabile la posizione della Lega, che vuole limitare le cure per i clandestini agli interventi urgenti e non differibili, e vorrebbe anche che i pazienti senza permesso di soggiorno fossero segnalati alle autorità. "Il medico non è un delatore" tuona Conte, preoccupato dal pericolo "per gli individui e la collettività" che verrebbe dalla nascita di una "clandestinità sanitaria", o una "sanità parallela" priva di controllo. "Uno dei rischi - spiega - è che aumenti la diffusione di patologie".

La Lega ribatte a muso duro: "Questo è terrorismo mediatico. Epidemie non ce ne sono mai state, al limite il pericolo è quello di attentati" dice Narduzzi. Che poi presenta in questi termini la questione-sanità: "Grazie a progetti della precedente amministrazione di centrosinistra, i clandestini in Friuli godono di assistenza gratuita per prestazioni di ogni tipo, persino la pulizia dei denti... Certo, la Bossi-Fini prevede che chiunque abbia bisogno di cure urgenti debba essere assistito, anche se è irregolare. Noi, però, crediamo che le terapie non urgenti vadano sospese, perché i clandestini sono da espellere".

Non tutti, nella maggioranza di centrodestra che governa la Regione, la pensano così. Sia l’assessore alla Sanità Vladimir Kosic, un tecnico, sia il vicepresidente della commissione sanità in consiglio Massimo Blasoni, del Pdl, sono convinti che per questioni di civiltà e tutela della salute tutti vadano curati. "Proporremo una mozione per definire linee di politica sanitaria che seguano i principi del centrodestra - attacca la Lega -. Non solo: chi è curato e non ha il permesso di soggiorno deve essere segnalato".

È la stessa querelle che si scatenò a livello nazionale in autunno, dopo la presentazione del pacchetto sicurezza. Un emendamento prevedeva che i dottori denunciassero eventuali pazienti-irregolari. Anche in quel caso i medici si opposero. L’emendamento, per ora, è stato ritirato. Narduzzi spera che venga riproposto in Consiglio dei ministri. Nell’attesa, in Friuli la Lega ha tentato una fuga in avanti. Tanto che l’Udc, che qui è nella coalizione di governo, chiede una verifica: "Qualunque essere umano va assistito - dice il segretario regionale, Angelo Compagnon -. Poi, in seconda battuta, bisognerà segnalare il fatto alle autorità. In ogni caso di tutto ciò non c’è traccia nel programma, la maggioranza dovrebbe sedersi attorno a un tavolo e discuterne".

E ancora non basta: da due giorni la Cgil chiede le dimissioni del presidente del consiglio regionale, il leghista Edouard Ballaman, famoso per aver diffuso in Italia il film contro l’Islam radicale di Theo Van Gogh. È accusato di aver tradito "lo spirito super partes del suo ruolo" schierandosi a favore della Lega sulle cure agli irregolari. Il Pd considera la sua uscita "censurabile e inaccettabile". L’Udc sottolinea che "i compiti istituzionali non hanno colore politico". E tutto questo, in fondo, perché è solo nelle teorie che i clandestini non esistono.

Immigrazione: in Italia e nell’Ue i Rom sono i nuovi intoccabili

 

Immigrazione Oggi, 8 gennaio 2009

 

Il messaggio trasmesso il 7 gennaio a Parlamento europeo, Consiglio dell’Ue, Commissione europea, Comitato contro le discriminazioni razziali presso le Nazioni Unite, Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani.

Il Gruppo EveryOne, con i suoi studiosi di chiara fama, Rom e non Rom, i suoi specialisti nella lotta alla discriminazione razziale e i suoi attivisti vi chiede ancora una volta di non sottovalutare il fenomeno del razzismo che colpisce i Rom, fenomeno presente su tutto il territorio dell’Unione, ma particolarmente grave in Italia.

Attualmente, nonostante le Direttive, le Risoluzioni, gli ammonimenti, le conferenze, l’invio di delegazioni da parte della Commissione europea, nessun provvedimento, nessun progetto, nessuna vera azione di inclusione sociale è stata attuata a favore del popolo Rom.

Il governo di destra ed estrema destra Italiano, purtroppo, non trova opposizione, in questo campo tanto critico, da parte della propria controparte, che a propria volta conduce - oggi localmente, ma a livello nazionale durante il Governo Prodi - politiche razziali finalizzate ad allontanare i cittadini dell’Unione europea di etnia Rom dal territorio italiano e di rendere molto dure le condizioni di vita dei Rom di nazionalità italiana o rifugiatisi in Italia negli anni 1970 e 1990.

Sgomberi senza alternative, una costante persecuzione poliziesca e giudiziaria, violenze da parte di gruppi di intolleranti, unitamente a una propaganda mediatica improntata alla diffusione di odio razziale nei confronti del popolo Rom hanno provocato un esodo drammatico di Rom dell’Unione verso altri Paesi o di ritorno in patria, un abbassamento tragico della loro speranza di vita media, numerose tragiche morti (causate da malattie, fame, freddo, indigenza, roghi e altri atti di violenza) nonché la sottrazione di centinaia di bambini Rom ai loro legittimi genitori, giustificata dalla loro impossibilità di assicurare loro "condizioni di vita decenti".

Se nel 2007 circa 45 mila Rom provenienti dalla Romania vivevano in Italia dove le organizzazioni per i diritti umani avevano avviato seri programmi di integrazione e scolarizzazione, la persecuzione istituzionale ha vanificato tali programmi, scatenando una purga etnica le cui atroci direttive sono state accolte dalle amministrazioni locali, organizzate e messe in atto dalle forze dell’ordine, che hanno stimolato il collaborazionismo da parte delle cittadinanze. Le azioni poliziesche hanno caratteristiche di disumanità e brutalità, mentre nessun sostegno è offerto dai servizi sociali.

Oggi restano meno di 3.000 Rom romeni, in Italia, in condizioni socio-sanitarie spaventose. Anche i Rom di nazionalità italiana o provenienti dalla ex Jugoslavia - 45 mila circa in totale, dopo la fuga di molti gruppi familiari in Spagna, Francia e altre nazioni - vivono in condizioni penose nei campi. Criminalizzati, impossibilitati a svolgere lavori fissi, rifiutati dalle scuole o, in pochi casi, iscritti, ma discriminati pesantemente e regolarmente sottovalutati, sopravvivono senza speranze di emancipazione.

Gli attivisti che si occupano di tutela del popolo Rom sono regolarmente intimiditi e controllati dalle forze dell’ordine; in alcuni casi sono stati oggetto di violenza, anche grave, da parte delle stesse forze di polizia, durante sgomberi e azioni persecutorie.

La percentuale di donne e uomini Rom, nelle carceri, è altissima: nessuna vera tutela giuridica è loro offerta, se non formale, di fronte alla legge. L’unica fonte di sostentamento di cui dispongono, l’elemosina, è proibita in molte città da ordinanze, mentre dovunque le forze dell’ordine combattono l’accattonaggio.

Giornali e TV diffondono calunnie e pregiudizi ormai fuori controllo. Sotto gli occhi quasi indifferenti dell’Unione europea i Rom divengono gli Intoccabili dell’Occidente, a causa del grado di intolleranza che si è affermato in Italia, che non ha precedenti se si esclude l’era delle leggi razziali e che costituisce una tentazione per altri Paesi dell’Unione: si pensi alla Spagna, dove un recente sondaggio istituzionale ha rivelato che un ragazzo su Ue non vorrebbe un Rom come compagno di banco; alla Francia, dove le Istituzioni locali stanno adottando il modello italiano dei controlli polizieschi ossessivi: soprattutto, alla Romania, dove la propaganda razzista italiana raggiunge i media locali, causando nuovo odio razziale contro il popolo Rom, che in Romania conta circa due milioni di individui.

Non è un’esagerazione paragonare i Rom discriminati agli Intoccabili, perché di fatto non vi è più differenza fra i Dalits dell’Asia del sud e gli "zingari" in Italia. Anzi, i Dalits, gli intoccabili hanno la possibilità di accedere a lavori considerati "impuri" come la pulizia delle latrine, i lavori cimiteriali e nelle stalle, il recupero di materiali dalle discariche, mentre i Rom, in Italia, sono tenuti a distanza da tutti.

La Storia e l’esperienza insegnano che quando si forma una "casta" all’interno di una civiltà, si affermano contemporaneamente tanti pregiudizi che occorrono secoli per rimuoverli. Senza contare che l’esclusione e l’odio razziale causano un peggioramento delle condizioni di salute, igiene e "presentabilità" delle vittime, che agli occhi della cittadinanza divengono automaticamente "brutte, sporche e cattive".

Il nostro gruppo ritiene che in Italia il limite della civiltà sia stato ampiamente oltrepassato e che allo stato attuale delle cose sarebbero necessarie leggi precise, non suggerimenti. Per esempio - e siamo in grado di fornirvi un progetto articolato in tal senso - l’obbligo da parte degli stati di inserire nel numero di lavoratori provenienti da un Paese membro dell’Unione europea una percentuale di Rom pari alla loro consistenza etnica nel Paese di provenienza.

Considerato che in Romania i Rom sono il 10%, il progetto richiederebbe all’Italia (e agli altri membri) di prevedere nelle quote di lavoratori romeni il 10% di romeni di etnia Rom. Sarebbe auspicabile applicare la stessa norma all’interno degli stessi Paesi membri. Per esempio, la Romania dovrebbe inserire un Rom ogni dieci cittadini assunti nei settori pubblici e privati.

È comunque fondamentale che l’Unione europea assuma provvedimenti efficaci e urgenti, avvalendosi della consulenza di organizzazioni come la nostra, che hanno una notevole esperienza sul campo unita alla conoscenza storica e attuale delle caratteristiche del popolo Rom. È inaccettabile che una civiltà che fa dell’unione, dell’uguaglianza etnica e razziale, delle pari opportunità, dei Diritti Umani le proprie fondamenta, assista contemporaneamente all’affermarsi di una categoria di esseri umani senza diritti, i nuovi intoccabili.

Rimaniamo a disposizione per qualsiasi forma di collaborazione nei difficili procedimenti che si rendono ormai necessari per combattere le piaghe dell’odio razziale, della negazione dei diritti umani verso un intero popolo e di una cultura del pregiudizio che nasconde pericolosamente sia la vera Storia del popolo Rom in Europa, sia le necessarie istanze che devono portare in tempi brevi alla sua emancipazione e al suo corretto riconoscimento morale, giuridico, culturale e storico.

 

Roberto Malini, Matteo Pegoraro, Dario Picciau

Gruppo EveryOne

Immigrazione: Maroni; anche in Italia c’è un "rischio banlieue"

 

Redattore Sociale - Dire, 8 gennaio 2009

 

Nessun allarme terrorismo in Italia, ma grande attenzione al fenomeno dell’immigrazione, perché "rischiamo si sviluppi da noi un fenomeno simile a quello delle banlieue parigine". Lo dice il ministro dell’Interno Roberto Maroni, in un’intervista che l’Espresso pubblicherà domani.

L’esponente della Lega spiega che nei confronti del terrorismo in Italia "c’è grande attenzione, specie dopo l’arresto un mese fa a Milano di due islamici che progettavano attentati al Duomo, a ipermercati e caserme dei carabinieri. Ma- sottolinea- a preoccupare è l’evoluzione del quadro complessivo, in cui s’intrecciano mutazioni sociali, aspetti religiosi, tentazioni di strane alleanze tra frange della cosiddetta sinistra antagonista e gruppi radicali di immigrati di seconda generazione".

Come conta di intervenire il Viminale? "Bisogna prima capire. Ho commissionato un’indagine alla Cattolica di Milano. Dispongo della mappa esatta di tutti i centri islamici. Sto vagliando le proposte presentate in Parlamento, come quella della Lega per sottoporre a referendum locale l’apertura di nuove moschee. Quando avrò sufficienti elementi - dice Maroni - li porterò all’attenzione del governo e del Parlamento. Perché davvero non è una questione che possa risolvere il ministro degli Interni".

 

Sindaci-sceriffi? soprattutto di sinistra

 

I sindaci-sceriffi? Sono quasi tutti di centrosinistra. Lo dice Roberto Maroni, ministro dell’Interno, in un’intervista sull’Espresso in edicola domani. Parlando dei primi effetti del decreto sicurezza, Maroni si chiede: "Sa quali sindaci hanno più prontamente usato la norma che consente di emanare ordinanze anche permanenti in materia di sicurezza?". Quelli di centrosinistra? "Esatto: in tutto oltre 300 in quattro mesi. Consideri che - spiega - mentre approntavamo le nuove norme, abbiamo dovuto affrontare gravi emergenze: campi nomadi, violenza negli stadi, attacco della camorra a Casal di Principe".

Immigrazione: i sei Centri di detenzione nel deserto della Libia

di Gabriele Del Grande

 

Redattore Sociale - Dire, 8 gennaio 2009

 

Arrestati sulla rotta per Lampedusa, oppure durante le retate, migranti e rifugiati politici finiscono nei centri di detenzione nel deserto libico. Ce ne sono a Shati, Qatrun, Ghat, Brak e Kufrah. Condizioni inumane, ma nessuno parla.

Dal 2003 Italia e Unione europea collaborano con la Libia per il contrasto dell’immigrazione verso Lampedusa. Dal 2003 decine di migliaia di migranti e rifugiati sono arrestati e detenuti in centri definiti inumani da Human Rights Watch e Amnesty International. Le autorità italiane e europee fingono di non sapere, eppure quei centri li hanno visitati a più riprese. Nel sud della Libia esistono almeno sei campi di detenzione per gli immigrati senza documenti. Mutasallil, come si dice in arabo. Nel sud ovest, si trovano quattro centri relativamente vicini alla frontiera meridionale, a Shati, Qatrun, Ghat e Brak, che fanno capo al campo di Sebha, dove i migranti arrestati vengono smistati in un secondo momento, stipati dentro container. L’altro campo si trova a sud est, a Kufrah, e lì vengono detenuti i rifugiati eritrei e etiopi in arrivo dal Sudan.

Quello di Kufrah è il carcere che gode della peggiore fama. Ecco le testimonianze di chi ci è passato, raccolte dal rapporto "Fuga da Tripoli", di Fortress Europe: "Dormivamo in 78 in una cella di sei metri per otto" - "Dormivamo per terra, la testa accanto ai piedi dei vicini" - "Ci tenevano alla fame. Un piatto di riso lo potevamo dividere anche in otto persone" - "Usavamo un solo bagno in 60, nella cella c’era un odore perenne di scarico. Era impossibile lavarsi" - "C’erano pidocchi e pulci dappertutto, nel materasso, nei vestiti, nei capelli" - "I poliziotti entravano nella stanza, prendevano una donna e la violentavano in gruppo davanti a tutti". È il ritratto di un girone infernale. Ma anche di un luogo di affari. Sì perché da un paio d’anni la polizia è solita vendere i detenuti agli stessi intermediari che poi li porteranno sul Mediterraneo. Il prezzo di un uomo si aggira sui 30 dinari, circa 18 euro.

Nel 2004 la Commissione europea riferiva che l’Italia stava finanziando il centro di detenzione di Kufrah. Nel 2007 il governo Prodi smentiva la notizia, dicendo che si trattava di un centro di assistenza sanitaria. Ma la cooperazione con la Libia da allora si è andata rafforzando, fino ai recenti appelli di Maroni affinché Tripoli faccia di più. Eppure al Viminale si sa bene quale sia il trattamento dei migranti in Libia. Nel 2005, il prefetto Mario Mori, ex direttore del Sisde, informava il Copaco: "I clandestini [in Libia, ndr.] vengono accalappiati come cani... e liberati in centri... dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi". Ma i funzionari della polizia italiana sapevano già tutto. Già perché dal 2004 alcuni agenti fanno attività di formazione in Libia.

E alcuni funzionari del ministero dell’Interno, hanno visitato in più occasioni i centri di detenzione libici, Kufrah compreso, limitandosi a non rilasciare dichiarazioni. E l’Unione Europea? Il rapporto della Commissione europea del 2004, definisce le condizioni dei campi di detenzione libici "difficili" ma in fin dei conti "accettabili alla luce del contesto generale". Tre anni dopo, nel maggio 2007, una delegazione di Frontex visitò il sud della Libia, compreso il carcere di Kufrah, per gettare le basi di una futura cooperazione. Indovinate cosa scrisse? "Abbiamo apprezzato tanto la diversità quanto la vastità del deserto". Sulle condizioni del centro di detenzione però preferì sorvolare. Una dimenticanza?

 

I migranti chiusi nei container

 

Stipati come animali, dentro container di ferro. Così gli immigrati arrestati in Libia vengono smistati nei vari campi di detenzione in attesa di essere deportati. Alcuni vengono fermati in mare mentre prendono il largo per Lampedusa. Altri sono vittime delle retate della polizia nei quartieri degli immigrati a Tripoli. E altri ancora sono fermati al confine meridionale del paese, alla frontiera con Niger e Algeria, in pieno deserto. La prima volta che sentii parlare dell’utilizzo dei container per le deportazioni degli immigrati in Libia fu nella primavera del 2006.

Le testimonianze dei rifugiati eritrei ed etiopi erano sconcertanti: "Con noi c’era un bambino di quattro anni con la madre, durante tutto il viaggio mi sono domandato: come si può mandare una madre con un bambino di quattro anni insieme ad altre cento persone stipate come animali in un camion, senza aria, per 21 ore di viaggio, dove le persone urinavano e defecavano davanti a tutti perché non c’era altra possibilità? Abbiamo viaggiato per 21 ore... Guardare il bambino ci faceva coraggio. Quando il camion si fermava lo prendevamo e lo mettevamo vicino al finestrino. Si chiamava Adam" (testimonianza raccolta dalla scuola di italiano Asinitas, Roma, 2007).

Due anni dopo i container sono riusciti a vederli di persona. Per farlo ho dovuto raggiungere Sebha, alle porte del grande deserto libico, nella capitale della storica regione del Fezzan. Da qui, fino al secolo scorso passavano le carovane che attraversavano il Sahara. Oggi alle carovane si sono sostituiti gli immigrati. Il colonnello Zarruq è il direttore del nuovo centro di detenzione della città. È stato inaugurato lo scorso 20 agosto. I tre capannoni si intravedono oltre il muro di cinta. Ognuno ha quattro camerate, in tutto il centro possono essere detenute fino a 1.000 persone. Nel parcheggio sterrato di fronte al muro di cinta, sotto il sole, sono fermi tre tipi di autovetture utilizzate per lo smistamento degli immigrati detenuti. Il più piccolo è un pick-up furgonato. Quello medio è l’equivalente di un camioncino. E quello più grande è un vero e proprio container, blu, con tre feritoie per lato, trainato da un auto rimorchio.

Con una pacca sulle spalle, il direttore mi invita a salire sulla motrice. Un Iveco Trakker 420, a sei ruote. Mi indica il tachimetro: 41.377 km. Nuovo di pacca. È rientrato ieri sera da Qatrun, a quattro ore di deserto da qui. A bordo c’erano 100 prigionieri, arrestati alla frontiera con il Niger. Entriamo nel container, dalle scale posteriori. L’ambiente è claustrofobico anche senza nessuno. Difficile immaginarsi cosa possa diventare con 100 o 200 persone ammassate una sull’altra in questa scatola di ferro. I raggi del sole filtrati dalla polvere illuminano le taniche di plastica vuote, a terra, sotto le panche di ferro. Sulla parete di ferro, qualcuno ha inciso la scritta "Libye c’est pas bien". La Libia non è bene.

 

I rifugiati politici detenuti nel centro di Sebha

 

Patrick viene dalla Repubblica democratica del Congo, recentemente tornata alle cronache per la crisi nella regione del Kivu. È stato arrestato a Tripoli, mentre cercava lavoro alla giornata sotto i cavalcavia di Suq Thalatha. Lo incontro dentro una delle camerate del centro di detenzione di Sebha, in Libia. È un richiedente asilo politico. Ma sotto la lente securitaria del controllo della frontiera italiana, è soltanto un potenziale candidato alla traversata verso Lampedusa.

Da trenta giorni divide un angolo di pavimento con una sessantina di detenuti, tutti africani, in una cella di otto metri per otto. Dormono per terra, sopra stuoini e ormai lerci materassini in gommapiuma. La luce entra dalle vetrate in cima alle alte pareti. Quasi nessuno di loro è stato arrestato in mare, sulla rotta per Lampedusa. La maggior parte sono stati presi nel deserto, al momento dell’ingresso in Libia, oppure durante le retate della polizia nei quartieri di Tripoli dove vivono gli africani.

Riesco a parlare liberamente con Patrick, in francese, l’interprete della polizia non ci capisce. Mi porge un foglio spiegazzato dalla tasca. È il suo certificato di richiedente asilo politico. Rilasciato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) a Tripoli, il nove ottobre 2007. Qua dentro è carta straccia. Come gli altri detenuti, Patrick non ha diritto di telefonare a nessuno, nemmeno all’Acnur. Se non trova prima i soldi per corrompere qualche poliziotto, anche lui, prima o poi, sarà deportato. E come lui i suoi compagni di cella.

Le compagnie aeree che si occupano delle deportazioni sono libiche: Ifriqiya e Buraq Air. I soldi pure, garantisce il direttore. Ma è difficile credergli. Dopotutto il rapporto della Commissione europea del dicembre 2004 parlava già allora di 47 voli di rimpatrio finanziati dall’Italia. Il direttore del centro di detenzione di Sebha, colonnello Zarruq, scuote il capo. Dice che da Roma hanno avuto soltanto due fuoristrada per il pattugliamento, con il progetto Across Sahara.

E il nuovo centro di detenzione? Ha finanziato tutto la Libia, insiste. Ammette però che l’Italia si era impegnata a costruire un nuovo centro, e che la a shàabiyah, la municipalità, aveva anche predisposto un terreno. Ma poi non se ne è fatto niente. Intanto però il vecchio campo è stato restaurato e ampliato, grazie anche ai lavori forzati degli immigrati detenuti.

Questo Zarruq non me lo può dire, ma sono voci che corrono tra i rimpatriati, dall’altro lato della frontiera, a Agadez, in Niger. Ad ogni modo, insiste, oggi tutti i rimpatri avvengono in aereo, anche quelli verso il Niger: Sono passati i tempi dei cosiddetti "rimpatri volontari", quando, nel 2004, oltre 18.000 nigerini e non solo vennero caricati sui camion e abbandonati alla frontiera in pieno deserto, con le decine di vittime che ne seguirono a causa degli incidenti.

Medio Oriente: Cardinale Martino; la Striscia di Gaza è un lager

 

La Stampa, 8 gennaio 2009

 

Durissimo e inatteso botta e risposta fra il Vaticano e Israele. A dare l’avvio a questa improvvisa polemica fra la Santa Sede e il governo di Gerusalemme è stata una dichiarazione del Cardinale Renato Raffaele Martino, che in un’intervista al sito "www.sussidiario.net" ha detto: "Gaza assomiglia sempre più a un grande campo di concentramento". Il presidente del Pontificio Consiglio per la giustizia e la pace ha poi rincarato la dose: "Occorre una volontà da tutte e due le parti, perché tutte e due sono colpevoli.

Nessuno vede l’interesse dell’altro, ma solamente il proprio. Le conseguenze dell’egoismo sono l’odio per l’altro, la povertà e l’ingiustizia. A pagare sono sempre le popolazioni inermi: guardiamo le condizioni di Gaza". Il paragone fra Gaza e i campi di sterminio nazisti, dove furono sterminati milioni di ebrei, e sul quale insistono molti commentatori europei, ha ovviamente scosso Israele, punta nel vivo.

Igal Palmor, portavoce del ministero degli Esteri, ha osservato che i discorsi del cardinal Martino utilizzano termini cari alla "propaganda di Hamas". Palmor ha poi aggiunto che il Vaticano sembra "ignorare gli innumerevoli crimini commessi da Hamas, che hanno fatto deragliare il processo di pace nella violenza trasformando la Striscia di Gaza in un gigantesco scudo umano per un gruppo terrorista e integralista".

Quindi non servono certi discorsi per "avvicinare la gente alla verità e alla pace". Nell’intervista a "Ilsussidiario.net", il cardinal Martino ha colto l’occasione per un nuovo attacco alla comunità internazionale, e probabilmente alle Nazioni Unite, spesso accusate di occuparsi di piccoli e pretesi diritti, e di non far nulla per le grandi tragedie: "Il mondo non può stare a guardare senza fare nulla. Si mandano missioni di pace in tutto il mondo, si sono fatte tante proposte, ma i veti hanno sempre prevalso. Ora anche George W. Bush ha cominciato a pensare che forse una missione di pace sarebbe auspicabile".

Infine Martino non si è risparmiato una stoccata proprio al presidente uscente degli Stati Uniti: "La violenza non risolve i problemi e la storia è piena di conferme. L’ultimo esempio è quello della guerra in Iraq. La diplomazia della Santa Sede sapeva bene che Saddam Hussein era pronto ad accettare le richieste della Nazioni Unite. Ma non si è voluto aspettare". "In Terra Santa - ha detto infine - vediamo un eccidio continuo dove la stragrande maggioranza non c’entra nulla ma paga l’odio di pochi con la vita".

Usa: sei anni a Guantanamo, torturato e imbottito di farmaci

 

La Repubblica, 8 gennaio 2009

 

Quando ad agosto Muhammad Saad Iqbal è tornato a casa propria, dopo più di sei anni trascorsi nelle mani degli americani, e di cui cinque nel carcere militare di Guantanamo Bay a Cuba, aveva difficoltà nella deambulazione, il suo orecchio sinistro aveva una grave infezione e mostrava segni di dipendenza da un cocktail di antibiotici e antidepressivi.

A novembre, un chirurgo pachistano l’ha operato all’orecchio, alcuni fisioterapisti sono intervenuti sui suoi problemi di lombo sciatalgia e uno psichiatra ha cercato di ridurre la sua dipendenza dai farmaci, che egli era solito portarsi appresso in un sacchetto di plastica.

I suoi problemi, ha detto Iqbal, un lettore professionista del Corano, sono dovuti a una forma di tortura (detta "gantlet", nella quale il prigioniero è costretto a correre tra due file di persone armate di mazze o di fruste), e a un insieme di abusi, carcerazione e interrogatori per i quali il suo legale di Washington ha in mente di citare in giudizio il governo degli Stati Uniti.

L’Amministrazione del presidente eletto Barack Obama, che si insedierà di qui a poco, sta valutando se chiudere definitivamente il carcere di Guantanamo, che molti hanno criticato e definito un sistema di detenzione e abusi estraneo a ogni legalità. La storia vissuta da detenuti come Iqbal sta emergendo però soltanto adesso, dopo anni nei quali questi individui sono stati trasportati avanti e indietro in tutto il mondo con quel sistema adottato dall’Amministrazione Bush e denominato "extraordinary rendition", in virtù del quale i prigionieri sospettati di essere terroristi erano interrogati e incarcerati in Paesi stranieri, lontani dalla portata dei tribunali americani. Iqbal non è mai stato riconosciuto colpevole di alcun crimine, né del resto mai imputato di alcun reato.

È stato rilasciato da Guantanamo senza clamori, con la spiegazione di routine che non è considerato più un "nemico combattente", grazie a un programma varato dall’Amministrazione Bush per ridurre la popolazione carceraria. "Mi vergogno di quello che gli americani mi hanno fatto in quel periodo", rivela Iqbal che, per la prima volta ha voluto far luce sulla sua prigionia. Iqbal era stato arrestato nel 2002 a Giacarta, in Indonesia, dopo essersi vantato con i membri di un gruppo islamico di saper costruire una bomba da nascondere nel tacco delle scarpe, secondo quanto hanno raccontato due fonti americane di alto grado che si trovavano a Giacarta in quel periodo.

Oggi Iqbal nega di aver mai fatto una dichiarazione del genere, ma due giorni dopo il suo arresto la Cia lo trasferì in Egitto. In seguito fu trasferito ancora in una prigione americana nella base aerea di Bagram in Afghanistan, per poi approdare al carcere della Baia di Guantanamo. Dopo essere stato catturato a Giacarta e interrogato per due giorni, le fonti americane giunsero alla conclusione che Iqbal era soltanto uno spaccone e che dovesse pertanto essere rilasciato: così ha rivelato una delle fonti americane a Giacarta. "Era un chiacchierone, voleva darsi delle arie ed essere ritenuto più importante di quanto non fosse in realtà" ha detto la fonte.

Non ci sono prove che Iqbal abbia mai incontrato Osama Bin Laden o sia mai stato in Afghanistan, ma nell’atmosfera di paura e confusione che regnò nei mesi immediatamente successivi all’11 settembre 2001, Iqbal fu trasferito segretamente in Egitto per essere sottoposto a ulteriori interrogatori. Lui dice di essere stato picchiato, ammanettato strettamente, incappucciato, drogato, sottoposto a scariche elettriche e poiché aveva negato di aver conosciuto Osama Bin Laden è stato anche privato del sonno per sei mesi.

"Mi hanno accecato e costretto a stare in piedi per giorni interi". Il Pentagono e la Cia per prassi non parlano dei prigionieri, ma un portavoce della Cia, Paul Gimigliano, ha detto che "il programma di detenzione dei terroristi dell’agenzia ha fatto uso di sistemi di interrogatorio leciti. Da quanto so di questo individuo, egli sembra descrivere tecniche molto diverse da quelle in uso", ha aggiunto Gimigliano. "Non ho proprio idea di che cosa stia parlando. Gli Usa non utilizzano né ammettono la tortura".

Una volta arrivato a Guantanamo, il 23 marzo 2003, Iqbal è stato trattato come un miserabile dagli altri prigionieri perché secondo un compagno di prigionia, non era stato addestrato nei campi afgani. Iqbal è diventato talmente depresso da cercare di suicidarsi impiccandosi due volte e da effettuare tre scioperi della fame, ha detto Habib. "Un agente della Cia - racconta - mi ha detto: "Ti risparmiamo: ammetti soltanto di aver incontrato Osama Bin Laden".

Quando io ho risposto che non era vero e che non avrei ammesso una cosa del genere, dopo che anche i test alla macchina della verità hanno dimostrato che dicevo il vero, mi hanno spostato da una cella all’altra a intervalli regolari e deprivato del sonno per sei mesi". Secondo una dichiarazione dell’aprile 2007 del dottor Ronald L. Sollock, comandante dell’Ospedale della Marina della Baia di Guantanamo, a Iqbal è stata diagnosticata la perforazione del timpano sinistro, un’infiammazione del canale esterno dell’orecchio sinistro, un’infiammazione dell’orecchio medio sinistro.

E dal 2003, secondo quanto la Corte ha appurato da Sollock, a Iqbal sono stati prescritti farmaci antibiotici. Quando ha fatto ritorno a casa propria in Pakistan, Iqbal mostrava segni di dipendenza "da un lungo elenco di farmaci", ha detto Mohammad Mujeeb, professore e laringoiatra del Services Hospital di Lahore. "Qui, con la mia famiglia, sono tornato a vivere. È stato come nascere una seconda volta - dice Iqbal - non saprei descrivere quella sensazione altrimenti".

Il suo caso è attualmente in corso di esame nei tribunali americani: il suo avvocato, Richard L. Cys, dice che si prefigge di citare il governo americano per la detenzione illecita. A Lahore, Iqbal intende adesso tornare a insegnare il Corano: "È facile ora per gli Stati Uniti affermare che non sono state trovate accuse a mio carico - conclude - Ma chi è responsabile di questi sette anni della mia vita?".

 

 

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