Rassegna stampa 2 gennaio

 

Giustizia: mass-media; ascesa e caduta della parola "sicurezza"

di Riccardo Ferrazza

 

Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2009

 

Le parole più usate dai media. Record per "giustizia" (3.726 volte). Sempreverde la Rai mentre per Alitalia è periodo record. Fanno fatica lemmi nuovi come Islam.

Di cosa si parla quando si parla di politica? Per il 2008 il concorso "le parole dell’anno" usate dai nostri rappresentanti in Parlamento si gioca ancora una volta tra il gruppo non troppo ampio dei soliti lemmi che, passandosi la staffetta, si sono contesi a turno la scena mediatica tra lanci di agenzia e titoli di giornali.

Alcuni sono immarcescibili hit che, pur avendo dimostrato da tempo la loro vacuità, continuano a essere suonate per antica inerzia sul giradischi politico (dialogo, confronto, accordo, riforme), scortate da parenti che si augurano di avere nella vita miglior sorte (federalismo, quest’anno nella sua versione "fiscale"); altre parole che avevano monopolizzato l’attenzione in passato si sono inabissate con l’augurio di ricomparire in un anno più fortunato (costi della politica, unioni civili).

In compenso si registrano autentici déjà vu come la "questione morale" di berlingueriana memoria che ha vissuto nella parte finale dell’anno una seconda giovinezza, trascinando però con sé sulla scena espressioni che in molti si auguravano di vedere relegate ai libri di storia (tangenti).

Ruolo da protagonista per il "pacchetto sicurezza", inteso come quell’insieme di parole che evoca il concetto: immigrati-immigrazione, nomadi, campi rom. Tra gli emergenti si ridimensionano Islam e moschee (relegate a questioni di cronaca). A braccetto sotto l’insegna "emergenza", invece, Alitalia e rifiuti.

In sottofondo, come un basso continuo, un concetto su cui la politica non smette di esercitarsi dagli anni 90: la giustizia, in quest’ultima stagione accompagnata dal corollario intercettazioni. Infine la categoria "oldies but goldies" dominata come da tradizione dalla Rai - mai assente dal dibattito politico italiano -, sospinta stavolta dalle vicende di un organismo (la Vigilanza) che forse molta opinione pubblica ha scoperto solo quest’anno.

Difficile tradurre in cifre il ruolo che queste parole hanno avuto nel dibattito pubblico degli ultimi 365 giorni. Una graduatoria si può però stilare ricorrendo a un metodo tanto poco scientifico quanto efficace: il numero di citazioni nel notiziario politico dell’Ansa, la principale agenzia di stampa italiana, che raccoglie e registra la vita delle parole politiche.

Ebbene, attendendosi a un criterio puramente aritmetico (e non tendendo in considerazione i nomi dei personaggi politici) il tema che ha totalizzato il maggior numero di comparse nei lanci di agenzia è la giustizia, concetto evocato con pervicacia per ben 3.726 volte durante l’anno, quasi un mantra quotidiano recitato dieci volte al giorno.

Non è finita, però: accanto a materie come ruolo del Csm e separazione delle carriere, l’argomento "intercettazioni" si è fatto largo a suon di citazioni autonome: più di mille. E la giustizia, così, non sembra aver rivali: ha fatto discutere più di Alitalia (3.332), della crisi (che, scoppiata a metà anno, si è fermata sotto le tremila citazioni), della Rai e della sicurezza.

Quest’ultima ha avuto un "andamento anomalo" nel corso del 2008: quasi ignorata a inizio anno, ha raggiunto il suo picco a maggio (quasi 800 lanci), quando divenne la "regina" delle dispute post-elettorali trascinatesi fino all’inizio dell’estate. Finite le vacanze, esaurito l’argomento (ma, forse, non il problema). Così la sicurezza ha chiuso l’anno tornando al suo numero fisiologico di apparizioni: a dicembre appena 59 (- 92% rispetto alla fase acuta).

L’altro caso è la Rai: se servisse una prova documentale dell’interesse dei politici per la tv pubblica basterebbe contare le volte in cui ne parlano nel notiziario che conserva le loro esternazioni: 3.653 citazioni. Anomalia legata alle tormentate vicende della Vigilanza e del suo presidente Riccardo Villari?

No, perché nel 2007 si è parlato di Viale Mazzini 3.853 volte e l’anno prima le ricorrenze non scendevano sotto la soglia di tremila. È andata forte la scuola (2.341) e fanno fatica, invece, le nuove tematiche. L’Islam, per esempio: nel 2007 totalizzava 521 presenze; nel 2008 la quota è scesa a 281. Se crolla il conflitto di interessi (da 449 apparizioni del 2007 ad appena 80) non c’è crisi per l’eterno "dialogo" (1.156), legato a filo doppio con le riforme (1.325): concetti parecchio evocati e poco praticati. Dietro di loro si fa spazio un nuovo protagonista, il federalismo (2.304). Ma almeno, in questo caso, c’è un testo in Parlamento.

Giustizia: riforme stanno a cuore anche a Napolitano... si vedrà

di Carlo Federico Grosso

 

La Stampa, 2 gennaio 2009

 

Nel suo messaggio di fine anno il Capo dello Stato ha toccato, con semplicità e chiarezza, tutti i problemi caldi del momento, a partire dalla crisi economica, che rischia di togliere serenità e sicurezza. Mi hanno colpito, soprattutto, le sue parole di fiducia e di speranza. Giorgio Napolitano ha parlato, ripetutamente, di crisi come grande occasione: per riequilibrare le ricchezze, cambiare lo stile dei comportamenti, ritornare a un mondo denso di valori, rilanciare l’economia e uscire dalle difficoltà con un Paese diverso, più equo e giusto. Un’occasione che costituisce una grande scommessa. Uno sforzo che dev’essere compiuto da tutti, con unità d’intenti, abbandonando le reciproche diffidenze.

Al di là di quest’importante presa di posizione, c’è stato, da parte del Presidente, un agire perfetto come Capo di Stato imparziale e garante della posizione di tutti. Un richiamo all’importanza delle riforme condivise, ma nessuna discesa in campo personale, nessuna indicazione di merito. Risolvere i problemi e trovare soluzioni, ha precisato il Presidente, sono compiti delle forze politiche, in particolare del Parlamento, del quale deve essere difesa la posizione di centralità nel sistema costituzionale del Paese. Quello delle riforme condivise costituisce, da mesi, il tema ricorrente degli interventi del Capo dello Stato.

Ed è assolutamente giusto che un Presidente, garante dell’ordinato funzionamento delle istituzioni, si preoccupi che l’accordo, o quantomeno il rispetto reciproco, favorisca il superamento di difficoltà o la risoluzione di problemi che, altrimenti, rischierebbero di aprire ferite difficili da rimarginare.

Cionondimeno, occorre ribadire che vi sono decisioni sulle quali avere condivisione è difficile. Nell’impossibilità di fornire un quadro esauriente delle questioni che dividono, mi limiterò a indicare due temi caldi in materia di giustizia sui quali, immagino, ma soprattutto auspico, non vi sarà mai condivisione dell’opposizione con le idee della maggioranza. La separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, della quale ha parlato ancora una volta il presidente del Consiglio in un’intervista di due giorni fa, e il rapporto fra pubblici ministeri e polizia nella ricerca delle notizie di reato.

La prima è una questione annosa. Sostiene il presidente del Consiglio che sarebbe necessario procedere alla separazione delle carriere trasformando il pubblico ministero in un "avvocato dell’accusa", dotato di diritti e doveri uguali a quelli dell’avvocato difensore. Lo imporrebbe l’esigenza di assicurare al cittadino un giudice imparziale e di riequilibrare la posizione delle parti nel processo. La nuova configurazione del pubblico ministero dovrebbe dare luogo a un ordine separato, con propri accessi e carriere, e con un proprio Consiglio Superiore.

Le obiezioni a questa soluzione sono forti. Creare un ordine di pubblici ministeri indipendenti, si sostiene, sarebbe un rischio in sé per la democrazia, poiché realizzerebbe un corpo separato potente, impermeabile a qualunque confronto, una scheggia che potrebbe trasformarsi in uno strumento di potere con propri, autonomi, obiettivi politici. Se, per altro verso, la separazione delle carriere dovesse costituire la premessa per un asservimento dei pubblici ministeri al governo, l’attentato sarebbe ancora più evidente: mai, in uno Stato democratico, dovrebbe essere consentito all’esecutivo d’interferire sull’esercizio dell’azione penale. Esiste, infine, un problema di funzionalità. Poiché il pubblico ministero ha compiti d’indagine, come si potrebbe conciliare la sua trasformazione in "avvocato dell’accusa" con il mantenimento di tale funzione? O, per altro verso, come si potrebbero attribuire alle difese dell’imputato poteri d’indagine identici a quelli del pubblico ministero senza sconvolgere l’ordinato funzionamento dell’attività giudiziaria? Si tratta di un complesso di ragioni che rendono, pertanto, oltremodo difficile per l’opposizione trovare un’intesa con la maggioranza.

La seconda questione è più recente. Ai primi di settembre ha cominciato a circolare l’ipotesi, ribadita dal presidente del Consiglio nell’intervista, di un ritorno alla disciplina anteriore alla riforma del 1989 del codice di procedura penale in tema di rapporti fra Procure e polizia. Nella fase della ricerca delle notizie di reato, si sostiene, la polizia dovrebbe essere rigorosamente autonoma, mentre il pubblico ministero dovrebbe essere autorizzato a iniziare le sue indagini soltanto a seguito di un rapporto delle forze dell’ordine. In questo modo si impedirebbe quella ricerca a 360 gradi di notizie di reato da parte delle Procure, quella sorta di pesca a strascico, che tanta paura arrecherebbe alla tranquillità dei cittadini onesti.

Il problema non è di poco conto. Non è, in effetti, ragionevole che alle Procure siano consentite indiscriminate iniziative volte a cercare, in assenza di qualsiasi notizia di reato, eventuali indizi a carico dei cittadini. Per altro verso, stabilire rigidamente che il pubblico ministero non possa impartire, mai, direttive alle forze dell’ordine, o imprimere, mai, ritmi o direzioni alle ricerche fino al momento in cui la polizia non gli abbia depositato un rapporto, sarebbe, a sua volta, molto pericoloso. Poiché la polizia dipende gerarchicamente dal governo, il rischio che l’esecutivo possa interferire, frenare, impedire, è elevato. E a poco varrebbe ribadire, data la menzionata situazione di dipendenza, che le forze dell’ordine hanno il dovere di riferire non appena emerga un indizio di reità a carico di qualcuno.

Ecco perché, anche in questo caso, una condivisione delle idee della maggioranza da parte dell’opposizione non sarebbe auspicabile. Davvero, tuttavia, l’intera opposizione saprà sfuggire alla prospettiva, seducente per il mondo dei partiti, di riuscire, finalmente, a tagliare in qualche modo le unghie alle Procure, indebolire il loro potere, restituire alla politica la possibilità di aprire qualche ombrello, di salvare qualche suo esponente autore di reati?

Giustizia: indagini su politica e corruzione si stanno sgonfiando

di Paolo Conti

 

Corriere della Sera, 2 gennaio 2009

 

Calma, calma, calma, e ancora calma. Però resta il fatto che, secondo il Tribunale del Riesame di Potenza, le accuse di corruzione e turbativa d’asta restano in piedi, l’associazione a delinquere no. Dunque, l’inchiesta, come è giusto che sia, va avanti, ma perde per strada qualcosa di molto, molto importante.

Salta, cioè, il Capo A dell’Ordinanza emessa dal Gip Rocco Pavese, su richiesta del Pm Henry John Woodcock. E i presunti esponenti dell’altrettanto presunto comitato d’affari messo su per gestire le estrazioni petrolifere in Basilicata, dall’amministratore delegato di Total Italia Lionel Levha all’imprenditore Francesco Rocco Ferrara, se ne tornano a casa, agli arresti domiciliari.

Che vengono invece revocati per il parlamentare del Pd Salvatore Margiotta, rappresentato, nell’inchiesta di Woodcock, come il personaggio chiave, dal punto di vista politico, del suddetto "comitato". La Camera, il 18 dicembre, aveva respinto la richiesta di arresto per Margiotta, con la sola eccezione dell’Italia dei Valori, a costo di tirarsi addosso l’accusa di essersi per l’ennesima volta schierata a difesa di un rappresentante della casta: adesso, il Tribunale del Riesame sembra darle ragione.

Però resta il fatto che il 23 dicembre il Gip Luca De Ninis, lo stesso che nove giorni prima aveva disposto l’arresto, sempre ai domiciliari, del sindaco di Pescara, Luciano D’Alfonso, anche lui del Pd, aveva pensato bene di tornare sui suoi passi. Sostenendo che sì, il quadro accusatorio era tutto confermato, e anzi per certi aspetti si era anche rafforzato, però, non si capisce esattamente come, si era pure ridimensionato. Cosicché D’Alfonso poteva benissimo tornare in libertà. E le sue dimissioni da sindaco, che all’inizio di dicembre erano parse al Gip una spregiudicata mossa strategica, meritevole di una sdegnata censura, sotto Natale assumevano tutt’altro rilievo: D’Alfonso, dimettendosi, non solo non poteva più inquinare le prove, ma dava anche un segnale politicamente e moralmente significativo.

Però resta il fatto che, senza nulla concedere alle teorie del complotto (oltretutto controproducenti e anzi autolesionistiche, perché i complotti, se mai ci fossero, e non ci sono, non basterebbe solo denunciarli, ma occorrerebbe pure saperli stroncare), se fossimo nei panni di Walter Veltroni e del gruppo dirigente del Pd qualche interrogativo ce lo porremmo. E proveremmo pure a dare, a noi stessi e all’opinione pubblica, delle risposte. Partendo da una premessa che comporta un’autocritica dolorosa sul passato e scelte non facili per il presente e il futuro. La cosiddetta questione morale è in realtà in primo luogo una questione politica. Tanto è vero che, con tutta l’immoralità che quasi per definizione si porta appresso, si è abbattuta sul Pd, quasi come una nemesi storica, proprio quando più vistose si sono fatte le difficoltà politiche, contingenti e di prospettiva, di questo partito. Non è certo la prima volta che succede. La novità sta nel fatto che per molti motivi, non tutti propriamente nobili, l’avversario tutto fa fuorché brandirla a mò di clava. A utilizzarla spregiudicatamente, al limite del cinismo, sono presunti amici che, strada facendo, sono diventati dei concorrenti.

E se possono farlo (per essere più precisi: se Antonio Di Pietro può farlo) è soprattutto perché l’idea che l’azione giudiziaria sia la prosecuzione della lotta politica con altri mezzi, e che alla magistratura spetti il controllo non solo della legalità, ma pure della moralità pubblica e privata, è stata a sinistra prima coltivata, poi blandita, e in ogni caso mai seriamente contrastata, nemmeno negli anni più recenti; e ha fatto una straordinaria quantità di proseliti. Calma. Calma, calma, calma e ancora calma.

Però resta il fatto che c’è una questione aperta di riforma della giustizia: sarebbe stato meglio prenderne atto ben prima che Silvio Berlusconi la mettesse in agenda come la riforma delle riforme, e che i magistrati bussassero alle porte di casa, ma non è mai troppo tardi. E c’è nello stesso tempo una questione altrettanto aperta di riforma (ma forse sarebbe più giusto dire: di rifondazione) della politica, e in primo luogo dei partiti, a cominciare dalla selezione dei loro gruppi dirigenti: forse, vedremo, quel che leggiamo nelle intercettazioni napoletane, lucane o abruzzesi ha poco o nessun rilievo dal punto di vista penale, ma sicuramente rappresenta uno spaccato terrificante di quel che sono diventati il ceto politico e la vita politica in tante parti d’Italia. Fa bene il Pd a preoccuparsi di quanto capita a Pescara o a Potenza, e a tirare un sospiro di sollievo quando le inchieste si sgonfiano, o si ridimensionano. Ma non basta.

Giustizia: Tenaglia (Pd); su detenzione decidano 3 giudici, non 1

di Dino Martirano

 

Corriere della Sera, 2 gennaio 2009

 

Tenaglia: nelle separazioni è già così, perché sulla custodia cautelare c’è il solo gip? Il Pdl cambi la legge con noi.

"Bene, alla fine è stata evitata un’ingiustizia contro Margiotta... Però è arrivata l’ora di affidare le decisioni sulla custodia cautelare a un collegio di magistrati e non più a un solo giudice". Lanfranco Tenaglia, ex magistrato, già consigliere togato del Csm, ora ministro ombra del Pd per la giustizia, ha solidi argomenti per lanciare una proposta al Pdl che potrebbe essere approvata in Parlamento in un solo mese se solo la maggioranza lo volesse: "Noi siamo pronti a rivedere i meccanismi di garanzia quando c’è in ballo la libertà dei cittadini e attendiamo che il governo si decida a scoprire le carte perché, fin qui, di testi scritti non ne abbiamo visto neanche uno".

 

Il Tribunale del riesame di Potenza ha ribaltato l’ipotesi accusatoria contro il deputato Salvatore Margiotta (Pd) formulata dal pm Henry John Woodcock e poi avvalorata dal gip Rocco Pavese. Un collegio che smentisce un giudice…

"Mi pare che nei confronti di Margiotta il provvedimento di custodia cautelare non avesse le gambe per camminare perché le accuse erano prive di riscontri e per fortuna hanno funzionato tempestivamente i meccanismi di rivalutazione affidati sia al Parlamento (la giunta della Camera ha negato l’autorizzazione all’arresto; ndr) sia al tribunale del riesame".

 

Anche a Pescara, con l’arresto del sindaco Luciano D’Alfonso (Pd) poi rimesso in libertà, il gip Luca De Nins ha dovuto ricredersi sulle tesi della Procura…

"A Pescara, nei confronti del sindaco D’Alfonso c’è stata un’altalena di provvedimenti che si poteva evitare. Ecco, entrambe le vicende evidenziano che per ogni cittadino la custodia cautelare deve rappresentare lo strumento estremo da applicare con grande equilibrio perché quando si parla di libertà personale le garanzie non sono mai abbastanza".

 

Ottaviano Del Turco che ha trascorso l’estate agli arresti accusa il Pd di "garantismo a corrente alternata". Si sarebbe potuto evitare il suo arresto se a decidere fosse stato chiamato un collegio di magistrati e non un giudice solo?

"Sono favorevole ad una riforma che affidi a un collegio di tre magistrati la decisione sulle misure di custodia cautelare. Tre giudici decidono sulle separazioni consensuali tra coniugi, sui brevetti e, quindi, a maggior ragione, questo meccanismo dovrebbe essere previsto quando c’è in gioco la libertà dei cittadini".

 

Quando si decide sulla libertà personale non ci si può fidare di un giudice solo?

"Non è mancanza di fiducia nei Gip. Tuttavia, che ci siano tre giudici a decidere sulla custodia cautelare mi pare una cosa sacrosanta. Questa è una materia in cui ci vuole molto equilibrio, anche tra accusa e difesa".

 

Il procuratore Maddalena invoca più poteri per i capi degli uffici mentre Luciano Violante dice che bisognerebbe verificare come questi poteri vengono utilizzati. Chi ha ragione?

"Con le nuove regole dettate dalla riforma Castelli-Mastella dagli uffici di procura non esce neanche una cartolina di auguri se non è vistata dal procuratore della Repubblica. Non è tanto un problema di nuove regole, dunque, perché qui bisogna far funzionare i meccanismi di controllo che la normativa già prevede".

 

Cosa proporrete al Ministro Alfano?

"Come anticipato da Veltroni, avanzeremo una proposta di metodo: riunire al ministero un tavolo di concertazione con avvocati, magistrati e personale amministrativo per stabilire quali sono le proposte condivise. Ecco, così non si perde tempo ma si mette il Parlamento in condizione di decidere in tempi rapidi".

 

Il Presidente del Consiglio dice che con un Pd alleato di Di Pietro non si può trattare. Che farete, divorzierete?

"Non è questo il tono giusto per raccogliere l’invito alto e condivisibile del presidente Napolitano a liberarsi di una logica di scontro. Che è sterile. Noi seguiremo il metodo del confronto ma non saremo i notai delle riforme che altri vogliono dettare. Concorreremo con le nostre proposte ma non faremo inciuci".

Giustizia: Ferri (Csm); collegio giudicante sulle misure cautelari

 

Asca, 2 gennaio 2009

 

Cosimo Maria Ferri, un "togato" di Magistratura Indipendente, ha lanciato una proposta al Consiglio Superiore della Magistratura: un collegio giudicante per autorizzare misure cautelari ed intercettazioni.

Secondo Ferri alcuni interventi si possono realizzare velocemente e potrebbero dimostrarsi di una certa efficacia in riferimento ai temi che sono spesso oggetto di dibattito. "In materia di misure cautelari personali (con eccezione, ovviamente, al caso di emissione successiva a convalida del fermo o dell’arresto) si può pensare - spiega Ferri - ad attribuire l’emissione delle stesse ad un collegio di tre giudici anziché ad un giudice monocratico con contestuale abolizione del riesame.

In tal modo - osserva - si ridurrebbe certamente il rischio di abusi o di errori attraverso un esame approfondito del materiale, spesso costituito da migliaia di pagine, già per questo di difficoltosa lettura". Ma non basta "Una competenza collegiale potrebbe essere prevista anche in materia di autorizzazione all’esecuzione di operazioni di intercettazione: a mio giudizio infatti l’attuale disciplina normativa in tema di intercettazioni non dovrebbe essere modificata in punto di presupposti e condizioni, ma poiché non si può non registrare un certo "abuso" nell’uso di questo strumento investigativo si può pensare di prevedere anche qui la possibilità di una competenza collegiale, allo scopo di consentire un’applicazione più rigorosa e puntuale delle attuali norme codicistiche".

Giustizia: raccomandazioni e ingiuste detenzioni, reati impuniti

di Antonio Giangrande (Presidente Associazione contro tutte le mafie)

 

Agora Magazine, 2 gennaio 2009

 

Sfogliando le pagine degli organi di informazione nazionali e locali mi sono imbattuto nell’articolo attinente il sistema abilitativo forense, giudiziario e notarile, ovvero il sistema valutativo chiamato "Esamopoli" presso l’Università di Bari, oppure nel caso dell’arresto del sindaco di Pescara, ovvero nel caso "Cristiano Di Pietro" .

Preliminarmente, devo dire che il sistema degli esami e dei concorsi pubblici truccati è nazionale e tocca tutti gli accessi alle lobby e alle caste. Strano, però, che in Puglia sia dovuta venire la redazione de "La Repubblica" da Palermo, a firma di Attilio Bolzoni, per denunciare lo scandalo "Parentopoli" all’Università di Bari. Realtà identica a quasi tutti gli Atenei italiani.

Da quanto emerge dalle nostre inchieste, vi è una certa similitudine tra il sistema accademico con il sistema concorsuale notarile, forense e quello giudiziario, così come le cronache del 2008 ci hanno informato sugli scandali che li hanno investiti.

Detto ciò, mi fa riflettere la considerazione che fanno i firmatari degli articoli di riferimento, i quali considerano, la raccomandazione e l’ingiusta detenzione, una normalità, quasi un malcostume, come se non fossero un vero e proprio reato impunito, specie per chi li subisce.

Come già ebbi modo di dire, alla redazione di "Ballarò" di Raitre, o alla trasmissione "Il Graffio" su Telenorba, o su un trasmissione quotidiana di Telerama, la raccomandazione è reato. Vero è che la fattispecie "Raccomandazione", così come il "Mobbing", non ha una sua definizione giuridica, a cui consegue una pena penale. Ma, è anche vero, che se il mobbing viene punito attraverso l’adozione di altre fattispecie giuridiche, come "La violenza privata" o "Le lesioni", così dovrebbe essere per la raccomandazione.

Vi è il "Falso", perché nei verbali pubblici si attesta una valutazione non veritiera o fatti inesistenti. Vi è "l’Abuso di ufficio", perché si adotta un atto illegale con violazione di norme di legge, con cui si avvantaggiano soggetti non meritevoli, danneggiandone altri. Vi è la "Corruzione" e la "Concussione", perché vi è sempre un interesse e un vantaggio economico, spesso reciproco. Vi è "l’Associazione a delinquere", perché si è in tanti ad essere partecipi. Insomma, dovrebbe essere equiparata alla turbativa d’asta, in quanto mi si dovrebbe spiegare qual è la differenza tra un concorso truccato ed un appalto truccato. Cosa diversa, invece, è la segnalazione in ambito privato.

Identico discorso è per la custodia cautelare preventiva, quando questa è stata acclamata infondata da un tribunale del riesame. Non sembra un vero e proprio sequestro di persona al fine di commettere un abuso, o a seguito di calunnia, o di un accusa ingiusta, ovvero al fine di commettere violenza privata, oppure al fine di adottare un atto per estorcere un confessione, che da un innocente non può essere rilasciata?

Per la raccomandazione la conseguenza pratica di questi veri e propri reati è che spesso abbiamo professori raccomandati che non sanno insegnare; medici raccomandati che non sanno curare; magistrati raccomandati che non sanno giudicare o accusare; avvocati raccomandati che non sanno difendere; amministratori raccomandati che non sanno amministrare; ecc. ecc.

Per la custodia cautelare ingiusta la conseguenza pratica immediata è il suicidio e comunque un danno irreparabile, morale, materiale e sociale per chi subisce un’accusa immotivata e una restrizione della sua libertà. Di questo molti media sono corresponsabili.

Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Maria Grazia Gelmini, che nel 2001 è stata costretta a trasferirsi da Brescia a Reggio Calabria per poter superare l’esame di avvocato, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Alfredo Mantovano, le centinaia di denunce che abbiamo presentato in tutta Italia per i concorsi truccati e gli abusi dei magistrati: è normale che siano regolarmente insabbiate.

Per l’errore giudiziario e per l’ingiusta detenzione, le poche volte che sono riconosciute dai colleghi dei responsabili e in assenza codardica di avvocati del foro di competenza, comunque è sempre il cittadino a pagare, mai chi ha commesso il danno.

È naturale, se questi reati, per i responsabili non sono reati, specie se ad attestarlo sono proprio chi fa parte delle componenti necessarie di tutte le commissioni di esame: avvocati, professori universitari e magistrati, quest’ultimi a giudicare se stessi; specie se ad attestarlo sono magistrati che adottano o hanno adottato gli stessi sistemi di carcerazione preventiva. È naturale, se poi questi signori stanno tutti al Parlamento a fare leggi in conflitto di interessi professionali. È naturale, se da parte dei media, spesso genuflessi al potere giudiziario ed economico, non scatta la voglia di verità e giustizia. Nella conformità imperante è normale che chi la pensa come me, sia tacciato di stravaganza.

Giustizia: l’ex Br Morucci in cattedra, tensione alla "Sapienza"

di Carlo Picozza

 

La Repubblica, 2 gennaio 2009

 

È polemica alla Sapienza sulla "lezione" dell’ex brigatista rosso Valerio Morucci. Tra dieci giorni nell’università storica di Roma l’ex terrorista, che fu nel gruppo di fuoco del sequestro di Aldo Moro, dovrebbe tenere una conferenza.

Via mail, l’invito è arrivato a "docenti e studenti": "Lunedì 12 gennaio dalle 18.30 alle 20.30, si terrà un incontro con Valerio Morucci su "Cultura, violenza, memoria"". A firmare la convocazione è la segretaria del dottorato di ricerca in Letterature di lingua inglese. È il 16 dicembre e subito si levano le critiche di docenti e studenti. Innescando divisioni tra i promotori che ritengono utile la testimonianza di Morucci per "scongiurare altri tragici errori" e quanti additano come "cattivo esempio la legittimazione accademica verso chi si è macchiato di sangue".

Ecco allora, sempre online, una "lettera di chiarimento sul caso Morucci". È il 28 dicembre e a scriverla è l’ideatore dell’iniziativa, Giorgio Mariani, ordinario di Letteratura angloamericana nella facoltà di Scienze umanistiche: "Mi scuso della leggerezza di aver chiesto alla nostra collaboratrice di spedire l’invito, senza spiegare la natura e il contesto dell’incontro con Morucci". Quindi, le precisazioni: "Si tratta di una iniziativa all’interno di una delle mie lezioni di Letteratura americana. L’ho promossa perché sollecitato da un ufficiale della polizia di Stato che segue il percorso post-carcerario di alcuni ex terroristi". Mariani argomenta: "Le autorità di polizia e di giustizia vedono con favore questi incontri che possono avere un contenuto educativo perché aiutano le nuove generazioni a scansare la tentazione di ripetere scelte sbagliate, in particolare in un momento in cui la protesta legittima di studenti e giovani si fa sentire nuovamente". "Ma così", ribatte Rosy Colombo, ordinario di Letteratura inglese, "si dà per scontato un rapporto diretto tra protesta studentesca e pratica terroristica". Ancora Mariani: "Vorremmo solo far spiegare a uno che ha commesso tragici errori, che la scorciatoia della violenza è sempre e comunque sbagliata". Mariani si dice convinto che "tra i compiti di noi educatori c’è quello di riflettere su aspetti della nostra storia che sarebbe sbagliato rimuovere come se mai fossero accaduti". E "il dialogo con i funzionari di polizia e con Morucci (che ha già partecipato a numerosi incontri del genere, compreso quello al liceo Giulio Cesare) mi ha convinto della bontà dell’iniziativa". "Come cittadino prima che come docente", replica Piero Marietti, ordinario di Ingegneria elettronica, "ritengo inopportuno far tenere lezione all’università a una persona con quel passato". E Mariani: "Rispetto l’opinione di chi mi dice che mai aderirebbe a tale iniziativa, neanche se la proponesse il ministro di Grazia e Giustizia. Io l’accetterei anche se al posto di un ex brigatista dissociato e che ha scontato la sua pena, ci fosse un ex terrorista nero in condizioni analoghe".

"L’università", sostiene invece Marietti, "darebbe un cattivo esempio legittimando chi, anche se dissociato, si è macchiato di sangue". "Quando ho letto la lettera", aggiunge Rosy Colombo, "sono trasecolata e con me, altri colleghi e molti studenti. Mi sarei aspettata però una reazione pubblica e più corale. Invece, le critiche sono rimaste tra le mura dell’ateneo, limitate al botta e risposta tra i singoli".

Giustizia: chiudere Opg, non permettono cure e reinserimento

di Vittorio Agnoletto (Deputato Prc al Parlamento Europeo)

 

Il Manifesto, 2 gennaio 2009

 

Alla fine degli anni ‘90 l’allora ministro della Sanità Rosy Bindi avviò il percorso legislativo per il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale. Esultammo in molti: tutti coloro che, come me, da anni lavoravano con i tossicodipendenti e i malati di Aids, e quindi ben conoscevano le pessime condizioni dell’assistenza sanitaria in carcere. Finalmente il diritto alla salute sarebbe stato garantito in modo uguale a tutti i cittadini, dentro e fuori le sbarre dei penitenziari.

Dopo una decina di anni da quel passaggio, con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 giugno scorso, il lungo itinerario legislativo si è concluso con il trasferimento alle Asl della competenza per la sanità penitenziaria. Ma l’inganno è sempre dietro l’angolo e non si può mai abbassare la guardia. Mi riferisco alla situazione degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), dove vengono rinchiuse persone prosciolte o condannate per infermità mentale (anche sopravvenuta), detenuti minorati psichici, imputati soggetti a custodia preventiva sottoposti a perizia psichiatrica.

Queste strutture - sono sei in tutta Italia - dipendevano dal ministero della Giustizia e quindi dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che aveva scelto di affidarne la direzione a degli psichiatri. Un modo per affermare che l’attenzione alla cura e al reinserimento sociale doveva essere l’obiettivo principale.

In seguito al decreto del giugno 2008 tutte le figure sanitarie operanti nelle strutture penitenziarie sono passate alle dipendenze delle Asl, ma gli Opg, come tutte le altre carceri, continuano nel loro insieme a dipendere dal Ministero della giustizia. Questo dicastero, quindi, ha nominato un nuovo direttore per ogni Opg, selezionando tale figura professionale tra i dipendenti del ministero stesso e senza alcuna formazione sanitaria ad hoc.

Questo è quanto è avvenuto anche all’Opg di Montelupo Fiorentino, che ho visitato nei giorni scorsi in seguito a ripetute richieste di aiuto provenienti da alcuni pazienti detenuti. Lo psichiatra, che è stato direttore dell’Opg fino a giugno, è passato dunque alle dipendenze della Asl locale, mantenendo la responsabilità dell’area sanitaria, ma in posizione subordinata rispetto al nuovo direttore, nominato dal Dap. Non è in discussione la capacità professionale delle singole persone ma la situazione oggettiva che si è determinata in tutti gli Opg. Ora, per permettere l’accesso di un detenuto ad un programma esterno o sperimentale, non è più sufficiente la firma del responsabile sanitario ma dev’esserci anche quella del direttore. L’elemento penale è così diventato prevalente sul percorso terapeutico.

Come se non bastasse Ferruccio Fazio, sottosegretario al Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, (responsabile della sanità da quando non c’è più uno specifico ministero), ha già dichiarato che il passaggio della competenza alla sanità locale avviene con un meccanismo di "neutralità finanziaria": tradotto dal burocratese significa che non vi sarà alcun investimento aggiuntivo, né di personale, né economico.

La conseguenza di tutto ciò è ovviamente una grande difficoltà delle Asl nel cui territorio sorgono gli Opg. Le risorse sanitarie e socio-sanitarie attuali, sia interne che esterne agli ospedali psichiatrici giudiziari, necessarie per i programmi di reinserimento e di verifica sui risultati terapeutici e sulla cessata pericolosità sociale, sono del tutto insufficienti. Risultato finale: come prima, anzi peggio di prima.

La soluzione avrebbe dovuto e potuto essere un’altra: ogni Opg doveva passare totalmente alla Asl, diventare una struttura sanitaria finalizzata in primis alla cura di persone che lì si trovano perché affette da gravi patologie. Se la causa del reato è il disturbo mentale, la terapia dovrebbe essere al primo posto, fatta salva la tutela dei singoli e la sicurezza collettiva. Al Ministero della giustizia, attraverso una convenzione con la Asl, avrebbe dovuto essere delegata solo la gestione della sicurezza esterna.

Ed è certamente molto difficile dare priorità al percorso di cura ed assistenza in situazioni di pesante sovraffollamento, come ho constatato a Montelupo, dove i detenuti sono 186, invece che 110, come imporrebbe il limite di questa struttura. In celle da due-tre persone vivono in sei-sette con uno spazio appena sufficiente per stare in piedi. Alcuni detenuti dovrebbero stare in celle singole, sotto particolare e continua osservazione per il rischio che possono costituire per se stessi e per gli altri, ma non sempre ce n’è la possibilità.

Ancora, di recente, per due settimane, sono mancati acqua calda e riscaldamento. Inoltre ho raccolto testimonianze precise su comportamenti violenti tenuti da parte di alcuni agenti ai danni di persone con forti handicap psichici: su questi episodi è stata aperta un’indagine che mi auguro non venga insabbiata, come troppo spesso è accaduto in casi simili. Resta la necessità di una formazione specifica per il personale penitenziario che lavora nell’Opg.

Le storie più drammatiche mi sono state raccontate, come spesso accade, dai pochi detenuti immigrati. Nel loro caso i percorsi di reinserimento sociale sono spesso impossibili: non essendo in possesso di un certificato di residenza, accade che le Asl si rifiutino di avviare tali programmi nel timore di non ricevere la necessaria copertura economica.

Solleciterò il ministro Angelino Alfano affinché garantisca la ripresa e la conclusione in tempi rapidi della ristrutturazione dell’Opg di Montelupo per poter assicurare ai detenuti condizioni almeno un po’ più dignitose; ma non vi è alcun dubbio che l’obiettivo finale deve essere la chiusura di questo e di tutti gli Opg, per garantire alle persone lì detenute il diritto ad essere curate, assistite e avviate al reinserimento sociale in strutture idonee.

Giustizia: gli stranieri tossicodipendenti hanno diritto alle cure

di Desi Bruno (Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Bologna)

 

Ristretti Orizzonti, 2 gennaio 2009

 

In qualità di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna ho sottoposto in passato ai ministri competenti della sanità , della giustizia e degli interni della precedente legislatura, senza risposta , e oggi ripropongo, un tema di rilevante attualità, che riguarda la cura dei cittadini stranieri tossicodipendenti e alcool dipendenti ristretti in carcere. Come è noto, il numero degli stranieri presenti negli istituti penitenziari raggiunge supera la soglia del 50% e quello dei tossicodipendenti il 30%. La cura dei tossicodipendenti detenuti in attuazione del D.L.vo 230 /99 fu trasferita alla sanità pubblica, mentre il passaggio delle altre aree dalla medicina penitenziaria alla sanità pubblica è avvenuto solo di recente.

A proposito delle problematiche particolari legate alla salute in carcere, con riferimento alla situazione dei tossicodipendenti stranieri seguiti in carcere dal Ser.T., di cui si riportano i dati forniti dal servizio che opera nel carcere di Bologna, ma che fotografano un problema di carattere nazionale. Nell’anno 2007 il Servizio tossicodipendenze ha seguito al carcere della Dozza 928 persone, di cui 468 stranieri.

Per i cittadini extracomunitari clandestini, con problemi di tossicodipendenza, è il Servizio Tossicodipendenze che segnala e che non c’è nessuna possibilità di concretizzare percorsi di cura, per ragioni economiche, ma anche per l’ambiguità normativa del T.U. immigrazione.

Di fatto i tossicodipendenti irregolari restano in carcere, anche se richiedono di sottoporsi a programma terapeutico (e fatta salva la somministrazione del metadone). Si tratta di un problema di gravità assoluta, che si inserisce in un contesto di forte disagio per la popolazione extracomunitaria, presente nel carcere cittadino ormai in misura superiore al 70%, percentuale più alta della regione e una delle più significative a livello nazionale.

L’art. 35 del D.L.vo n. 286/1998 e succ. modifiche prevede che ai "cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno, sono assicurate, nei presidi pubblici ed accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed in infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva".

Segue poi un elenco, non esaustivo, di prestazioni garantite, tra cui anche la profilassi, la diagnosi e cura di malattie infettive, da cui si desume che i tossicodipendenti stranieri irregolari malati di Aids o comunque sieropositivi rientrano con certezza nella previsione normativa. Si ritiene che la tossicodipendenza debba rientrare tra le malattie per le quali va garantita la possibilità di cura, da ritenersi essenziale, per ovvi motivi, a tutela del diritto alla salute individuale e collettiva.

La presenza sempre più significativa di stranieri in carcere con problemi di tossicodipendenza, che sul territorio nazionale è nell’ordine di migliaia di casi, impone un chiarimento e un indirizzo sull’applicabilità dell’art. 35 citato anche alle cure per i tossicodipendenti.

È del tutto evidente che una lettura restrittiva della norma pone problemi seri di compatibilità costituzionale, violando il disposto degli artt. 3 e 32 Cost., anche con riferimento alla recente disciplina in materia di stupefacenti (l.n. 49/2006), che favorisce, almeno nelle intenzioni espresse, la sottoposizione a cura delle persone tossicodipendenti in carcere, sia con programmi territoriali che con ingresso in comunità terapeutiche, ma che di fatto potrebbe essere applicata solo a persone di nazionalità italiana o regolari sul territorio oppure, per l’inserimento comunitario, a persone irregolari economicamente in grado di sostenere le spese relative alle rette, situazione difficile da verificarsi.

Lettere: ergastolani... uomini più vicini alla morte che alla vita

di Carmelo Musumeci (Detenuto nel carcere di Spoleto)

 

Ristretti Orizzonti, 2 gennaio 2009

 

Buon anno agli uomini ombra più vicini alla morte che alla vita, più vicini al buio che alla luce, tenuti in vita per morire in catene. Buon anno agli uomini senza speranza che brancolano ciechi nel buio di una cella, cadaveri prima del tempo.

Buon anno ai colpevoli per sempre, agli ergastolani con l’ergastolo ostativo ai benefici, destinati a morire in prigione. Buon anno ai morti viventi che camminano, un passo dietro l’altro, un passo dopo l’altro, avanti ed indietro fra quattro mura, per giorni, mesi, anni e secoli. Buon anno ai dannati condannati a una pena di sofferenza quotidiana destinata a durare tutta la vita.

Buon anno ai forcaioli per ricordargli che spesso i buoni sono più cattivi dei cattivi se tengono un uomo sepolto vivo per l’eternità. Buon anno agli uomini senza più sogni e futuro che vivono un incubo a occhi aperti senza nessuna possibilità di svegliarsi. Buon anno ai condannati a una tortura dell’anima e a un dolore all’infinito, vittime della vendetta della giustizia. Buon anno ai favorevoli alla pena dell’ergastolo, per ricordargli che i cattivi cambiano e migliorano, solo i buoni non cambiano e peggiorano.

Buon anno agli uomini senza tempo, con una pena sempre presente, con un’angoscia sempre presente. Buon anno agli uomini dal cuore nero che sono contrari alla pena di morte ma sono favorevoli a una pena che non finisce mai. Buon anno ai non morti, ai non vivi, torturati e uccisi ancora, ancora un po’ di più.

Buon anno ai cattivi che fanno i criminali per non esserlo e a quelli che lo sono ma lo nascondono per non sembrare criminali. Buon anno ai senza Dio, con il dolore nel cuore e l’amore nell’anima. Buon anno ai fantasmi senza neppure più un’ombra, cielo, sole, luna e stelle.

Buon anno agli uomini persi, agli uomini tristi, agli uomini infelici, agli uomini che piangono e soffrono, agli uomini maledetti da Dio e dagli uomini perché solo così si può essere vivi pure essendo morti. Buon anno a quelli che credono come Gesù che l’amore è la migliore vendetta. Buon anno ai morti in vita. Buon anno ai lupi cannibali, ai lupi diavoli, a Zanna blu e a Nadia che in una seggiola a rotelle cammina e corre con l’energia dell’amore. Buon 2009 a tutti gli ergastolani.

Sanremo: arresto cardio-circolatorio, 42enne muore in carcere

 

Ansa, 2 gennaio 2009

 

La Procura, dopo aver acquisito un primo referto medico, ha disposto l’autopsia che ha stabilito come la morte di Malatesta sia avvenuta per un arresto cardio-circolatorio.

Nel carcere di Valle Armea a Sanremo un detenuto di 42 anni, originario di La Spezia, è deceduto per cause naturali, stando all’autopsia. Era stato trovato morto, nella sua cella. Stava scontando una pena a seguito di una condanna inflittagli dal Tribunale per spaccio di droga. Vista la sua giovane età, il decesso ha destato stupore e qualche sospetto. La Procura, dopo aver acquisito un primo referto medico, ha disposto l’autopsia che ha stabilito come la morte di Malatesta sia avvenuta per un arresto cardio-circolatorio.

Reggio Calabria: Opera Nomadi; cure negate a un detenuto rom

 

Liberazione, 2 gennaio 2009

 

Negato il diritto agli accertamenti clinici ad un detenuto rom gravemente malato della Casa Circondariale di Reggio Calabria. È quanto si afferma in una nota dell’Opera Nomadi. "Circa un anno fa il signor A.B. avvertendo un dolore costante alla gola e non ottenendo alcun miglioramento dalla terapia prescritta dai sanitari del carcere ha chiesto di essere sottoposto ad una visita specialistica.

La sua richiesta non è stata accolta dai sanitari del carcere i quali hanno continuato a prescrivere una terapia a base di antibiotici del tutto inefficace". Successivamente, afferma l’Opera Nomadi, "le condizioni di A.B. sono peggiorare e lo scorso dicembre, sottoposto ad una laringoscopia con fibroscopio, uno specialista ha individuato una neoformazione che interessa la laringe. Nonostante il referto medico, i molteplici solleciti del difensore e degli stessi familiari la casa circondariale solo il 29 dicembre 2008 provvede a portare a visita A.B. nel reparto di Otorinolaringoiatria degli Ospedali Riuniti di Reggio".

"Chiediamo - afferma Antonino Giacomo Marino, presidente dell’Opera Nomadi di Reggio - che la casa circondariale accolga la proposta di ricovero e che il Tribunale di Sorveglianza una volta avuto il referto disponga in tempi celeri il provvedimento di differimento della pena".

Napoli: Caligaris; trasferire in Sardegna detenuto paraplegico

 

Agi, 2 gennaio 2009

 

"Francesco Catgiu, 67 anni, di Orgosolo, in gravi condizioni di salute, recluso a Secondigliano di Napoli, deve essere trasferito in Sardegna dopo oltre 24 anni di detenzione in carceri della penisola. Ha il diritto di trascorrere il residuo della pena (6 anni e 3 mesi) in un istituto dell’isola dove possa essere curato e stare vicino agli affetti familiari. Del resto, per le numerose patologie di cui soffre, la sua lontananza dall’isola non può essere giustificata da ragioni di pericolosità sociale".

Lo afferma la consigliera socialista Maria Grazia Caligaris (PS), componente della Commissione Diritti Civili, che ha scritto al capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, Franco Ionta, e al direttore del carcere di Secondigliano per avere notizie sulle condizioni di salute del detenuto e sull’eventuale trasferimento in Sardegna.

Il capo del Dipartimento ha, precisato, nella risposta, che "non risulta che Catgiu abbia formulato istanze di trasferimento per la Sardegna" ed "è affetto da tali e tante patologie da comportare la sua permanenza in un istituto penitenziario fornito di centro diagnostico terapeutico".

"Affetto dal morbo di Parkinson, da una forma di paraplegia che lo costringe a muoversi con le stampelle, dalla psoriasi, da gravi disturbi claustrofobici e da una artrosi progressiva che gli blocca un braccio, non è più difeso da parecchio tempo dall’avvocato Vittorio Trupiano del Foro di Napoli che aveva avviato la procedura al Tribunale di Palermo per la revisione del processo. Il fatto assurdo - precisa Caligaris - è che Catgiu non è a conoscenza della rinuncia del difensore di fiducia e non è in grado di compilare, per via gerarchica, la richiesta di trasferimento in Sardegna".

Cagliari: la Parlamentare Pd Schirru in visita a Buoncammino

 

Ristretti Orizzonti, 2 gennaio 2009

 

Una mattinata all’interno del carcere di Buoncammino per verificare le situazioni di criticità e osservare le condizioni di vita dei detenuti, in particolare delle donne.

"Si è trattato di una visita produttiva ed essenziale. Ritengo particolarmente importante far sentire in maniera periodica la vicinanza delle istituzioni ai carcerati e al personale penitenziario. Questa è la seconda visita nel 2008 e la terza da quando sono parlamentare e, come al solito, constato molta disponibilità da parte del direttore del Carcere e di tutto il personale, che mi è sembrato attento e puntuale nella rispettiva attività. Nella struttura ci sono da risolvere ancora diversi problemi, come la carenza di personale, il sovraffollamento, i problemi legati alle tossicodipendenze e all’integrazione dei detenuti stranieri, l’insufficienza di programmi rieducativi, problemi che cercheremo di affrontare nell’immediato futuro come parlamentari sardi del Pd.

Ma la questione che mi lascia in assoluto più sconcertata è la presenza nel carcere di una bambina di 22 mesi, figlia di un’extracomunitaria arrestata e processata per traffico di droga. Trovo inconcepibile e assurda una situazione di questo tipo e come già denunciato dalla consigliera regionale Maria Grazia Caligaris, occorre trovare velocemente una struttura alternativa al carcere che ospiti la bambina e la madre, che per giunta è incinta e partorirà tra pochi mesi. Attraverso un’interrogazione urgente come parlamentari del Pd chiederemo al ministro Alfano coerenza con le dichiarazioni rese "mai più minori in carcere" e un impegno ad individuare una nuova struttura di accoglienza per questa madre e la sua bambina, azioni concrete per evitare il ripetersi di questi episodi e far si che non si rimandi ancora per la predisposizione di strutture idonee che evitino ai bambini di finire dietro le sbarre. In un momento in cui il Governo nazionale non investe nulla in riabilitazione, in programmi di reinserimento, certo che solo la repressione possa combattere e prevenire i crimini, c’è invece bisogno di nuove politiche, di un’attenta rivisitazione delle politiche penitenziarie italiane, che necessitano di riforme strutturali non più rinviabili. Faremo in modo che nell’attività parlamentare dei prossimi mesi ci sia una costante attenzione su queste tematiche."

Venezia: detenuti fanno una colletta per le adozioni a distanza

di Daniela Ghio

 

Gente Veneta, 2 gennaio 2009

 

È Natale. Con molta fatica - chi recuperando pochi euro con sacrifici, chi chiedendo un prestito a chi lo andava a trovare - i carcerati di Santa Maria Maggiore hanno raccolto la somma di 560 euro e l’hanno consegnata lunedì al patriarca Angelo Scola per aiutare bambini in difficoltà mediante le adozioni a distanza.

"C’è stata una vera corsa - ha spiegato il cappellano delle carceri don Antonio Biancotto - per trovare pochi spicci. Tutti volevano partecipare". Perché il peso più grande che hanno i detenuti delle carceri veneziane è l’allontanamento dagli affetti, dalla moglie e dai figli soprattutto, e vogliono aiutare altri bambini che soffrono come o forse più dei loro bambini.

Come tradizione nel tempo di Natale il Patriarca è andato a Santa Maria Maggiore per celebrare la messa ed avere un momento di dialogo con i detenuti (quest’anno sul tema dei rapporti tra carcerati e le loro famiglie), poco prima del reciproco scambio degli auguri e dei doni natalizi.

La messa è stata animata dal coro interno del carcere insieme al coro Fanis di Venezia. Sono inoltre intervenuti anche i volontari di "Goccia di Luce" (la Ronda della Carità che opera da parecchi anni a Venezia), il direttore della Caritas veneziana mons. Dino Pistolato, il cappellano delle carceri femminili don Mauro Haglich, il parroco del Redentore padre Andrea Cereser e padre Avram Matei, il parroco della comunità romena ortodossa che si ritrova abitualmente nella chiesetta di S. Lucia in via Montepiana a Mestre. Il parroco ortodosso da gennaio celebrerà una volta al mese in carcere la divina liturgia per gli ortodossi, ormai il 30% della popolazione carceraria.

Ai detenuti il Patriarca ha donato una busta di denaro perché acquistino, attraverso don Antonio, libri e gli strumenti per costruire la loro vita buona una volta scontata la pena. "Capisco la fatica di stare qui in carcere - ha affermato il cardinale Scola - e le difficoltà del sovraffollamento. La prova in cui siete incappati può però aiutarvi ad andare a fondo nei valori, a tenere insieme affetti e lavoro nella fedeltà, nell’impegno di tutti i giorni. Per fare questo c’è bisogno dell’aiuto di Dio e degli altri, da soli faremmo molta fatica". Il Patriarca ha poi denunciato la situazione delle carceri italiane: "Non si sta facendo - ha detto - una buona politica per aiutarvi. L’aspetto repressivo è giusto ma la detenzione deve generare una speranza di nascita perché la catena debole della società non rischi di pagare di più".

Concorde con il Patriarca la direttrice del carcere Gabriella Straffi: "In questo momento - ha affermato - mi sento piccola: si parla tanto di sovraffollamento e di certezza della pena e si rischia non sia riconosciuta l’attività rivolta alla ricostruzione della persona. Qui i carcerati riscoprono i valori veri, non considerare il carcere come possibilità di rinascita è un errore".

Tre detenuti - Thomas, Samuel e Valentino (queste ultime due esperienze lette da Ikemba e Massimo) - hanno infatti portato la loro testimonianza, di come hanno riscoperto l’importanza degli affetti familiari grazie alla detenzione e quanto pesi la lontananza.

"Con l’arresto - ha detto Thomas - ho buttato via tutto ciò che avevo di bello nella vita, ma spero che mia moglie non si stanchi e che mi aspetti; voglio crescere insieme a lei nostra figlia. La detenzione mi ha fatto molto bene, mi ha fatto maturare. Non so dove sarei finito senza il carcere". Infine i detenuti hanno voluto ringraziare, con un piccolo dono natalizio, il diacono Giuseppe Pistolato che li assiste, come volontario, da dieci anni.

Rovereto: e il "Coro Dolomiti" porta il Natale anche nel carcere

 

Ristretti Orizzonti, 2 gennaio 2009

 

Il Coro Dolomiti di Trento ha portato il dono del proprio canto ai detenuti della casa circondariale di Rovereto. L’iniziativa, partita dall’assistente spirituale padre Fabrizio, è stata accolta con favore dalla direttrice, dottoressa Antonella Forgione e dal responsabile degli agenti di custodia, Commissario Domenico Gorla che hanno fatto gli onori di casa.

I concerti sono stati due: uno nella cappella per la sezione maschile e l’altro nella sala lavoro e cultura per la detenute. I canti sono stati selezionati per sottolineare i valori umani e spirituali del Santo Natale e per donare ai detenuti provenienti da Paesi lontani lo spirito della nostra cultura musicale popolare.

Particolarmente toccante l’episodio che ha avuto come protagonista un detenuto, già componente di un coro del Trentino, il quale ha chiesto di unirsi ai coristi del Dolomiti per cantare insieme "Signore delle Cime". Un altro momento di particolare intensità si è avuto nella sezione femminile quando una detenuta, proveniente dalla Colombia, si è commossa alle note e alle parole di "Paloma", un canto struggente nella sua lingua madre.

Il Coro Dolomiti di Trento, che compirà 60 anni di attività l’anno venturo, era accompagnato dal presidente Giacomo Santini e diretto dal maestro Giorgio Garbari.

Prima dei due concerti sia Padre Fabrizio che i responsabili della casa circondariale hanno sottolineato il valore dell’incontro come segno di solidarietà e di fratellanza universale.

Napoli: Ipm Nisida; gli agenti di polizia penitenziaria in concerto

 

Ristretti Orizzonti, 2 gennaio 2009

 

Straordinario evento musicale all’Ipm di Nisida Napoli. Questa volta non era un cantante professionista ad offrire la sua musica ai ragazzi ospiti del Penitenziario Minorile di Napoli ma Agenti di polizia penitenziaria. Gli agenti Della Volpe Maurizio, alla voce , e Salvatore Doria alla consolle hanno offerto uno spettacolo musicale dei più sensazionali fatto all’interno di un Istituto minorile. I ragazzi, esterrefatti dall’evento, hanno cantato, applaudito e ballato per tutte le due ore dello spettacolo. Oltre ai ragazzi, il Comandante e altri agenti a sostenere l’evento c’era il personale educatore e il personale ecclesiastico; questo evento si può ritenere unico nel ramo musicale fatto da Agenti di polizia penitenziaria.

Napoli: detenuti donano giocattoli ai bimbi ricoverati ospedale

 

Ansa, 2 gennaio 2009

 

Alcuni detenuti del carcere di Secondigliano a Napoli hanno acquistato con i loro risparmi dei giocattoli da regalare, in occasione dell’Epifania, ai bambini ricoverati all’Ospedale Santobono di Napoli. L’iniziativa è stata comunicata dagli stessi detenuti con una lettera inviata nei giorni scorsi al direttore dell’istituto Liberato Guerriero. Una volontaria che opera all’interno della struttura penitenziaria provvederà poi alla distribuzione nel giorno dell’Epifania. Un gesto di solidarietà, hanno scritto i detenuti, per far sorridere i piccoli degenti.

Diritti: il Vaticano; "sì" alla depenalizzazione dell'omosessualità

 

Asca, 2 gennaio 2009

 

La Santa Sede sostiene la proposta francese all’Onu, ma tiene a sottolineare che va ben oltre, puntando "ad omologare ogni orientamento sessuale generando quindi incertezza giuridica". Lo riferisce Radio Vaticana.

La Santa Sede sostiene la proposta avanzata dalla Francia all’Onu per la depenalizzazione dell’omosessualità. Ma tiene a sottolineare "come la proposta vada ben oltre questa intenzione, puntando ad omologare ogni orientamento sessuale generando quindi incertezza giuridica". Lo afferma Radio Vaticana, che ricorda anche come la proposta è stata sostenuta da "una sessantina di stati su 192 Paesi rappresentati dall’Onu". Cifre che secondo monsignor Celestino Migliore, osservatore permanente del Vaticano presso il Palazzo di Vetro, dimostrano che "l’argomento va ancora discusso con calma, trasparenza, rispetto reciproco e molto buon senso".

"È con soddisfazione - aggiunge Migliore - che ho raccolto da molti rappresentanti permanenti una eco positiva alla posizione della Santa Sede: è giudicata ragionevole e ispirata al buon senso. La stessa configurazione delle posizioni espresse o non espresse nell’ambito dell’Assemblea generale, e cioè 66 in favore della dichiarazione dell’Unione Europea, 58 a favore della controdichiarazione presentata dalla Siria e 68 astenuti".

E proprio oggi in un’intervista all’Osservatore Romano del cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontifico Consiglio della Giustizia e della Pace, il porporato traccia un bilancio dell’anno appena trascorso e precisa la posizione della Santa Sede sulla depenalizzazione dell’omosessualità. "La Chiesa - spiega Martino - si oppone decisamente alle legislazione di quegli Stati che condannano, a volte sino alla pena capitale, l’omosessualità. Anzi è pronta a scendere in campo con tutte le sue forze e in ogni ambito per difendere la vita di ogni persona, dunque anche degli omosessuali.

Diverso è il caso in cui si vorrebbe costringere la Chiesa ad accettare l’identificazione del matrimonio naturale tra un uomo e una donna con forme di unione tra persone dello stesso sesso: facciano ciò che vogliono ma non pretendano di equiparare queste realtà, ben diverse tra loro. Abbiamo ricevuto da Dio il dono preziosissimo della libertà, anche della libertà di scegliere se peccare o no. In nome di quella stessa libertà però non si può impedire alla Chiesa di ribadire la sua posizione. Io credo alla fine che anziché polemizzare su altri presunti diritti da inserire -conclude- sarebbe molto più importante profondere le nostre energie per far rispettare da tutti quelli sanciti da sessant’anni e ancora negati in tanti Paesi del mondo".

Immigrazione: se il "rapido rimpatrio" è una soluzione illusoria

di Antonio Maria Mira

 

Avvenire, 2 gennaio 2009

 

Tolleranza zero o accorta solidarietà? La nuova (o ennesima?) ondata di sbarchi a Lampedusa riapre la querelle sull’immigrazione irregolare. E ciò anche per l’annuncio del ministro dell’Interno Roberto Maroni circa le nuove, rapide procedure per le espulsioni.

"I rimpatri avverranno direttamente da Lampedusa", aveva detto il 29 dicembre intervistato da Radio Padania. E così è stato. Il giorno dopo dal piccolo aeroporto dell’isola sono partiti 28 egiziani, destinazione Il Cairo: 28 sui circa 2.000 sbarcati nei giorni precedenti.

Certamente pochissimi ma sono partiti. Li abbiamo visti, con la testa abbassata e coperta dai cappucci dei giacconi, salire la scaletta dell’aereo, ormai rassegnati a questo viaggio di ritorno. Operazione facile, visto anche l’accordo di cooperazione tra Italia e Egitto. E la legge, la Bossi-Fini con tutti i suoi successivi aggiustamenti e inasprimenti, parla chiaro.

Chi sbarca, o arriva in qualunque modo nel nostro Paese senza avere i requisiti per ottenere lo status di rifugiato va espulso. E ora Maroni aggiunge quel "rapidamente". Una tempistica che però non può esimere dalla prudenza.

Abbiamo tutti negli occhi le immagini del piccolo afghano finito schiacciato dalla ruote del tir sotto il quale si era nascosto per entrare nel nostro Paese. E sono decine i suoi coetanei che hanno tentato e tentano ancora l’aggancio con il nostro territorio. Abbiamo tutti nelle orecchie quella parola "aiuto", urlata nella notte illuminata dai rari delle motovedette, da centinaia di immigrati ammassati e aggrappati su gommoni fatiscenti.

La prima parola da imparare per chi spera di sopravvivere alle interminabili traversate. Bambini coraggiosi, e disperati, e fuggiaschi impauriti, e altrettanto disperati. Le brusche accelerazioni, anche se solo ad "effetto annuncio", non contribuiscono tuttavia a capire il problema e a risolverlo, come pure il ministro vorrebbe.

Siamo stati recentemente in un centro di prima accoglienza per richiedenti asilo a Trapani: tanti giovani, molte coppie, frotte di bambini. Attendono pazientemente una risposta alla richiesta di aiuto che, questa sì, dovrebbe arrivare in modo più rapido. Sono le avanguardie di gravissime situazioni lasciate nelle loro terre.

Queste sì vere emergenze da cui fuggire in tutti i modi. Persecuzioni religiose e politiche, guerre dimenticate, guerre anche per cibo e acqua, per sopravvivere. Drammi di cui nessuno, o quasi, si occupa. Occhi, volti, voci, tante storie che chiedono di essere ascoltate. Con attenzione. Che chiedono una speranza, legittima soprattutto per chi avrebbe ancora diritto alla gioia spensierata dell’infanzia.

La fretta, anche a fin di bene, non è mai stata la migliore consigliera. Certo, a fronte dei proclami sulla linea dura, i numeri forniti dal Viminale proprio a fine anno aiutano a dare contorni realistici al fenomeno. Sulle coste italiane nel 2008 sono sbarcate 36.952 persone con un incremento del 75% rispetto al 2007, ma solo 1.199, con 38 voli charter, sono state rimpatriate. Tuttavia la preoccupazione resta.

"Quella che un tempo era un’emergenza oggi è la normalità" ha commentato nei giorni scorsi l’arcivescovo di Agrigento Francesco Montenegro (Lampedusa rientra nel territorio della diocesi) sottolineando da una parte il "flusso continuo" di migranti che "mettono a rischio la propria vita pur di fuggire dai Paesi di origine" e dall’altra la sempre maggiore presenza di bambini (2.700 sbarcati nel 2008 contro i 2.180 dell’anno precedente). Ed è proprio questo che deve invitare ad un’estrema prudenza, per evitare soluzioni illusorie. A Lampedusa e ovunque vada in scena il dramma dei fuggiaschi.

Norvegia: carcere per i clienti di prostitute, non per le "lucciole"

 

Ansa, 2 gennaio 2009

 

Giro di vite senza precedenti in Norvegia non per le prostitute ma per i loro clienti che verranno perseguiti anche se avranno fatto sesso a pagamento all’estero. Questi ultimi rischiano multe pesantissime e una condanna fino a sei mesi di carcere, che diventa di tre anni se la prostituta è minorenne. Per perseguire i clienti la polizia potrà anche ricorrere alle intercettazioni telefoniche e ambientali, una pratica meno diffusa che in Italia nei Paesi scandinavi. Le autorità norvegesi puntano a cancellare la prostituzione colpendo i clienti ma non le lucciole che saranno invece aiutate con progetti di recupero: "Pagare per fare sesso è inaccettabile perché favorisce il traffico di essere umani e allo sfruttamento delle prostitute", ha spiegato il vice ministro della Giustizia Astri Aas-Hansen.

Gran Bretagna: pronti ad accogliere i detenuti di Guantanamo

 

Apcom, 2 gennaio 2009

 

Il Regno Unito si sta preparando ad accogliere i presunti terroristi detenuti nel carcere Usa di Guantanamo, a Cuba, così che il Presidente eletto americano Barack Obama possa chiuderlo. Stando a quanto rivelato da fonti governative al quotidiano britannico The Times, Londra ha già messo a punto un meccanismo per gestire i detenuti e che spetterà poi "al ministero dell’Interno decidere caso per caso".

La questione incontra comunque resistenze all’interno del governo, precisa il quotidiano. "Naturalmente il ministero degli Esteri vuole farlo, per garantirsi un buon inizio con Obama - ha precisato una fonte di Whitehall - ma questa è una questione che richiede una decisione del gabinetto".

Lo scorso anno, l’amministrazione Bush inviò a diversi alleati europei, tra cui Londra, una lista di detenuti in procinto di essere rimessi in libertà, che rischiavano di essere perseguiti nei propri Paesi di origine. Il Dipartimento di Stato Usa scrisse a circa 100 Paesi, chiedendo aiuto per chiudere Guantanamo, ma ricevette tanti rifiuti.

Il Presidente eletto non ha ancora avanzato alcuna richiesta formale di aiuto, ma il suo team di transizione ha discusso la questione con il Dipartimento di Stato e la linea emersa è quella di fare pressioni sui Paesi europei perché accolgano detenuti che non rappresentano più una minaccia. Al momento solo Portogallo e Germania hanno espresso la propria disponibilità, mentre Paesi Bassi, Svezia, Danimarca e Spagna hanno escluso tale eventualità. Secondo gli Usa, dei 248 detenuti ancora a Guantanamo, sono "approssimativamente 60" quelli pronti per essere rilasciati.

 

 

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