Rassegna stampa 18 gennaio

 

Giustizia: la lotta alle mafie, l’ergastolo e il regime del "41-bis"

di Francesco Palazzo

 

La Repubblica, 18 gennaio 2009

 

L’ennesima sospensione, poi revocata, del regime carcerario del 41 bis per un soggetto condannato a più ergastoli, ha fatto gridare ancora allo scandalo. La proposta di soppressione dell’ergastolo per la quale i detenuti italiani sono da qualche mese in sciopero della fame a staffetta, sembra invece non preoccupare più di tanto. Tale provvedimento fu sostenuto nella passata legislatura dal centrosinistra.

Tanto che un suo esponente presentò, all’inizio del 2007, un disegno di legge per sostituire il carcere a vita con la pena di trent’anni. Sul tavolo di Prodi, a metà 2007, c’era anche un’ipotesi di riforma del codice penale. Anch’essa contemplava l’abolizione dell’ergastolo e la sua sostituzione con la carcerazione di 38 anni. La protesta attuale degli ergastolani vuole sensibilizzare l’opinione pubblica affinché si ritiri fuori il disegno di legge.

Che non faceva alcuna differenza tra chi ha commesso un delitto per questioni personali, che niente hanno a che vedere con le mafie, e chi invece nel mettere in atto una strage per conto di un’organizzazione criminale ha fatto saltare in aria giudici e forze dell’ordine. Dunque si protesta opportunamente per un detenuto cui viene affievolito il regime carcerario, ma non si fa una piega nel pensare che un domani, quello stesso detenuto, se si cancellasse l’ergastolo, potrebbe addirittura essere scarcerato. Una palese contraddizione.

Il famoso papello, ossia la lista di richieste che Cosa nostra avrebbe presentato allo Stato per finirla con la strategia stragista dei primi anni Novanta, prevedeva ai primi posti sia la cancellazione dell’ergastolo sia l’abolizione del regime carcerario speciale per i mafiosi. Partendo da questo dato storico, dobbiamo prendere atto - lo dicono gli esperti nonché diverse indagini - che i mafiosi continuano a comandare dal 41 bis.

Che sembra ridotto a una specie di colabrodo, dove passa di tutto e di più. Dobbiamo altresì rilevare che il progetto di abrogazione dell’ergastolo ha fatto breccia culturalmente in tutte le forze politiche, anche in quelle più a sinistra. Sia chiaro. è giusto consentire il recupero alla società di persone che trenta o quarant’anni hanno spento una vita per questioni private.

Ma è la stessa cosa se il carcere a vita è stato inflitto a soggetti che hanno portato avanti disegni criminosi legati alle mafie e che mai hanno collaborato con le istituzioni? Si potrebbe obiettare: ma i mafiosi non devono essere recuperati alla società?

Certo, basta che collaborino pienamente con lo Stato. Il ragionamento dovrebbe essere scontato e lineare. Così, evidentemente, non è. In fondo, non ci troviamo in un periodo caldo. Le cosche hanno quasi del tutto abbassato, da più di un quindicennio, il mirino, un tempo puntato verso le istituzioni. Non pianificano stragi e quindi la fase è calante.

Una storia sin troppo conosciuta. Che avrà il suo termine nella malaugurata ipotesi di un ritorno alle armi del potere mafioso. Evenienza che, visto l’attuale stato d’incertezza che pervade Cosa nostra, gli inquirenti non escludono affatto.

Se accadesse, state sicuri che tutti, nessuno escluso, ricomincerebbero a stracciarsi le vesti, invocando le più severe misure repressive. Non si parlerebbe più della cancellazione indiscriminata dell’ergastolo e il carcere duro tornerebbe a essere tale. In attesa, beninteso, della risacca successiva. Quando si torneranno a chiudere uno o entrambi gli occhi. O ad aprirli a giorni alterni, seguendo ciò che più impressiona l’opinione pubblica.

Ci chiediamo: è proprio così difficile, una volta per tutte, attuare un metodo coerente e di lungo periodo contro le mafie? In 150 anni non si è mai fatto. Sino a quando non ci si metterà nella lunghezza d’onda che le mafie non sono un’emergenza, ma una drammatica quotidianità, sarà pure inutile continuare a chiedersi perché abbiano avuto sinora così lunga vita.

Giustizia: i processi sono lenti… ma la colpa non è dei giudici!

di Bruno Tinti (Procuratore di Torino)

 

La Stampa, 18 gennaio 2009

 

Le udienze finiscono troppo presto; e i giudici stanno in ufficio troppo poco. Sono dunque queste le cause della lentezza dei processi.

È un peccato che non sia vero perché, se lo fosse, sarebbe facile rendere efficiente la giustizia italiana: due leggi e un adeguato ma non esagerato stanziamento di bilancio. Le udienze debbono durare dalle 9 alle 19; quindi si debbono pagare gli straordinari ai cancellieri per le ore di lavoro eccedenti quelle previste dai contratti di pubblico impiego, 6 ore al giorno per 6 giorni la settimana. Poi basta costruire uffici per i giudici, uno per ognuno, e lì staranno durante l’orario di lavoro (quale?). Costerà un po’ ma i problemi della giustizia sarebbero risolti. Naturalmente non è così.

Prima di tutto il prodotto giustizia non consta solo del processo e dunque dell’udienza: prima del processo (anche di quello civile) c’è l’istruttoria; e dopo c’è la sentenza; lavoro che prende molto più tempo del processo puro e semplice. Ma restiamo alle udienze che durano troppo poco. Poco che durino, sono sufficienti per far incassare al giudice un certo numero di sentenze; perché ogni udienza comprende parecchi processi, e ogni processo concluso significa una sentenza da scrivere.

Difficile dire quante se ne incassano per ogni udienza, minimo 3 (nei processi collegiali, quelli con tre giudici, quelli complessi); e 5, 6, ma anche di più, nei processi monocratici, quelli (teoricamente) più semplici. Più o meno altrettante in Corte d’Appello. E quante udienze si fanno? Da 3 a 4 ogni settimana.

Dunque ogni giudice deve scrivere da 9 a 20 sentenze ogni settimana. E quando le scrivono? Quando l’udienza è finita, nel pomeriggio, perché il giorno dopo quasi sempre di udienza ce ne è un’altra e si incassano altre sentenze. In realtà il saldo tra le sentenze incassate e quelle scritte è sempre negativo, sicché i giudici le scrivono nei fine settimana e nei primi 15, 20 giorni di ferie (quelle famose ferie troppo lunghe dei magistrati).

Allora già si capisce che la durata dell’udienza è un falso problema: si potrebbero anche fare udienze più lunghe e dunque più processi; ma poi non si riuscirebbe a scrivere le relative sentenze.

Ma, si dice, basta con le sentenze troppo dotte: sintesi ci vuole e quindi sentenze in maggior numero. Sarebbe bello poterlo fare; ma il motivo di appello favorito degli avvocati è il difetto di motivazione: loro scrivono una memoria di 25 pagine proponendo eccezioni e tesi, infondate magari, ma ben costruite.

E, se il giudice non le confuta una per una, la sentenza verrà riformata in Appello o in Cassazione. Che significa altro lavoro sullo stesso processo e quindi spreco di risorse. La sentenza dunque, per quanto sintetica, deve tener conto delle tesi della difesa; anche perché, se così non fosse, gli avvocati che ci starebbero a fare? Quindi scrivere sentenze è cosa abbastanza complicata.

Però i giudici stanno in ufficio troppo poco, pochissimo le mattine e mai nel pomeriggio. E allora? I giudici della Corte di Cassazione fanno 4 o 5 udienze al mese, per il resto del tempo se ne stanno a casa loro, nelle varie città d’Italia dove risiedono. Ogni udienza incassano da 5 (i civilisti) a 15 (i penalisti) sentenze, che vuol dire da 20 a 60, 70 sentenze ogni mese. È davvero importante che queste sentenze siano scritte in un ufficio di piazza Cavour a Roma (che non esiste) piuttosto che nello studio di ognuno di loro, dotato di computer, stampante, biblioteca (tutta roba che a piazza Cavour non c’è)?

In molte città d’Italia i palazzi di giustizia sono vecchi stabili di grande valore storico e di nessuna funzionalità; uffici per i giudici non ce n’è. E il problema è che molti giudici in ufficio ci debbono stare per forza, fin a ora tarda.

Tutti i pubblici ministeri d’Italia stanno in ufficio mattina e pomeriggio, almeno fino alle 19 (e poi le notti, le domeniche e insomma tutti i giorni in cui capita qualche cosa di urgente, cioè spessissimo); i giudici di famiglia (quelli che fanno separazioni e divorzi) fanno udienza quasi tutti i pomeriggi, oltre che le mattine (e poi debbono scrivere le sentenze); i giudici civili che fanno interdizioni tengono udienza quasi tutti i pomeriggi; le udienze civili per prove (interrogare i testimoni, sentire i periti) si fanno quasi sempre di pomeriggio. Insomma, quelli che non stanno in ufficio dopo aver finito le udienze sono i giudici penali del Tribunale e i giudici di Corte d’Appello, il cui lavoro consiste nello scrivere sentenze. Gli altri in ufficio ci stanno, altro che se ci stanno.

Alla fine bisognerà rendersi conto che la lunghezza dei processi dipende da Codici di procedura dissennati e, in parte minore ma significativa, da carenza di risorse economiche. Continuare a prendersela con i giudici che non lavorano (qualcuno naturalmente ce n’è) significa solo creare alibi per un legislatore incompetente.

Giustizia: Berlusconi; stop a processo per assolti in primo grado

 

Ansa, 18 gennaio 2009

 

"Il fatto che un cittadino possa essere giudicato nonostante l’assoluzione di primo grado ci distanzia dalle democrazie più avanzate come gli Stati Uniti". Lo afferma Silvio Berlusconi, ribadendo che la riforma del processo penale, allo studio da parte dell’esecutivo, "è sacrosanta". "I pm - spiega Berlusconi ripetendo il concetto - sono pagati per portare avanti le proprie tesi, hanno simpatie e antipatie personali e convinzioni politiche". Quindi, è la riflessione del premier, "è normale che i pm proseguano cercando di far passare le loro tesi accusatorie", ma in questo modo richiamando questi cittadini "li portano in un girone infernale rovinando la loro vita".

Giustizia: Violante (Pd); troppi tribunali, con pochi magistrati

 

Adnkronos, 18 gennaio 2009

 

"Oggi l’inefficienza della giustizia è legata a un altissimo numero di tribunali con pochi magistrati. Abbiamo 167 tribunali, e in 100 di questi ci sono fino a 20 magistrati e questa dispersione dei magistrati sul territorio fa sì che ci sia inefficienza". Lo ha detto Luciano Violante intervenendo ad un convegno sulla giustizia promosso dal Pd del Piemonte. "Il primo obiettivo da conseguire - ha aggiunto - è quello di avere meno tribunali con più magistrati, quindi ridurre la spesa per poter avere una più efficienza. Tutto il resto viene dopo. Se non si fa questa riforma, tutte le altre sono poi destinate a fallire".

Secondo Violante, poi, "bisogna fare un ragionamento molto serio sul potere dei capi degli uffici delle procure. Hanno avuto un potere notevole dalla riforma Mastella ed è bene che lo esercitino, perché tale potere dà loro la responsabilità nell’organizzazione degli uffici, stabilire cosa si fa prima e cosa dopo, dare indicazioni ai sostituti. Bisogna fare in modo che tutto quello che c’è funzioni, prima di andare a cambiarlo", ha concluso.

Giustizia: Casson (Pd); ddl sicurezza stravolge Legge Mancino

 

Ansa, 18 gennaio 2009

 

"Il governo ha stravolto la legge Mancino con il rischio di istituire uno Stato di polizia". Lo ha denunciato in aula il sen. Felice Casson, capogruppo del Pd in commissione Giustizia, riferendosi alle modifiche apportate con la legge sulla sicurezza.

"L’articolo 33 del disegno di legge - spiega - riguarda la lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Ora viene introdotto un articolo aggiuntivo che fa riferimento a tutt’altra fattispecie, cioè il terrorismo e il rappresentante del governo ha detto che sarebbe stata adottata la struttura della legge Mancino. Al contrario, la legge Mancino è stata in realtà stravolta, perché l’intervento della magistratura, del tribunale, su diritti fondamentali di qualsiasi per persona, viene sostituito con l’intervento del ministro dell’interno come intervento di polizia".

"Va benissimo - aggiunge Casson - che ci sia un’attività da parte delle forze di polizia in fase preventiva, in fase di sicurezza, e che queste segnalazioni arrivino al pubblico ministero, però la legge Mancino dice che dopo deve intervenire, a seguito di richiesta del procuratore, il tribunale, anche in sede cautelare, in tempi molto rapidi per disporre la sospensione. Credo che questa cautela che abbiamo inserito nel nostro ordinamento fin dal 1982 debba essere mantenuta". "Sulla preoccupazione - conclude - nei confronti del terrorismo espressa dal Governo siamo d’accordo. Non siamo d’accordo sui mezzi che vengono indicati".

Giustizia: Gonnella; del carcere si parla poco, ma da oggi di più

di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone)

 

Aprile on-line, 18 gennaio 2009

 

Un nuovo spazio web di racconto e riflessione sull’universo carcerario voluto dall’ex sottosegretario Luigi Manconi. Un progetto che vuole rappresentare una resistenza al pensiero unico, al pensiero razzista, al pensiero giustizialista. Si chiama Innocentievasioni.net.

Ci sembrava necessario e tuttavia mancante. Comunemente di carcere si parla poco, tendenzialmente male, con parole affollate attorno a singoli episodi di cronaca politica o urbana immerse in desertici silenzi. Quando se ne parla in questi contesti è con la superficialità dell’articolo attaccato alle spalle dell’attualità più stretta. In altri contesti, in quelli in cui di carcere si parla ben meglio, il rapporto con il quotidiano è invece rovesciato. Nei contesti culturalmente più alti, sulle riviste specialistiche o nelle riflessioni accademiche, giustamente si allenta fino a perdersi il rapporto con la contingenza degli eventi. Ecco allora quello che abbiamo avuto voglia di fare.

Creare uno spazio che fosse a metà tra questi due livelli, e crearlo web - con l’aiuto del nostro bravissimo webmaster, Emiliano Nieri - affinché fosse accessibile a tutti. Innocentievasioni.net, che oggi mette in rete le sue prime pagine, intende essere uno spazio di racconto e riflessione sull’universo carcerario che non smetta di guardare a ciò che in esso va accadendo in questa nostra Italia - la tragicomica epopea della progettazione del penitenziario di Gela, il disegno di legge per fare uscire i bambini dal carcere, il pacchetto sicurezza governativo - senza perdere il tessuto di fondo di una riflessione profonda - le difficoltà incontrate dal Consiglio d’Europa nella definizione di standard omogenei, il valore della legge Gozzini - e tenendo insieme anche l’arte - la poesia di Benigni, la canzone dei Presi per caso, i consigli legali - messi a disposizione da Valerio Onida - perfino i consigli di salute, come farsi una crema esfoliante con gli ingredienti a disposizione in carcere, e le riflessioni più libere sulla libertà e la meditazione.

Luigi Manconi, ex sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri, che da sempre ha a cuore questo tema, ha saputo, con l’intelligenza e la simpatia che gli sono proprie, creare attorno a questo progetto una grande rete di entusiasmi. Oltre a Valerio Onida, hanno deciso di contribuirvi con regolarità nomi quali Mauro Palma, presidente del Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura, Daniela De Robert, giornalista Rai e da tantissimi anni impegnata come volontaria nel carcere di Rebibbia, l’associazione Ora d’Aria.

Oggi si leggono le firme di Eugenio Finardi, di Simone Cristicchi, di Ascanio Celestini. In un momento di deriva culturale quale quello che stiamo vivendo, il sito www.innocentievasioni.net vuole essere un pacifico strumento di resistenza. Una resistenza al pensiero unico, una resistenza al pensiero razzista, una resistenza al pensiero giustizialista.

Con Luigi Manconi abbiamo voluto parlare di carceri, carcerati, custodi, custoditi senza piagnistei, con competenza, ironia e auto-ironia. Oggi i detenuti sono circa 57 mila. Siamo tornati a numeri di assoluta ingestibilità. Nonostante ciò ci propongono di incarcerare immigrati irregolari, prostitute di strada insieme ai loro clienti. A noi di Antigone, di A Buon Diritto e di www.innocentievasioni.net tutto ciò ci sembra tragico e farsesco allo stesso tempo.

Giustizia; caso Battisti; Napolitano rammaricato, scrive a Lula

 

Ansa, 18 gennaio 2009

 

Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha inviato al Presidente brasiliano, Inàcio Lula da Silva, una lettera personale per esprimere profondo stupore e rammarico per la decisione del ministro brasiliano della Giustizia, Tarso Genro, di concedere lo status di "rifugiato politico" a Cesare Battisti, per il quale l’Italia ha avanzato richiesta di estradizione a seguito della condanna all’ergastolo perché giudicato colpevole, tra altri delitti, di quattro omicidi per finalità di terrorismo.

Nella lettera, che richiama i lineamenti dell’ordinamento costituzionale e giuridico italiano e le garanzie che esso ha offerto e offre nel perseguire anche i responsabili di reati di terrorismo, il Capo dello Stato si rende interprete della "vivissima emozione e della comprensibile reazione che la grave decisione ha suscitato nel paese e tra tutte le forze politiche italiane".

Dal penitenziario di Papuda, a Brasilia, Cesare Battisti, l’ex leader dei Proletari armati per il Comunismo, fa sapere nel frattempo di essere "sollevato". "È da un lato sollevato perché ha trascorso ventotto anni in esilio tra Francia, Messico e Brasile - dichiara il suo avvocato, Luiz Eduardo Greenhalgh - e ora ha la concreta possibilità di non subire più una persecuzione politica. Ma è anche ansioso, perché ha trascorso quasi due anni in carcerazione preventiva a causa di un processo di estradizione e vuole tornare a scrivere".

Giustizia: omicidio Sandri; "no" a rito abbreviato per l’agente

di Maurizio Bologni

 

La Repubblica, 18 gennaio 2009

 

La lunga mattinata di rancore non si stempera nelle lacrime e negli abbracci. Il giudice dell’udienza preliminare di Arezzo Luciana Cicerchia ha appena deciso che il 20 marzo prossimo la corte d’assise di Arezzo processerà per omicidio volontario Luigi Spaccarotella, l’agente di polizia che l’11 novembre 2007 uccise il tifoso della Lazio Gabriele Sandri sparando da un’area di servizio all’altra a Badia al Pinto, autostrada del Sole, zona di Arezzo.

Familiari e amici di Gabbo si abbracciano ma l’ordinanza del gip non addolcisce il loro dolore aspro. "Spaccarotella non godrà di sconti, spero abbia una condanna esemplare, ma intanto devono allontanarlo dalla polizia" commentano il papà e il fratello di Gabbo, Giorgio e Cristiano. "Lui sa com’è andata, lui sa che ha sparato per uccidere, non ha il coraggio di incrociare i nostri sguardi e neppure oggi è venuto all’udienza".

Ora che il rinvio a giudizio è pronunciato, parla anche la mamma di Gabbo, Daniela, che ha trascorso le sei ore dell’udienza fuori dall’aula sfogliando un album di foto del figlio e stringendo una felpa nera del suo ragazzo. "Spaccarotella non lo perdono" dice con gli occhi lucidi. La chiusura della giornata, alle tre del pomeriggio, è il gesto dell’ultimo dei tifosi laziali che lascia il tribunale e che con una manata rabbiosa appiccica un adesivo su un cartello stradale: c’è stampato un insulto al poliziotto.

Era cominciata in modo diverso, con una sosta di familiari e amici di Gabbo nell’area di servizio per lasciare un mazzo di rose. "Hanno tolto il palo con le sciarpe e i biglietti in memoria di mio figlio, vogliono rimuovere il ricordo" si rabbuia subito il padre. Poi una gigantografia di Gabbo e striscioni che chiedono giustizia vengono stesi su un terrapieno verde davanti al tribunale di Arezzo da una trentina di tifosi, molti coi cappellini della curva dedicati a Gabbo. Alle 9 è fissato l’inizio dell’udienza.

Avvocati e parenti si chiudono col giudice e il pm Ledda in un’aula al piano terreno. I difensori di Spaccarotella, Francesco Molino e Federico Bagattini, per oggi giocano soltanto una carta. Chiedono al gip il rito abbreviato - che garantirebbe all’imputato uno sconto di pena e riservatezza ma che impone una riduzione delle attività processuali - a condizione che il giudice acconsenta ad un nuovo sopralluogo nell’area di servizio di Badia al Pino o comunque un confronto tra i consulenti balistici. Il giudice si chiude per oltre un’ora in camera di consiglio e boccia la richiesta.

Si va al processo coi giudici popolari, quello nel quale Spaccarotella dovrà deporre pubblicamente per respingere l’accusa che poggia anche su cinque testimonianze - una particolarmente convinta e convincente di una cittadina giapponese - che dicono di averlo osservato sparare a mani giunte come nei film.

"Al processo l’imputato ci sarà" dicono i suoi difensori che rinviano al dibattimento l’assalto per tentare di derubricare il reato da omicidio volontario a colposo: sostengono che il colpo è partito accidentalmente mentre il poliziotto correva. La parte civile, con l’avvocato Michele Monaco, mostra però sicurezza: "L’impianto accusatorio è solidissimo. Terrà".

Giustizia: caso Unabomber; archiviazione per l'unico indagato

 

La Repubblica, 18 gennaio 2009

 

"Adesso spero davvero che l’incubo sia finito: è arrivato il giorno della resurrezione": sono le prime parole dell’ingegnere Elvo Zornitta sulla decisione della Procura della Repubblica di Trieste di chiedere la sua archiviazione nell’inchiesta Unabomber.

Con la voce palesemente rotta dall’emozione, Zornitta ha confessato di "non sapere cosa dire. Pensavo che questo giorno non arrivasse mai e invece sembra davvero che la mia resurrezione sia finalmente arrivata. Ora chiederò un risarcimento, anche se nessun compenso materiale potrà risarcire me e, soprattutto, la mia famiglia per quello che ho sofferto in tutti questi anni di indagini". E a Unabomber, l’ingegner Zornitta lancia una maledizione: "Gli auguro di morire. Senza tanti giri di parole, spero che termini i suoi giorni in una maniera che non possa più arrecare male a nessuno".

Si avvicina dunque il giorno in cui l’unico indiziato nell’inchiesta Unabomber uscirà di scena: "Una decisione logica" ha detto il procuratore capo di Venezia Vittorio Borraccetti. Ma "è una sconfitta per la giustizia ", ha aggiunto il procuratore generale Ennio Fortuna. "Il fatto che in 13 anni non si sia arrivati a smascherare Unabomber non è altro che una sconfitta".

Mancano ancora due tasselli prima che "l’incubo" di Zornitta sia davvero finito: la decisione del Gip sulla proposta di archiviazione avanzata dalla Procura, e la fine del processo sul lamierino per cui è indiziato un perito accusato di aver manomesso la prova. Resterà però il mistero sulla vera identità di Unabomber che più di un decennio di indagini, la mobilitazione di una squadra di investigatori e la collaborazione di due procure - Venezia e Trieste - non sono riusciti a svelare.

Sicilia: Fleres (Pdl); 7mila detenuti, doppi di capienza massima

 

Adnkronos, 18 gennaio 2009

 

"Il numero di reclusi in Sicilia ha raggiunto le 7.000 unità, il doppio della capienza massima ammissibile. Le guardie sono sempre meno e le tre nuove strutture penitenziarie di Gela, Noto e Villalba non aprono ancora. Questa situazione mette a rischio la dignità delle persone (recluse e dipendenti) e la sicurezza all’interno delle carceri".

Lo ha dichiarato il senatore del Pdl, Salvo Fleres, garante dei diritti dei detenuti per la Sicilia, nel corso di una riunione della commissione per i Diritti umani del Senato che, nei prossimi giorni, avvierà un’indagine in tutte le strutture del Paese. Per il parlamentare "la situazione è insostenibile e necessita di un provvedimento straordinario che ristabilisca condizioni di vivibilità e certezza negli istituti di pena".

"In tal senso - assicura - è ottima l’iniziativa avanzata dal ministro della Giustizia Alfano circa la nomina di un commissario che dovrà occuparsi delle nuove carceri. È indispensabile, però, anche sbloccare tutti i concorsi per le guardie, gli educatori e, soprattutto, gli psicologi, senza i quali risulta velleitaria qualsiasi azione di recupero e reinserimento sociale. La legge sulla sicurezza al varo del Senato - ha concluso Fleres - aumenterà ulteriormente il numero di reclusi, dunque, non è possibile indugiare ancora".

Sicilia: sindacati polizia; rischio di ingovernabilità delle carceri

 

La Sicilia, 18 gennaio 2009

 

"È allarme carceri in Sicilia: è stata infatti superata la massima tollerabilità ricettiva nelle prigioni, dove è stata raggiunta la quota di circa settemila presenze, contro una capienza limite di 5.850 posti. Il fatto a breve genererà - anche a causa della gravissima carenza di poliziotti penitenziari - l’esplodere dell’ingovernabilità assoluta".

Questa la denuncia che le sigle Cgil, Cisl, Uil, Sappe, Osapp, Uspp-Ugl, Cnpp della polizia penitenziaria hanno inoltrato al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, al capo del dipartimento, Franco Ionta, e al direttore generale del personale, De Pascalis. I sindacati dichiarano "che con questi dati è impensabile assicurare l’ordine e la sicurezza pubblica all’interno delle carceri siciliane, nelle traduzioni e financo nelle scorte: il che significa pochissima vigilanza con il rischio di una recrudescenza delle sommosse e/o evasioni e pochissimo controllo all’interno delle carceri, in barba al tanto decantato impegno del governo contro tutte le mafie!".

"Il provveditore della Sicilia, Orazio Faramo - affermano i sindacati regionali - in più occasioni non ha esitato a dichiarare di essere seriamente preoccupato per la situazione di fronte alle richieste di maggiore sicurezza e tutela dei lavoratori. Ma i politici di entrambi gli schieramenti oggi non si rendono conto della gravità assoluta". Per le organizzazioni sindacali mancano quasi 600 unità.

Catania: trasferire agenti e detenuti, per ristrutturare il carcere

 

Apcom, 18 gennaio 2009

 

Trasferire alcuni detenuti e parte del personale del carcere catanese di Piazza Lanza nei vicini Istituti di Noto e Caltagirone per il periodo di tempo necessario ai lavori di ristrutturazione dello stabile. Lo chiede l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) al provveditore regionale siciliano dell’amministrazione penitenziaria Orazio Faramo.

l sindacato scrive di trovarsi "nuovamente a constatare amaramente le condizioni sempre più precarie in cui si trova il Carcere di Catania Piazza Lanza, già qualche giorno fa era stata presentata la situazione dei riscaldamenti, del tutto assenti nella maggior parte della struttura, e se bene questa non sia cambiata alcuni elementi tendono ad aggravare lo stato attuale".

"Nei mesi scorsi - ricorda l’Osapp - sono stati trovati alcuni topi all’interno del carcere e in data odierna sembra si siano registrate circa cinquanta assenze per malattia. I Vigili del Fuoco sono stati costretti a transennare le pareti del muro di cinta, la cui stabilità sembra compromessa a causa di nuove infiltrazioni di acqua dovute alla pioggia di questi giorni".

Chieti: in carcere situazione esplosiva 250 reclusi e 100 agenti

 

Il Centro, 18 gennaio 2009

 

Laboratori trasformati in celle. Detenuti di etnia, lingua e religione diversa costretti a convivere in pochi metri quadri. A soli due anni dall’indulto, nel carcere di Torre Sinello è allarme sovraffollamento. Meno di cento agenti devono occuparsi di 257 detenuti, il 40% dei quali di origine straniera. "La situazione è insostenibile", conferma l’ispettore Mario Tuzzi, rappresentante provinciale del sindacato di Polizia Penitenziaria Sappe.

Il sindacato ha più volte segnalato i problemi e i disagi sopportati all’interno della casa circondariale del Vastese al ministero della Giustizia. Il direttore dell’istituto di pena, Carlo Brunetti, ha inoltrato a Roma la richiesta di sfollamento urgente della casa circondariale abruzzese. Ma i tagli alla spesa pubblica della legge finanziaria decisi dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti , non risparmiano nessuno. Tanto meno gli istituti di pena. "Qualcosa va comunque fatto", dicono i rappresentanti del sindacato Sappe.

"Il numero di detenuti a Vasto non è mai stato così alto", rimarcano. I numeri: nel 2005 i detenuti erano 248. Nel 2006 sono diventati 258, ma ad occuparsi di loro c’erano 125 agenti. "La situazione è diventata più umana e gestibile solo dopo l’introduzione della misura dell’indulto con l’uscita di 100 detenuti", ricordano gli agenti. Ma due anni il carcere di Torre Sinello si è riempito di nuovo.

Tanti i trasferimenti a Vasto da Milano e dai grossi istituti penitenziari del nord Italia. Le stanze a Punta Penna sono diventate poche e quelle che si sono scoppiano. Sempre più spesso il personale di custodia ha problemi per assicurare a tutti acqua calda e servizi. I disagi provocano malumori e tensioni. Non mancano baruffe e scaramucce.

Due mesi fa un detenuto è stato picchiato da un compagno di cella che gli ha procurato la frattura della mandibola: il ferito è stato operato. "I disagi sono tanti e gestirli non è sempre facile", dice l’ispettore Tuzzi. "Gli agenti sono meno di cento, molti dei quali prossimi alla pensione. Ogni giorno per noi sono evidenti le difficoltà per il trasferimento dei detenuti in tribunale, nelle strutture ospedaliere del comprensorio o in altre case di pena", afferma il rappresentante sindacale.

Gli amministratori comunali del Vastese hanno deciso di intervenire in aiuto del direttore Brunetti e degli agenti dell’istituto chiedendo ai parlamentari della provincia di adoperarsi per ottenere un adeguamento dell’organico della polizia penitenziaria in servizio a Torre Sinello e la riduzione dei trasferimenti dei detenuti dal Nord Italia a Vasto. Una istanza sarà inviata nei prossimi giorni negli uffici ministeriali di Roma. L’attesa è tanta, anche per dare risposte che vadano a migliorare il servizio.

Gela: pronto nuovo carcere, costato 6mln € e 50 anni di lavori

 

Ansa, 18 gennaio 2009

 

Il progetto originario della Casa Circondariale di Gela risale al 1959, ma alla sua definitiva approvazione si arrivò solo nel 1978. I lavori, iniziati nel 1982, fra interruzioni e rallentamenti sono durati venticinque anni.

Nel novembre del 2007, due mesi dopo la chiusura del cantiere, l’allora ministro della giustizia Clemente Mastella ricevette dall’amministrazione comunale, nel corso di una cerimonia ufficiale, le chiavi del nuovo istituto. Il 25 giugno 2008 la struttura è stata consegnata alla competente agenzia del demanio e conferita in uso governativo all’amministrazione penitenziaria.

Lo scorso ottobre, durante un’audizione sulla situazione degli istituti penitenziari italiani davanti alla seconda commissione della camera dei deputati, l’attuale ministro della giustizia Angelino Alfano ha riferito la necessità di ultimi interventi di adeguamento e completamento dei sistemi di sicurezza, per un costo di 1,5 milioni di euro.

Tutto ciò prima dell’apertura dell’istituto, prevista entro la fine del 2008. I lavori non sono ancora conclusi ma sembrerebbe possibile che entro il 2009, dopo cinquant’anni e al costo complessivo di sei milioni e mezzo di euro, l’Amministrazione penitenziaria potrà infine disporre di cento nuovi posti detentivi.

Sassari: 35enne appena scarcerato muore, probabile overdose

 

La Nuova Sardegna, 18 gennaio 2009

 

È stato trovato in un appartamento di piazza Dettori, abbandonato all’indietro su un divano, come se stesse riposando. Sul tavolino di fronte c’era una banconota da 50 euro arrotolata, e un mucchietto di polvere bianca: forse la droga che lo ha ucciso. È morto così, Renato Farinelli, sassarese di 35 anni, due giorni dopo essere uscito di galera.

Alle spalle, il giovane aveva una lunga "carriera" fatta di piccoli furti, evasioni e detenzione di stupefacenti. Farinelli era uscito dal carcere di Alghero tre giorni fa, dove era detenuto per furto e per evasione. Ma i suoi guai con la giustizia non erano ancora finiti, perché era in attesa di giudizio per un altro furto. Le sue prime ore di libertà, Renato Farinelli, le stava passando in un appartamento di Santa Maria di Pisa, al primo piano del numero 10/a di piazza Dettori. Il giovane potrebbe essere morto tra la sera di giovedì e la mattina di ieri.

Ad accorgersi che c’era qualcosa che non andava, è stato un vicino di casa, che ieri mattina ha provato a bussare alla porta di casa di Farinelli. Non ricevendo risposta, e vedendo che all’interno c’era una luce accesa, il vicino ha preso una scala ed è entrato dalla finestra. L’allarme è stato dato immediatamente e sul posto sono intervenute diverse volanti della polizia, gli uomini della scientifica e un’ambulanza medicalizzata del 118, anche se per il giovane non c’era più nulla da fare. Per verificare le esatte cause della morte di Renato Farinelli, il pm di turno ha disposto che venga eseguita l’autopsia.

Il corpo del giovane, infatti, nel primo pomeriggio di ieri è stato trasferito nel reparto di medicina legale per essere sottoposto all’esame autoptico. Dai primi rilievi fatti sul posto, e dal particolare della banconota arrotolata, usata probabilmente per sniffare, sembrerebbe che Farinelli sia stato vittima di una overdose. Tuttavia non è escluso che il giovane sia stato colto da un malore. L’ultimo episodio del quale il pregiudicato si era reso protagonista, era avvenuto nel marzo del 2008.

Assieme a un complice, Renato Farinelli aveva tentato un colpo ai danni di un negozio di ferramenta di Predda Niedda. Mentre cercavano di portare via una pesante stufa a pellet, nel capannone erano piombati i carabinieri. Il complice si era nascosto nel controsoffitto, precipitando ai piedi di militari, mentre Farinelli si era lanciato dalla finestra, da un’altezza di otto metri, salvandosi per miracolo ma finendo praticamente tra le braccia dei carabinieri.

Prato: detenuto morì dopo caduta, assolto il medico che lo curò

 

Il Tirreno, 18 gennaio 2009

 

È stato assolto "perché il fatto non sussiste" un medico in servizio nel carcere della Dogaia, che era accusato di omicidio colposo in relazione alla morte di un detenuto avvenuta il 22 gennaio di tre anni fa. Il medico, difeso da Federico Bagattini e Vanessa Lascialfari, è comparso ieri davanti al giudice dell’udienza preliminare Angela Fedelino ed è stato processato col rito abbreviato.

I fatti che hanno dato origine al processo risalgono al 2006. Il 16 gennaio un detenuto di 45 anni, pratese, in carcere per rapina, fu trovato agonizzante nella sua cella. In base alla ricostruzione fatta dalla stessa polizia penitenziaria, l’uomo era salito su una sedia per prendere qualcosa da un ripiano, aveva perso l’equilibrio e cadendo aveva sbattuto la testa sul pavimento. Le sue condizioni erano apparse subito molto gravi, ma solo alle 14 di quel giorno, quattro ore dopo l’incidente, fu trasferito all’ospedale, dove fu ricoverato in Terapia intensiva e morì il 22 gennaio.

Una consulenza medica della Procura ha concluso dicendo che il medico del carcere avrebbe dovuto essere più sollecito nel disporre il trasferimento in ospedale, ma che non c’è certezza sul fatto che il detenuto poteva essere salvato. Sulla base di queste risultanze il pubblico ministero Sergio Affronte ha chiesto la condanna, ma il giudice ha valutato che non ci fossero elementi sufficienti. La madre del detenuto si era costituita parte civile perché convinta che il medico avesse le sue responsabilità, e ovviamente non è stata soddisfatta dal verdetto.

Lecce: droga in carcere, 7 arresti tra cui agente penitenziario

 

Adnkronos, 18 gennaio 2009

 

Il sodalizio criminale che si avvaleva di un agente di Polizia penitenziaria che, in cambio di denaro, avrebbe introdotto nel carcere sostanze stupefacenti e le avrebbe poi consegnate a detenuti, appartenenti anche a gruppi di criminalità organizzata.

La Polizia di Stato di Lecce ha eseguito 7 ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di un sodalizio criminale che si avvaleva di un agente di polizia penitenziaria, per i reati di concorso in detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti anche in rilevanti quantitativi. Come fa sapere la polizia, le indagini hanno consentito alla Squadra Mobile di raccogliere elementi di colpevolezza a carico dell’agente, indagato anche per il reato di corruzione aggravata.

Secondo quanto accertato dalla polizia, l’agente di polizia penitenziaria, in cambio di denaro, avrebbe in numerosi episodi, introdotto nel carcere sostanze stupefacenti e le avrebbe poi consegnate a detenuti, appartenenti anche a gruppi di criminalità organizzata. L’agente di polizia penitenziaria, secondo gli investigatori, era inoltre disponibile a farsi da tramite nei rapporti tra i detenuti e l’esterno al di fuori dei normali canali regolamentari.

Civitavecchia: al Teatro Traiano in mostra opere dei detenuti

 

Il Messaggero, 18 gennaio 2009

 

Venerdì pomeriggio, al Teatro Traiano, si è aperta la mostra di opere pittoriche, a conclusione proprio del corso, realizzate dai detenuti del Nuovo Complesso Penitenziario. Nel corso della mostra viene anche mostrato il video dello spettacolo messo in scena dai detenuti del corso di teatro.

È stata inaugurata la mostra di dipinti realizzati dai detenuti della casa circondariale di Civitavecchia, un modo per chi è rinchiuso al carcere di Borgata Aurelia di evadere con la mente, di riscoprire la libertà, di dare sfogo alle emozioni a volte represse, di guardare oltre quei muri che li dividono dal mondo.

La mostra, patrocinata dal ministero della Giustizia e fortemente voluta anche dal direttore della Casa Circondariale, è la conclusione di un percorso durato circa un anno che ha visto i detenuti impegnati in tre diversi corsi, tenuti da un’equipe di insegnanti motivate e soddisfatte dell’ottima riuscita dell’iniziativa. Sono stati organizzati, infatti, con i fondi regionali e a collaborazione del Centro Territoriale, un corso di pittura, uno di teatro e uno di taglio e cucito. Lo spettacolo verrà proiettato durante la mostra e i costumi di scena sono stati realizzati dalla sezione femminile del carcere.

Roma: reati in calo, ma la polizia lamenta "scarcerazioni facili"

di Massimo Lugli

 

La Repubblica, 18 gennaio 2009

 

Roma è più sicura ma i poliziotti soffrono di stress acuto da superlavoro e, senza una migliore organizzazione delle forze in campo, si rischia il collasso. È un quadro agrodolce quello tratteggiato da Saturno Carbone, segretario generale romano del Siulp (il primo sindacato di polizia con oltre 4 mila iscritti solo nella capitale) sulla sicurezza nella capitale proprio mentre scatta il giro di vite sul centro storico.

La buona notizia viene dalle cifre: i borseggi scendono del 43 per cento, le rapine in banca crollano addirittura alla metà e i reati sessuali diminuiscono del 10 per cento anche se, sottolinea Carbone, molte aggressioni, specialmente in famiglia, fino a pochi anni fa non venivano neanche denunciate.

 

Roma più sicura, quindi... e le risse, gli accoltellamenti, la delinquenza di strada, il bullismo?

"Questo è il nodo cruciale. E proprio da domani entrerà in servizio la nuova sezione criminalità comune della mobile, cinquanta agenti che copriranno solo l’orario pomeridiano e serale e interverranno con la massima velocità sugli episodi di criminalità diffusa, che sono il vero incubo del cittadino".

 

L’impiego dei militari è stato utile?

"Diciamolo chiaramente: è solo un’operazione di facciata. Con le indennità che sono state date ai soldati si sarebbero potuti assumere tremila poliziotti in più su un organico nazionale

che oggi lamenta un vuoto di circa 10 mila agenti. Pensi solo che nella capitale la pianta organica dei Commissariati è quella delineata da un decreto del 1968".

 

Quante sono le autoradio che sorvegliano la capitale?

"Una cinquantina, tra volanti e macchine dei commissariati, nelle fasce 9-14 e 14-20 ma il numero cala alla metà nei turni serali e notturni, 19-24 e 0-7. A Parigi sono circa 200 per turno. Ma il problema non riguarda solo le volanti: ci sono colleghi del reparto mobile che dopo aver lavorato 14 ore di fila a Roma vengono spediti a Napoli e ricominciano con solo quattro ore di riposo alle spalle. Per non parlare dell’ufficio passaporti dovei colleghi sono costretti a turni massacranti mentre le attese restano lunghissime".

 

Servono agenti in più?

"No, la questione è quella dell’organizzazione. Bisogna arrivare alla sala operativa unica che coordini polizia, carabinieri, vigili urbani, finanza, vigili, polizia penitenziaria e provinciale. Se ne parla da quasi trent’anni ma ognuno resta aggrappato alle sue prerogative e non se ne fa nulla. E poi bisogna recuperare alcune forze: scorte, ambasciata Usa, posti fissi... Ma il vero problema è quello delle scarcerazioni facili".

 

Cioè?

"Nel 2008 la metà dei detenuti processati per direttissima è stata scarcerata entro tre giorni e solo il 15 per cento è rimasto in carcere più di un mese. Parlando di stranieri, l’85 per cento degli arrestati se l’è cavata con sette giorni di detenzione e il 12 per cento è uscito entro sei mesi. Con la certezza della pena, è opinione comune che i reati crollerebbero del 50 per cento. Basterebbe applicare le leggi".

Immigrazione: rischia il carcere chi dà lavoro ad un irregolare

 

La Repubblica, 18 gennaio 2009

 

Tra le nonne del ddl sicurezza già approvate al Senato c’è anche il reato di clandestinità. Che stravolta colpisce anche le badanti rimaste in Italia oltre la scadenza del visto. Per chi "fa ingresso, o si trattiene" in Italia in violazione delle norme sull’immigrazione non c’è più il carcere ma una multa fino a 10mila euro e l’espulsione immediata.

"Così - spiega Luigi Li Gotti (Idv) - chi avrà in casa una badante clandestina rischia fino a 5 anni di carcere per favoreggiamento reale". E in più per i processi si spenderanno "secondo i dati del Governo oltre 400 milioni di euro".

Anche la maggioranza ha ammesso che si dovrà verificare la copertura finanziaria. Il voto in aula riprenderà a febbraio, ma non si fermano le iniziative di protesta: le associazioni hanno indetto un sit-in davanti al Senato per lunedì 19 e un corteo per il 31 gennaio.

Fra le norme già varate anche la stretta sulla cittadinanza per matrimonio: per richiederla serviranno non più sei mesi ma due anni di residenza e l’unione dovrà restare in piedi fino al decreto di concessione. Mentre è sparita l’espulsione dei comunitari bocciata dalle autorità dell’Ue.

Ecco in sintesi degli altri punti principali. Matrimonio: lo straniero che vuole sposarsi in Italia deve presentare il permesso di soggiorno. Ci si può iscrivere all’anagrafe o cambiare residenza solo dopo la verifica da parte del Comune delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile, che diventa obbligatoria anche per ottenere il nulla osta al ricongiungimento. Chi gestisce un’attività di money transfer deve "acquisire e conservare per dieci anni" copia del permesso di soggiorno dei clienti stranieri; in mancanza, deve segnalarli alla polizia pena la cancellazione dall’elenco degli agenti finanziari.

L’articolo 39 prevede pene fino a sei anni per chi usa documenti contraffatti, oltre che per chi li produce, e punisce chi "senza giustificato motivo" rifiuta di mostrare i documenti alle autorità. Lo stesso articolo introduce un test di lingua italiana per il rilascio della carta di soggiorno, che potrà essere richiesta per i familiari solo se anche loro soggiornano in Italia da almeno 5 anni.

Passa da due mesi a un anno e mezzo il periodo massimo di trattenimento nei Cie (i vecchi Cpt) e sparisce il principio del "silenzio-assenso" per il ricongiungimento, che oggi scatta dopo 180 giorni dalla richiesta. In pratica, anche quando lo Sportello unico non risponde, non si potrà chiedere direttamente il visto in patria. L’articolo 41 introduce il cosiddetto permesso a punti: se sarà approvato, chi chiede il permesso di soggiorno dovrà anche firmare un accordo a crediti, impegnandosi a raggiungere entro la scadenza precisi "obiettivi d’integrazione".

Fra gli emendamenti più discussi, la Lega ha ritirato quello sulle cure mediche a pagamento per gli stranieri. Marcia indietro solo a metà, invece, sulla denuncia degli irregolari che vanno a farsi curare: si vorrebbe eliminare l’attuale divieto di segnalazione alla polizia, lasciando al singolo medico la decisione sul da farsi.

Thailandia: i detenuti si guadagnano la libertà… con la boxe!

 

Reuters, 18 gennaio 2009

 

Nel carcere di Thonburi, vicino alla capitale Bangkok, i carcerati si guadagnano la libertà combattendo con la boxe. Si allenano in 200, ma solo in 16 si qualificano per partecipare alle competizioni internazionali.

Detenuti che decidono di salire sul ring e combattere per guadagnarsi la libertà. Assassini, ladri e spacciatori che si trasformano in pugili per vincere la loro "seconda possibilità". Sembra la trama di un film. Invece succede davvero, in Thailandia. Precisamente nel carcere di Thonburi, vicino a Bangkok. È qui dove si allenano i migliori detenuti-pugili del paese, quelli che si contendono un posto nella squadra nazionale della Thailandia.

Il sistema escogitato dalle autorità thailandesi è semplice: attraverso la boxe i detenuti possono guadagnarsi un’uscita anticipata dalla prigione per rifarsi una vita, dedicandosi non più al crimine, ma ad una carriera da pugile. La condizione è che, una volta liberi, mantengano un comportamento esemplare e si impegnino al massimo nello sport. I migliori non solo potranno combattere nelle competizioni internazionali, ma si contenderanno un posto per rappresentare la Thailandia ai Giochi di Londra 2012.

La competizione è moltissima e il percorso per guadagnarsi la tanto sognata libertà è lungo ed insidioso. Funziona così: in tutte le prigioni thailandesi sono organizzati dei tornei interni, chi vince strappa il biglietto per andare in "ritiro" a Thonburi. Qui gli allenamenti si intensificano: sveglia alle 5.30 per 90 minuti di corsa, poi sedute di pesi e di combattimento.

Il tutto sotto gli occhi di tecnici professionisti e delle guardie armate di manganelli. Attualmente sono circa 200 i detenuti che si allenano a Thonburi, ma solo in 16 si qualificano per partecipare alle competizioni internazionali e sono liberi di rifarsi una vita.

I risultati sembrano vedersi. Secondo i tecnici che li seguono i detenuti hanno molto talento e le carte in regola per diventare campioni. Anzi, alcuni allenatori si sbilanciano e aggiungono che, tra loro, potrebbe esserci un futuro vincitore di oro olimpico, ma c’è ancora molto lavoro da fare.

Teerayuth Wanaprasit, uno dei partecipanti al programma, condannato per spaccio, dice: "Voglio vincere. Andare alle Olimpiadi è un sogno più grande di quello di uscire di qui. Sono un uomo cambiato ora, voglio una vita da campione non da criminale".

I loro idoli sono Somjit Jongjohor, oro nei pesi mosca a Pechino, e Amnat Ruenroeng, medaglia di bronzo ai campionati mondiali e olimpico a Pechino, che infatti sono ritratti in uno striscione appeso nei muri del carcere con la scritta: "Superstars per i Giochi Olimpici di Londra 2012".

Proprio Ruenroeng è la prova vivente che la boxe, in Thailandia, può restituire la libertà visto che, condannato a 15 anni per furto, fu rilasciato prima del tempo per i suoi risultati sul ring. Komsan Blathaman, un ladro di gioielli detenuto a Thonburi, dice: "Amnat mi ha ispirato, io voglio seguire il suo esempio perché è la prova che i detenuti possono avere una vita migliore".

Certo l’idea che dei criminali possano uscire dal carcere senza aver scontato la loro pena può essere difficile da digerire ma, se è vero che lo sport insegna dei valori positivi, forse, può davvero cambiare, nel profondo, questi uomini.

Guantanamo: detenuto da quando aveva 15 anni, ora il rilascio

di Tara Fernandez

 

www.osservatoriosullalegalita.org, 18 gennaio 2009

 

Un giudice federale del Distretto di Columbia ha ordinato il rilascio da Guantanamo di Mohammed el Gharani, il "detenuto-bambino" nato nel luglio 1987 che ha trascorso ormai un terzo della sua vita nel centro di detenzione.

Ne dà notizia Amnesty International, che oggi a Roma ha manifestato per chiedere al presidente eletto Usa, Barack Obama, di chiudere il centro di detenzione in cui sono ancora trattenuti non statunitensi sospettati di terrorismo ma senza accuse che ne rendano legale la privazione della libertà. Obama aveva promesso la chiusura del centro, e di recente ha precisato che è solo questione di tempo, per motivi tecnico-legali.

Per il centro sono passate molte centinaia di sospettati, di cui 250 ancora si trovano in cella, e la legittimità della loro situazione, conche la possibilità da parte loro di ottenere il rispetto dell’habeas corpus ottenendo il pronunciamento di una Corte non militare sul loro arresto sono stati oggetto di battaglie politiche e legali, giunte fino alla Corte Suprema. Il giovane El Gharani, nato in Ciad e cresciuto in Arabia Saudita, è stato arrestato in Pakistan alla fine del 2001, quando aveva poco più di 14 anni, consegnato alle forze Usa di Kandahar (Afghanistan) e stato trasferito a Guantanamo nel gennaio 2002.

Secondo il giudice Leon, le prove dell’Amministrazione Usa contro El Gharani "si basano principalmente su dichiarazioni di due detenuti di Guantánamo, la cui credibilità e affidabilità sono state messe in discussione da funzionari governativi". Nel corso dei sette anni di detenzione - denuncia Amnesty - El Gharani è stato sottoposto a maltrattamenti. Funzionari dell’Fbi hanno dichiarato che nel corso di interrogatori svoltisi nel 2003, El Gharani è stato costretto a rimanere seduto a terra immobilizzato, per diverse ore, con le braccia e i piedi incatenati. El Gharani è stato anche sottoposto al cosiddetto "programma frequent flyer", consistente in prolungate e frequenti sessioni di disorientamento, interruzione del sonno e deprivazione sensoriale.

Amnesty International ha chiesto all’Amministrazione Usa di dare seguito alla sentenza del giudice Leon, rilasciando immediatamente El Gharani e rinviandolo in Arabia Saudita, dove vive la sua famiglia o, se ciò non fosse possibile, in Ciad, dove risiedono altri familiari.

 

 

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