Rassegna stampa 20 aprile

 

Giustizia: la sicurezza nelle città… tra prevenzione e sanzione

di Ernesto Galli Della Loggia

 

Corriere della Sera, 20 aprile 2009

 

"Negli ultimi mesi stiamo assistendo a un crescendo di episodi di criminalità organizzata spesso per mano di extracomunitari o di rumeni, e non conoscono sosta le tragiche avventure dei battelli che trasportano poveri cristi sulle spiagge di Pantelleria": così si leggeva venerdì sul Riformista per la penna dell’ex direttore dell’Unità, Peppino Caldarola.

Tralasciando il riferimento agli immigrati clandestini, che costituiscono evidentemente un capitolo a parte, non c’è dubbio che la questione sicurezza è ormai da tempo una questione centrale della società italiana.

Lo confermano gli ultimi efferati episodi di cronaca nera - da Napoli a Roma, a Torino, a Vicenza - e l’opinione di un esperto riconosciuto come il sociologo Marzio Barbagli che, intervistato sempre venerdì dalla Repubblica ha sottolineato soprattutto "l’inarrestabile crescita" del numero delle rapine (di quelle in banca l’Italia detiene il record europeo), solo metà delle quali denunciate, ma che in realtà arriverebbero a circa 100 mila l’anno; e che per circa la metà avvengono sulla pubblica via sfociando con una certa frequenza in altrettanti omicidi. È vero che il numero di questi, cioè degli omicidi in quanto tali, diminuisce da anni, ma dal punto di vista del cittadino non è certo molto consolante sapere di avere assai più probabilità di venire "solamente " aggredito, rapinato e magari picchiato selvaggiamente pur riuscendo alla fine a salvare la pelle, piuttosto che di essere mandato direttamente al creatore.

Comunque i dati ora detti sono solo la punta drammatica di un fenomeno di insicurezza assai più vasto che specialmente nelle aree urbane, e in particolarissimo modo nelle periferie, deriva ai cittadini soprattutto dalla sensazione di essere lasciati soli in balia di illegalità certamente di minore portata, ma non perciò fonte minore di disagi, paure ed esasperazioni spesso incontrollabili. Lasciati soli a cavarsela con angoli delle strade trasformati in pubblici orinatoi, marciapiedi occupati dal traffico del sesso o ridotti a stretti viottoli per la presenza perlopiù abusiva di tavolini di bar e ristoranti, con schiamazzanti movide notturne, con pub e discoteche sotto le finestre, con piazze adibite a luogo di ritrovo per sciami di adolescenti motorinizzati sgassanti ad ogni ora, con grandi arterie trasformate specie di notte in piste omicide per automobilisti folli e spesso ubriachi o drogati e con non so quante altre piacevolezze.

Di fronte a tutto ciò appare evidente la scarsa efficienza dei corpi di polizia urbana. Cambiarne il nome in quello un po’ pomposo di "polizia locale " non sembra essere servito a molto. Infatti, se Pubblica sicurezza e carabinieri fanno - generalmente molto bene - quello che devono, è soprattutto alla polizia urbana che risale la responsabilità per il mancato controllo capillare e continuo del territorio, per la mancata opera quotidiana di prevenzione e di sanzione, unici rimedi idonei nei confronti dei fenomeni di minuta illegalità cui sopra. Il difetto è nel manico, in chi ha la responsabilità politica della polizia urbana.

La verità, infatti, è che da parte dei sindaci, sia di destra che di sinistra, non c’è stato finora alcun desiderio reale di impegnarsi davvero sul terreno di questo ordine pubblico. Anche i propositi "rondisti" e le iniziative della Lega, per esempio dei vari Tosi a Verona o Gentilini a Treviso, in genere non sono mai andati (e bisogna dire in questo caso per fortuna) oltre l’esibizione della faccia feroce nei confronti di vù cumprà e lavavetri. L’esempio del mitico sindaco di New York Giuliani e del suo popolarissimo programma di "tolleranza zero" da noi, insomma, non ha fatto certo scuola.

Tutto ciò si spiega, credo, con due motivi. Il primo è la scarsa volontà/capacità da parte dei sindaci di far valere la propria autorità nei confronti in generale delle amministrazioni di cui sono a capo, ma in modo particolare nei confronti della polizia locale o vigili urbani che siano. Questi rappresentano quasi sempre potenti corporazioni, adagiatesi da anni in consuetudini e pratiche di lavoro gestite di fatto da esse stesse, con numerose nicchie di privilegio, di fannullaggine e di scarsa trasparenza, che nessun sindaco osa toccare.

Meglio lasciare tutto in mano a un "comandante", facile semmai da licenziare per offrirlo in sacrificio all’opinione pubblica se scoppia qualche grana. Il secondo motivo sta nel fatto che la repressione del genere di reati "minori" che affliggono la vita quotidiana degli abitanti delle città, soprattutto delle grandi città, comporta un’azione repressiva che andrebbe inevitabilmente a colpire o comunque a disturbare in vario modo due categorie assolutamente minoritarie sul piano numerico ma, sia pure per motivi diversi, entrambe in pratica intoccabili.

Da un lato alcuni titolari di bar, ristoranti, pub, discoteche che (tra la larga maggioranza di commercianti corretti e spesso bersaglio degli episodi di criminalità) rappresentano lobby potenti nei confronti di qualunque amministratore; e dall’altro lato quella dei "giovani", protetti dal tabù che circonda ogni loro moda, svago, o comportamento collettivo, anche quelli più stupidi o riprovevoli.

Giustizia: decreto-legge su sicurezza in Commissione al Senato

 

Redattore Sociale - Dire, 20 aprile 2009

 

"Abbiamo terminato la discussione generale sul decreto sicurezza e fissato per le 14 il termine per la presentazione degli emendamenti. Alle 16 riprenderemo i lavori con l’illustrazione e il voto delle proposte di modifica. Conterei di terminare i lavori entro questa sera". Così il relatore del provvedimento in commissione Giustizia al Senato, Roberto Centaro (Pdl), al termine della seduta che ha avviato l’esame del decreto sicurezza che contiene anche le norme sullo stalking (atti persecutori) e un inasprimento delle pene per chi commette reati di violenza sessuale. Decreto che approderà in aula domani alle 16.30.

Il provvedimento è arrivato dalla Camera "mutilato" delle norme sulle ronde e l’allungamento dei tempi di permanenza degli immigrati nei Cie. Due punti sui quali la Lega ha espresso tutto il suo malumore non votando il decreto alla Camera. Tant’è che Sandro Mazzatorta, esponente del Carroccio in commissione, annuncia che "stiamo valutando se presentare degli emendamenti sulle ronde e i Cie come gruppo oppure se lo farà il governo".Felice Casson, capogruppo del Pd in commissione, ritiene che comunque, visti "i tempi stretti, non sarà accolta nessuna modifica in commissione".

Lo stesso relatore Centaro spiega "che il decreto scade il 25 aprile". E quindi sembra "difficile" che ci siano dei cambiamenti, anche perché "il dl tornerebbe alla Camera che dovrebbe convertirlo entro giovedì o venerdì". Certo, aggiunge Centaro, "se poi il governo dovesse decidere di fare sue queste modifiche...".

Per il senatore del Pdl, comunque, "sulle ronde si fa una polemica sul nulla". Infatti, sottolinea che "non esiste una norma che vieti a un gruppo di cittadini di andarsene in giro, a qualsiasi ora, per le città d’Italia. E se vedono qualcosa e avvertono le forze dell’ordine mi pare che svolgano un’attività meritoria". A tal proposito cita gli esempi di ronde organizzate a Bologna e a Milano "che funzionano da tempo", ma soprattutto quelli di alcuni paesi della Sicilia dove "il racket dell’estorsione è stato sconfitto anche grazie alle ronde dei commercianti".

Giustizia: "arresto europeo" anche senza copia della sentenza

di Giovanni Negri

 

Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2009

 

Mandato d’arresto europeo senza formalità. Non è necessaria la trasmissione della sentenza di condanna all’autorità giudiziaria italiana per l’esecuzione della consegna. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 15223 della Sesta sezione penale depositata l’8 aprile che ha affrontato il caso di un cittadino rumeno condannato nel suo Paese per concorso in rapina, il cui arresto e consegna erano stati sollecitati dalla magistratura della Romania a quella italiana. Malgrado nella documentazione presentata ai giudici italiani fosse assente la copia della pronucia, la Corte d’appello di Reggio Calabria aveva dato il via libera alla consegna del cittadino rumeno per fargli scontare nel suo Paese la pena di 4 anni e 6 mesi.

Tra i motivi di ricorso presentati dalla difesa aveva trovato posto anche la mancanza del provvedimento di condanna, in violazione di quanto previsto dall’articolo 6, comma 3, della legge n. 69 del 2005 che stabilisce come la consegna è consentita solo sulla base di una richiesta alla quale sia allegata anche una copia della sentenza di condanna quando si tratta di un mandato che ha come fine l’esecuzione di una pena. Per il giudice italiano sarebbe così impossibile, sosteneva la difesa, valutare se e come sono state rispettate le garanzie dell’imputato nel suo Paese d’origine.

La Cassazione però ha fornito un’interpretazione estremamente elastica della disposizione ritenendo di equiparare la disciplina del mandato di arresto spiccato ai fini dell’esecuzione della pena à quello emesso per finalità processuali. Su quest’ultimo, in passato, la Cassazione ha ritenuto che non rappresenta un ostacolo alla consegna la mancata allegazione del provvedimento cautelare interno sulla cui base è stato emesso il mandato. A patto che sia possibile effettuare altrimenti i controlli sugli altri requisiti di consegna come la motivazione del provvedimento, l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza.

Ora, dal testo del mandato emesso nei confronti del cittadino rumeno è possibile dedurre che la condanna è stata pronunciata per il reato di concorso in rapina; che l’uomo ha partecipato a tutti e due i gradi di giudizio previsti in Romania con l’assistenza di un difensore tecnico; che la condanna è diventata irrevocabile. Tutti elementi rispetto ai quali la copia della sentenza di condanna non potrebbe aggiungere nulla, tanto da rivelarsi, di fatto, inutile.

Di più: a dimostrare ulteriormente l’inutilità di un’interpretazione rigidamente formalistica, c’è il fatto che il cittadino rumeno non contesta la violazione di alcuna norma processuale del suo Paese e, soprattutto, che a essere diventata irrevocabile è la sentenza emessa in primo grado. La copia di quella pronuncia, quindi, avrebbe potuto "solo" attestare la presenza di un avvocato difensore nel giudizio di primo grado, nulla chiarendo invece quanto all’appello. Il mandato d’arresto spiccato dall’autorità giudiziaria rumena permette invece di considerare la presenza del difensore anche in secondo grado.

Pertanto "deve concludersi - osserva la Cassazione - che quando nel caso specifico sottoposto al suo esame il giudice competente a definire la procedura passiva di consegna instaurata da un Mae di uno stato della Ue disponga già di tutti i dati conoscitivi necessari e sufficienti per valutare la sussistenza dei presupposti sostanziali e formali (...) si rende ultroneo o non indispensabile acquisire la copia della sentenza di condanna estera divenuta irrevocabile".

Giustizia: ancora una volta problema carceri si incancrenisce

di Gian Piero Scanu

 

Europa, 20 aprile 2009

 

Ancora una volta, la condizione attuale del nostro sistema carcerario presenta aspetti di vera e propria emergenza. A fronte di spazi e strutture rimasti sostanzialmente invariati, è stato superato il muro dei 61 mila detenuti, 18 mila in più rispetto alla capienza "limite", con un trend di crescita di circa mille unità al mese, che farà raggiungere fra breve la stessa consistenza numerica del periodo immediatamente precedente l’ultimo indulto.

Il sovraffollamento delle strutture, e il conseguente deteriorarsi delle condizioni di vita dei detenuti, ma anche della polizia penitenziaria e dei dipendenti civili, sta alimentando tensioni destinate ad aumentare nella prossima stagione estiva, quella che crea maggiore allarme. Per dare un’idea della pericolosità di tale situazione, nel corso degli ultimi mesi, circa 650 poliziotti penitenziari sono rimasti feriti a seguito di aggressioni subite da detenuti e 80 di loro hanno riportato lesioni con prognosi superiori ai 30 giorni. Nel frattempo, non si sa più nulla del piano carceri annunciato con grande enfasi lo scorso gennaio dal ministro Alfano, che prevedeva la costruzione di nuovi istituti penitenziari con l’aumento di 17 mila posti entro il 2012.

Anzi, a causa dei tagli indiscriminati operati dal governo Berlusconi, due istituti penitenziari, di Bergamo e Reggio Calabria, da poco ampliati grazie al precedente governo Prodi, non possono aprire le nuove sezioni perché manca il personale necessario. E qui passiamo alla seconda riflessione:gli organici della polizia penitenziaria, a causa dei tagli al comparto sicurezza dell’attuale governo, invece di aumentare proporzionalmente alla crescita della popolazione carceraria, sono diminuiti drammaticamente, con una carenza stimata in almeno 5 mila unità. Con la conseguenza che il personale di servizio negli istituti penitenziari è sempre più soggetto a condizioni e carichi di lavoro inumani e sorretto solo dalla propria professionalità e dal proprio attaccamento alle istituzioni. Invece di giocare alle ronde e alla caccia all’immigrato, questo governo dovrebbe allora immediatamente riavviare le assunzioni e colmare il deficit di una pianta organica, ormai inadeguata. Possono essere attuati interventi anche nell’immediato. Più di 200 allievi agenti potrebbero essere immessi in servizio in pochissimo tempo abbreviando il corso di formazione.

Sempre a causa dell’inerzia del governo, 400 educatori, già vincitori di concorso, non sono stati ancora assunti e attendono da mesi. Ma non è solo un problema di risorse. Le nostre carceri vivono una situazione drammatica per carenza di strutture e di personale, ma anche perché il sistema delle sanzioni penali è completamente inadeguato all’obbiettivo previsto dalla Costituzione: rieducare, reinserire, riportare il detenuto dentro un contesto civile. Affrontare il problema della popolazione carceraria e del sovraffollamento vuol dire anche affrontare le politiche che determinano tale sovraffollamento. È evidente che quest’ultimo sarà destinato ad aumentare sempre più se le carceri continueranno ad essere considerate alla stregua di discariche in cui versare tutti gli esclusi sociali e i soggetti deboli della società.

Il 37% dei detenuti è di nazionalità straniera. Il 29,5% è detenuto per reati contro il patrimonio (percentuale sostanzialmente analoga a quella dei loro "colleghi" italiani), per il 24,8% si tratta di reati legati alla normativa sulle droghe e nel 19,2% di reati contro la persona. Dunque, quasi la metà dei detenuti stranieri si trova in carcere per reati contro il patrimonio o per detenzione e spaccio di stupefacenti. Ciò vuol dire che vengono avviati al circuito penale sempre più spesso i soggetti deboli, quelle categorie di persone che incontrano maggiori difficoltà nell’accesso ai diritti e alle garanzie. E tra questi soprattutto gli stranieri, nei cui confronti vengono spesso intrapresi percorsi penali differenziati rispetto a quelli riservati agli italiani.

Alla base di questa situazione vi sono certamente scelte di politica di repressione del crimine e di gestione del fenomeno dell’immigrazione, ma anche problematiche specifiche del sistema giudiziario e penale italiano (garanzie di difesa meno tutelate, difficoltà linguistiche, di comunicazione e di scarsa conoscenza del sistema giuridico). Infine, a parità di imputazione o di condanna la permanenza in carcere degli stranieri è mediamente più lunga di quella degli italiani, sia in fase di custodia cautelare che dopo la sentenza.

Il percorso di riforma del sistema penitenziario e, in generale, della giustizia è sicuramente lungo, complesso ed anche finanziariamente oneroso. Ma un paese realmente democratico deve potersi reggere su un sistema giudiziario e penitenziario certo, giusto e rieducativo. Il governo Prodi aveva tentato di intraprendere quel difficile percorso, anche attraverso una seria concertazione con le organizzazioni rappresentative degli operatori del settore avviata con il Patto per la sicurezza. Oggi, la politica degli annunci di Berlusconi rischia di far incancrenire i problemi, mortifica il personale, alimenta l’illegalità e l’insicurezza.

Giustizia: un "viaggio" nella solitudine degli stranieri detenuti

 

Redattore Sociale - Dire, 20 aprile 2009

 

Giovani, uomini e senza legami sul territorio: viaggio dentro l’ex Vallette di Torino. Straniero il 73% dei 1.664 reclusi; sono soprattutto marocchini e rumeni. I reati: spaccio, violazioni alla legge sull’immigrazione, furti e rapine.

Sono giovani, uomini e senza legami sul territorio. Gli stranieri richiusi alla casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino (ex Vallette) sono sempre più numerosi, addirittura il 72-73% della popolazione carceraria (1508 maschi, 94 femmine), e la percentuale aumenta ogni anno: 43% nel 2007, 29,5% nel 2001 e 17,7% del 1995 (dati Ristretti Orizzonti). La casa circondariale è strapiena; i detenuti attualmente sono più numerosa che prima dell’indulto: 1664 attuali contro i 1584 dell’agosto 2006. Gli stranieri nel carcere di Torino provengono soprattutto dal Marocco (215 uomini, 4 donne), Romania (114 uomini, 8 donne), Nigeria (85 uomini, 10 donne), Tunisia (21 uomini), Algeria (40 uomini), Gabon (94 uomini). Sono aumentati, in questi ultimi anni, le presenze di persone dal Niger e dalla Nigeria e, se 15 anni fa i detenuti dalla pelle scura erano rari, oggi sono tantissimi. I reati principali: spaccio di stupefacenti, violazione della legge sull’immigrazione, furti e rapine. La maggior parte di loro non ha radici qui: non una famiglia che possa venirli a trovare (spesso è lontana), né una casa dove tornare. Molti non hanno documenti, e questo comporterà grosse difficoltà di inserimento una volta usciti dal carcere. Redattore Sociale è entrato all’ex Vallette per ascoltare le loro storie.

 

Per gli stranieri più difficile il ricorso alle misure alternative

 

La condizione degli stranieri in carcere è difficile: una ricerca di Ristretti Orizzonti di qualche anno fa parla dello scarso uso dei domiciliari, di "sfollamenti" da un carcere all’altro, di mediatori e interpreti che non sempre ci sono, ma soprattutto di solitudine. È vero oggi? Difficile a dirsi, sicuro è che gli stranieri in Italia sono spessi soli, ovvero non hanno una casa, un datore di lavoro o una famiglia da cui tornare. Essendo irregolari non hanno riferimenti esterni, non ci sono le condizioni adatte per i domiciliari, quindi spesso è una questione pratica, anche per i permessi premio. Difficile poi il reinserimento a fine scarcerazione.

"Se sai dove vanno, se hanno magari dei figli e una famiglia, è più facile mandarli fuori, anche solo per un permesso premio; - dichiarano alla casa circondariale Lorusso e Cutugno - se non hanno riferimenti sul territorio è più arduo. E gli stranieri soli sono molto più numerosi degli italiani soli. Hanno un percorso più difficile: senza un domicilio preciso, un riferimento sul territorio, è uno svantaggio". E questo problema favorisce anche il fenomeno dei falsi matrimoni: tanti vedono lo sposare una donna italiana come la soluzione. Si sposano, hanno un figlio, rimangono in Italia.

I colloqui con i parenti sono impossibili quando la famiglia è all’estero perché il viaggio è spesso troppo costoso da affrontare e anche il telefono è uno strumento difficile di comunicazione, e questo perché si richiede un telefono fisso intestato ai parenti, mentre ormai la maggioranza delle persone possiede solo un cellulare. In Italia è più facile ottenere la documentazione per richiedere il fisso, mentre per l’estero l’iter burocratico diventa complicato e richiede tempo. Esiste poi, ed è grande, il problema della lingua e della cultura: diverse etnie sono presenti e i mediatori culturali sono legate a risorse, che non sempre ci sono. Anche per le telefonate, quelle che per reati più gravi sono ascoltate per legge, c’è bisogno di un interprete, e non sempre è facile averlo.

La separazione degli stranieri dagli altri, si tende ad evitarla, per non creare delle sezioni "ghetto", e questo si spiega anche trattando altri due aspetti fondamentali, all’interno del carcere: i soldi e il lavoro. Il lavoro nelle sezioni si chiama "intramurario", e significa posti remunerati che riguardano dei servizi, come ad esempio le pulizie. Sono posti limitati, anche partime, ma importanti. Perché se non ho la famiglia che mi manda i soldi, come nel caso di tanti stranieri, in questo modo posso guadagnare qualcosa. Avere soldi è importante, per comprare sigarette e cibo, oltre ai generi alimentari e ai beni non forniti dal carcere.

Niente soldi cash per i detenuti, che non possono maneggiarne, ma conti correnti interni, grazie ai quali ci si può comprare roba da mangiare, dentifricio, spazzole,ecc., integrando i beni forniti dal carcere. "È anche l’idea, importante - raccontano alle ex Vallette - che possono scegliere di comprarsi qualcosa. E questo lo possono fare solo se hanno denaro".

Il denaro arriva in due modi: lavorando o tramite i familiari, e in una sezione, chi non lavora o non ha una famiglia (che durante i colloqui gli possa portare denaro o ne possa inviare con dei vaglia), potrà chiedere al compagno più fortunato almeno di condividere le sigarette in base ad una legge di solidarietà interna. Con la riduzione drastica dei posti di lavoro retribuito all’interno del carcere, dovuta al taglio dei fondi, la turnazione anche di posti part-time è diventata ancora di più un miraggio soprattutto per chi non ha altre risorse alzando inevitabilmente la tensione. Fondamentale allora una mescolanza nella sezione, dove anche chi non ha soldi possa non rimanere escluso. "Anche per questo motivo si mettono insieme italiani e stranieri, facendo però anche attenzione che non ci sia la predominanza di un gruppo e che ci sia compatibilità tra etnie".

 

L’Italia… "il sogno di un paese d’oro"

 

"No, in Algeria non ci voglio tornare". Ha ancora un anno e mezzo da scontare, ha solo 25 anni, ma ha un futuro molto difficile. Perché una volta terminata la pena, uscito dal carcere, non avrà la possibilità di mettersi in regola. Niente permesso di soggiorno, niente casa, niente lavoro e allora? In patria non vuole tornare, non vuole mostrare ai suoi parenti e amici che ha fallito. La storia di T. è uguale a quella di tanti altri, e lascia poche speranze di recupero. Il denaro come valore, il successo che si misura in guadagni, bella macchina, simboli di riuscita sociale. E non si può mostrare di essere andati e tornati senza niente.

Quando T. decise di lasciare l’Algeria era poco più di un ragazzo, aveva 17 anni e lo fece senza dirlo ai genitori: "Volevo cambiare paese, da noi vedevo gente tornata dall’Europa e dagli Stati Uniti con auto lussuose, ragazze belle e soldi". È da 5 anni in Italia, da 2 in galera. È venuto nel nostro paese da solo, e non aveva niente da fare, quindi è stato coinvolto in affari poco puliti, spaccio. È arrivato per nave, in Spagna, poi in Francia e da lì in Italia, dopo una settimana di viaggio. "Il sogno era l’Italia, paese di oro". Adesso lavora per la Cooperativa Ergonauti, l’officina meccanica che con la GTT ripara pezzi di autobus, ed ha imparato un mestiere. Purtroppo però sarà difficile spenderlo fuori. Vorrebbe una ragazza per sposarsi, ma in Algeria, ripete, non ci torna. Qui è solo, i suoi non possono telefonargli, perché hanno solo il cellulare, non vengono a trovarlo, ma scrivono. Se in carcere c’è differenza di trattamento tra gli stranieri e gli italiani? "No, siamo tutti uguali".

Non la pensa così Daniel (il nome è di fantasia), che prima di iniziare a lavorare a Pausa Cafè, pativa molto: "La differenza fra italiani e stranieri è tanta: a noi facevano fare solo mansioni basse, come lo scopino". E poi c’è il problema della lingua: "Per migliorare il carcere per gli stranieri bisognerebbe ascoltare, far studiare. È vero però che tanti vogliono solo stare in cella a far niente". Lui è uno di quelli che ce l’ha fatta, lavora a Pausa Cafè e finirà la sua pena fra pochi mesi, dopodiché cercherà di spendere fuori le competenze acquisite, oppure tornerà a casa. Una storia particolare, la sua. Da una vita piena di promesse nel mondo dorato del calcio alle Vallette. È un ragazzo quasi timido, con la pelle nera nera, nato a Parigi negli anni ottanta e ora racconta la sua storia, ritenendosi ancora fortunato di avere trovato un lavoro in carcere. "Sono in Italia dal ‘96 - racconta in italiano - prima giocavo a calcio in serie D, poi mi sono infortunato. E tutto è cambiato". Trovatosi senza lavoro è finito in giri loschi, e i campi di calcio li ha dimenticati.

Una storia d’amore finita male è stata invece la causa della rovina di un altro giovane, marocchino, arrivato in Italia nel ‘94, quando aveva 8 anni. Ha l’accento torinese, la fine della sua pena è lontana, e di più non ci è dato di sapere, perché è l’unico argomento che non possiamo trattare. Una storia d’amore malata l’ha fatto finire nel giro della droga: dalla cannabis alla dipendenza. "Non vai più a lavorare, finisci in giri sbagliati senza rendertene conto". Anche lui lavora a Pausa Cafè, è preoccupato per quando finirà di scontare la pena: è irregolare e non può quindi avere un lavoro in regola. Per adesso lavorare lì gli piace: "Mi sembra di fare una vita normale, però quando finisco la giornata mi rendo conto che rientro nel blocco, e lì è tutta un’altra vita. sono fortunato ad aver avuto questa opportunità: nelle ore d’aria al massimo si giocava a pallone o a carte, le ore passavano senza far niente, se non cucinare o guardare la tv". Nelle sezioni "normali", è difficile sia per gli italiani che per gli stranieri. "Dipende dalla persona. La prigione, le sbarre, hanno un ruolo, influenzano l’individuo. E alcuni ricevono un’influenza negativa: se sono fissati con qualcosa di brutto come la droga, il proprio positivo viene influenzato nel peggio. È difficile passare dal negativo al positivo, fino a che uno non vede chiaro: e capisce che non solo il denaro è importante, lo è di più passeggiare su un prato o portare la propria famiglia al mare".

Giustizia: Uil; a Trapani rivolta detenuti... feriti cinque agenti

 

Ristretti Orizzonti, 20 aprile 2009

 

Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil Pa Penitenziari, commenta con forte preoccupazione il tentativo di rivolta posto in essere, nel tardo pomeriggio odierno, dai detenuti della Sezione Mediterranea (ove sono allocati la gran parte dei detenuti extracomunitari) della Casa Circondariale di Trapani.

"Ora la situazione è tornata sotto controllo , ma quanto accaduto deve far riflettere sull’opportunità di interventi immediati atti a deflazionare il grave sovrappopolamento delle carceri italiane o episodi come quello registratosi questa sera saranno cronaca quotidiana. Intanto registriamo il ferimento di ben cinque agenti penitenziari, di cui uno in modo molto grave per la frattura scomposta dell’avambraccio destro letteralmente spezzatogli da un detenuto rivoltoso. Gli altri quattro agenti hanno riportato prognosi dai 5 ai 10 giorni"

Nel pomeriggio odierno presso la Casa Circondariale di Trapani sono arrivati venti detenuti provenienti da altri istituti siciliani. Quando il personale di polizia ha cercato di allocare i primi detenuti nelle celle della sezione, cinque detenuti tunisini hanno aggredito i poliziotti e fomentato la protesta di tutta la sezione. I detenuti hanno cominciato a battere sulle porte blindate pentolame e hanno dato vita ad una rumorosissima protesta, sedata a fatica dal personale. I cinque detenuti responsabili delle aggressioni sono stati tratti in arresto e isolati in attesa delle procedure disciplinari e penali.

"È chiaro che se in celle dove al massimo possono trovare ospitalità quattro persone se ne debbono allocare sei, mancano gli spazi e persino l’aria - sottolinea il Segretario della Uil Pa Penitenziari - ciò non può in ogni caso giustificare atti di violenza in danno del personale cui va tutta la nostra solidarietà e vicinanza. Voglio sperare che l’intervento clinico d’urgenza al collega a cui hanno spezzato un braccio si risolva positivamente."

La professionalità e il sangue freddo del personale e dell’Ispettrice di turno ha evitato il degenerare della protesta. Nella Sezione Mediterranea, con gli ultimi venti arrivi, la conta pomeridiana ha fatto registrare quota 316 presenze fronte di una capienza massima pari a 180 posti. Nell’istituto la conta ammonta a 502 a fronte di una capienza massima prevista di 282 detenuti

"Ma non sempre possiamo far affidamento sulla buona sorte o sulle capacità del responsabile di turno. Questo pomeriggio a Trapani c’erano solo sei agenti addetti al controllo di circa 320 detenuti, ed è la condizione che si registra in tutti gli istituti della penisola. Deve far riflettere - prosegue Sarno - che la protesta è stata sedata con l’ausilio di non più di una quindicina di agenti, ovvero tutta la forza in servizio al momento. Con questi parametri se non si soccombe è solo perché il personale sa agire con professionalità e tempestività . Ma per il futuro potrebbe non bastare"

La Uil Penitenziari da tempo ha lanciato l’allarme sulla possibile ingestibilità degli istituti di pena ed Eugenio Sarno ancora una volta rivolge appello alla politica perché calendarizzi un dibattito parlamentare

"Dopo quanto accaduto a Trapani il Ministro Alfano , il Governo e tutto il Parlamento hanno il dovere di aprire immediatamente un confronto parlamentare sulle possibili soluzioni per evitare una catastrofe annunciata. L’emergenza penitenziaria va risolta con interventi immediati e mirati. Strutturali e normativi, non certo con i pannicelli caldi e le improvvisate soluzioni paventate dal Capo del Dap che crede di poter incidere sulla crisi del sistema chiudendo gli spacci.

Occorrono almeno cinquemila agenti e a dichiarare ciò non è solo il sindacato ma la stessa amministrazione penitenziaria. Per questo - chiosa il Segretario Uil penitenziari - la politica ha il dovere di intervenire con immediatezza prima che il vulcano penitenziario erutti con tutta la sua virulenza. Facciamo,pertanto, nuovamente appello al Presidente Berlusconi, al Ministro Alfano ai Presidenti Fini e Schifani, ai leader dell’opposizione Franceschini, Casini e Di Pietro affinché concordino un dibattito parlamentare urgente. Il tempo è oramai scaduto e le rivolte sono alle porte. Non aspettino il morto prima di intervenire perché le responsabilità politiche, amministrative e morali saranno ben determinate e non ci saranno alibi che tengano. Debbono comprendere che siamo di fronte ad una emergenza nazionale, come testimoniano i circa 670 poliziotti penitenziari feriti negli ultimi dodici mesi".

Giustizia: Alfano; incidenti prova problemi del sovraffollamento

 

Adnkronos, 20 aprile 2009

 

Gli incidenti avvenuti due giorni fa al carcere di Trapani tra detenuti e guardie penitenziarie e che hanno provocato il ferimento di alcuni agenti sono "una prova di come il sovraffollamento nelle carceri possa destare preoccupazione". Ne è convinto il ministro della Giustizia Angelino Alfano che commenta così quanto accaduto a Trapani. "Ho parlato questa mattina con il provveditore delle carceri siciliane - ha detto Alfano - che mi ha rassicurato sul fatto che la situazione è sotto controllo".

Giustizia: Sappe; 62mila detenuti e pochi agenti per controllo

 

Ristretti Orizzonti, 20 aprile 2009

 

Al Capo del Dap

Al Ministro Guardasigilli

 

Il Sappe ritiene necessario esprimere la massima preoccupazione per i reiterati episodi di aggressione che vengono segnalati, con notevole frequenza, da diverse sedi penitenziarie, e che ripropongono inevitabilmente la grave carenza organica del Corpo di Polizia Penitenziaria.

E, infatti, questa una delle principali cause che impediscono adeguati livelli di sicurezza negli istituti penitenziari e in tutti i servizi istituzionali oltre all’impossibilità di garantire i diritti soggettivi del personale, sanciti nella normativa contrattuale e pattizia.

Si richiamano, in particolare, le situazioni allarmanti dei seguenti istituti: Sulmona, Trapani, Torino, Milano; "San Vittore", Napoli "Poggioreale", Bari, Lecce, Rossano, Bologna, Genova "Marassi", Sanremo, Firenze "Sollicciano", Roma "Nuovo Complesso", Roma "Regina Coeli", Spoleto e Perugia.

Sul punto si ritiene doveroso richiamare brevi considerazioni che, in realtà, il Sappe ha già formulato in precorsa corrispondenza. Nello specifico, si ritiene necessario muovere un complessiva e preliminare osservazione: invero, sono ormai inadeguati i contenuti del D.M. 8 febbraio 2001, che ha elaborato le piante organiche con riferimento ad esigenze operative ormai superate e radicalmente trasformate. Ciò vale a maggior ragione a seguito dell’incessante incremento della popolazione detenuta, che ormai ha superato le 62.000 unità, imponendo, in molti istituti, una completa riorganizzazione delle sezioni.

Da tale valutazione non può non discendere una sostanziale inadeguatezza di tutte le successive procedure di attuazione e di integrazione numerica dei contingenti locali. Ulteriore doglianza attiene alle modalità di immissione nel Corpo di Polizia Penitenziaria di personale che ha già partecipato a corsi di addestramento e di formazione presso il Ministero della Difesa: in merito, i ritardi nelle connesse procedure concorsuali e di formazione sono considerevoli, tanto che per i fini strettamente operativi, tale personale potrà essere effettivamente impiegato solo dopo molti mesi. La situazione è destinata inevitabilmente ad aggravarsi con ravvicinarsi delle ferie estive, quando si intensificheranno le carenze e le tensioni; occorre procedere con urgenza ad un monitoraggio delle iniziative per limitare e prevenire che nelle strutture di detenzione si verifichino, episodi di intolleranza e di aggressività, ancor più gravi e non controllabili. Distinti saluti.

 

Il Segretario Generale

Dott. Donato Capece

Giustizia: Cgil; fare rientrare negli Istituti gli agenti "distaccati"

 

Ristretti Orizzonti, 20 aprile 2009

 

Affidamento degli spacci a ditte esterne: la Fp Cgil chiede di affrontare prima il problema reale, il rientro negli istituti dei distaccati presso il Dap, i Prap, le Sfap e gli Uepe.

Sembrerebbe che l’Amministrazione Penitenziaria intenda affidare gli spacci a ditte esterne per recuperare personale di Polizia Penitenziaria da utilizzare per dare corpo al piano carceri in cui è prevista l’apertura di nuovi istituti. Questo, sempre a parere dei vertici del Dap, consentirebbe di recuperare 500 unità. A parte i dubbi che solleviamo in merito alla fattibilità di una mobilità da effettuare in conseguenza della chiusura dei suddetti spacci, quello che nessuno dice è che, a seguito della chiusura degli stessi, entreranno nelle casse dell’ente assistenza 3 milioni in meno ogni anno - ciò significa il taglio di molti dei vantaggi offerti al personale e ai loro familiari - e molti colleghi rischiano di non poter usufruire più del relativo servizio o di poterlo fare a costi molto più alti. In sostanza, su chi grava l’onere dell’operazione? Sul Poliziotto Penitenziario.

Nello stesso tempo si evita di affrontare le reali cause che hanno portato alla drammatica carenza di personale che grava sugli istituti penitenziari: i distacchi disposti dall’amministrazione per motivi di servizio in uscita dal carcere ed in entrata verso il Dap, i Prap, le Sfap e gli Uepe.

In tal senso la Fp Cgil ha scritto al Capo del Dap dichiarando da subito la propria indisponibilità ad operazioni che si discostino da quanto concordato con le altre OO.SS. in data 13 marzo u.s. ed invitandolo, al fine di evitare ulteriori perdite di tempo, a predisporre con urgenza la convocazione di un incontro in cui si tratti il primo e più importante dei temi da affrontare per dare risposte concrete al grave problema della carenza di personale, ossia il rientro dei distacchi disposti per ragioni di servizio, per dare un segnale tangibile di un nuovo corso nell’agire dell’Amministrazione Penitenziaria, conforme alla normativa contrattuale ed efficace nell’affrontare l’emergenza.

Torino: contro il sovraffollamento detenuti alloggiati in palestra

 

Redattore Sociale - Dire, 20 aprile 2009

 

Il direttore: "Il nostro mestiere è di dovere affrontare sempre problemi e le cose si complicano quando i numeri diventano cospicui e iniziano ad esserci problemi di spazio".

Per il direttore della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino Pietro Buffa, l’emergenza carcere non è una novità. "Le condizioni di vita in carcere non sono facili. Il nostro mestiere è di dovere affrontare sempre problemi, e le cose si complicano quando i numeri diventano cospicui e iniziano ad esserci problemi di spazio. Mi risulta difficile pensare ad un carcere che non sia una questione complessa da gestire. Sul sovraffollamento i numeri sono chiari. Sia complessivamente che nel particolare, i numeri aumentano. Il giorno prima dell’indulto erano 1.584". Le soluzioni? Una massima razionalizzazione dell’uso degli spazi, laddove erano poco utilizzati, l’accorpamento di sezioni in cui i detenuti, per vari motivi, venivano separati, l’uso di spazi d’appoggio, come palestre, in attesa di collocazioni corrette.

Poi ci sono le carcerazioni brevissime, arrestati portati in carcere per pochi giorni invece che nelle camere di sicurezza. Per Buffa è necessario "trovare situazioni esterne all’istituto (idonee e autonome) che possano essere adibite a camere di sicurezza, dove lasciare le forze dell’ordine in modo che queste persone non accedano immediatamente in carcere". Le persone che devono rimanere a disposizione dell’autorità giudiziaria devono infatti essere trattenute non in carcere ma nelle camere di sicurezza delle forze di Polizia che operano gli arresti. "Una questione annosa, perché per vari motivi la Polizia non riesce a farlo e tutte le persone vengono condotte in carcere. E una parte di queste rimangono pochissimo e aumentano i numeri", spiega il direttore.

La cella sono 3 metri per 2, con annesso un bagno, e al massimo ospita due persone. "Abbiamo scelto di non metterne tre; preferiamo aprire una palestra, perché per quanto sia una situazione assolutamente precaria, offre spazio e c’è più mobilità e socialità". Non ci sono stati episodi di violenza a causa del sovraffollamento, racconta Buffa. Che ci siano screzi, questioni, quello sì, ma aldilà dei numeri. Neanche problemi di ordine razziale, nella commistione fra italiani e stranieri: "Ci sono contrapposizioni di ordine criminale, prevalenza di un interesse rispetto ad un altro. Litigi dovuti ad una normale vita di una galera".

Como: il "Bassone" scoppia, e il 60% dei detenuti è straniero

di Mauro Peverelli

 

Corriere di Como, 20 aprile 2009

 

Una popolazione straniera che sfiora il 60%. La capienza della struttura ben oltre la tollerabilità. E, buon ultimo, un numero di agenti del 25% più basso rispetto al dovuto.

È questo il quadro poco confortante del carcere del Bassone dipinto ieri mattina dal nuovo comandante della Polizia Penitenziaria di Como, il vicecommissario Antonio Angelo Boi. Una struttura "concepita per 180 detenuti", portata poi a una capienza di 300 reclusi ma in questi mesi "oltre la tollerabilità". La popolazione della casa circondariale di Albate è oggi di 545 detenuti (tra cui 53 donne chiuse nella sezione femminile), con 273 già condannati in modo definitivo. A far fronte a questi numeri c’è poi il dato della polizia penitenziaria che conta su 232 agenti (204 nella sezione maschile, 28 in quella femminile) rispetto ai 308 previsti dal decreto ministeriale.

"Eppure, nonostante questo, la struttura del Bassone si distingue per essere un carcere "trattamentale" - commenta il comandante Boi - con una grande attenzione ai progetti di reinserimento sociale. Qui le attività sono molteplici, dalla scuola elementare e media ai corsi di formazione professionale, fino agli eventi di intrattenimento all’interno della struttura".

Tutte iniziative che "pongono il Bassone tra i penitenziari in cui la "recidiva", ovvero la propensione del detenuto a ripetere il reato, è tra le più basse d’Italia". Ma anche i gesti di autolesionismo - che vanno dal semplice taglio al tentativo di suicidio - sono drasticamente calati. "Un anno fa i numeri parlavano di una ventina di episodi al mese - continua il nuovo comandante della Polizia Penitenziaria, in carica da due settimane - mentre ora abbiamo registrato una diminuzione del 50%". Dati che si spiegano con "l’alta professionalità del corpo, che non solo controlla i detenuti ma che svolge anche funzioni di polizia penitenziaria".

I primi giorni di aprile hanno infatti portato gli agenti a concludere felicemente l’operazione "Pesce d’Aprile" che ha consegnato alla giustizia due donne - la madre e la convivente di un detenuto - che avevano tentato di introdurre droga (eroina e metadone) all’interno del carcere. Entrambe sono ora nella sezione femminile del Bassone. Un 21enne pakistano è stato invece denunciato a piede libero perché, in visita al fratello, è stato trovato in possesso di una piccola quantità di hashish. Operazioni rese possibili grazie all’impiego dell’unità cinofila.

Tornando ai gesti di autolesionismo, sono calati ma pur sempre presenti. Tanto che la stessa polizia penitenziaria ne ha sventati due in pochi giorni: il primo da parte di un cittadino della Repubblica Dominicana, preso in tempo, il secondo di un cittadino italiano che ha richiesto l’intervento del 118 e un successivo ricovero d’urgenza in ospedale. Entrambi gli episodi si sono conclusi positivamente.

Il vicecommissario Antonio Angelo Boi, che si è presentato ieri alla stampa, arriva dal comando della polizia penitenziaria del carcere di Biella. Nato a Piacenza 38 anni fa, ma originario di Sassari, è laureato in Scienze politiche e, prima dell’esperienza in Piemonte, ha prestato servizio in importanti istituti penitenziari della Penisola, come la casa circondariale "Le Vallette" di Torino, "San Vittore" a Milano, "San Michele" di Alessandria e la casa di reclusione di Terni dove tra l’altro è presente una sezione del 41-bis, ovvero quella che prevede il "carcere duro" per i mafiosi e i detenuti per reati di criminalità organizzata.

Cuneo: scossa di terremoto paura in carceri di Alba e Fossano

 

Ansa, 20 aprile 2009

 

Momenti di paura sono stati vissuti tra i detenuti del carcere di Fossano (Cuneo) durante la scossa di terremoto che è stata avvertita oggi: tutti i reclusi del terzo piano hanno abbandonato le celle, che erano aperte, e si sono precipitati nel corridoio. L’epicentro, peraltro, è stato localizzato a pochi chilometri di distanza.

Nel carcere di Alba (Cuneo), anch’esso vicino all’epicentro, alcuni presenti hanno riferito che i monitor della sala riunioni "a forza di vibrare si toccavano". E sulla eventualità che il fenomeno si ripeta con intensità pari o maggiore, il presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) Enzo Boschi ha rassicurato la popolazione dicendo che il Piemonte è una zona a "bassa pericolosità sismica, ma è molto probabile che alla scossa avvertita nella zone di Bra alle 14.39 seguiranno nelle prossime ore altre scosse di intensità pari o minore". In ogni caso Boschi ha anche esortato ad "evitare la psicosi".

L’Aquila: detenuti in permesso da Roma, cucinano per sfollati

 

Asca, 20 aprile 2009

 

I detenuti Carmelo e Giampiero (pugliesi), col calabrese Pasquale ed il campano Raffaele, hanno rinunciato al permesso premio da trascorrere in famiglia per venire in Abruzzo a portare il loro aiuto alle popolazioni terremotate.

Hanno rinunciato al permesso premio da trascorrere in famiglia per venire in Abruzzo a portare il loro aiuto alle popolazioni terremotate. Sono quattro detenuti del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso che da ieri lavorano come cuochi nelle cucine del campo base della Croce Rossa Italiana a L’Aquila. Carmelo e Giampiero, pugliesi, Pasquale, calabrese, e Raffaele, campano di Pompei, sono stati formati in carcere e già lavorano da novembre 2003 come cuochi e pizzaioli nella cucina di Rebibbia, gestita da un Ati (Cooperativa Sociale Men at Work e e-Team) che sforna due pasti al giorno per circa 1.500 detenuti.

Saputa dell’emergenza in Abruzzo, i quattro hanno espresso il desiderio di poter dare un loro contributo e, grazie all’interessamento della stessa cooperativa, dell’Ufficio sociale del progetto ristorazione di Rebibbia e dell’Associazione "Volontari in carcere" (Vic), sono stati arruolati nelle cucine del campo base della Croce Rossa, nel cortile interno dello stabilimento FinMec dell’Aquila, dove fanno base per vitto e alloggio i 550 operatori volontari della Cri, impegnati nelle attività di soccorso e di sostegno alle popolazioni in tutta l’area interessata dal sisma.

"Il presidente dell’Ati e tutti gli operatori esterni impegnati nel Progetto Ristorazione - spiega Alberta Ianni, da 14 anni impegnata con l’associazione Vic - non hanno avuto la minima esitazione nel farsi portavoce di questa iniziativa, accolta con estremo favore e sensibilità del direttore dell’istituto, Carmelo Cantone, dai giudici del Tribunale di Sorveglianza di Roma e della polizia penitenziaria. "Sono ragazzi in gamba e sensibili - aggiunge Alberta, riferendosi ai quattro detenuti-cuochi -. Appena hanno visto in televisione che cosa era accaduto e quanto ci fosse bisogno di aiuto si sono messi a disposizione".

E la conferma della loro sensibilità viene dalle prime parole di Carmelo, il più giovane e il meno riservato di loro, che subito si presta a raccontare la loro esperienza. "Ma non parlate solo di noi, parlate anche di loro - dice rivolto a tutti gli altri volontari impegnati nel container-cucina -. Qui si sfornano 3mila pasti a giorno e questi giovani lavorano ininterrottamente da settimane, senza neanche mostrare di accusare la fatica. Mi spiace che potremo aiutarli solo per una settimana, qui l’emergenza durerà per molti mesi". E se vi dessero una proroga? "Noi saremmo lieti di restare - dice Giampiero -. Qui ci siamo trovati subito bene. Ci hanno accolto con la massima cordialità e disponibilità, senza nessuna diffidenza. E questo lo apprezziamo molto. E poi - conclude - qui ci sentiamo utili davvero, molto più che nelle cucine del carcere".

Alberta non si sbilancia: "vediamo.... è una prova. Per il momento sta andando tutto bene. Magari una proroga se la guadagnano sul campo". La provocazione del cronista è d’obbligo: non è che poi ve la date a gambe? "Scappare di qui? Non ci pensiamo nemmeno", commentano all’unisono, sorridendo e rinforcando la cuffia bianca per tornare ai fornelli.

Palermo: 11 ragazzi dal Circuito Penale, assunti da Fincantieri

 

Agi, 20 aprile 2009

 

Alla presenza del ministro della Giustizia, Angelino Alfano, e dell’amministratore delegato di Fincantieri, Giuseppe Bono, stamattina, presso lo stabilimento Fincantieri di Palermo, è stata formalizzata l’assunzione di undici giovani provenienti dal circuito penale minorile.

I ragazzi, che nel corso di una breve cerimonia hanno ricevuto la lettera di assunzione dal capo azienda, lavoreranno con la qualifica di saldo-carpentiere presso gli stabilimenti produttivi del gruppo dislocati in tutto il territorio nazionale. L’assunzione giunge al termine di un percorso formativo, avviato sulla base di un Protocollo d’intesa tra ministero e azienda, rivolto a giovani di età compresa tra i 17 e i 21 anni.

Hanno completato il ciclo di apprendimento 11 ragazzi i quali, avendo conseguito il brevetto per la mansione di saldo-carpentiere, sono stati assunti a decorrere dal corrente mese con un contratto di inserimento della durata di 18 mesi. Il percorso formativo di addestramento, progettato e finanziato da Fincantieri, si è tenuto presso la sede di Palermo del Centro Interaziendale Addestramento Professionale Integrato-Ciapi.

In questa iniziativa si è registrata una fattiva collaborazione tra Fincantieri e il Dipartimento di Giustizia minorile del ministero, che si propone non solo di garantire la certezza della pena, ma anche di tutelare i diritti soggettivi, promuovere i processi evolutivi adolescenziali e perseguire la finalità del reinserimento sociale e lavorativo dei minori sottoposti a provvedimenti penali. Infatti, oltre a rilevare il fabbisogno formativo dei ragazzi coinvolti nel progetto, il Dipartimento ha fornito supporto tecnico-operativo per la definizione e l’organizzazione degli interventi, monitorando i risultati ottenuti.

Bollate: quando in carcere nascono fiori e viene creato design

 

Agi, 20 aprile 2009

 

Nell’hinterland milanese, è un vivaio tutt’altro che scontato. Sia per l’eccellenza delle specie botaniche coltivate, sia per il suo indirizzo. Che corrisponde alla sede di una Casa di Reclusione, un carcere, insomma.

Cascina Bollate Onlus è una cooperativa sociale, vivaio in cui giardinieri liberi e detenuti lavorano insieme. Per crescere (e vendere) le piante, ma anche (e soprattutto) per rendere il carcere una fortezza trasparente. Dove chi è dentro può guardare fuori, chi è fuori può entrare. Nel nome di un reinserimento sociale che mira a dare professionalità ai detenuti e a modificare il punto di vista dei liberi rispetto ai prigionieri. Tra un fiore e un cespo di insalata, si può anche smentire qualche pregiudizio. Qui è il come che fa la differenza. I carcerati sono soci della cooperativa, dividono responsabilità e profitti. I giardinieri sono professionisti affermati. Nessun fiore mass market (non ci trovate il ciclamino o la viola mammola, per capirci) ma una collezione di piante biologiche, selezionate e rare, a prezzi altamente competitivi.

Il progetto unico in Italia, lo avviano nel 2007 due donne speciali. Susanna Magistretti è la figlia di Vico, maestro di design del Novecento. Una laurea in storia e un passato da pubblicitaria. Quando decide di occuparsi anche lei di architettura lo fa a modo suo. Niente mobili ma paesaggi, non oggetti ma piante. Disegna giardini e terrazze, progetta si, ma il verde. Lucia Castellano è il direttore della Seconda Casa di Reclusione di Milano-Bollate: "Istituto a custodia attenuata per detenuti comuni. Con l’obiettivo istituzionale di offrire all’utenza detenuta una serie di opportunità lavorative, formative e socio - riabilitative in modo da abbattere il rischio di recidiva, favorendo il graduale, ma anche definitivo reinserimento del condannato nel contesto sociale". Crede nella pena, chi deve scontare una condanna, la sconti. Ma il tempo del carcere ritiene sia meglio applicarlo per "allenarsi alla libertà". Così ai suoi detenuti dà le possibilità di farcela, in cambio chiede impegno. Oltre al vivaio la Castellani ha avviato altre cooperative, come la ABC, che offre catering da gourmet (abc.sapienzaintavola@tiscali.it). "Lavoro e business, non beneficienza" specifica il magico direttore, come la chiama Susanna Magistretti.

Due donne, si diceva, e poi ettari di terra a disposizione, due serre riscaldate, un orto di diecimila metri quadrati, vivaisti famosi che contribuiscono alla cooperativa: come Anna Peyron, che dona le sue talee di rose antiche e di clematidi. In due anni succede che il carcere fiorisce e si apre al fuori. Il negozio interno al penitenziario adesso è aperto al pubblico. Mercoledì e venerdì, (ore 14.30-18.00) e sabato, (ore 10-12.30). Si comprano verdura e piante di stagione, si capisce un po’ meglio una realtà di disagio sociale, si fa shopping di qualità compiendo pure una buona azione. E nei mercati dei fiori d’Italia. Le prossime date: Mercatino biologico di Cargo in via Meucci 39, Milano, nelle domeniche 19 aprile, 17 maggio, 14 giugno.

Non solo piante. C’entra anche il design. A Cascina Bollate hanno inventato un orto da balcone, anzi, due. Per coltivare fragole e insalata ci sono l’orto verticale e l’orto orizzontale: hanno solide strutture di alluminio, un rivestimento in fibra di cocco e un’anima di terra. Durante il prossimo Salone del Mobile saranno in mostra (e in vendita) da Entrata Libera. Da aprile, saremo tutti giardinieri: vedere per credere.

Venezia: le magliette per la Festa dei Giovani, fatte in carcere

 

www.gvonline.it, 20 aprile 2009

 

Tra i tanti ricordi che una Festa dei Giovani lascia, oltre alle nuove amicizie, alla musica e alla gioia di una giornata vissuta assieme, c’è anche un cimelio che per un po’ rimane nei nostri armadi: la maglietta!

Dietro alla maglietta che ogni partecipante indosserà il 10 maggio a Jesolo, si nasconde una bella storia e una realtà ormai da qualche anno consolidata, quella di chi è riuscito a creare e sviluppare dei laboratori dentro alle carceri veneziane dove sono i detenuti stessi che lavorano.

Le magliette infatti proverranno proprio dal carcere maschile di Santa Maria Maggiore, all’interno del quale, grazie alla cooperativa Rio Terà dei Pensieri, è stato creato ed è nel tempo cresciuto un vero e proprio laboratorio di serigrafia. Partendo da un progetto grafico stabilito, qui si è in grado di creare la pellicola che viene incisa e sviluppata sul telaio consentendo di stampare manualmente e con cura artigianale carta ma soprattutto tessuti, dal cotone, alla seta, al velluto tenendo conto della specificità dei tessuti, dalla trama al colore, e delle caratteristiche delle tecniche di stampa.

Elena Botter, l’incaricata della cooperativa per tale progetto, racconta qualche dettaglio sull’attività. "Rio Terà dei Pensieri è nata nel 1994 con lo scopo di fornire una formazione professionale ai detenuti e per avviare una saltuaria produzione di alcuni piccoli manufatti all’interno del carcere, dando così loro l’opportunità di vivere in modo alternativo questa permanenza e ovviamente anche dare una probabilità maggiore di reinserimento nella società civile alla fine della condanna".

Non solo t-shirt, ma anche portachiavi, borse in pelle e in cuoio, cinture a Santa Maria Maggiore, dove infatti la cooperativa ha sviluppato anche un laboratorio di pelletteria che dà lavoro a 3 detenuti, assunti con regolare contratto part-time.

Nel carcere femminile, invece, trovano posto un laboratorio di cosmetica, una legatoria e la coltivazione di un orto biologico. "I bagni schiuma, le creme idratanti, i latte detergenti che creiamo - racconta Elena - hanno per base solamente materiali naturali, e si possono trovare persino negli alberghi di Venezia di elevata categoria". In alternativa agli hotel, comunque, si possono comprare il giovedì in campo S. Stefano, dove sono le detenute stesse, quelle che hanno una condanna che permette loro qualche ora di libertà, che si occupano della vendita diretta al pubblico. Così, se tre persone sono occupate in mezzo ai profumi, altre sette si danno alla coltivazione con tecniche totalmente biologiche di circa trenta tipi d’ortaggi, frutta, fiori, erbe selvatiche ed aromatiche, in uno spazio verde grande circa seimila metri quadri. I "frutti" del loro lavoro sono poi anch’essi venduti ed i proventi vengono ripartiti tra loro sette. Infine, la legatoria si occupa prevalentemente di quaderni e portacarte da camera e tutta la produzione viene fatta da una sola persona.

Dando lavoro a quasi 20 persone tra carcere maschile e femminile, ma anche di più tenendo conto del turn-over di ingressi, trasferimenti e fine pena, la cooperativa dà un regolare salario e consente così agli interessati di avere dei redditi - seppur contenuti - sufficienti a soddisfare le proprie minime necessità personali e/o per inviare un piccolo aiuto economico alle proprie famiglie.

Con un lavoro di 6-7 ore al giorno, dalle 9 alle 12 al mattino e dalle 2 alle 6 del pomeriggio, le due persone che lavorano presso il laboratorio serigrafico riescono a soddisfare le richieste di t-shirt, cappellini, felpe, borse che arrivano da parrocchie, università, Comune e Provincia, e sono ormai agli sgoccioli per terminare la produzione delle quasi 2700 magliette ordinate per la Festa dei Giovani. "Le magliette saranno dal rosso al blu, dal rosa all’arancione, dal giallo al verde acido!".

Forlì: una etichetta per vino realizzata dai detenuti del carcere

 

www.romagnaoggi.it, 20 aprile 2009

 

Nella serata di venerdì scorso al Grand Hotel delle Terme di Castrocaro è stata presentata l’etichetta di vino realizzata dai detenuti dalla Casa Circondariale di Forlì per l’azienda vinicola "Terre della Pieve" di Cesena. Sono ventidue i detenuti che partecipano al laboratorio di pittura guidato dall’artista Giuseppe Bertolino, il quale a titolo di volontariato offre le proprie conoscenze tecniche durante due incontri settimanali. Fra le loro opere, gli stessi detenuti ne hanno selezionato una, raffigurante un grappolo d’uva, che è stata utilizzata per l’etichetta del vino "A Virgilio", sangiovese superiore Doc dell’azienda "Terre della Pieve" di Cesena, prodotto per ora in mille bottiglie. Una parte del ricavato della vendita delle bottiglie verrà utilizzata per acquistare materiale per lo stesso laboratorio di pittura.

A fare gli onori di casa al Grand Hotel è stato il sindaco di Castrocaro Terme Terra del Sole, Francesca Metri, la quale ha sottolineato "la sensibilità crescente, da parte delle istituzioni, per questi percorsi di recupero". Il sindaco di Forlì, Nadia Masini, ha aggiunto: "L’auspicio è che questa attività possa essere produttiva per qualcuno di loro una volta uscito dal carcere". L’artista Giuseppe Bertolino, siciliano di nascita ma romagnolo d’adozione, ha sottolineato "il bisogno di queste persone di comunicare all’esterno delle mura nelle quali sono detenuti. Ed il loro isolamento è rotto proprio da queste iniziative". La professoressa Sabrina Fuschini, nel commentare tecnicamente il disegno stampato sull’etichetta, ha parlato di "opera realizzata con tutti i crismi artistici" e di "raffinatezza della pennellata".

Per la direttrice della Casa Circondariale di Forlì, Rosa Alba Casella, "questa iniziativa dà valore al rapporto fra carceri e territorio locale. È il segno di un percorso di integrazione sociale. All’interno del nostro istituto c’è gente che ha sbagliato e che quindi deve scontare la propria pena, ma la società ha il dovere di non abbandonare queste persone a sé stesse". Infine il Prefetto di Forlì e Cesena, Angelo Trovato, ha concluso dicendo che "in questo modo i detenuti cercano di realizzare qualcosa di positivo, anche per abbattere i pregiudizi che resistono nei loro confronti".

Libri: la storia del carcere raccontata dalla parte dei detenuti

 

Redattore Sociale - Dire, 20 aprile 2009

 

Una scelta, innanzitutto. Raccontare la storia dei penitenziari dell’Italia democratica, dal 1943 in poi, dalla parte dei detenuti. Le vicende penitenziarie, come specchio della società, viste da dietro le sbarre. É l’operazione di analisi dei documenti e sintesi dei processi storici compiuta da Christian G. De Vito con il saggio "Camosci e girachiavi. Storia del Carcere in Italia", edito da Laterza. È la prima volta che si tenta uno studio accurato di una mole di materiali su questo tema. "Una ricostruzione storica molto complessa per la diversità e la frammentarietà delle fonti", ammette lo stesso autore. In primo luogo le lettere scritte dai detenuti e mai arrivate a destinazione perché sequestrate dalle direzioni carcerarie, le cartelle personali, i registri disciplinari. Il quadro che ne emerge è un affresco delle condizioni di vita in cella, nei diversi passaggi storici, per quanto riguarda le carceri maschili. Restano fuori dallo studio di De Vito, a lungo volontario nelle prigioni di Firenze e Prato, le sezioni femminili e quelle dei minori.

Due i meccanismi che emergono, secondo Guido Neppi Modona, ex vicepresidente della Corte Costituzionale, che ha presentato il libro nella sede della Fondazione Basso, assieme a Patrizio Gonnella dell’associazione Antigone e al criminologo Massimo Pavarini. "La violenza costante tra detenuti e agenti di custodia e tra i detenuti stessi e l’emarginazione", sono i due temi sociali sullo sfondo delle tante trasformazioni penitenziarie. Dalle stagioni dei terrorismi alla modernizzazione degli anni Ottanta, alla nascita delle strutture di isolamento, che, afferma Neppi Modona, segna la divisione tra "gli irriducibili, terroristi e mafiosi, da una parte e i collaboratori di giustizia dall’altra". Secondo l’ex giudice costituzionale è negli anni ‘90 che si gettano le basi per l’emergenza attuale: "Abbondano nuove forme di indulgenza di Stato. Con i condoni c’è la fuga dalla sanzione, con l’estinzione dei reati per prescrizione c’è la fuga dal processo".

Le celle si svuotano di italiani e si riempiono, negli anni Duemila, di extracomunitari e tossicodipendenti a getto continuo. Per questo, secondo Neppi Modona, "non è bastato l’indulto, servono nuovi modelli e strumenti di assistenza adeguati, come i corsi di lingua italiana".

Dalla fase post-bellica all’indulto, "perché in alcuni momenti la popolazione carceraria aumenta e in altri diminuisce? La causa sono le scelte politiche o le dinamiche strutturali?" si chiede Massimo Pavarini. Le prigioni scoppiavano nel 1943, con 180 detenuti ogni 100 mila abitanti, il rapporto è sceso a 27 su 100 mila abitanti nel 1969, per poi risalire fino alle medie attuali di 100 su 100 mila abitanti. Il punto di svolta è nell’epoca post-sessantottina. Prima la pena era inflessibile, poi vengono introdotti elementi di modernizzazione fino alla legge Gozzini del 1986.

Ma, secondo Patrizio Gonnella, quello che emerge dalle vicende raccontate in "Camosci e girachiavi" è proprio "il fallimento del modello rieducativo e il carcere come luogo di rielaborazione del peggio". Lo stesso autore, De Vito, parla della "costanza dei processi involutivi". Negli ultimi venti anni, si è affermata in termini di sicurezza, l’idea della "perenne emergenza": dal terrorismo alla droga, a tangentopoli alla criminalità organizzata e adesso gli immigrati. "La pena si differenzia in fase esecutiva inseguendo l’emergenza del momento. Dallo Stato sociale allo stato penale, il prisonfare, con l’assenza di inclusione sociale", conclude Pavarini.

Immigrazione: si chiama "Pinar"… ma chiamatela "Exodus"!

di Lucia Annunziata

 

La Stampa, 20 aprile 2009

 

Si chiama Pinar. Ma le onde del Mediterraneo ricordano una sua sorella di molti anni fa, che vagava ugualmente senza meta, senza approdo, col suo carico di umanità a perdere, incastrata dalle logiche dei trattati internazionali nella marginalità della Storia.

Quella sorella si chiamava Exodus. Per chi è troppo giovane, ma anche per chi ha l’età del ricordo, vorrei richiamare qui quella memoria. L’Exodus salpò ai primi di luglio del 1947 da Porto Venere. Una carretta del mare, coperta di ruggine, un goffo battello che, col nome di President Warfield, era servito in Virginia, Usa, a portare turisti su e giù per il Potomac. La comandava un giovane ebreo di 27 anni. Era stata ristrutturata nel cantiere dell’Olivo a Porto Venere e si avviava verso la più grande impresa dell’emigrazione ebraica clandestina: trasportare dall’altra parte del Mediterraneo, stivati su quattro piani di cuccette, 4.515 profughi ebrei sopravvissuti all’Olocausto. Non era la prima, e non fu l’ultima, su quella rotta, ma il suo viaggio divenne il simbolo del diritto di un popolo a emigrare.

Alla fine della seconda guerra mondiale, il Golfo della Spezia divenne uno dei luoghi di speranza per migliaia di ebrei europei, uomini, donne e bambini che avevano conosciuto la persecuzione, lo sterminio, i Lager. Nello Stato ebraico, La Spezia è chiamata ancora oggi "Schàar Zion", Porta di Sion. Da questa nostra città partirono tra l’estate del 1945 e la primavera del 1948 oltre 23 mila ebrei. Ma la traversata non fu semplice. L’arrivo di profughi in Palestina era stato bloccato a un numero di 75 mila entrate in cinque anni, secondo gli accordi del dopoguerra che avrebbero dovuto fermare il conflitto arabo-palestinese. Lo Stato di Israele, in questi accordi, non era previsto. La Gran Bretagna, che aveva il Mandato per la Palestina, combatté in tutti i modi l’arrivo dei profughi ebrei.

Nel maggio del 1946 l’immigrazione clandestina ebraica divenne un caso internazionale: l’Inghilterra bloccò la partenza dal porto della Spezia di due imbarcazioni, la Fede di Savona e il motoveliero Fenice, cariche di 1.014 persone. I profughi rimasero bloccati sulle navi, in condizioni disastrose, e partirono solo grazie all’aiuto di tutta la città italiana, l’intervento dei giornalisti di tutto il mondo e la visita a bordo di Harold Lasky, presidente dell’esecutivo del Partito laburista britannico. Nella notte tra il 7 e l’8 maggio 1947 salpò quindi la nave Trade Winds/Tikva, allestita in Portogallo, con 1.414 profughi imbarcati a Porto Venere. E a luglio la Exodus, che con i suoi 4.515 passeggeri era la più grande impresa di trasferimento illegale di clandestini nel Mediterraneo.

Exodus mosse da Porto Venere, sostò a Port-de-Bouc, caricò a Sète, fu assalita e speronata dai cacciatorpediniere britannici davanti a Kfar Vitkin, proprio quando era in vista la costa della Palestina. Ci furono morti a bordo e la nave fu sequestrata dalla Corona. Gli inglesi rimandarono i profughi ad Amburgo, al campo di Poppendorf, un ex Lager trasformato in campo di prigionia per gli ebrei. Solo con la fine del mandato britannico i profughi poterono tornare in Palestina, quando la nave, insieme con altre, salpò di nuovo dal Golfo della Spezia. La vicenda fu narrata nel 1958 da un celebre romanzo di Leon Uris, e nel 1960 da un film di Otto Preminger interpretato da Paul Newman e Eva Marie Saint.

Il Mediterraneo, il mare nostro, è sempre stato l’acqua su cui galleggiano i nostri ricordi, le nostre identità e le nostre coscienze. Oggi Israele è una potenza, che desta sentimenti forti, di amore e di antagonismo. Ma allora gli ebrei erano solo una massa di persone senza nome e senza volto, senza passato e senza futuro. Il Mediterraneo fu il loro purgatorio, la loro culla ma anche la loro speranza.

La Pinar non sarà forse mai famosa come la Exodus e non passerà alla storia. Ma il suo vagare in mare stretta tra ragioni di Stato e ragioni della umanità non è molto diverso. Allora gli italiani scelsero l’umanità. Oggi fanno la stessa, giusta, scelta. Questi illegali di oggi con la pelle nera sono i nuovi ebrei che scappano dall’Olocausto nascosto della globalizzazione.

Immigrazione: l’odissea della Pinar finisce a Porto Empedocle

di Alberto Custodero

 

La Repubblica, 20 aprile 2009

 

L’odissea della nave Pinar, con i 145 migranti a bordo bloccata al largo di Lampedusa da un braccio di ferro politico fra Italia e Malta, è finita. Gli immigranti soccorsi dal cargo turco cinque giorni fa saranno accolti in Italia. Dopo essere stati trasbordati ieri notte su una corvetta della Marina militare (il cargo proseguirà per la Tunisia), arriveranno oggi a Porto Empedocle.

La decisione è stata presa ieri in serata dal ministro dell’Interno, Maroni, da quello degli Esteri, Frattini, in stretto coordinamento con il premier Berlusconi che ha consultato sia il commissario europeo Barroso, sia il primo ministro maltese Gonzi. Maroni e Frattini hanno precisato che la loro è una decisione "esclusivamente umanitaria" da non intendersi "né come un precedente, né quale riconoscimento delle ragioni addotte da Malta". Ma sono stati costretti ad accogliere in Sicilia il cargo "dalla perdurante indisponibilità del governo maltese, malgrado le sollecitazioni rivoltegli dal presidente della Commissione europea".

Maroni presenterà domani un dossier alla Commissione Ue affinché intervenga per assicurare una soluzione politica da ricercarsi in sede europea. I rapporti fra Italia e Malta, del resto, prima di giungere alla decisione "umanitaria" italiana sollecitata dalla opposizioni e dal clero, sono stati al calor bianco in un crescendo di scambi d’accusa. L’ultima stoccata di Maroni è arrivata ieri mattina, quando il ministro ha accusato il governo maltese di comportamento "scorretto e censurabile" perché la nave "si trovava in un’area di competenza di Malta che, per effettuare i soccorsi, beneficia di finanziamenti Ue". Secca la replica del primo ministro della Valletta, Lawrence Gonzi: "In base alla convenzioni internazionali, i migranti della Pinar dovrebbero essere sbarcati nel porto sicuro più vicino: in tal caso, a Lampedusa".

Immigrazione: dall'Arci; un giorno nel Cie di via Corelli a Milano

di Ilaria Scovazzi (responsabile immigrazione Arci Milano)

 

www.socialpress.it, 20 aprile 2009

 

Alle 15.30 di un venerdì soleggiato, due camerate del Cie di via Corelli 28 si sono aperte. Quelle camerate il sole non l’hanno mai visto.. viene tenuto fuori dai vestiti appesi alla finestre e l’umidità ha mangiato le pareti e i disegni che segnano i passaggi dei detenuti.

Corelli consuma e mangia 104 persone, 17 donne e il resto uomini, il reparto C dei trans è stato chiuso sia per i danni dei continui incendi sia perché "non serviva più"... Lula non fa ritornare in Brasile i suoi concittadini... Gli uomini sono nord africani... le donne dell’est europeo... Curiosa concentrazione geografica, che parla molto dei "lavori più visibili".

Corelli mastica e digerisce le persone molto lentamente... il 40% delle persone sono in quella gola da più di 2 mesi... i 20 ragazzi di Lampedusa con la convalida di gennaio, ma sbarcati a dicembre sull’isola... la ragazza del Ghana che ormai sta avvicinandosi ai 4 mesi... oppure la mamma tunisina che dopo anni nel carcere di Como da 50 giorni si domanda dove sia sua figlia... oppure il signore kossovaro con una camicia di pile che ironizza sulla sua "sciagurata" storia: 70 giorni passati nel Cie di Modena, poi un volo di qualche ora verso la Macedonia e altrettante ore di ritorno a Milano perché un kossovaro in Macedonia non può starci... e ora 69 giorni a Milano.

Corelli è una camaleontica struttura. Molto carcere, molto terra di nessuno sospesa ed arbitraria, molto reparto psichiatrico... moltissimo contenitore di rabbia. Per la prima volta abbiamo parlato tutti insieme nella camerate... Prima le donne e poi gli uomini. Strano la Tv era sintonizzata su Mtv ma le parole che abbiamo ascoltato non erano musica. C’è una ragazza moldava, sposata con un signore italiano di 34 anni, mi dice " Se mi chiudo, dentro di me muoio", è passata dal reparto psichiatrico del Niguarda a Corelli... prende dei farmaci che le fanno dimenticare la sua vita... la mamma in ospedale in Moldavia, il prestito fatto con i Nomadi, si tocca il braccio per parlarmi della mamma che vive con le flebo, si tocca gli occhi quando mi racconta del Niguarda, si mette sull’attenti quando mi racconta del suo lavoro da badante a Torino. Mi ripete, in continuazione, gocce 2 la mattina e la sera... così scandisce il suo tempo.

C’è una ragazza dai capelli neri lucenti ha fatto da poco un aborto, ha male alle ovaie, ha la febbre. È ossessionata dal suo sangue e dalle ironie sul suo stato di salute che sente in infermeria... parla, parla e poi ancora parla di non voler essere un animale... ma di fare fatica a ricordarselo. Non ti lasciano respirare per prendere ossigeno guarda la Tv in gabbia anche lei... in disparte una giovane donna albanese con occhiali rossi... È da 10 anni in Italia, ha perso il permesso di soggiorno, era a fare una passeggiata vicino a una strada frequentata molto di notte da macchine di italiani... e ora è a Corelli.

Esco e vengo fagocitata dai racconti degli uomini nord africani. Il clima è diverso, c’è molta tensione, rabbia e i racconti sono altri. Parlano di uomini arrotolati in coperta alla mattina presto per essere espulsi, parlano di botte e di continue incursioni della polizia... Non so se sia tutto vero... ma non sono un giudice... quello che so è che la mia pancia sente la loro rabbia.

Sono tutti concentrati sull’ipotesi dei 6 mesi. Spiego l’iter legislativo, sanno, loro vedono la Tv... ma i giorni si accumulano... la loro storia collettiva di paura è rappresentata dai 15 ragazzi di Lampedusa... dal 29 di gennaio scritto su 15 carte ...e dalle dita su cui contano i mesi.

La loro rabbia sono le 10 sigarette che non arrivano mai e l’impossibilità di poter acquistare. Per riscuotere soldi, attraverso bonifici postali di parenti e amici, ora da un mese, non basta più la delega alla Croce Rossa per il ritiro, ci vuole il codice fiscale e la carta di identità... richieste impossibili per uno che sta in Corelli. Ecco la loro rabbia e vita.

Iran: giornalista Usa condannata a otto anni, per "spionaggio"

 

Apcom, 20 aprile 2009

 

Per lei era intervenuto anche il Dipartimento di stato americano. Ma la condanna ad 8 anni di carcere comminata da un tribunale di Teheran alla giornalista irano-americana Roxana Zaberi raffredda le speranza di chi si aspettava un segnale di disgelo da parte iraniana nei confronti degli Usa. A fine marzo infatti Hillary Clinton aveva fatto sapere che una rappresentanza americana, a margine della conferenza dell’Aia sull’Afghanistan, aveva consegnato alla delegazione iraniana una lettera nella quale si domandava la liberazione di tre americani detenuti in Iran, fra cui anche quella di Saberi. Il portavoce della diplomazia iraniana, Hassan Ghashghavi, aveva smentito di aver ricevuto una simile missiva.

Due giorni fa, il portavoce del Dipartimento di stato Usa, Robert Wood, aveva respinto categoricamente le accuse di spionaggio rivolte alla giornalista, definendole "senza fondamento" e aveva espresso la sua "inquietudine in relazione a questo processo", che gli sembrava "ben lontano dall’essere trasparente".

Il processo si è svolto lunedì scorso, a porte chiuse, e si è chiuso in una sola giornata, una durata insolitamente breve per un processo in Iran. Secondo quanto affermato oggi dal padre della giornalista, Reza Saberi, la figlia sarebbe stata intimidita e convinta a cooperare, ammettendo le accuse nei suoi confronti, dietro la promessa di essere liberata. "Roxana ci ha detto che tutto quello che ha confessato non era vero, ma che era stata intimidita dalla polizia che le aveva detto che se avesse cooperato sarebbe stata liberata", ha dichiarato l’uomo - che si trova in Iran con la moglie - senza precisare quando aveva avuto luogo questa conversazione con la figlia.

Roxana Saberi, 31 anni, nata e cresciuta negli Stati uniti e da sei anni in Iran, di padre iraniano, si trova nel carcere di Evine, a nord di Teheran, dalla fine di gennaio. Inizialmente le autorità iraniane le avevano contestato di lavorare "illegalmente" nel Paese e di aver continuato le sue attività anche dopo che il governo le aveva ritirato il tesserino giornalistico. Il capo di imputazione si è poi tramutato in una ben più grave accusa di "spionaggio per conto di uno stato straniero (...) gli Stati uniti). L’avvocato della donna, Abdolsamad Khoramshahi, ha confermato che presenterà appello entro venti giorni.

La notizia della condanna, diffusa nel giorno in cui l’Iran festeggia la feste delle forze armate, coincide con altre notizie inquietanti. Oggi il "Times" britannico citando fonti israeliane parla di piani israeliani per attaccare militare i siti nucleari iraniani.

Secondo il quotidiano, le forze militari israeliane si preparano a lanciare a breve un massiccio attacco aereo contro i siti nucleari iraniani dopo aver ricevuto il via libera dal nuovo governo di Benjamin Netanyahu: "Si stanno effettuando preparativi a tutti i livelli per questa eventualità - ha detto al Times un alto funzionario della Difesa - Il messaggio all’Iran è che le minacce non sono solo parole". Approntate anche le esercitazioni per preparare la popolazione civile all’eventualità di una reazione iraniane.

Israele sarebbe pronto - continua il Times - a colpire oltre una decina di bersagli, inclusi convogli mobili. I siti nel mirino sono quello di Natanz, dove migliaia di centrifughe producono uranio arricchito; quello di Esfahan, dove 250 tonnellate di gas sono stipate nel sottosuolo; e quello di Arak dove un reattore produce plutonio.

La distanza da Israele di questi bersagli è oltre 1000 chilometri, un tragitto che può essere coperto dagli F15 e F16, sostenuti da elicotteri e mezzi di rifornimento. Israele si è dotato anche di tre apparecchi Awac (Airborne Warning and Control). Un eventuale attacco israeliano contro l’Iran implica il sorvolo degli spazi aerei giordani e iracheni dove vi è una forte presenza militare americana. Il recente attacco contro dei convogli in Sudan (che trasportavano presumibilmente armi destinate ad Hamas nella Striscia di Gaza) rientra tra questi preparativi delle forze israeliane per operazioni su lunghe distanze.

Lettonia: telefonino in carcere con torta, arrestato cappellano

 

Adnkronos, 20 aprile 2009

 

Un cappellano del carcere di Riga, capitale della Lettonia, è stato arrestato per contrabbando illegale dopo aver tentato di consegnare a un detenuto una pizza pasquale che celava al suo interno un telefonino. Secondo il Baltic News Service, il prete voleva far arrivare al prigioniero una Kulich, tradizionale dolce con uva passa, noci e miele della Pasqua ortodossa celebrata ieri, insieme a sei uova e a un biglietto di auguri da parte di un parente. L’oggetto proibito ai detenuti e nascosto dentro la torta è stato però individuato da uno scanner e il prete ortodosso è stato arrestato.

 

 

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