Rassegna stampa 25 agosto

 

Giustizia: Ristretti; una Commissione di inchiesta sulle carceri

 

Redattore Sociale, 26 agosto 2009

 

Non si può più rimandare un intervento in materia di giustizia e di gestione delle carceri: è il messaggio lanciato dalla redazione padovana di Ristretti Orizzonti. E per gli stranieri proposta una sorta di "affidamento in prova" in patria.

Non si può più rimandare un intervento in materia di giustizia e di gestione delle carceri: è questo il messaggio lanciato dalla redazione padovana di Ristretti Orizzonti che in un dossier propone alcune testimonianze dei detenuti e anche le loro riflessioni su come allentare la pressione sugli istituti di pena e contemporaneamente promuovere il vero reinserimento. La direttrice di Ristretti, Ornella Favero, lancia l’ipotesi dell’istituzione di un organismo straordinario, come ad esempio una "Commissione parlamentare di inchiesta sulle carceri" e insiste affinché si torni a riflettere "su tutte le possibili alternative al carcere, almeno per certi reati, e sulle misure alternative nella fase finale della pena".

La lista di azioni proposte da Favero è lunga e contempla, ad esempio, di mandare a dormire a casa i semiliberi con tutti i controlli dell’affidamento, di allargare l’impiego della detenzione domiciliare, di liberare le sezioni semilibere per sperimentare al loro interno circuiti di detenzione più aperti, di valutare misure come la "messa alla prova" per pene sotto i quattro anni. E per quanto riguarda gli stranieri, propone di dare la possibilità a chi vuole tornare al proprio Paese di chiedere l’espulsione negli ultimi tre anni, per una specie di "affidamento in prova" in patria.

Il detenuto Maurizio Bertani dal canto suo insiste sulla riforma del Codice penale e guarda con particolare attenzione alla situazione di chi delinque per la prima volta: "Lo dico proprio da persona più volte recidiva, che forse avrebbe potuto essere fermata all’inizio, con politiche diverse verso chi è al primo reato. Si potrebbe progettare una più ampia condizione di messa alla prova o liberazione condizionata, che attualmente copre un tetto massimo di pena fino a due anni. Si potrebbe elevarla a tre o quattro anni e condizionarla anche all’impegno di occupare una parte di tempo in attività sociali o lavori socialmente utili e se necessario di seguire un programma di cura, o di riabilitazione, di responsabilizzazione rispetto al reato".

Per Jovica Labus si dovrebbe invece iniziare a rivedere l’essenza stessa del carcere, la finalità della detenzione per favorire il recupero, abbattendo gli stereotipi sui detenuti e sulla recidiva: "La società è sempre pronta a criticare - sottolinea -, giudicare e condannare con tolleranza zero, però non si chiede mai che cos’ha fatto perché le persone una volta uscite dal carcere non continuino a delinquere. Invece io credo che per raccogliere si debba anche seminare: il carcere non deve essere un luogo dove si finisce, ma da dove si ricomincia. Quando si tratta di vite umane non ci dovrebbe essere posto per negligenza, incompetenza e menefreghismo, ci vorrebbe al contrario il coraggio di percorrere la strada del recupero".

Giustizia: Ristretti; il sovraffollamento azzera senso della pena

 

Redattore Sociale, 26 agosto 2009

 

Ristretti Orizzonti fa parlare chi è costretto in carcere. Elton Kalica: "Qui la multiculturalità rischia di esprimersi nelle forme più pericolose". Sandro Calderoni: "Impossibile costruire un ritorno nella società graduale e accompagnato".

Dalla casa di reclusione Due Palazzi di Padova i detenuti cercano di dare un volto umano a un termine impersonale e abusato: sovraffollamento. Cosa vuol dire davvero questa parola per chi si trova a condividere in tre persone pochi metri quadri calpestabili? Cosa c’è dietro i numeri relativo alla presenza nelle carceri? Pochi giorni dopo l’iniziativa lanciata dai Radicali italiani di trascorrere il Ferragosto in carcere, lo racconta un dossier di Ristretti Orizzonti, la cui direttrice Ornella Favero commenta: "Questa delle carceri è una emergenza vera, che si aggrava ogni giorno con una rapidità spaventosa".

Lo sa bene Maher Gdoura, uno dei detenuti interpellati, secondo cui "vivere in tre persone in una cella di 13 metri quadrati è davvero stressante, perché non trovi più i tuoi spazi, hai meno tempo da dedicare a te stesso. Diventa stressante perfino andare in bagno alla mattina, ti devi alzare minimo mezz’ora prima altrimenti non ce la fai e poi anche per le piccole cose, magari banali, finisce che non riesci più a sopportare i tuoi compagni di cella. E dato che dobbiamo rimanere qui degli anni, è chiaro che lo stress alla fine non aiuta".

Sulle difficoltà della convivenza insiste anche Elton Kalica, una delle voci della redazione padovana: "Viviamo in un periodo in cui le carceri si stanno riempiendo di persone di ogni fascia d’età, provenienti da Paesi diversi e anche da differenti strati sociali, ma questa multiculturalità rischia di esprimersi nelle forme più pericolose se nella costrizione dobbiamo condividere spazi praticamente inesistenti". Ed è per questo che Elton invita i detenuti ad alzare la voce: "Abbiamo l’obbligo, per rispetto della nostra dignità, di chiedere una diversa attenzione verso le nostre condizioni di vita, che non hanno nulla a che fare con i problemi della sicurezza, perché non c’è in atto nessuno stato emergenziale tale da giustificare forme di punizione come quelle che stanno vivendo i condannati oggi in Italia".

Sulla stessa linea si trova anche Sandro Calderoni, un altro detenuto secondo cui a causa del sovraffollamento "laddove il carcere e le istituzioni dovrebbero attivarsi per rieducare e reinserire la persona detenuta, mancheranno gli spazi e si aggraverà la carenza di operatori penitenziari, già ridotti al minimo. In pratica questo sovraffollamento azzera quasi di fatto quello che è il senso principale della pena, costruire per ogni persona un percorso di ritorno nella società graduale e accompagnato".

Uno sguardo particolare alla popolazione detenuta straniera è quello di Kamel Said, per il quale "la maggioranza di questi stranieri è fatta di ragazzi che sono dentro per reati di spaccio, con pene che di solito non superano i 2, 3 o 4 anni, e questi ragazzi finiscono per fare il carcere fino all’ultimo giorno. Ma soprattutto, quando escono si ritrovano a commettere gli stessi reati, proprio perché il carcere non offre nessuna possibilità di reinserimento e quindi sono quasi tutti destinati a tornare a spacciare, magari con l’illusione di fare un po’ di soldi per poi rientrare al loro Paese non da sconfitti".

Giustizia; Sappe; mancano 5mila agenti, personale è logorato

 

Il Velino, 26 agosto 2009

 

"Valuto positivamente le parole dette oggi a Chiavari dal sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, in visita al locale penitenziario. Caliendo ha sottolineato, tra l’altro, le grave carenze di personale nei ruoli della Polizia penitenziaria (stimate in 5 mila unità) e ha assicurato l’impegno del governo a ripianare tali carenze organiche".

Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo Polizia penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, in relazione alle dichiarazione odierne del sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo a margine di una visita al carcere di Chiavari.

"Questo - continua - è un dato positivo e auspichiamo che si provveda con urgenza a nuovi concorsi per agente, magari con concorsi nazionali a livello regionale. È però necessario e contestuale aprire un tavolo tecnico-politico per la definizione delle piante organiche di tutti gli Istituti e servizi penitenziari del Paese, non essendo quella attuali rispondenti alle reali esigenze operative.

Sottolineo, per completezza, che è stato proprio il Sappe a denunziare nei giorni scorsi come le maggiori carenze di organico nel Corpo di Polizia penitenziaria si registrino in Liguria: in servizio negli istituti penitenziari della Regione ci sono infatti 857 poliziotti, pari al 67,80 per cento dei 1.264 poliziotti previsti (i dati riferiti all’organico sono di luglio 2009)".

"Intanto però - osserva Capece - le persone detenute in Liguria hanno superato del 140 per cento la capienza regolamentare. È urgente e fondamentale assumere i 5mila agenti di Polizia penitenziaria che mancano dagli organici del Corpo e le parole odierne del Sottosegretario Caliendo ci fanno ben sperare. Ora però auspichiamo che alle parole facciano seguito presto fatti concreti.

Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria non sta facendo concretamente nulla per risolvere i gravi problemi penitenziari del Paese e si limita a lanciare slogan sull’edilizia penitenziaria per disinnescare la bomba ad orologeria delle carceri italiane. Si continua a parlare di un piano sull’edilizia di prossima attuazione, ma in realtà ci vorranno anni prima che venga costruito un singolo nuovo carcere e quando anche venissero costruite, allora dovremmo già mettere in cantiere anche un piano di assunzioni nel settore penitenziario con la previsione di concorsi da psicologo, educatore, assistente sociale e soprattutto di Polizia penitenziaria".

"Per ora - sottolinea il segretario del Sappe - il governo, il ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria si sono fatti scudo della drammatica situazione attraverso il senso di responsabilità del Corpo di Polizia penitenziaria; ma queste sono condizioni di logoramento che perdurano da mesi e continueranno a pesare sulle 39 mila persone in divisa per molti mesi ancora se non la si smette di nascondere la testa sotto la sabbia.

Quanto si pensa possano resistere gli uomini e donne della Polizia penitenziaria che sono costrette a trascurare le proprie famiglie per garantire turni massacranti con straordinari nemmeno pagati? Un atto di serietà politica e di onestà intellettuale sarebbe quello di ascoltare chi in carcere ci lavora da anni, la Polizia penitenziaria appunto e non improvvisarsi ad amministratori che non fanno i conti con la realtà".

Giustizia: "eterna solitudine" dei magistrati e organici all’osso

di Marco Bellinazzi

 

Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2009

 

Il giudice non dovrebbe essere giovane; dovrebbe aver imparato a conoscere il male non dalla sua anima, ma da una lunga osservazione della natura del male negli altri; sua guida dovrebbe essere la conoscenza, non l’esperienza personale" (Platone, Repubblica).

"Forse non è tanto un problema di esperienza e di conoscenza del male, quanto di solitudine", osserva Paola Biondolillo, 35 anni, milanese, in magistratura dal2002. "Mi riferisco al peso della responsabilità di dover decidere ogni giorno sulla libertà di altre persone. È un peso che avverti molto, soprattutto all’inizio".

"Solitudine" con la quale si riesce a convivere meglio con il passare degli anni, maturando scelte sofferte e sbagli, magari. "Anche perché - spiega Luigi Domenico Cerqua, maceratese, 65 anni, alle spalle una carriera quarantennale dedicata alla giustizia penale - quotidianamente ci si deve poi confrontare con problemi meno metafisici". Dai fondi che scarseggiano alle carenze d’organico che affliggono tribunali e procure, surclassati da una domanda di diritto e legalità e da una conflittualità sociale che non accennano a placarsi.

"Eppure, nel ‘68, quando ho vinto io il concorso - sottolinea Cerqua - l’Italia stava per precipitare nella stagione del terrorismo. Ma in magistratura si respirava un clima abbastanza tranquillo". Le divisioni fra correnti, le tensioni con il mondo politico, le pressioni dell’opinione pubblica erano, per certi versi, meno intense 0 forse solo meno vistose. "Non dico che non ci fossero rischi di interferenza o di commistioni", spiega l’attuale presidente della quinta sezione penale della Corte d’appello di Milano.

"Il fatto è che la magistratura era più compatta. E, in generale, era più rispettato il principio dell’indipendenza dei poteri". Stagioni che riemergono nella storia d’Italia e nella carriera di Cerqua, al quale a giugno è toccato il compito di leggere la sentenza di condanna delle nuove Br. Una professione, quella del magistrato, che è anche una vocazione? "Non so se sia il caso di chiamarla vocazione", dice Cerqua. "Però è vero che deve esserci una motivazione forte, un convincimento fuori dal comune".

"Io ho sempre voluto fare questo mestiere, conferma Biondolillo, laurea a Pavia, tirocinio a Milano e prima assegnazione alla procura di Trapani. "Sono convinta che la legalità sia la linfa della democrazia. Quando si perde il senso della legalità la democrazia è in pericolo, perché i deboli soccombono e i forti vincono sempre. Perciò ho scelto di fare il magistrato investigativo e ho chiesto subito di andare a Trapani".

Una scelta che oggi, dopo la riforma dell’ordinamento giudiziario, non sarebbe stata possibile. Per svolgere le funzioni investigative o per fare il giudice nei processi più delicati è indispensabile infatti un congruo periodo di apprendistato in affiancamento a un magistrato più anziano.

"Ma certe cautele - afferma Cerqua - possono rivelarsi eccessive, specie alla luce del più marcato ruolo direttivo che la riforma assegna al Capo della procura". E, aggiunge Biancolillo, ci sono altre considerazioni da fare: "Svolgere le funzioni di magistrato inquirente richiede tantissime energie, un grande entusiasmo e sacrifici anche sul piano personale. Tutti requisiti che sono presenti in particolar modo in citi ha preso servizio da poco. Inoltre, storicamente sono stati gli uditori a colmare le lacune delle procure più esposte nel Mezzogiorno. Quando io ho vinto il concorso, siamo arrivati qui a Trapani in cinque. Insomma, il pericolo è che vadano disperse risorse fondamentali".

Biondolillo non lo dice esplicitamente, ma è intuitivo pensare al coraggio dei cosiddetti giudici "ragazzini" - come Rosario Livatino ucciso dalla mafia agrigentina a 38 anni - che hanno pagato anche con la vita la ferrea volontà di portare a galla la verità dei fatti.

Nonostante gli incentivi economici e di carriera messi sul piatto dal Governo, le carenze di organico, come da mesi denunciano gli organismi associativi della magistratura e lo stesso Csm, restano però preoccupanti. In particolare nelle procure delle sedi disagiate. A Trapani, che pure non è considerato fra gli uffici messi peggio, su n pm in pianta organica gli effettivi sono cinque.

Problemi che non si ponevano quarant’anni fa. "Semmai per rendere operative tutte le strutture giudiziarie che si andavano articolando sul territorio si bandivano anche due concorsi all’anno. Peraltro, vincere era relativamente più semplice. C’erano meno candidati, poche centinaia per volta, essendo anche più basso il numero di laureati. Le prove invece erano uguali a quelle di oggi Salvo per l’obbligo di fare riferimenti a citazioni di diritto romano nel tema di civile. Un omaggio all’eredità del nostro ordinamento".

Anche la scelta dì Cerqua, quanto alla prima destinazione, è stata "di confine". "Solo che io ho optato per il Nord. Ho esordito come pm a Bolzano. All’epoca non serviva il patentino di bilinguismo". I primi incarichi riguardavano reati tornati oggi di grande attualità. "Mi occupavo di diritto penale valutario. Oltre al contrabbando di sigarette e di quelli che si definivano "tabacchi lavorati esteri", c’erano già organizzazioni molto ramificate dedite all’esportazione di capitali, titoli e valuta. Si usavano gli spalloni, ma anche i tir che passavano dal Brennero.

Inoltre, era molto diffuso tra artigiani e professionisti il malcostume di costituirsi disponibilità finanziarie oltre confine, facendosi pagare le fatture metà in Italia e metà all’estero". Un’Italia che non cambia mai, un’Italia della provincia più profonda, d’altri tempi, quella nella quale Cerqua si trovò a indagare poco dopo il suo arrivo in Alto Adige, all’inizio degli anni 70.

"L’assassinio di una perpetua in una sperduta canonica di montagna, a Santa Gertrude, estremo avamposto della Val d’Ultimo. Mi ero convinto, per le prove raccolte, che ad ammazzarla fosse stato il parroco. La vicenda giudiziaria durò diversi anni tra sentenze di condanne e revisioni in Cassazione. Alla fine, il processo arrivò a Brescia e il parroco fu assolto per insufficienza di prove".

Nell’87, alla vigilia della riforma del processo penale con la conversione del rito inquisitorio in accusatorio, Cerqua si è trasferito a Milano, abbandonando il ruolo di pm per diventare il giudice. Un passaggio " conforme" alle nuove regole dell’ordinamento giudiziario, che oggi per il passaggio da una funzione all’altra impongono al magistrato di cambiare ufficio e regione.

"È una questione di opportunità Ma ci sono alcuni aspetti che andrebbero sempre tenuti presenti", dice Cerqua. "Da una parte è indispensabile che il giudice sia e appaia terzo e che non subisca sudditanze". I penalisti però sostengono che questa terzietà non sarebbe garantita dalla "convivenza" di giudici e pm all’interno degli stessi edifici.

"Io ho amici tra i pubblici ministeri, ma anche tra gli avvocati. Con molti ci diamo del tu e fuori dall’aula abbiamo rapporti assolutamente cordiali. Mi si deve piuttosto dimostrare che in qualche mia decisione ho compiaciuto gli uni o gli altri. La verità è che tutto dipende dall’etica personale". Dall’onestà intellettuale dei singoli, più che dalle prescrizioni deontologiche.

"D’altra parte - continua Cerqua - per quella che è stata la mia esperienza, ritengo che la facoltà di passare da una funzione all’altra rappresenti un’occasione di crescita Per un giudice, sapere cosa vuole e come pensa un pm può rivelarsi un metro di valutazione tutt’altro che secondario. Quindi vanno bene le incompatibilità, ma le barriere o l’imposizione di scelte premature alla lunga potrebbe rivelarsi controproducente".

Terzietà e indipendenza, prima di tutto. Vale, o dovrebbe valere anche per quei giudici che si candidano e che poi fallito il bersaglio, tornano nei ranghi? "Non voglio esprimere giudizi su colleghi che hanno compiuto queste scelte. Io non ho mai avuto la tentazione. Nessuno in 22 anni ha potuto inserirmi in una casella o nell’altra di una corrente", risponde Cerqua.

"Non credo potrei candidarmi - concorda Biondolillo - ma se un giorno dovessi decidere di farlo, certamente per prima cosami dimetterei Anche per non pregiudicare la credibilità di tutto il lavoro svolto in precedenza. La demarcazione tra la sfera professionale e quella personale del magistrato è fatalmente meno netta che per altre professioni: questo non vuol dire restare fuori dalla vita pubblica del Paese, ma contribuire all’interesse comune attraverso un esercizio coscienzioso della propria funzione. Infatti, sono convinta che il magistrato lo si faccia in silenzio, dietro le quinte, con passione e dedizione".

Nessuno intende ritirarsi in una torre d’avorio. "In tutti questi anni - chiarisce Cerqua - ho sempre cercato di dare il mio contributo. Scrivendo, oppure nell’ambito dei convegni, non ho mai perso l’occasione per dire la mia. Fossero norme da criticare come quelle sui reati societari e il falso in bilancio, norme da salutare positivamente, come quelle sullo stalking che i hanno colmato un vuoto legislativo, o ancora norme al centro del ciclone come quelle sulle intercettazioni".

Ecco, appunto, che cosa pensa delle intercettazioni? "Penso che le intercettazioni siano uno strumento pericoloso per la privacy dei cittadini. Ma che sono addirittura indispensabili per punire gli autori dei delitti più gravi. Detto questo, sta a un legislatore saggio contemperare le due opposte esigenze".

Cortocircuito politica-magistratura. È questo il filo rosso che lega il burrascoso tramonto della Prima Repubblica con il quindicennio che ne è seguito. In che maniera potrà essere risolto, se mai lo potrà essere?

Cerqua - che a metà degli anni 90, consigliere in corte d’appello - ha scritto la sentenza (poi confermata in Cassazione) che ha messo la parola fine alla vicenda del crack del Banco Ambrosiano, non ha dubbi: "Ognuno deve tornare a fare il proprio lavoro. Lavorando di più e meglio. Il Parlamento deve fare le leggi e i giudici devono applicarle. Possono criticarle, come detto. Ma altro è l’interpretazione politica delle norme".

A metà degli anni 90 le vicende di Mani pulite e l’indignazione suscitata dagli assassini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno spinto migliaia di giovani a tentare la strada per la magistratura. C’è stato un ricambio generazionale. Ma com’è cambiata la professione? Intanto, si è assistito in questi anni a un mutamento "morfologico": la figura dell’austero giudice che si staglia dal suo scranno per sentenziare dell’innocenza o della colpevolezza è sempre più arcaica, come le parrucche nelle corti del Regno Unito. Sempre più frequentemente alla ribalta della cronaca balzano oggi pm e giudici donna: non a caso tra gli ultimi 13 uditori che attendono di prendere servizio c’è solo un uomo. "È vero, anche se i ruoli di vertice restano maschili", puntualizza Biondolillo.

"Quanto ai contenuti - osserva Cerqua - oggi è più difficile fare il magistrato rispetto a venti, trent’anni fa. È cambiata la società, che è più conflittuale. E le leggi, che ne sono lo specchio, riflettono questa complessità Penso al decreto approvato a fine luglio che ha corretto, a un anno di distanza, le norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Ecco, nella disciplina per la salute dei lavoratori è stato inserito anche un richiamo alla responsabilità amministrativa delle società, il famoso decreto 231 del 2001. Per i giudici ora si porrà la questione di capire in che modo le due normative potranno e dovranno interagire".

Biondolillo si occupa soprattutto di reati ambientali e contro la pubblica amministrazione, laddove si addensano le zone d’ombra tra criminalità, affari e politica. "In aree come queste - spiega Biondolillo - il confine fra gli illeciti non è mai nitido. Così può capitare che da un incendio si finisca per indagare su estorsioni realizzate nell’ambito del calcestruzzo, settore cruciale nell’economia dell’isola, per il controllo che assicura su appalti e opere pubbliche. Quindi particolarmente a rischio di infiltrazioni mafiose".

Indagini che le sono costate minacce e intimidazioni per le quali è stata messa sotto protezione. "Sì, mi è capitato di subire delle minacce. Ma è un pericolo che, in qualche modo, chi fa il mio mestiere mette in conto. E comunque ci sono colleghi che vivono situazioni più difficili della mia Io vado avanti per la mia strada E poi da quaggiù si vede un mare così bello".

Lettere: sono maggiori tutele per i cani, che non per i detenuti

 

Il Messaggero, 26 agosto 2009

 

Della legge e delle cure degli uomini: questo se fossi un cane sarebbe un pensiero leggero e allegro, in Italia. Se fossi un cane. Ma sono un essere umano e mi appartengono funzioni cognitive che mi costringono continuamente a riflettere sul mondo e su me stesso, e sulle regole che costruisco e condivido con uomini e animali, con tutti gli uomini e tutti gli animali. E dunque rifletto.

Se fossi un cane, in Italia mi spetterebbe per legge uno spazio in recinto non inferiore a 20 metri quadrati da condividere al massimo con un altro cane o 9 mq in un box tutto per me. Se, invece, fossi un malato psichico con sufficiente autonomia sul piano della soddisfazione dei bisogni di vita quotidiana e adeguate abilità psico-sociali e mi ritrovassi a vivere in una comunità alloggio, ovvero una residenza socio-riabilitativa a più elevata intensità assistenziale, la superficie minima delle camere a due letti dovrebbe essere non inferiore a 16 mq e 9 mq in camera singola.

Meglio essere un cane, no? Peggio essere un detenuto, molto peggio. Mi spetterebbero sì e no 7 mq in singola e 4 mq in celle collettive. Se fossi un cane, a Roma non potrebbero tenermi legato ad una catena per più di 8 ore al giorno e la catena dovrebbe essere lunga almeno 6 metri, garantendomi il movimento, l’accovacciamento, l’abbeveramento e tutte le mie normali funzioni fisiologiche. Se fossi un malato di mente invece, i medici di Milano, al Niguarda, per esempio, potrebbero seguire le linee guida interne dell’ospedale in materia di contenzione fisica in armonia con la legge italiana e la prassi tristemente diffusa in tanti reparti psichiatrici. Potrei ritrovarmi legato, mani e piedi, ad un letto fino a 12 ore consecutive, sempre che la mia condizione non richieda un prolungamento della contenzione, a discrezione dei medici, non della mia dignità di essere vivente, non voglio dire umano, perché non mi conviene.

Sarebbe morto così, Francesco Mastrogiovanni, il 4 agosto 2009, nell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania, dopo quattro giorni di degenza in Tso (trattamento sanitario obbligatorio). Morto per edema polmonare, segni di contenzione fisica su polsi e caviglie, presumibilmente legati per giorni, anche se sulla cartella clinica non comparirebbe alcun provvedimento costrittivo a carico del degente. Ma che importa? Non era un cane, era solo un uomo.

E se fossi un cane pericoloso? Non esistono cani pericolosi - qualsiasi cane può attuare comportamenti "rischiosi" - ma esistono cattivi padroni e nella legislazione italiana si punta soprattutto sulla prevenzione e la formazione dei proprietari dopo aver abolito la lista delle razze canine pericolose. Se fossi un paziente psichiatrico però, sarei invece quasi sicuramente pericoloso nell’immaginario collettivo. Si vuole infatti ristabilire, con una modifica legislativa, il concetto di "pericolosità per sé e per gli altri" del malato psichico e la conseguente segnalazione alle autorità competenti. Se fossi un uomo, dunque, potrebbe toccarmi un posto in una "nuova" lista di umani pericolosi, a prescindere dalla circostanze, dalle condizioni, dal destino che mi è toccato in sorte. Meglio, molto meglio essere un cane.

Se mi trovassero per strada o in mare, senza microchip, le istituzioni mi curerebbero e coccolerebbero, ma se fossi un uomo senza documenti e pure malato farei meglio a nascondermi e morire: mi arresterebbero. Se fossi un cane capirei che le leggi che mi proteggono sono pensate per me, per i miei bisogni e per le mie necessità di sopravvivenza, con un minimo di dignitosa qualità di benessere. Come essere umano, però, non capisco, proprio non riesco a capire, perché le leggi e le prassi operative di accoglienza, assistenza, accudimento, cura, reinserimento, rieducazione e riabilitazione degli uomini, per gli uomini sono invece pensate e create sui bisogni di chi poi dovrà occuparsi di me o di chi dovrà escludermi, liberarsi di me. Come se la mia vita non valesse neanche quanto quella di un cane, non meritasse la stessa sensibile attenzione ai bisogni dell’essere vivente, della semplice creatura di Dio. Se fossi un cane, mi sentirei più tranquillo in Italia. Purtroppo sono solo un essere umano.

 

Luana De Vita (Psicologa e psicoterapeuta)

Lettere: parlamentari modenesi, se seppelliamo anche la pietà

 

Ristretti Orizzonti, 26 agosto 2009

 

In questo Ferragosto bollente, finalmente c’è stato chi si è ricordato della condizione esplosiva nelle carceri italiane. Abbiamo aspettato anche voi, invano! Non abbiamo incontrato nessuno. Certi che "non potevate non sapere", vorremmo almeno ci fugaste un dubbio: che non siate venuti per paura di perdere consensi.

E allora, rilanciamo l’invito: venite a vedere, come si "muore" giorno per giorno, chiusi in soprannumero nello spazio ristretto di pochi metri quadrati. Venite e parlate con chi ogni giorno lì "vive" e lavora. Qualcuno si è "divertito" a confrontare questa condizione con quella degli allevamenti di polli, dimostrando il maggiore agio garantito agli animali, rispetto alle persone detenute. Voi avete il diritto di entrare, senza la trafila lunga dei permessi: passate i cancelli, guardate i volti, fermatevi a parlare e soprattutto ad ascoltare. Sono 530 "dentro" le storie, oltre il doppio della capienza regolamentare e un centinaio in più delle presenze tollerabili.

Può darsi vi sentiate raccontare di quello che manca, cioè tutto, a parte il tempo che qui è fin troppo e non passa mai. È la condanna peggiore questo tempo privo di senso, buttato via senza rimedio. E, una volta usciti, non abbiate timore di dire alla città dove siete stati: descrivete la discarica sociale che è diventata la galera, stranieri, nomadi, tossicodipendenti, malati psichici, tutti gli indesiderati sulle nostre strade.

Una vergogna "politica" nel senso letterale del termine: la sconfitta di quell’arte del buongoverno, che ha sempre saputo sposare il diritto alla pietà. A favore di tutti.

Art. 27 della nostra "sana" e "robusta" Costituzione: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

 

Gruppo Carcere - Città, Modena

Lettere: le leggi della cattiveria e opinione pubblica che dorme

 

La Gazzetta di Reggio, 26 agosto 2009

 

Quando vengono violati i diritti umani dovremmo tutti indignarci e io mi indigno. Non mi rendo conto come l’opinione pubblica dorma. Un’altra strage di persone nel canale di Sicilia, immigrati irregolari che abbandonano terre di guerre e di fame per cercare quelle possibilità di vita, che la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo all’articolo 14 riconosce come "diritti d’asilo dalle persecuzioni".

Questa volta c’è l’aggravante del mancato soccorso da parte di diverse imbarcazioni, i cui equipaggi hanno ignorato i profughi in fin di vita. Si tratta forse del frutto avvelenato delle leggi della "cattiveria", che un ministro poco avveduto e un parlamento cieco hanno emanato, proprio per colpire i diritti fondamentali degli esseri umani più miseri: respingerli, condannarli al lavoro nero, non consentire loro matrimonio, cure, scuola, casa, impedire loro tranquillità e famiglia, spingerli loro malgrado alla rivolta in carceri e centri di espulsione disumani e quindi verso il malaffare.

Questi legislatori non capiscono che non si può impedire la vita con semplici norme giuridiche e che è ipocrisia massima inviare soldati nel mondo per affermare i diritti umani e poi negarli a casa propria. Si tratta infatti dei "diritti umani" fondamentali, dei "diritti inviolabili dell’uomo" in vigore con la Dichiarazione universale dal dicembre 1948 e in Italia con la Costituzione italiana dal gennaio precedente.

Le nuove norme della cattiveria sembrano create apposta per ignorarli, per cui, se non fosse per gli obiettori e i volontari che vi si oppongono, andremmo verso l’ inciviltà sociale. Infatti è noto da tempo che il "disprezzo dei diritti dell’uomo ha portato ad atti di barbarie" come dice il preambolo della Dichiarazione universale. Eppure è chiaro ormai che gli stranieri, anche quelli che lavorano in condizioni degradanti, sono indispensabili per un paese in costante calo demografico, come ha attestato la Banca d’Italia, e che i metodi per l’integrazione dei nuovi venuti costituiscono un’operazione lungimirante e positiva per la società italiana. Purtroppo però dovremo toccare il fondo, prima che tutti se ne rendano conto.

 

Mauro Bortolani, Reggio Emilia

Frosinone: detenuto tossicodipendente 46enne, muore suicida

 

Ristretti Orizzonti, 25 agosto 2009

 

Detenuto di 46 anni si suicida nel carcere di frosinone. Il Garante dei detenuti Angiolo Marroni: "l’episodio testimonia il clima di precarietà e di tensione che si respira nelle carceri di tutta Italia".

Un detenuto italiano di 46 anni, Fabio T. (originario di Roma) si è tolto la vita ieri pomeriggio nel carcere di Frosinone, impiccandosi all’interno della sua cella. L’episodio è stato reso noto dal Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio Angiolo Marroni. A quanto appreso dai collaboratori del Garante, l’uomo era recluso in una cella della nella sezione tossicodipendenti del carcere di Frosinone. All’interno della struttura del capoluogo ciociaro sono attualmente ospitati 480 detenuti.

Ieri pomeriggio, secondo quanto riferito dai compagni di cella, Fabio avrebbe letto una lettera della fidanzata e, subito dopo, si darebbe tolto la vita. Inutili i tentativi si soccorso degli stessi detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria. "Questo episodio - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - conferma il clima di estrema precarietà e tensione che si respira nelle carceri di tutta Italia, sovraffollate ogni oltre limite. A questo si aggiungono anche le difficoltà del periodo estivo, con il gran caldo e le ridotte attività di socializzazione e supporto. Io credo che, dopo episodi come questo e le continue voci di preoccupazione che arrivano da coloro che vivono il carcere, sia necessario un ripensamento sul sistema carcerario e sulla giustizia italiana in generale. Non è solo con nuove carceri che possiamo pensare di risolvere questo tipo di emergenza sociale".

Cagliari: un bimbo nigeriano "festeggia" compleanno in cella

 

Agi, 25 agosto 2009

 

"È inaccettabile - afferma Caligaris - che nella nostra isola non si sia ancora in grado di garantire ai minori di madri detenute una condizione di vita in un ambiente sicuro. Il Ministro Angelino Alfano dovrebbe effettuare una visita a Buoncammino e a San Sebastiano per rendersi conto personalmente della realtà degli Istituti sardi dove peraltro si registra una gravissima carenza di Agenti anche nelle sezioni femminili e dove troppo è lasciato all’attività dei volontari. Un atto responsabile del Governo e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dovrebbe comportare un immediato intervento per la soluzione del problema dei minori di 3 anni negli Istituti di Pena così come era stato annunciato".

"Lo Stato inoltre non può continuare a favorire alcune realtà modello con situazioni privilegiate anche tra i più piccoli innocenti detenuti e lasciare sulle spalle dei Direttori e degli Agenti di Polizia Penitenziaria - rileva ancora la Presidente di "Socialismo Diritti Riforme" - il peso di condizioni irrispettose delle leggi e indegne di una Nazione come l’Italia. Un ripensamento delle norme a favore di pene alternative alla detenzione e una misura di amnistia sarebbero indispensabili aldilà di qualunque atteggiamento preconcetto. La sicurezza migliore è quella generata da uno Stato di diritto non schizofrenico che guarda alle fasce più deboli della popolazione migliorandone le condizioni di vita nella certezza - ha concluso Caligaris - di una pena giusta e in un ambiente idoneo al recupero e alla reintegrazione sociale".

Il piccolo Joseph ha potuto godere di un momento di svago e della torta, grazie alla generosità degli operatori penitenziari che hanno preparato per lui anche dei doni.

Pisa: Sappe; detenuti danno fuoco alle celle, tensione altissima

 

Comunicato Sappe, 25 agosto 2009

 

La situazione penitenziaria è sempre più incandescente. Ogni giorno registriamo manifestazioni e proteste di detenuti sempre più violente. Le istituzioni e il mondo della politica non possono più restare inermi e devono agire concretamente. Dopo gli episodi di protesta e violenza avvenuti nei giorni scorsi in diversi penitenziari del Paese, ieri sera intorno alle ore 21.00 i detenuti dell’intero Reparto Giudiziario della Casa Circondariale di Pisa (pressoché la metà dei circa 400 detenuti presenti) hanno iniziato a protestare imputando la causa di tale situazione all’assenza d’acqua nelle rispettive sezioni.

Inizialmente la forma di protesta si è materializzata sbattendo oggetti contro i cancelli e le inferriate, ma nonostante i vani tentativi di mediazione posti in essere dall’esiguo numero di personale di Polizia penitenziaria presente, valorosi colleghi ai quali va tutta la solidarietà del Sappe, i detenuti non hanno esitato dall’appiccare il fuoco a cuscini, stracci, indumenti ed effetti letterecci vari presenti nelle camere detentive. Gli stessi oggetti unitamente a bottiglie, bombolette del gas e persino escrementi sono stati lanciati nei corridoi delle sezioni, richiedendo l’intervento del personale di Polizia Penitenziaria che con degli estintori è riuscito ad evitare che il fumo sprigionatosi, potesse causare l’intossicazione delle persone presenti. La calma è stata ristabilita solo dopo circa due ore di agitazione, ma la frequenza di questi gravi episodi un po’ in tutta Italia e l’assenza di concreti provvedimenti per il sistema carcere da parte delle Istituzioni e della politica ci fanno fare una sola domanda. In quale carcere succederà la prossima rivolta?

È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, in relazione alle violente manifestazioni che questa notte si sono verificate nel carcere di Pisa.

Da tempo il Sappe aggiunge Capece ha invocato interventi da parte dell’Amministrazione Penitenziaria Regionale e Locale e dei propri Dirigenti, affinché ponessero in essere interventi decisivi sull’intera gestione del Penitenziario pisano, cronicamente privo di fondi mezzi e personale. Si è a gran voce sostenuta la necessità di procedere ad una sorta di rivisitazione dell’intero sistema lavorativo e organizzativo della struttura, ormai obsoleta e priva di qualsiasi automatizzazione delle postazioni lavorative.

Analogamente si è da sempre sostenuta la indubbia necessità di attuare una concreta attività di gestione della popolazione detenuta, privilegiando le peculiarità del penitenziario (si veda all’interno dello stesso la collocazione di Centro Clinico Diagnostico), e nello specifico evitando un pericolosa commistione tra tipologie di detenuti, appartenenti a diversi circuiti detentivi.

Capece rinnova un paio di proposte al Governo: "Serve una nuova politica della pena, necessaria e indifferibile. È necessario un ripensamento organico del carcere e dell’Istituzione penitenziaria, prevedendo un maggiore ricorso alla misure alternative alla detenzione e l’adozione di procedure di controllo mediante strumenti elettronici o altri dispositivi tecnici (come il braccialetto elettronico) che hanno finora fornito in molti Paesi europei una prova indubbiamente positiva.

Se la pena evolve verso soluzioni diverse da quella detentiva, anche la Polizia Penitenziaria dovrà spostare le sue competenze al di là delle mura del carcere, parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e propria polizia dell’esecuzione penale. Il controllo sulle pene eseguite all’esterno e sull’adozione del braccialetto elettronico, oltre che qualificare il ruolo della Polizia Penitenziaria, potrà avere quale conseguenza il recupero di efficacia dei controlli sulle misure alternative alla detenzione."

Como: dopo proteste al Bassone 7 detenuti sono stati trasferiti

 

Ansa, 25 agosto 2009

 

Trasferimento ad altra struttura carceraria per sette detenuti del Bassone. Si è chiusa così, con il trasloco imposto ai carcerati considerati come i principali animatori della protesta dei giorni scorsi, la settimana più calda della storia recente della casa circondariale di Como.

La decisione, arrivata dalla direzione della struttura, cerca così di porre fine a giornate di tensione altissima tra le sezione del Bassone dove la scorsa settimana era iniziata una protesta che aveva visto inizialmente i detenuti battere contro le inferriate delle celle per poi degenerare in manifestazioni più vistose. L’ultimo episodio venerdì scorso, quando un agente della polizia penitenziaria è stato aggredito e ferito al volto da un detenuto che lo ha costretto a rivolgersi all’ospedale dove ha rimediato alcuni punti di sutura.

Se i detenuti considerati come i sobillatori sono stati trasferiti (a Monza, Vigevano e Pavia), con il plauso della polizia penitenziaria, i problemi del Bassone restano tutti sul piatto: il numero di detenuti in questi mesi è sensibilmente cresciuto, tanto che attualmente sono detenute circa 560 persone, almeno 150 in più rispetto allo standard. I disagi maggiori nella sezione maschile, mentre in quella femminile i problemi, anche per la presenza di un numero molto inferiore di carcerati, sono minori.

A fare scoppiare la protesta, oltre al sovraffollamento si era messo nei giorni scorsi l’aumento dei prezzi di alcuni prodotti e il pessimo funzionamento di servizi igienici e soprattutto di alcune docce, il tutto nel periodo più caldo dell’anno.

Messina: oggi i Radicali fanno visita all’Opg di Barcellona P.G.

 

Agenzia Radicale, 25 agosto 2009

 

Dopo le visite ispettive compiute a Gazzi e a Mistretta, prosegue l’impegno politico dei Radicali Italiani nell’ambito nell’ambito dell’iniziativa "Ferragosto in carcere" che ha visto la partecipazione di oltre 150, tra parlamentari e consiglieri regionali, per conoscere meglio e direttamente come vivono la realtà quotidiana direttori, agenti, medici, psicologi, educatori e detenuti La segretaria dell’Associazione Radicali Messina Palmira Mancuso e l’on Domenico Scilipoti, stamattina si sono recati all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, uno dei sei istituti in Italia dove si trovano complessivamente circa 1.250 persone. L’Opg (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) è la struttura detentivo - medica che sino alla riforma penitenziaria del 1975 era chiamato Manicomio Criminale. Ha la funzione di custodia (per la difesa sociale) e contemporaneamente di cura e trattamento (per il reinserimento). È parte integrante del sistema penitenziario e si basa sulla norma giuridica secondo cui l’imputabilità di un soggetto, autore di reato, è subordinata alla sua capacità di intendere e volere.

Messina: Osapp; personale al collasso, servono altre 300 unità

 

Ansa, 25 agosto 2009

 

La situazione del personale di Polizia Penitenziaria, impiegato nel carcere di Messina Gazzi, è ormai prossima al collasso. Questo il grido d’allarme lanciato dall’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria), che ha chiesto anche l’intervento del Capo del Dap Franco Ionta. A quanto si apprende, infatti, sarebbero necessarie nella Casa Circondariale di Messina altre 300 unità. Il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria aveva cercato di tamponare la grave carenza inviando personale in missione da altri istituti, ma questo fin quando vi è stata la disponibilità finanziaria. Ora, sono terminati sia i soldi sia il supporto garantito alla Polizia Penitenziaria messinese.

L’Osapp, dunque, ha rappresentato ai vertici dell’amministrazione la situazione chiedendo di rivedere l’attuale pianta organica. "Mentre le altre forze di Polizia - si legge nella nota diffusa dalla segreteria provinciale del sindacato - rispondono all’esigenza di una maggiore sicurezza nella società, la Polizia Penitenziaria della città dello Stretto ha enormi difficoltà nel garantire la custodia dei detenuti. Difficoltà -conclude la nota - colmate finora grazie al non comune senso del dovere e all’elevata capacità professionale".

Sanremo: Poretti (Ri); tentativi suicidio ed atti autolesionismo

di Donatella Poretti (Radicali - Partito Democratico)

 

www.imgpress.it, 25 agosto 2009

 

Lo scorso 15 agosto una visita ispettiva presso la Casa Circondariale Valle Armea di Sanremo ha evidenziato alcuni aspetti decisamente singolari per la già disperata situazione delle carceri italiane, così come ampiamente denunciato dall’iniziativa "Ferragosto 2009 in carcere" di Radicali Italiani: tentativi di suicidio e atti di autolesionismo in un arco temporale ristretto. Il senatore Elio Lannutti (Idv) che col radicale Giampiero Buscaglia ha constatato di persona questa situazione, ha denunciato, così come ripreso anche dalla stampa locale:

1 - un cittadino del Marocco, in stato depressivo, che il giorno 15 ha ingerito due forchette di metallo (vietate all’interno del carcere), operato d’urgenza in ospedale e, mentre scriviamo, ancora in prognosi riservata;

2 - un cittadino della Tunisia che giovedì 20, con un rudimentale coltello ha cercato di tagliarsi le vene;

3 - un altro cittadino della Tunisia, mercoledì 19 agosto si è ferito nei testicoli e a un braccio, salvato in extremis dalle guardie carcerarie;

4 - un detenuto maghrebino che denunciava di aver subito un furto in carcere durante il trattamento insulinico, nonché la violazione della propria corrispondenza;

5 - ancora un detenuto maghrebino in sciopero della fame perché impossibilitato a vedere la propria figlia. Per questo motivo, con il medesimo senatore Lannutti, ho presentato un’interrogazione al ministero della Giustizia per far luce su questi episodi e per sapere se i tentativi di suicidio sono legati a quanto denunciato dai due maghrebini durante la visita ispettiva. Interrogazione con cui chiediamo al ministero di far sapere cosa intende fare per eliminare alcune delle possibili cause di quanto accaduto a Sanremo, cioè il sovraffollamento e la mancanza di organici tra agenti di polizia penitenziaria, educatori e psicologi.

Chiavari (Ge): sovraffollamento e agenti stanchi e demotivati

di Simone Traverso

 

Secolo XIX, 25 agosto 2009

 

Agenti della polizia penitenziaria "stanchi, demotivati e abbandonati", detenuti sempre più "violenti" e costretti a scontare la propria pena in celle sovraffollate e senza alcuna possibilità di rieducazione. Succede nella casa circondariale di Chiavari, visitata ieri mattina dal senatore Giacomo Caliendo, sottosegretario alla Giustizia, e dal provveditore regionale all’amministrazione penitenziaria, Giovanni Salamone.

"Quella di Chiavari - ha detto Caliendo - è una struttura relativamente piccola dove il sovraffollamento delle camere di sicurezza si sente maggiormente. Fortunatamente sono stati adottati provvedimenti che garantiscono, seppure in un ambiente come il carcere, spazi di libertà per i detenuti. L’impianto ha bisogno senza dubbio - ha proseguito il sottosegretario - di interventi di ristrutturazione. C’è la possibilità di sfruttare l’area del sottotetto per costruire la nuova caserma per gli agenti e occorre individuare nuove aree dove sistemare soprattutto i detenuti che scontano brevi periodi di reclusione". Servono 200-300 mila euro che dovrebbero essere recuperati dai fondi messi a disposizione dalla Comunità europea.

Dai corridoi del penitenziario, però, trapelano immagini di una situazione allarmante. I detenuti presenti al momento nella casa circondariale chiavarese sono 104 - rivela una fonte confidenziale - ma la capienza massima è di 65 persone. Gli uomini della polizia penitenziaria sono 44 (tre attualmente fuori servizio), ma secondo le normative in vigore dovrebbero essere 61. "I detenuti - spiega Angelo Catarinella, rappresentante del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria - dormono a terra e sono stipati come animali. Nei letti a castello, in alcuni casi, si è stati costretti a inserire la terza branda e la sistemazione di un posto letto di fortuna alloggiato sul pavimento è ormai una consuetudine". Ma c’è dell’altro: l’ampiezza della palestra è stata ridotta (praticamente dimezzata) per allestire nuovi spazi dove far dormire i detenuti.

Lo stesso vale per i piazzali al’interno del carcere. Le lezioni scolastiche tenute dagli insegnanti dell’istituto "Caboto" si svolgono sempre più spesso nei corridoi e la 3a sezione, quella definita "speciale" e riservata ad ex appartenenti alle forze dell’ordine condannati a pene detentive e a criminali macchiatisi di reati particolarmente gravi è affollata, oggi, di 20 detenuti, con uno sparuto gruppo di agenti chiamati alla vigilanza. L’ultima rissa è scoppiata l’altro ieri all’alba, alle 5, ma in servizio erano presenti solo tre uomini della Penitenziaria: uno addetto alla porta d’ingresso, gli altri due costretti a intervenire per sedare l’episodio di violenza.

"La situazione della polizia penitenziaria è certamente difficile - ha detto il provveditore Salamone - ma vanno sottolineati l’impegno e l’abnegazione degli uomini in servizio". Il Sindacato. per bocca di Catarinella, ribatte spiegando che "il personale è ridottissimo, 41 poliziotti in servizio che si dividono tra nucleo traduzioni e piantonamenti, uffici generali per l’organizzazione dell’istituto e servizi a turno.

Con questi numeri e facile intuire che non garantiamo nemmeno la soglia minima di sicurezza, né tanto meno possiamo adempiere ai mandati costituzionali imposti nel nostro regolamento. Il personale di polizia penitenziaria è stanco, demotivato e abbandonato a se stesso, noi possiamo soltanto sperare che i vari senatori e parlamentari che hanno verificato quanto stiamo attualmente vivendo, si attivino al più presto per garantire almeno i diritti sanciti nei contratti di lavoro che loro hanno firmato e fortemente voluto".

Genova: i detenuti protestano, tutti aspettano il nuovo carcere

 

Il Giornale, 25 agosto 2009

 

Pochi giorni fa c’è stata la protesta dei detenuti del carcere di Marassi, per ore hanno sbattuto sulle sbarre delle celle posate e gamelle (le gavette di metallo dove si consuma il pasto), manifestando così il loro disagio per l’inadeguatezza degli spazi dell’istituto di pena genovese, con stanze e corridoi considerati angusti e sovraffollati, specialmente in questi giorni di caldo e afa. Più volte il direttore del penitenziario, Salvatore Mazzeo, ha ammesso insufficienze strutturali. E c’è stato anche chi si è chiesto come mai ministero e Comune non parlino di un nuovo carcere.

In effetti, oltre a Comune e ministero, c’è qualcuno che da anni parla, inascoltato, della necessità di costruire una nuova e più moderna casa circondariale. Sono due professionisti delle costruzioni, il geometra Bruno Milanaccio e l’ingegner Giampaolo Morbelli, che, a più riprese, hanno presentato un progetto a Comune e rappresentanti di governo e partiti di maggioranza. Per loro solo pacche sulle spalle e generiche dichiarazioni di interessamento.

Salvo poi, come sostiene Milanaccio, che sindaco e ministri, in questi giorni, si approprino di idee, indicazioni e perfino delle caratteristiche tecniche del progetto del nuovo carcere, senza citare la fonte originaria: cioè professionisti che da anni lavorano, per ora gratis, all’idea. Milanaccio, geometra torinese trapiantato da più di un ventennio a Genova e con grande esperienza in materia di costruzioni di carceri, conferma tutto e racconta la trafila di anni per poter parlare con politici locali e nazionali. Dice: "Abbiamo individuato l’area, sotto Forte Ratti, progettato una struttura moderna da 800 posti, ipotizzato l’iter finanziario che porterebbe privati a costruire e gestire la struttura che rimarrebbe di proprietà pubblica. Lo abbiamo presentato a Comune e Ministero in varie occasioni. Tutti ci hanno detto che l’idea è ottima.

Nessuno ci ha risposto in modo esauriente. Ora ci sono dichiarazioni che prendono spunto dal nostro progetto. Gradiremmo essere interpellati, però, perché il nuovo carcere, in linea con i programmi sulle case di pena illustrati recentemente dal ministro Angiolino Alfano, è una un’idea nostra". Milanaccio chiede una "chiara e forte volontà, che fino ad ora non c’è stata, di costruire il nuovo carcere cittadino" da parte delle istituzioni locali e centrali. E i numeri che circolano sulla popolazione che vive dietro alla sbarre di Marassi sembra dare ragione a Milanaccio e Morbelli. Il carcere genovese, infatti, ha una capienza ottimale di 450 posti, però ne ospita 750. La sezione più critica è quella dei detenuti con pena definitiva: dovrebbero essere 100, invece sono 300.

Bologna: il Garante; riduzione degli insegnanti, per i detenuti

 

Ristretti Orizzonti, 25 agosto 2009

 

"L’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, a seguito di segnalazione delle Rsu dell’Istituto superiore "J.M. Keynes" di Castel Maggiore (Bo) e dell’Istituto Comprensivo n.10 di Bologna, che rispettivamente gestiscono i corsi di scuola superiore ed i corsi di scuola primaria e media presso la Casa Circondariale di Bologna, evidenzia con preoccupazione la critica situazione nella quale si trova la scuola all’interno del carcere di Bologna. Negli ultimi anni è in atto una riduzione progressiva del numero degli insegnanti che ha portato ad un peggioramento dell’offerta di istruzione e formazione all’interno del contesto carcerario con relativa compressione del diritto all’istruzione delle persone ristrette.

Per quanto attiene alla Scuola primaria (ex Scuola elementare) gli insegnanti svolgono il ruolo di alfabetizzatori tenendo corsi di lingua italiana per stranieri, la cui percentuale presso il carcere di Bologna è di circa il 70%, una realtà in cui i corsi di alfabetizzazione risultano imprescindibili prima di tutto per una corretta comprensione della realtà circostante da parte delle persone detenute e poi per assicurare attività di rieducazione e dignità di trattamento della persona straniera detenuta. Sino all’anno scolastico 2004/2005 le cattedre attive erano cinque e rientravano nell’organico di diritto stabilito per la provincia di Bologna.

A partire dal 2005/2006 le cattedre sono state tagliate dall’organico di diritto e ogni anno, compatibilmente con le risorse,vengono istituite con la definizione del cd. organico di fatto, la qualcosa si riverbera immediatamente sulla piena fruibilità del diritto all’istruzione da parte delle persone ristrette, potendo non essere concesse, o, comunque, concesse con ritardo, anche comportando l’impossibilità di costituire un gruppo di docenti che abbia i caratteri della stabilità e continuità.

Per quanto attiene alla Scuola media inferiore si segnala che, nel corso degli ultimi anni, a seguito del progressivo ridimensionamento dell’organico degli insegnanti, si è verificata una grave menomazione dell’offerta formativa, non essendo stato possibile attivare i corsi relativi presso quelle sezioni del carcere in cui si trovano quei detenuti che non si possono incontrare con i cd. detenuti comuni, il che appare fortemente discriminatorio. A ciò si aggiunge che l’intero reparto femminile nell’anno 2008/09 è rimasto senza corsi di scuola media, carenza che si connota come una vera discriminazione di genere, attesa anche la mancanza di corsi di scuola media superiore.

Per quanto riguarda la Scuola media superiore, che garantisce corsi di Ragioneria, negli ultimi cinque anni l’organico degli insegnanti ha subito riduzioni importanti, comportando un taglio del 50% delle classi, per cui dalle sei classi dell’anno scolastico 2004/2005 si è passati alle tre del 2008/2009, situazione nella quale, a fronte di una richiesta di iscrizioni che non ha subito flessioni, si è dovuto provvedere all’istituzione di pluriclassi (accorpamento di corsisti iscritti a diversi anni scolastici nella stessa classe) con evidente svilimento della didattica. A fronte delle succitate criticità l’Ufficio del Garante delle persone private della libertà personale rimarca la precarietà dell’offerta didattico-formativa presso la Casa Circondariale di Bologna, peraltro in un periodo di estrema problematicità causa il progressivo ed inarrestabile aumento della popolazione detenuta e la scarsezza di risorse umane e materiali.

Auspica che gli attori istituzionali che si occupano dell’offerta scolastica in carcere sappiano porre in essere ogni più opportuno e tempestivo intervento, assicurando alle persone detenute il diritto alla formazione e all’istruzione, e non una offerta residuale in quanto persone svantaggiate, che al contrario devono essere destinatarie di interventi volti a superare diseguaglianze ed ostacoli, come ricordano gli artt. 2 e 3 della Costituzione".

Immigrazione: Gruppo Everyone; vita e morte da clandestino

 

www.imgpress.it, 25 agosto 2009

 

Come si vive nei Centri di identificazione ed espulsione? Il Gruppo EveryOne ha incontrato alcuni migranti che hanno vissuto l’esperienza dell’internamento e testimoniano spaventose violazioni dei diritti umani. "Chi non è mai stato in un centro non immagina neppure cosa passino i prigionieri". testimonia un ragazzo eritreo, "non immagina neppure a che punto arrivi il razzismo, proprio qui in Italia, dove noi migranti pensavamo vi fossero democrazia e solidarietà. Niente di tutto questo. Le condizioni igieniche sono terribili e chi non è già malato quando entra in carcere, si ammala ben presto.

Il cibo è fetido e spesso contiene vermi e mosche morte. Se però un detenuto protesta, viene legato con manette e nastro adesivo e riempito di botte. Anche le donne vengono punite con percosse e non possono protestare o la dose di violenza viene raddoppiata. Uguale sorte spetta ai malati che chiedono le medicine necessarie a curarsi". Il ragazzo stringe i pugni per non piangere di rabbia e disperazione. "Noi eritrei, noi africani siamo sfortunati, perché a casa non possiamo vivere. Se sapete cosa sono la fame e la sete, non potete immaginare lo stesso cosa significhi fame e sete nel nostro Paese, dove vedete i bambini diventare scheletri e morire, ma non si può fare niente per aiutarli. Potete solo pregare, ma non potete fare niente perché non c’è niente.

Anche quando arrivano aiuti umanitari, alla gente non arriva niente e nessuno può possedere niente, perché vengono a portartelo via e la vita non vale niente". Un altro giovane eritreo, magrissimo, continua: "Quando non c’è nessuna speranza, allora una persona affronta anche il viaggio più pericoloso e se può porta con sé la sua famiglia, perché restare vuol dire morire. Quando saliamo su un battello sappiamo che le nostre possibilità sono minime. Ci batte il cuore ogni volta che un’onda ci solleva e ci sentiamo sul punto di rovesciarci.

Sappiamo che nessuno ci aiuterà, perché ognuno di noi ha udito i racconti dei sopravvissuti a una delle tante traversate ed è consapevole di quello che accade, in mare, fra la costa libica e quella italiana. I malati, i bambini e i più deboli sono quelli che si arrendono per primi e muoiono assetati, affamati, senza forze. Chi sopravvive, allora, getta in mare i loro corpi, dopo una breve preghiera. I padri e le madri gettano in mare i cadaveri dei figli, i mariti delle mogli, le mogli dei mariti. E mentre la nostra gente muore, le navi e i pescherecci si avvicinano, gli equipaggi ci guardano, ma non ci aiutano".

Un rappresentante dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, comunicando con gli attivisti Every One, commenta così: "È vero, quella del mancato soccorso è una brutta e purtroppo vecchia storia. Sappiamo bene che è già accaduto e che tutto poi si è risolto nella più totale impunità. Spero che questa volta si indaghi più a fondo e si faccia chiarezza. Altrimenti passerà il principio che il Mediterraneo è una sorta di terra di nessuno, un far west dove non si risponde dei crimini che si commettono".

Immigrazione: la Ue risponde "divideremo il peso tra i Paesi"

di Gianna Fregonara

 

Corriere della Sera, 25 agosto 2009

 

Dopo le lamentele del ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, sul ruolo dell’Unione Europea nell’azione di contenimento degli effetti dei flussi migratori, ieri è arrivata la risposta dell’Ue: "Stiamo facendo del nostro meglio per rispondere allo sbarco di clandestini alle frontiere meridionali dell’Unione", hanno detto da Bruxelles.

Nei fatti, la Commissione europea presenterà il 2 settembre una proposta per il programma di redistribuzione dei rifugiati, di cui si è occupato il consiglio Ue di giugno e che è stato caldeggiato dal presidente di turno dell’Unione, lo svedese Cari Bildt. Ma sarà un programma ad adesione volontaria.

La Commissione europea risponde a Franco Frattini: "Stiamo facendo del nostro meglio per rispondere alla questione degli sbarchi dei clandestini alle frontiere meridionali dell’Unione". Segue l’elenco di tutti i centri per immigrati visitati nei mesi scorsi dal commissario Jacques Barrot. La replica è di uno dei portavoce di Bruxelles, Dennis Abbot, alle accuse del ministro degli Esteri italiano che da giorni addita l’Europa come assente in tema di immigrazione. Anzi, la Commissione presenterà già il 2 settembre una proposta per il programma di ridistribuzione europeo per i rifugiati, di cui si è occupato il consiglio europeo di giugno. Il programma resta su base volontaria, nel senso che i Paesi dell’Unione potranno decidere se aderire o no, e riguarda i mezzi finanziari per far fronte all’emergenza sbarchi e non lo spostamento di immigrati in Paesi diversi da quelli di arrivo secondo un principio di solidarietà europeo.

Il presidente di turno dell’Unione, lo svedese Cari Bildt del resto ha assicurato che l’Europa avrà pronto questo programma per il prossimo vertice di ottobre. E anche se -proprio perché non obbligatorio - questo piano rischia di apparire una risposta blanda, la Farnesina chiude la contesa europea con una "nota di apprezzamento".

Eppure l’Europa resta ancora al centro del dibattito politico, con le proteste dell’opposizione e un vivacissimo botta e risposta tra Emma Bonino e Franco Frattini. Mentre anche dal Quirinale fanno sapere che il presidente della Repubblica - che nei giorni scorsi è stato in contatto con il ministro dell’Interno Roberto Maroni - segue con preoccupazione gli sviluppi della vicenda del gommone eritreo.

Si sta chiarendo in queste ore la posizione giuridica dei cinque eritrei salvati la scorsa settimana: non potranno essere incriminati per immigrazione clandestina. È vero che la Procura di Agrigento ha annunciato che saranno indagati, ma si tratta di un atto dovuto al momento. Il prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento per l’immigrazione del ministero dell’Interno spiega: "Tutti coloro che provengono dall’Eritrea, come da altre zone di guerra del Como d’Africa, godono del riconoscimento della protezione internazionale.

Si tratta di una direttiva dell’Unione Europea, cui aderisce anche l’Italia, che rientra nel concetto del diritto d’asilo pur avendo una sfumatura diversa dallo status di rifugiato politico". Quest’ultimo deve infatti essere riconosciuto a persone "singolarmente" perseguitate, mentre la protezione internazionale riguarda tutti coloro che provengono "da luoghi di guerra o di scontri etnici o tribali", purché ne facciano richiesta.

Dal Meeting di Rimini un applaudito Roberto Calderoli ritorna sulla polemica tra la Lega e i vescovi, dopo la tragedia degli eritrei: "Qui mi trovo a mio agio. Credo che il nostro rapporto con i vescovi sia assolutamente buono, ma rispetto al problema degli immigrati siamo su due piani completamente diversi. Se qualcuno addita come responsabilità di questo incidente una linea politica o una legge del governo, mi dispiace ma non ci siamo".

Immigrazione: Cipsi; il Governo italiano rispetti i diritti umani

 

www.rassegna.it, 25 agosto 2009

 

È una denuncia pesante quella che arriva dal Cipsi, il coordinamento di quarantadue associazioni di solidarietà e cooperazione internazionale: "La tragedia dei migranti eritrei si è consumata nella totale indifferenza della comunità internazionale, prima e dopo i disastrosi eventi: basti vedere i cadaveri non ripescati, il disprezzo totale della vita nel gioco al rimbalzo delle responsabilità tra i governi di Italia, Malta e Libia che negano ogni responsabilità su quanto accaduto. La legge del mare vuole che chi si trova in difficoltà venga soccorso".

A parlare è il presidente del Cipsi, Guido Barbera, che in un comunicato sottolinea come sia "davvero difficile credere che, nonostante la striscia di mare tra Lampedusa e la Libia sia costantemente monitorata, il barcone non sia stato avvistato. Nonostante le leggi razziali approvate dall’Italia - continua Barbera - le ondate di migranti non si arrestano, perché troppo forte è la disperazione che spinge tante persone a rischiare la vita e la libertà per scappare dalla miseria, dalla fame, dai conflitti e dalle continue violazioni dei propri diritti".

Inoltre, denuncia ancora il coordinamento delle 42 associazioni, "i Centri di Identificazione ed espulsione di tutta Italia sono sempre più vere carceri, vicini al collasso, come denunciato in questi giorni da diversi quotidiani nazionali".

"L’entrata in vigore della nuova legge sulla sicurezza - afferma ancora Guido Barbera - sta aggravando la situazione e aumentando la tensione. L’indifferenza rispetto alle tragedie del mare e la mancata assunzione di responsabilità da parte dei governi e della comunità internazionale ci spaventano e ci indignano. Ci auguriamo che su quest’ultimo tragico avvenimento la giustizia faccia il suo corso, che venga fatta luce sulla morte di tante persone, che vengano accertate le responsabilità dei governi ed identificati i responsabili delle omissioni di soccorso e dei tardivi interventi che se realizzati tempestivamente, avrebbero forse potuto salvare tante vite". "Chiediamo ancora una volta al Governo italiano e all’Unione europea il rispetto dei diritti umani di tutti i cittadini e dei rifugiati, il diritto alla vita, alla libera circolazione, all’asilo politico", conclude il presidente del Cipsi.

Immigrazione: prima condanna clandestino, giordano multato

 

Ansa, 25 agosto 2009

 

Prima condanna (di cui si ha notizia) per il nuovo reato di clandestinità: è stata emessa dal giudice di pace di Firenze nei riguardi di un cittadino giordano, al quale è stata inflitta una sanzione di 5.000 euro. Il giudice ha accolto la richiesta del pm che si è orientato a far comminare all’extracomunitario la sanzione in denaro anziché l’espulsione dal territorio italiano.

L’extracomunitario in questo momento è detenuto nel carcere di Sollicciano dopo che a Ferragosto era stato arrestato dai carabinieri per il furto di una bicicletta, reato per il quale, in un procedimento distinto da quello davanti al giudice di pace, ha patteggiato nei giorni scorsi una condanna a tre mesi di carcere. Ieri mattina il giordano si è presentato in udienza scortato da agenti di polizia penitenziaria e con l’avvocato d’ufficio.

Al giudice di pace ha raccontato di essere in Italia da quattro anni e di lavorare nel negozio di pellami di un cugino. Alla luce di questa condanna alla sanzione pecuniaria restano dubbi sull’iter di possibili provvedimenti di espulsione una volta scontata la pena in carcere per il furto. Nell’udienza era anche previsto di trattare le posizioni di una quarantina di immigrati controllati e denunciati finora per clandestinità dalle forze dell’ordine a Firenze, ma il giudice, in accordo con i legali difensori degli imputati, ha applicato la sospensione feriale dei termini processuali rinviando così tutti i procedimenti a una nuova udienza fissata per il prossimo 25 settembre.

È sfociato invece in una denuncia, sulla base del nuovo reato di clandestinità, il colloquio chiesto l’altro ieri nel carcere di Cremona da un extracomunitario che voleva incontrare un detenuto. Dopo aver registrato i documenti dello straniero, gli agenti della polizia penitenziaria hanno condotto i consueti controlli e in breve è emerso che l’uomo non solo è irregolare ma che era già stato colpito di un provvedimento di espulsione. Nei suoi confronti il questore ha decretato l’espulsione immediata dal territorio italiano.

Stati Uniti: anche se c’è crisi, essere poveri è ancora un reato!

 

Internazionale, 25 agosto 2009

 

Negli Stati Uniti basta sempre meno per diventare un criminale ed entrare a far parte di quell’esercito di 2,5 milioni di persone che affollano le carceri. Basta essere poveri. Barbara Ehrenreich denuncia la criminalizzazione della povertà (e dei neri poveri ancora di più) negli Stati Uniti. Come se non bastasse il fatto che uno non ha un posto dove andare a dormire, la polizia ti arresta se dormi per la strada. O se gironzoli senza meta. O se arrivi tardi a scuola perché hai perso il pulmino. A Las Vegas hanno arrestato dei volontari che portavano cibo ai senza tetto.

Ma secondo la Ehrenreich l’America rischia di trovarsi incastrata in un circolo vizioso: la povertà criminalizza le persone, ma la loro criminalizzazione le rende ancora più povere. La crisi mondiale ha colpito duramente la classe media statunitense (tra i 45 e i 50 milioni di persone sono povere). Ma punire i poveri non è la soluzione.

Stati Uniti: Cia sotto inchiesta, dopo rivelazioni di nuove torture

 

Apcom, 25 agosto 2009

 

L’amministrazione Obama ha deciso di andare fino in fondo nell’inchiesta sulle torture commesse durante la guerra al terrorismo e con una mossa attesa da mesi ha deciso di avviare formalmente le indagini nei confronti degli agenti Cia che hanno condotto i durissimi interrogatori sui detenuti. La decisione, annunciata dal ministro della Giustizia, Eric Holder, è arrivata a seguito della pubblicazione dei contenuti di un rapporto sugli abusi perpetrati dalla Cia nel 2004, dal quale emerge che gli agenti arrivarono a minacciare di uccidere i figli dei terroristi per far crollare i detenuti nel corso degli interrogatori.

Gli ufficiali dissero espressamente a Khalid Sheikh Mohammed, considerato uno degli architetti degli attentati dell’11 settembre, che i suoi figli sarebbero stati uccisi se si fossero verificati altri attacchi sul suolo degli Stati Uniti. In un altro caso un detenuto fu minacciato di essere costretto a vedere sua madre violentata davanti ai suoi occhi. A condurre le indagini è stato nominato un super-magistrato per andare fino in fondo agli abusi commessi.

L’uomo scelto da Holder è John Durham, che in passato ha già portato a termine inchieste sulle videoregistrazioni effettuate dalla Cia nel corso degli interrogatori. Ora Durham dovrà verificare come e quando la Cia abbia violato la legge pur di cercare di fermare i "nemici dell’America". A chiedere di proseguire le indagini era stato da ultimo il comitato "etico" del dipartimento di Giustizia, che ha raccomandato al ministro di Giustizia di procedere con l’avvio di un fascicolo.

Una decisione su cui Obama si è sempre mostrato molto restio per non mettere sotto processo i servizi segreti, spiegando che "l’America deve guardare avanti e non indietro". Il presidente ha fatto sapere da Marthàs Vineyard, dove si trova in vacanza in questi giorni, che la scelta se portare in tribunale o meno gli uomini della precedente amministrazione è stata unicamente al dipartimento di Giustizia. Il direttore della Cia, Leon Panetta, ha chiarito invece sin dal suo insediamento che difenderà gli agenti che si sono limitati ad eseguire gli ordini.

 

 

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