Rassegna stampa 11 agosto

 

Giustizia: i suicidi in carcere, la faccia oscura della detenzione

di Sandro Padula

 

L’Altro, 11 agosto 2009

 

Mentre una web radio trasmetteva "The dark side of the moon", mi sono ritrovato a leggere "Il carcere: del suicidio ed altre fughe" di Laura Baccaro e Francesco Morelli (Edizioni Ristretti, 2009, pag. 416, 15 euro; acquistabile anche seguendo le informazioni del sito internet di www.ristretti.it). Un libro eccezionale, tanto da essere in Italia il più aggiornato, preciso e documentato su… the dark side of the prison.

Potrebbe esserne questo l’eventuale sottotitolo in lingua inglese. La musica di accompagnamento più consona però non è quella del capolavoro dei Pink Floyd ma "Uber den Selbstmord" ("Sul suicidio") di Hanns Eisler su testo di Bertold Brecht. Qualcosa in grado di esprimere il crescendo che spesso anima e ritma la concreta preparazione della fenomenologia suicidiaria e dell’autolesionismo. La costruzione dell’esodo solitario, privo di giubilo, per dire basta all’insopportabilità di una vita che non è vita.

Nelle carceri degli anni 60 e 70, in diversi paesi a capitalismo avanzato, le lotte dei detenuti e delle detenute assumono le forme delle rivolte, represse a volte nel sangue con delle vere e proprie stragi di Stato di cui gli storici non parlano quasi mai (ad esempio, nella statunitense Attica nel 1971 e ad Alessandria nel 1974), e delle effettive o tentate evasioni dalle carceri stesse.

In Italia, dove l’articolo 27 della Costituzione non è allora neanche lontanamente applicato e il potere politico non riesce neppure a capire il perché di quelle critiche pratiche al carcere, le lotte della popolazione detenuta fanno nascere, ma senza una loro dettatura esplicita, la riforma carceraria del 1975. Quest’ultima prevede infatti anche il "trattamento differenziato" e il carcere duro per i contestatori o i potenziali disobbedienti del passato e del presente.

Per questo motivo, non certo a causa degli "anni di piombo" (che per altro, dati statistici alla mano, si verificano soprattutto negli ultimissimi anni 70), e stante la moda politico-affaristica delle supercarceri perfino nella tranquilla Svizzera, i governanti italiani autorizzano la nascita delle carceri speciali nel 1977 e fanno in modo che vi finiscano proprio i dirigenti delle passate lotte della popolazione detenuta.

Fra il 1977 e il 1980 nascono rivolte nelle stesse carceri speciali, ma in seguito la situazione oggettiva cambia notevolmente e di conseguenza si trasformano anche i fenomeni soggettivi di critica pratica al carcere.

L’ultimo fra i maggiori tentativi di evasione è quello, narrato in un fumetto da Francesco Lo Bianco e Francesco Piccioni ("Alla prossima volta", 1989, Edizioni C.I.D.S), messo in opera nel 1987 da alcuni detenuti provenienti dalle BR e reclusi nel carcere romano di Rebibbia.

Dopo di allora, stante la legge Gozzini e la sua filosofia premiale e discrezionale nella concessione di misure alternative (permessi, semilibertà eccetera) alle persone detenute con "buona condotta inframuraria", le grandi evasioni dalle carceri italiane non vengono né fatte né tentate.

Le proteste dei prigionieri e delle prigioniere assumono la forma dominante degli scioperi della fame, del vitto e delle prescrizioni mediche. Le più drammatiche e solitarie contestazioni individuali sfociano invece nei suicidi (1.364 dal 1980 al 2007), nei tentati suicidi (17.947 dal 1980 al 2007) e negli autolesionismi (93.414 dal 1990 al 2007).

In più di una circostanza i detenuti vedono agenti di polizia penitenziaria ed infermieri attorno al corpo di un prigioniero suicida o feritosi da solo. Uno specchietto sistemato all’improvviso fuori dallo spioncino della cella, per lo più di notte, riflette corpi, oggetti, pavimenti ed ombre dei prima non decodificabili e ansiogeni rumori provenienti dal corridoio della sezione. Poi, col nuovo giorno, trascorse alcune ore di passeggio nel cortile e proferite due parole su quanto avvenuto, quasi tutti fanno finta di nulla.

Per non essere imprigionati in maniera completa dal microcosmo della più grande fabbrica della morte sociale, le persone prigioniere tendono a produrre continue evasioni mentali di resistenza e quindi anche rimozioni rispetto a molti eventi traumatici.

"Il carcere: del suicidio ed altre fughe" analizza quindi gran parte del rimosso dall’esperienza stessa della popolazione detenuta e quanto, della realtà carceraria, risulta più sconosciuto alla materia sociale "extramuraria".

In questo senso, pur essendo utile alla riflessione di ognuno, dovrebbe essere letto soprattutto da chi non sa cosa significhi concretamente la parola carcere e in particolare da coloro che insegnano e studiano nelle facoltà universitarie di Giurisprudenza. Fra i testi universitari non se trova neanche uno così preziosamente attraversato dalle problematiche del perché in carcere si determinino dei tassi molto più alti di suicidi e di autolesionismi rispetto a quelli medi rilevabili nella società.

Con prefazione di Alessandro Margara e post-fazione di Luisella De Cataldo Neuburger, il saggio si dipana attraverso analisi e riflessioni multidimensionali.

Dopo una digressione sul fenomeno suicidiario per come è stato ed è considerato dalle diverse civiltà e religioni, affronta temi specifici dai seguenti titoli: il suicidio in carcere, i tentati suicidi nella popolazione detenuta, i comportamenti di auto ferimento, i comportamenti autolesivi nelle minoranze, cronache di ordinaria disperazione e… che fare?.

"Il carcere: del suicidio ed altre fughe" presenta all’inizio il testo della "Preghiera in gennaio" di Fabrizio De André; poi, nell’ambito dei suoi capitoli, grafici, una poesia di Geraldina Colotti, disegni e tabelle e infine si chiude con delle appendici storiche, normative e statistiche.

I motivi dei fenomeni suicidari e delle altre fughe autolesioniste sono molteplici, mai monofattoriali, ma in carcere trovano uno spazio/tempo oggettivamente più favorevole per prodursi.

In un saggio del 1878, Lombroso afferma che la percentuale dei suicidi tra i carcerati è 3 volte superiore a quella tra i non reclusi, ma riferisce la spinta verso il suicidio alla struttura mentale della persona detenuta, alla "mancanza dell’istinto di conservazione", e riporta degli studi sulle brocche dell’acqua usate dai carcerati come "posta interna". In una di esse, dove appare anche un militare minaccioso che resta a guardare il suicidio di un detenuto, si legge: "Io sono un disgraziato, il mio destino è di morir in prigione strangolato".

La realtà è miliardi di volte più complessa rispetto al tempo e alla cultura di Lombroso ed oggi, fatte le debite proporzioni, è relativamente peggiore. In linea generale, tanto per ricordare i dati di fatto più allarmanti riportati nel libro di Laura Baccaro e Francesco Morelli, il tasso dei suicidi in carcere è in Italia 20 volte superiore a quello della "società libera": su 10 mila persone è del 9,88% nel sistema carcerario e dello 0,50% fuori di esso negli anni 2004-2007. Calcolando inoltre che fra il 1960 e il 1969 il tasso dei suicidi nelle carceri del nostro paese era del 3,01% su 10 mila persone si può facilmente capire che oggi il fenomeno è parecchio più grave!

Per quanto riguarda la ripartizione dei suicidi nel quadro del "trattamento differenziato" riservato alle persone prigioniere, nel periodo 2004-2008 il primato spetta a coloro che si trovano in isolamento (pari ad un tasso medio del 26,19% sul totale dei suicidi in carcere) e al 41 bis, cioè al carcere più duro (pari ad un tasso medio del 4,86% sul totale), mentre il generale tasso medio suicidario della popolazione detenuta è pari alla percentuale di 1,09.

Negli anni 1999-2007, in riferimento alla posizione giuridica, il tasso medio percentuale di suicidio su 10 mila persone detenute è di 22,9 per gli internati (figura giuridica da abolire prima possibile), 11,8 per gli imputati e 8,4 per i condannati.

Sempre negli anni 1999-2007, il tasso medio percentuale di suicidi su 10 mila persone detenute è pari al 28,4 per i tossicodipendenti (31,17 sul totale dei suicidi carcerari) e al 23, 54 per gli stranieri (18,88 sul totale dei suicidi carcerari).

In sintesi, la realtà concreta degli ultimi decenni ha peggiorato in modo multiforme le condizioni psico-fisiche dei detenuti ed è riuscita in gran parte a disarticolare il codice non scritto della solidarietà antioppressiva fra i "sommersi" coimputati e reclusi. Nel contesto di una maggiore differenziazione del trattamento e della composizione tipologica, sociologica e giuridica delle persone prigioniere, quasi parallela alla maggiore differenziazione dei redditi, degli strati e dei diritti nella società, il libro di Laura Baccaro e Francesco Morelli colma un vuoto analitico sull’aspetto meno indagato del carcere.

I gap cognitivi sono alcune fra le cause più importanti dell’incoscienza rispetto alla drammaticità del penoso e sovraffollato Stato penale presente. Pochi studiano, analizzano e riflettono sulle questioni della mortificazione, del suicidio e dell’autolesionismo riguardanti la popolazione detenuta. Ben vengano dunque i libri in grado di superare i limiti presenti anche nelle migliori fra le vecchie analisi.

Giustizia: del suicidio e di altre "misure alternative" alla cella

di Antonella Barone

 

www.innocentievasioni.net, 11 agosto 2009

 

Uno studio sul suicidio in carcere dall’800 ad oggi con dati correlati ai cambiamenti della tipologia dei detenuti e dei sistemi legislativi, approfondimenti sull’autolesionismo degli stranieri e degli internati, analisi degli interventi istituzionali e, infine, vasta appendice storica, statistica e normativa.

"In carcere: del suicidio ed altre fughe" (Edizioni Ristretti, 2009; pag. 416; 15 euro ) di Laura Baccaro, psicologa criminologa, e Francesco Morelli, curatore per "Ristretti Orizzonti" del dossier "Morire di carcere", racconta tutto quello che oggi si sa sul suicidio e sull’autolesionismo dei detenuti, ma anche quello si vorrebbe evitare di sapere.

Perché, come ricordano gli autori nell’introduzione, citando Baudrillard, il tabù della morte auto-provocata è forte. Figuriamoci, poi, se il suo scenario è un luogo a sua volta oggetto di rimozione, come il carcere, dove il tasso dei suicidi è venti volte superiore a quello della popolazione libera.

 

"Ristretti Orizzonti" pubblica da anni il dossier "Morire di carcere". Emergono dati nuovi sul fenomeno del suicidio in carcere da una visione d’insieme?

Francesco Morelli. Ho iniziato a curare il Dossier nel 2002: otto anni sono forse un periodo di tempo breve per "misurare" dei cambiamenti in un fenomeno sociale, sia pure estremamente specifico come quello dei suicidi in carcere. Tuttavia alcune "tendenze" mi pare si stiano evidenziando: l’aumento dell’età media dei detenuti suicidi; l’aumento del tasso di suicidio tra i detenuti stranieri; l’aumento dei suicidi tra i detenuti sottoposti a regimi "differenziati" (A.S., 41-bis).

Le prima tendenza può trovare forse una spiegazione nel fatto che alcune "categorie" di detenuti stanno progressivamente invecchiando (ad esempio i tossicodipendenti da eroina), mentre le altre due a mio parere sono il sintomo di una crescente disperazione (intesa come perdita della speranza di tornare alla vita libera) che si sta diffondendo specialmente in alcuni "gruppi sociali" di detenuti.

Gli stranieri hanno il futuro segnato dalla inevitabile espulsione e dalle paure e vergogne legate al ritorno "da sconfitti" nel paese di origine, mentre i "differenziati" (soprattutto se ergastolani), non vedono altro futuro se non quello di invecchiare e morire in carcere, quindi a volte preferiscono darsi la morte per evitare ulteriori sofferenze "inutili"... non essendoci una prospettiva di uscita dal carcere.

 

Quali strumenti hanno gli operatori, realisticamente, oggi, in un carcere sovraffollato e con poco personale per prevenire i suicidi?

Laura Baccaro. Già in condizioni "normali", quale può essere normale un carcere, è difficile prevedere il punto di "non ritorno" di un soggetto, vedere quando le sue r-esistenze sono finite, quando la resilienza è diventata solo un termine tecnico, figuriamoci in queste condizioni di sopravvivenza cosa può fare un operatore! Non è un alibi per non fare ma la desolata constatazione che poco si riesce a fare.

Gli strumenti a disposizione sono quelli di sempre (sezione nuovi giunti, colloquio, ecc) ma è la applicazione di questi che viene resa precaria dall’aumento della popolazione carceraria che riduce il tempo a disposizione anche solo per "vedere" il detenuto.

Cosa si può fare? Il lavoro in equipe, non solo nell’ottica dell’equipe del trattamento, può diventare una forza nel momento in cui serve a mettere in comune informazioni sul "clima" generale dell’istituto e per individuare le aree o le sezioni di maggiore criticità ove indirizzare le scarse risorse. Un operatore nel momento in cui si sente da solo nel lavoro è impotente, quale realisticamente è. Lavorare in gruppo aumenta in modo esponenziale le conoscenze di ognuno in quanto condivide le proprie osservazioni su detenuti diversi. Forse andrebbero ripensati i ruoli e rivalutate le competenze di tutti i membri in un’ottica di comunità quale è appunto il carcere.

 

L’ossessione securitaria, il clima socio politico del momento, gli interventi realizzati e annunciati dal governo in materia di sicurezza,in particolare quelli sulla legge Gozzini, possono avere una relazione sul comportamento suicidiario?

Laura Baccaro. Chiaramente il clima politico esterno di ossessione securitaria aumenta la disperazione dei ristretti: è un momento in cui i detenuti oltre a veder peggiorare di giorno in giorno le condizioni di vita a causa dell’aumento vertiginoso degli ingressi, con celle stipate e turni per stare in branda, vedono stringersi sempre di più le possibilità di uscire a causa della diminuzione della concessione di misure alternative e aumentare le possibilità di rientrare in galera. Non hanno possibilità.

La parola speranza per loro è solo l’ennesima bugia, non ha alcun valore nelle condizioni di vita in cui vivono. In queste situazioni sentono di non avere nulla da perdere: chi non ha nulla può permettersi di perdere la sola cosa che ha, cioè quella vita lì, in quelle condizioni e con quel tipo di futuro segnato.

Perché le politiche securitarie non promettono nulla di buono neanche a chi esce... e neppure a chi è temporaneamente "fuori" perché il governo "produce" sempre nuovi tipi di reato punibili esclusivamente con la reclusione. D’altro canto le politiche senza speranza "stanno suicidando" sempre più gli emarginati e i poveri, gli immigrati e i deboli, quelli che "hanno il futuro di dietro".

Non dimentichiamo anche che tutte le politiche di sicurezza legittimano e, spesso, auspicano, l’uso della forza e dell’aggressione per il cosiddetto "bene comune" e l’autoaggressione suicidaria è il culmine nell’applicazione di queste strategie sociali di morte.

Giustizia: ecco l’ennesima polemica sulle "scarcerazioni facili"

di Paolo Persichetti

 

Liberazione, 11 agosto 2009

 

Nel Paese del carcere facile, il "Corriere della Sera" s’inventa l’ennesima polemica sulle scarcerazioni rapide.

Ieri il Corriere della Sera ha pensato bene di rilanciare l’ennesima polemica sulle presunte, sottolineo presunte, scarcerazioni facili. Forse qualcuno aveva bisogno di una cortina fumogena per distogliere l’attenzione dai rastrellamenti di stranieri senza permesso di soggiorno che il nuovo pacchetto sicurezza, appena entrato in vigore, autorizza. In prima pagina è apparsa la lettera del padre di Barbara Bellorofonte, una ragazza di 18 anni uccisa con un colpo di pistola il 27 febbraio 2007 dal fidanzato, un maschio iper-possessivo.

Luigi Campise, l’omicida, fuggito in un primo momento si era poi consegnato ai carabinieri. Reo confesso è stato condannato a 30 anni di reclusione in primo grado. Ora però è stato scarcerato e il padre, comprensibilmente indignato, ha preso carta e penna per denunciare il fatto.

L’eco suscitato dalla sua protesta ha subito provocato la reazione del ministro della Giustizia, Angelino Alfano, che ha incaricato gli ispettori del suo ministero d’avviare accertamenti preliminari per acquisire informazioni sull’episodio.

Poco tempo fa una ricerca sulla relazione tra organi d’informazione e allarmi sociali spiegava come la paura nasce in prevalenza sui media. In altre parole, quella che gli esperti definiscono "percezione dell’insicurezza" è il frutto di un rapporto distorsivo tra media, politica e realtà. L’amplificazione della cronaca nera e degli affari giudiziari suscita un clima ansiogeno nella società che la politica prende a pretesto per giustificare scelte largamente precostituite.

Come se nulla fosse il Corriere ha riproposto il medesimo dispositivo, un mix che mette insieme la reazione emotiva dei familiari della vittima con un resoconto approssimativo, per non dire inesatto, dei fatti. Il risultato è micidiale al punto da diffondere l’idea, come scrive con sincera esecrazione il papà della ragazza uccisa, che in Italia "tutto è permesso, tutto è possibile, compreso un omicidio, tanto poi si riesce sempre a trovare il modo di essere liberati".

Eppure il nostro codice non è tenero con gli imputati. Per reati gravi come l’omicidio volontario prevede una custodia cautelare massima di sei anni. Non è raro vedere persone innocentate dopo aver trascorso lunghi anni della propria vita in detenzione. Sei anni sono lunghi, quanto basta per vedere la propria esistenza stravolta, per non ritrovare più la vita passata. I limiti frapposti alla custodia cautelare sono una garanzia fondamentale che tutela il cittadino dal rischio di rimanere sequestrato in carcere dalla magistratura senza processo.

Sono i limiti di durata della custodia cautelare che impongono alla macchina giudiziaria tempi certi e non eccessivamente lunghi sulla durata di inchiesta e processo penale. Negli Usa con una cauzione l’accusato viene scarcerato immediatamente in attesa che una sentenza definitiva decida della sua colpevolezza o innocenza.

Cosa è realmente successo allora? Campise era già tornato libero per decorrenza dei termini di custodia cautelare il 25 aprile 2008. Allora il difensore di parte civile scelto da papà Bellorofonte, l’avvocato Enzo De Caro, aveva così spiegato i fatti senza gridare allo scandalo: "questa scarcerazione è dovuta alla lentezza della giustizia. In questi procedimenti sono necessarie consulenze tecniche per le quali c’è bisogno di tempi biblici".

Intanto Campise era stato riarrestato per altri reati precedenti all’omicidio e per questi condannato a 4 anni. Circostanza che probabilmente aveva tranquillizzato la famiglia della vittima, anche perché al processo Campise era comparso in stato detentivo, ma solo perché detenuto per altri fatti. Un effetto ottico, insomma. Anche le azioni delittuose che l’avevano riportato in carcere erano precedenti al 2006. Circostanza che gli ha consentito di usufruire dell’indulto ed uscire nuovamente. Dettagli tecnici forse, ma qui la forma è sostanza.

Campise non è stato rimesso in libertà nonostante i 30 anni di reclusione ricevuti. Era già scarcerato per i fatti incriminati quando è giunta la condanna. Poi, essendo intercorso appello, la sentenza non è diventata definitiva. E finché non c’è una sentenza passata in giudicato prevale la "presunzione d’innocenza", come recita la costituzione. Nella fattispecie, poi, il pm che in aula aveva chiesto l’ergastolo non ha ritenuto di dover sollecitare un nuovo arresto contestualmente alla sentenza, come avrebbe potuto secondo il codice.

D’altronde una semplice condanna provvisoria non sarebbe stata sufficiente in mancanza di un "comprovato rischio di fuga". Non siamo dunque di fronte ad un problema di certezza della pena, come la vicenda così presentata sembra suggerire, ma ad una disfunzione dell’inchiesta preliminare, ad una eccessiva lentezza delle indagini di fronte ad un caso che, tutto lascia supporre (il condizionale è d’obbligo non essendo a nostra disposizione il fascicolo), non avrebbe dovuto richiedere lunghe investigazioni, vista la semplicità dei fatti, la confessione e i riscontri.

Le perizie (come suggerito dalla parte civile), molto probabilmente quelle sulla personalità dell’imputato, hanno allungato a dismisura i tempi. Il problema è dunque la macchina giudiziaria, il mercato delle consulenze (i compensi sono legati alla durata), ma anche il fatto che certe procure privilegiano inchieste che offrono maggiore visibilità politica. A pagarne il prezzo alla fine resta una giovane donna e i principi del garantismo.

Giustizia: dopo scarcerazione omicida Alfano muove ispettori

di Barbara Bellorofonte

 

Corriere della Sera, 11 agosto 2009

 

"Ho immediatamente incaricato i miei ispettori di fare degli accertamenti preliminari per acquisire delle informazioni in tempi rapidissimi e per comprendere subito, già oggi, come è potuto accadere. E dunque ho inviato gli ispettori in via d’urgenza". Intervistato dal Tg5, il ministro della Giustizia Angelino Alfano commenta così la scarcerazione di Luigi Campise, l’ex fidanzato di Barbara Bellorofonte condannato in primo grado a 30 anni di carcere per l’omicidio della ragazza, avvenuto due anni fa.

Era stato il padre della giovane a sollevare il caso con una lettera pubblica dal Corriere della Sera nella quale si chiedeva se questa fosse giustizia. "L’assassino di mia figlia - afferma Bellorofonte - è libero di scorrazzare per le strade di Soverato nonostante la condanna a 30 anni. Che delusione la giustizia: non ci credo più. Ignoro i motivi che hanno indotto la giustizia italiana a liberare l’omicida, ma quello che mi chiedo da padre, da cittadino, da uomo, è se è giusto tutto questo!

Se è giusto additare ai nostri giovani questo esempio di comportamento e far capire che in Italia tutto è permesso, tutto è possibile, compreso un omicidio, tanto poi si riesce sempre a trovare il modo di essere liberati".

Alfano ha espresso innanzitutto "un senso di forte vicinanza nei confronti dei familiari della ragazza uccisa" spiegando poi che "a volte l’ossequio formale della legge contrasta fortemente con il senso profondo di giustizia di ciascuno di noi. Quando ciò accade evidentemente qualcosa non va". Intanto Luigi Campise definisce "una casualità" il delitto. "Sono assolutamente pentito - ha detto al Tg1 - ma questa tragedia è stato il frutto di un raptus. Non volevo uccidere Barbara".

Giustizia: i posti-branda regolamentari, sono meno di 40mila

 

Il Velino, 11 agosto 2009

 

"Dalle ultime rilevazioni risultano mancanti 3.219 posti letto sui 43.032 regolamentari, a disposizione dell’Amministrazione penitenziaria". Sono le parole del leader del sindacato Osapp, Leo Beneduci, che a cinque giorni dalla visita annunciata a Secondigliano torna sul problema del sovraffollamento e degli effetti del caos che si sta verificando all’interno delle sezioni: "Il problema carcerario assume oramai i contorni della situazione cronica - sostiene Beneduci - con risultati maggiori in Sicilia dove di posti letto ne mancano 608 su un totale di 4.727 o in Sardegna e in Toscana dove le carenze raggiungono rispettivamente quota 475 su 1.971 posti e 422 su 3.035. Con un tasso di sovraffollamento come quello italiano che vede appunto al 4 di agosto 63.536 reclusi su una capienza tollerabile di 64 mila unità detentive, un posto letto in meno significa dormire per terra".

"Siamo stati i primi - insiste il dirigente sindacale - a denunciare lo scorso anno questa situazione a Torino Lorusso Cotugno, da lì il problema ha assunto propagazioni inimmaginabili in tutto il territorio nazionale dove adesso i detenuti tirano a sorte per la conquista di un materasso o di una coperta. Anche alla luce di questo vorremo che il 15 agosto prossimo non si trasformasse nella solita passerella dei politici in visita di cortesia nelle carceri.

E ci riferiamo ai tre giorni di ferragosto che il Pr sta organizzando con la pretesa che diventi la più imponente visita ispettiva nelle carceri italiane, con oltre cento deputati, eurodeputati e consiglieri regionali di tutte le forze politiche a visitare, dicono loro, le oltre 200 carceri della penisola". "Sappiamo già - aggiunge - che chi andrà a visitare le sezioni si troverà di fronte uno spettacolo solo in parte penoso, quantomeno migliorato dal punto di vista del presidio del personale di polizia.

Una recente circolare del Dap infatti ha prescritto una serie di procedure al fine garantire adeguata accoglienza e accompagnamento durante tutto il tempo di permanenza del Parlamentare nella sede. Si accresce la presenza di personale nella giornata, e in quegli istituti oggetto di attenzione da parte dei parlamentari. A tal riguardo non è escluso che si smobilitino unità da altre strutture penitenziarie, depotenziando così istituti già di per sé scoperti. Se non sarà così il risultato ci sarà lo stesso: in pratica c’è il rischio che anche i Parlamentari andranno ad aggravare il lavoro della polizia penitenziaria".

Giustizia: gli psicologi penitenziari e il "Ferragosto in carcere"

 

Agenzia Radicale, 11 agosto 2009

 

"La Sipp, (Società di Psicologi Penitenziari Italiani) - ha dichiarato Giovanna Donzella, Referente Regionale del Veneto - aderisce all’iniziativa promossa dall’Onorevole Rita Bernardini e dal Partito Radicale "Ferragosto in Carcere" che vede coinvolti 80 parlamentari e senatori ed europarlamentari, che a cavallo del 14-15 e 16 agosto visiteranno le 128 carceri italiane.

La grave situazione in cui versano gli Istituti carcerari ed in particolar modo alcune figure altamente a rischio come gli psicologi penitenziari del Settore adulti e minorile, è stata già evidenziata in una manifestazione indetta, appunto, dagli psicologi svoltasi a Roma il 26 giugno davanti al Parlamento, in cui hanno aderito anche sociologi e criminologi.

La protesta non è stata solo la rivendicazione di una categoria ormai stabilmente precaria da trenta anni ma ha voluto evidenziare la quasi totale impossibilità, dovuta alle riduzioni drastiche sugli orari di lavoro, a svolgere funzioni che contribuiscono alla sicurezza perché aiutano a ridurre la tensione nelle carceri e contenere il rischio di recidiva quando i detenuti saranno restituiti alla società per fine pena o concessione di benefici.

Questi professionisti operanti nel sistema carcerario possono dedicare, in media, solo due ore l’anno ad ogni detenuto, troppo poco per fornire le valutazioni richieste dalla magistratura che concorrono a definire la pericolosità dei detenuti per la concessione di pene alternative alla detenzione e per aiutare il reo alla consapevolezza dei propri comportamenti e al danno arrecato alla collettività.

L’aumento della popolazione detenuta, è dovuta anche all’introduzione di nuovi reati perseguibili penalmente come lo stalking, la clandestinità mentre per quanto riguarda il trattamento interno, in riferimento all’osservazione scientifica della personalità si aggiungono circolari interne che lo rendono obbligatorio per i sex-offender e per la popolazione detenuta in alta sicurezza.

In una fase in cui il sovraffollamento ha raggiunto i massimi livelli di guardia (mai lo spazio vitale disponibile è stato così ridotto) e il clima di allarme sociale chiede una maggiore attenzione per monitorare i soggetti in esecuzione penale esterna, assistiamo alla totale precarietà e riduzione dell’impiego di competenze specifiche.

I dati al 4 agosto registrano 63.567 presenze di detenuti a fronte di una capienza di 43.327 unità, dall’inizio dell’anno sono morti 89 detenuti e 34 di loro si sono suicidati, poniamo l’accento su un sistema penitenziario nel quale metà dei detenuti è in custodia cautelare e tra i condannati 9.000 hanno pene inferiori ad un anno.

Inoltre, da una recente intervista all’Onorevole E. Casellati, sottosegretario alla Giustizia, emerge che il 2007 ha visto un turnover di arresti, che ha coinvolto 94 mila persone, di cui 24 mila scarcerati nei 3 giorni successivi all’arresto. Sottolineiamo che i tagli finanziari, non aiutano a contenere il triste primato dei suicidi che evidenziano un forte disagio di natura psicologica legata alle condizioni interne ed esterne".

Giustizia: 3 detenuti di Guantanamo trasferiti in Italia a breve

 

Ansa, 11 agosto 2009

 

L’intesa tecnica per la consegna all’Italia di tre detenuti di Guantanamo è stata raggiunta e - secondo quanto si apprende da fonti del ministero della Giustizia - diventerà esecutiva una volta che il documento sarà sottoscritto dal Guardasigilli Angelino Alfano e dal Attorney General Usa Eric Holder. Le firma viene data per imminente, probabilmente dopo Ferragosto. L’accordo è stato raggiunto su tre tunisini (Riad Nasri, Moez Fezzani e Abdul bin Mohammed bin Ourgy) che hanno un procedimento penale pendente in Italia e che dunque, una volta toccato il suolo italiano, andranno in carcere in esecuzione di una misura cautelare chiesta dalla magistratura di Milano. Una volta che Alfano e Holder avranno firmato l’intesa, potrebbe passare del tempo prima che i tre detenuti vengano trasferiti in Italia. Il loro arrivo è comunque previsto entro la fine del 2009.

Lettere: ma ci sono "ergastolani buoni" e "ergastolani cattivi"?

 

Lettera alla Redazione, 11 agosto 2009

 

L’ex terrorista "nero" e pluri-ergastolano Valerio Fioravanti, condannato al carcere a vita anche per la bomba del 2 agosto 1980, della quale s’è sempre proclamato innocente, a differenza che per gli altri omicidi, è uscito definitivamente di prigione… Grazie ai benefici previsti per tutti i detenuti. Ergastolani compresi. (Fonte: Corriere della Sera, lunedì 3 agosto 2009).

Le cose non stanno così! Fioravanti è libero in base ad una legislazione che non vale per tutti gli ergastolani. Forse il giornalista Giovanni Bianconi, che ha scritto questo articolo, non sa che ci sono condanne all’ergastolo ostativo a qualsiasi beneficio.

Non sa che ci sono ergastolani, ragazzi al momento del loro arresto, che se non collaboreranno con la giustizia non potranno mai uscire, neppure dopo centro anni di carcere, perché condannati per reati aggravati dal fatto di essere stati commessi al fine di agevolare l’associazione criminosa di appartenenza. L’art. 4 bis L. n. 354/75, norme sull’ordinamento penitenziario italiano, è stato introdotto allo scopo di ottenere informazioni da chi è detenuto, prolungando anche in perpetuo la pena, come nel caso dell’ergastolo. Con tale norma è stabilito il divieto di concessione delle misure alternative alla detenzione a quei detenuti che non collaborino con la magistratura.

Che la legge o che l’ergastolo sia uguale per tutti è una leggenda. Ci sono ergastolani condannati a morire in carcere perché, come me, non accetteranno mai di collaborare o di mettere un altro in carcere a loro posto. Molti ergastolani non accetteranno mai ricatti da uno Stato ingiusto che ti condanna a pene inumane per ottenere informazioni e confessioni. In questi casi la pena dell’ergastolo è peggiore della pena di morte.

La morte ti ruba solo la vita. La pena perpetua ti ruba l’amore, la speranza, il futuro. Ti ammazza lasciandoti vivo. Spesso i criminali uccidono senza odio, invece lo Stato ti uccide pian pianino, un po’ tutti i giorni con odio e vendetta. Non ci sono ergastolani buoni ed ergastolani cattivi. Una speranza andrebbe data a tutti, anche agli ergastolani cattivi come me.

 

Carmelo Musumeci, Carcere di Spoleto

Lettera: detenuto ad arresti domiciliari "ho pochi mesi di vita"

 

La Provincia Pavese, 11 agosto 2009

 

Sta morendo, ed è lui stesso a raccontare il suo dramma: "I medici mi hanno spiegato che probabilmente non arriverò a Natale". Gioacchino Posata, un vogherese di 44 anni, era agli arresti domiciliari e nei giorni scorsi ha chiesto di tornare in carcere per non morire da solo in casa sua. "Mi hanno accontentato, ma poi mi hanno rimandato a casa perché sono troppo malato per stare in prigione - spiega - Purtroppo in Italia non c’è l’eutanasia, e adesso ho paura".

"Come mi sento? - racconta - Non è facile tirare avanti sentendo il fiato della morte sul collo. Ho una cirrosi epatica inoperabile e un tumore al rene, non ci sono speranze di guarigione. L’eutanasia in Italia è vietata: devo aspettare che giunga la mia ora, vivendo alla giornata. In questa situazione la cosa peggiore è la paura di restare da solo, specialmente di notte. Un paio di settimane fa mi sono sentito male a tarda ora.

Capita spesso: cado a terra, non sono più in grado di muovere un muscolo, non riesco a parlare per chiedere aiuto. La mattina dopo mi ha trovato una vicina di casa, che viene a darmi una mano per i lavori domestici. Ha visto che ero svenuto, e ha chiamato il 118. Dopo le cure in ospedale mi hanno dimesso e sono tornato a casa con le mie paure".

"È stato allora - continua Posata - che ho deciso di chiedere al tribunale di Voghera la revoca degli arresti domiciliari, che mi avevano concesso proprio per le mie cattive condizioni di salute. Il giudice mi ha accontentato e sono tornato al carcere di San Vittore. L’infermeria della casa circondariale mi ha subito inviato all’ospedale San Paolo di Milano, che accoglie i detenuti bisognosi di cure ospedaliere; ma ci sono stato poco. Anche al San Paolo hanno detto che non possono fare nulla per me: ho un foglio in cui i medici consigliano il ricovero in una struttura idonea, oppure il contatto con gli assistenti di zona in attesa che arrivi la mia ultima ora. Mi dicono che l’ospedale di Voghera non è abbastanza attrezzato per quelli come me; forse andrebbe bene il San Matteo di Pavia, con il centro-trapianti.

Ma, purtroppo, per me anche un trapianto sarebbe inutile: me lo hanno detto chiaramente. Spero che qualcuno mi aiuti, non posso continuare a vivere così". Gioacchino Posata è una persona molto conosciuta a Voghera. Per anni ha gestito un’officina meccanica e poi un banco di ortofrutta: finché si è trovato coinvolto in un paio di reati, tra cui una storia di estorsione, ed è finito in prigione. "Adesso che è fallito il mio tentativo di tornare in prigione, anche se in un reparto ospedaliero per detenuti - prosegue Posata - sono in un vicolo cieco.

Le mie condizioni di salute sono incompatibili con la detenzione, e gli ospedali con reparti destinati ai detenuti, come il San Paolo di Milano, non sono abbastanza attrezzati. L’Asl mi ha giudicato invalido al 100% e mi ha concesso una pensione di 800 euro al mese. Ma dopo che mi sono sentito male l’ultima volta ho paura a restare da solo, e li spendo tutti per pagare una signora che mi fa le notti. Per fare la spesa devo contare sull’aiuto dei miei genitori, che mi danno qualcosa. Ho chiesto l’accompagnamento, ma mi hanno risposto che se ne riparlerà nei prossimi mesi: temo però che sarà troppo tardi". Come passa le sue giornate?

"Aspetto. Non riesco a cucinare, a sbrigare le faccende domestiche: ho chiesto al Comune se può mandarmi qualcuno per aiutarmi nelle pulizie. Devo prendere una quantità enorme di medicine e a volte dimentico qualcosa: ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a stare dietro a queste cose oppure di un ricovero in ospedale. Come faccio per mangiare? Ogni giorno il Comune mi manda un pasto caldo completo, ma purtroppo il servizio c’è solo a mezzogiorno: se voglio mangiare anche alla sera devo tenere da parte qualcosa del pranzo. La mia preoccupazione più grande, però, è quella di morire da solo: quando verrà il momento, nessuno se ne accorgerà".

Prima di congedarsi, Gioacchino Posata vuole togliersi un sassolino dalla scarpa. "Mesi fa - racconta - mi hanno arrestato dicendo che evadevo dagli arresti domiciliari. Vorrei dire che non sono state le forze dell’ordine a darmi la caccia: sono stato io a consegnarmi quando ho appreso la decisione del giudice (che comunque poi è rientrata subito viste le gravissime condizioni di salute del detenuto, ndr)".

Spoleto: entro settembre 300 nuovi arrivi nel carcere Maiano

 

www.osservatorioantigone.it, 11 agosto 2009

 

Non ci si può far trovare impreparati. Stanno arrivando, e saranno in tanti. In questo momento in Umbria è tutto un allestire nuovi reparti e raddoppiare celle. A Spoleto sono arrivati 75 nuovi detenuti e altri ne arriveranno, si parla complessivamente di 300 nuovi arrivi nel carcere di Maiano entro il mese di settembre. Se le previsioni sono giuste pure questo istituto umbro, come quello di Capanne, vedrà raddoppiata la sua popolazione fino a 600 detenuti. Un intero piano lasciato libero su richiesta del Ministero nel padiglione dei "detenuti comuni" è quasi pronto ad ospitarne altri 100. Ma arriveranno "detenuti comuni", o saranno detenuti di diversa tipologia?

Questa domanda non banale se la fanno tutti quanti, perché Spoleto è una casa di reclusione, strutturata ed organizzata per gestire detenuti in regime di alta e altissima sicurezza, nella quale mescolare circuiti diversi crea gravi problemi nella gestione di tutte le attività, dai colloqui alle attività culturali. Considerando poi che da circa 10 anni il personale di custodia non viene incrementato (330 agenti e 40 Gom - 70 in meno dell’organico assegnato) e che di conseguenza buona parte dell’organico è composto da graduati e da personale vicino al pensionamento, l’ottimismo non trova molto spazio. L’ipotesi più favorevole è che questo piano libero sia occupato da altri detenuti comuni.

Intanto la storia si ripete, a Maiano come a Capanne, celle di nove metri quadri vengono trasformate da singole in doppie. L’istituto ad oggi è ancora in una situazione di relativa tranquillità ma ancora per poco e chi lavora lì dentro lo sa bene. Vogliamo ricordare che da oggi entra in vigore il nuovo decreto sulla sicurezza. Il regime di 41bis sarà ancora più duro da ora in poi. I detenuti potranno "scegliere" ogni mese, se ricevere una telefonata di 10 minuti oppure avere un colloquio. Le ore giornaliere di socialità scendono da due a una come pure quelle di "aria". Non più libero accesso al sopravitto ma solo alimenti che non devono essere cotti. E così via.

Cremona: detenuti al lavoro, si occuperanno di canili e cimiteri

 

Ansa, 11 agosto 2009

 

"Vogliamo lavorare per la città". É questa la richiesta dei detenuti del carcere di Cremona al sindaco Oreste Perri, che il 10 agosto ha visitato, insieme a tutta la giunta, l’istituto di pena della città lombarda.

Perri ha incontrato la direttrice del carcere, Ornella Bellezza, per discutere proprio delle possibili forme di collaborazione tra il Comune e i detenuti. "Vogliamo che la casa circondariale sia più vicina ai cremonesi e i cremonesi alla casa circondariale", aveva detto Perri. I carcerati si sono resi disponibili, tra le altre cose, ad occuparsi della gestione del canile, da maggio oggetto di polemiche per presunte uccisioni di animali, una vicenda sulla quale la magistratura ha avviato un’inchiesta.

Le modalità di impiego dei carcerati potrebbero essere la pulizia e lo sfalcio dell’erba del cimitero; la digitalizzazione dell’archivio storico sempre del cimitero; la gestione del canile comunale; la manutenzione degli immobili pubblici, con particolare riguardo agli infissi.

Venezia: "l’Orto delle meraviglie", nel carcere della Giudecca

 

www.pianetacarcere.it, 11 agosto 2009

 

All’interno del carcere femminile della Giudecca di Venezia esiste uno spazio di 6.000 metri quadrati, già utilizzato in passato come orto dal Convento delle Convertite. L’orto di circa 6000 mq, é rivolto a sud con l’articolato delle costruzioni alle spalle a proteggerlo dai venti freddi, è racchiuso da mura in mattoni ed è dotato di ampi magazzini antichi, ben conservati. Le mura, più che suggerire la dissuasione alla fuga, trasmettono il senso antico della separazione conventuale.

Le condizioni strutturali del terreno sono buone, ci sono anche alcuni alberi spontanei e da frutto. Preso in gestione nell’anno 1995 dalla cooperativa sociale "Rio Terà dei Pensieri", l’orto era completamente abbandonato; oggi invece è in grado di produrre ortaggi che vengono poi venduti.

Nel 1996, con un finanziamento della Regione Veneto, la Cooperativa ha realizzato un impianto irriguo computerizzato che serve l’intero orto del carcere ed ha installato nell’appezzamento due serre, per una copertura complessiva di 500 metri quadrati. Nel 1996-97 è partito il progetto Orticoltura ecocompatibile È iniziata così nell’orto del carcere la coltivazione e la vendita di ortaggi, fiori e piante aromatiche.

In un primo momento, i prodotti dell’Orto delle Meraviglie sono stati venduti all’ingrosso. Dal giugno 1997, invece, sono commercializzati direttamente con un banco di vendita nei pressi del carcere che viene allestito, ogni giovedì mattina in Fondamenta delle Convertite: è un appuntamento importante per molti cittadini dell’isola, un’occasione per fare acquisti, che assume un grande e molteplice valore civile. Il progetto infatti si incentra proprio sulla relazione che viene a crearsi tra le detenute, che coltivano, curano e vendono, e gli acquirenti, amici o clienti occasionali. Gli abitanti del quartiere della Giudecca sostengono l’iniziativa acquistando i prodotti proposti, trenta ortaggi diversi, particolarmente apprezzati per la loro freschezza e genuinità. L’integrità dell’appezzamento e l’impegno di chi ci lavora consentono, infatti, di ottenere produzioni di qualità, utilizzando tecniche a basso impatto ambientale.

Da qualche mese, le piante aromatiche e da essenza vengono utilizzate per realizzare e vendere straordinari prodotti di cosmetica, secondo un aggiornamento di antiche ricette degli speziali della Serenissima. L’Orto delle Meraviglie è chiuso, naturalmente, tra le quattro mura del carcere. Ma una volta all’anno è visitabile per vedere cosa sanno creare le detenute con il pollice verde. Per prenotarsi (è necessario, visto che il numero delle persone che potranno entrare è limitato) basta chiamare la Cooperativa Sociale Rio Terà dei Pensieri al numero 041.2960658.

Immigrazione: "l'eterna storia" di razzismi e di capri espiatori

di Enrico Pugliese

 

Il Manifesto, 11 agosto 2009

 

La dichiarazione dell’on. Bossi sui nostri emigranti lavoratori e gli immigrati stranieri che vengono per uccidere è di una gravità inaudita. Tuttavia, non meraviglia: fa parte di un armamentario razzista ormai da tempo consolidato che si esprime sia in fatti - politiche persecutorie e discriminatorie - che in parole - dichiarazioni che tendono a legittimare le discriminazioni e fanno temere il peggio per il futuro. Nell’ascoltarle mi è venuta in mente un’espressione di Valentino Parlato: "Non ha neanche il beneficio della malafede".

Già, perché rispetto a espressioni come questa la malafede può essere un’attenuante. Cerco di spiegare il paradosso. Una convinzione profonda, contraria a ogni evidenza, che le cose stiano come le racconta l’on. Bossi può fondarsi su una convinzione ideologica radicata, su pregiudizi profondamente assimilati, su paure e odi repressi che portano alla costruzione del mostro. Ed è questo tipo di convinzioni profonde, del tutto indifferenti alla realtà delle cose, che può portare a iniziative persecutorie e violente. Da esse difficilmente ci si smuove e a poco servono i ragionamenti.

Il razzismo - affermava uno storico inglese in uno dei primi convegni italiani sul razzismo è epistemically unsound: è del tutto campato in aria, non ha logica o razionalità. Ed su convinzioni del genere, fondate su menzogne e senza fondamento razionale, che si è basata l’adesione al nazismo e all’antisemitismo. Uno dei grandi contributi dello studio su "La personalità autoritaria" di T. W. Adorno fu proprio l’individuazione di un insieme di pregiudizi e odi logicamente slegati ma psicologicamente intrecciati e presenti nelle stesse persone. L’osservazione di questo coacervo di pregiudizi, che si presenta sistematicamente in alcune persone delineandone l’ideologia, lo portò a definire la personalità autoritaria (o fascista). Perciò abbiamo molto da temere dalla "buona fede" di chi fa affermazioni xenofobe.

Ma non è detto che sia così. Può anche darsi che - secondo un meccanismo anch’esso molto antico, quello degli imprenditori politici del razzismo - l’on Bossi abbia semplicemente voluto lanciare un messaggio capace di far presa sull’opinione pubblica che, in una situazione economica e politica come quella attuale, è piena di ansie e preoccupazioni e perciò facilmente disponibile a prendersela con un capro espiatorio. E le pratiche di produzione del capro espiatorio sono state sempre fondate sulla contrapposizione tra un "noi" e un "loro". Quale capro espiatorio migliore di uno straniero, di uno che non appartiene alla nostra comunità, alla nostra "razza", al nostro paese? Ed è facile - ma anche un po’ comodo - ritenere che noi andavamo all’estero per lavorare, contrariamente a chi viene qui per uccidere.

Si sa invece che gli italiani sono stati sempre accusati delle stesse nefandezze di cui Bossi accusa i nostri immigrati. Una cosa che si registra sistematicamente in ogni esperienza migratoria è la similarità dei pregiudizi. Le accuse rivolte contro gli italiani sono state sempre quelle che Bossi rivolge agli immigrati. Lui li chiamò bingo-bongo. Noi invece in America venivamo chiamati offensivamente wop. L’armamentario razzista americano contro gli italiani si basava su due invenzioni, su due caratteristiche attribuite ai nostri lavoratori: quella di essere tutti anarchici o comunisti e quella di essere assassini, gente sempre con il coltello in mano.

Insomma, il pregiudizio e le pratiche di diffamazione si ripresentano sempre uguali nella storia e nella geografia: non hanno nazione e non hanno "etnia" (neanche padana).

I nostri immigrati, in realtà, sono proprio come erano i nostri emigranti. L’esperienza migratoria è una esperienza dura. Così come ora, anche ai tempi delle nostre grandi emigrazioni, c’era una minoranza che non ce la faceva e imboccava percorsi di devianza e criminalità. E c’erano i Bossi che, diffamando, incitavano all’intolleranza.

Immigrazione: "clandestinità", prove tecniche del nuovo reato

 

Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2009

 

"Il reato di clandestinità comincia a mostrare le sue mille facce. Le forze di polizia stanno mettendo in pratica la nuova norma, anche se - sembra -con meno enfasi dei primi giorni, stando ai numeri di ieri. Ma sono le situazioni in cui il reato emerge a essere molto diverse tra di loro.

A Torino, per esempio, un gesto di valore si è trasformato in un atroce autogol. Un giovane originario del Bangladesh era stato circondato da alcuni balordi mentre camminava in strada, nel cuore della notte. Spintoni, una bottiglia di vetro puntata alla gola, l’asiatico è stato costretto a consegnare a tre romeni il portafogli. Poi, però, ha chiamato la polizia e ha fatto arrestare i suoi rapinatori. Ma il gesto gli è costato caro: privo di permesso di soggiorno, è stato denunciato per il nuovo reato di clandestinità. Rischia l’ammenda da 5 a 10mila euro, ma soprattutto, una probabile espulsione.

Altro caso, più tradizionale, in Calabria. Si tratta di 13 immigrati senegalesi, clandestini, bloccati a Davoli Marina, in provincia di Catanzaro, dalla Guardia di finanza, che ha sequestrato diverse centinaia di borse e cinture contraffatte. Per tutti è stata disposta l’espulsione, con abbandono entro cinque giorni del territorio nazionale. Due di loro, però, sono stati arrestati perché non hanno dato seguito a precedenti decreti di espulsione; un altro, infine, è stato accompagnato al Cie-Centro identificazione ed espulsione di Lamezia Terme.

Episodio invece singolare, quello di Genova. Per i due indiani di etnia sikh, fermati a Ventimiglia con i passaporti non in regola e nessun permesso di soggiorno, non c’è stato l’accompagnamento alla frontiera. I due, infatti, sono stati fermati sabato scorso e sottoposti a fermo per l’identificazione. Poi sono stati trattenuti nell’ufficio della polizia di frontiera in attesa di essere espulsi e quindi accompagnati a Malpensa. Ma il volo per New Delhi, via Dubai, che da Milano Malpensa doveva rimpatriare i due sikh, è previsto solo il lunedì nel pomeriggio. Le 48 ore stabilite dalla legge, quindi, sono state abbondantemente superate, tanto che il questore di Imperia ha firmato per i due un ordine di espulsione "semplice", che prevede 5 giorni di tempo per abbandonare il territorio nazionale, pena l’arresto.

Ieri sul tema della sicurezza è intervenuto di nuovo il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, che in un’intervista a "La7" ha affermato: "Dobbiamo stare molto attenti perché il rischio di un aumento delle violenze sessuali è presente nel nostro Paese".

Immigrazione: Cie sono già al "collasso" e scoppia la protesta

di Giacomo Russo Spena

 

Il Manifesto, 11 agosto 2009

 

Scioperi della fame, tensioni e vere e proprie rivolte. Con le prime notifiche dell’estensione del trattamento da 60 a 180 giorni, nei Centri di Identificazione ed Espulsione scoppia la protesta degli immigrati rinchiusi. Al momento in due città, ma non è detto che la situazione si riscaldi ulteriormente.

La prefettura di Gorizia, ieri, ha incaricato il consorzio cooperativistico Connecting People, l’ente gestore del Cie di Gradisca d’Isonzo, di effettuare i sopralluoghi e le perizie per la valutazione dei danni procurati dalla mobilitazione degli ospiti. Sabato sera, infatti, un centinaio di "irregolari" saliva sul tetto della struttura entrando in contatto con le forze dell’ordine: gli agenti rispondevano con un fitto lancio di lacrimogeni. Dopo qualche ora, ritornava la calma con alcuni immigrati finiti in infermeria per intossicazione. Nel corso dei disordini sarebbe stato compromesso l’impianto elettrico, divelle porte di sicurezza ed estintori, infranti vetri antisfondamento e distrutti distributori automatici di bevande. Ora gli "ospiti" si trovano in "castigo": chiusi nelle camerate e sottoposti a perquisizioni frequenti.

E la prefettura ha anche annunciato l’arrivo per i prossimi giorni di 40 uomini della Brigata di cavalleria "Pozzuolo del Friuli", che andranno ad incrementare il contingente militare già presente da qualche mese con una settantina di unità. L’impiego delle forze armate a Gradisca - è stato precisato - rientra nell’ambito della proroga dell’operazione "Strade sicure", decisa dal ministro Roberto Maroni il 3 agosto scorso e che prevede, tra l’altro, "il supporto dei militari alla polizia nei servizi di vigilanza a siti e obiettivi sensibili".

Intanto tensioni si sono registrate anche al Cie di Milano, dove è in atto da tre giorni uno sciopero della fame e della sete. Prima ad effettuarlo solo un braccio della struttura, ora l’intera sezione maschile. Protestano contro le pessime condizioni igienico-sanitarie in cui vivono, l’ampliamento della detenzione nei centri e il reato di clandestinità che, malgrado quanto dica la legge, può far finire l’irregolare dritto in carcere. Come successo sabato a un marocchino, spedito a Regina Coeli perché il Cie di Ponte Galena è ormai al collasso. Con le nuove norme, volute dal Carroccio, infatti crescerà in maniera esponenziale il numero dei detenuti rinchiusi nei centri. Il governo, però, dice di aver già pronta la soluzione (sic): entro la fine dell’anno metterà in funzione nuovi Cie.

Immigrazione: nel Cie di Roma caldo disperazione e sporcizia

di Rory Cappelli

 

La Repubblica, 11 agosto 2009

 

"Vede queste lenzuola? Le vede? Sono di carta. Non le cambiano da venti giorni. E li vede i materassi in terra? Non ci sono reti, noi dormiamo qui. Stiamo così, buttate in terra, senza niente da fare, in mezzo ai rifiuti".

"Quelli del Centro fanno sempre visitare la prima "stanza" che ha l’aria condizionata e la tv al plasma, ma le altre: guardi. Mi segua, mi segua. Guardi come sono". Visita al Cie - il Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria, a Roma - con il senatore del Pd Vincenzo Vita, nella canicola agostana che anche qui, in un’isola di cemento in mezzo al nulla della Fiera di Roma di questi tempi deserta, batte implacabile. Le "detenute" prendono per mano, portano nelle altre "celle" di un centro che dovrebbe essere temporaneo, che era stato immaginato come un luogo di transito per un soggiorno di qualche giorno al massimo e che sta diventando sempre più simile a una galera. Con i tempi della galera. Ed è il luogo in cui, all’indomani dell’entrata in vigore della legge Maroni che tramuta in reato la clandestinità, i clandestini appunto finiranno in attesa di essere identificati ed espulsi.

Dodici militari dell’Esercito, due della Finanza, 5 carabinieri e 5 poliziotti, più "I Croci", come "gli ospiti" chiamano i volontari e non della Croce Rossa, alcuni inservienti di una ditta esterna che fanno le pulizie e gli addetti del catering: ecco tutto il personale che si occupa di questo centro che pompa dalle casse dello Stato - dicono alla Croce Rossa - cinque milioni di euro l’anno. E che è destinato ad esplodere anche se, come spiega il direttore Ermanno Baldelli, "noi abbiamo 176 posti letto per le donne, 176 posti letto per gli uomini, un’ala di 12 posti letto riservata ai transessuali. Più di questi non possiamo accogliere. Oggi ci sono 129 uomini e 112 donne per un totale di 241 persone".

Sui numeri c’è un piccolo giallo. Il garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni l’altro ieri aveva fatto sapere "il Cie di Ponte Galeria è al limite del collasso: negli ultimi venti giorni, dopo l’annuncio dell’inasprimento delle norme in tema di immigrazione, vi sono state trasferite altre 80 persone, che sono passate da 246 a 319. Alcuni immigrati fermati dalle forze dell’ordine sono stati addirittura trasferiti, per mancanza di posti, direttamente in carcere". Marroni aveva parlato poi di "situazione esplosiva dovuta al caldo, ai lunghi tempi di attesa per ottenere i colloqui con le ambasciate di origine, alla scarsità di operatori assenti per ferie e al sovraffollamento".

Che la situazione sia esplosiva lo si è visto l’8 agosto - il giorno di entrata in vigore della legge sulla sicurezza - al Cie di Gradisca d’Isonzo (Gorizia): in serata era scoppiata una protesta contro il sovraffollamento, l’introduzione del reato di clandestinità e l’allungamento sino a 180 giorni della permanenza nei Cie. 120 immigrati erano saliti sui tetti, dove erano rimasti fino al giorno dopo, quando avevano poi danneggiato l’impianto elettrico, divelto porte di sicurezza ed estintori, infranto vetri antisfondamento e distrutto distributori automatici di bevande. E ieri la segreteria provinciale del Sap (Sindacato autonomo di Polizia) di Gorizia ha dichiarato che al Cie "più di qualcosa non funziona. È oggi necessario che gli immigrati vengano sottoposti a normali e elementari restrizioni delle libertà personali per impedire eventi di questo tipo. È finito il tempo del trattenimento in libertà".

La vita al centro si svolge tra tre appuntamenti: alle 8 per la colazione, alle 12 per il pranzo, alle 18 per la cena. In mezzo, il nulla di cemento e sbarre di ferro. Le donne stanno sedute sui materassi buttati all’aperto, le nigeriane si pettinano i capelli lasciando in terra matasse nere, le clandestine dell’est fanno gruppo da una parte, si lamentano di non ricevere carta igienica, mentre le moltissime rom raccontano storie tristi. "Io sono nata qui" dice Susanna. "La mia famiglia viene dalla ex Jugoslavia. Ma io sono nata qui. Ho due figli e un marito. Ma non ho documenti. Così adesso sono qua dentro. Dove mi manderanno? Perché non posso avere una nazionalità?".

Nel reparto uomini è pieno di amache. Stanno allungate tra una sbarra e l’altra. Appena vedono gente estranea, al di là delle sbarre, si bloccano, guardano in cagnesco. C’è un’aria tesa, elettrica. Poi si mettono in fila per il pranzo: ci sono pochi volontari, non si può mangiare a mensa, ognuno prende il suo contenitore, torna alla sua cella, al suo villaggetto di cemento per mangiare. Anche qui storie strappalacrime, come quella di Mohammed, un egiziano di 30 anni, occhi scuri, barba lunga, una tuta sdrucita addosso: "Io da quando sono in Italia lavoro, ho sempre lavorato: e sono ormai sei anni. Ma nessuno mi vuole mettere in regola. Mi hanno preso in ospedale, dove ero andato per un’operazione all’orecchio, e così com’ero mi hanno trasferito al Centro: guardi, non mi posso neanche fare la barba. Non mi posso cambiare. Non ho soldi, non ho niente. È umiliante".

Gran Bretagna: permane "rischio di torture" in interrogatori

 

Ansa, 11 agosto 2009

 

La relazione di una Commissione Parlamentare mette in evidenza il rischio tortura da parte delle agenzie di intelligence con cui Londra collabora.

Impossibile essere certi che le informazioni ricevute dalle agenzie di intelligence straniere non siano state ottenute con la tortura: così il governo britannico prende posizione, dopo la pubblicazione domenica sul Sunday Telegraph, del rapporto di una commissione parlamentare, che ha espresso preoccupazione sui metodi utilizzati dai servizi di sicurezza stranieri con cui la Gran Bretagna collabora.

"Le nostre agenzie devono lavorare con i loro equivalenti di oltremare. Lavoriamo molto però per garantire di non essere, nostro malgrado, complici di torture o maltrattamenti", hanno spiegato David Miliband, ministro degli Esteri, e Alan Johnson, ministro degli Interni "Non è possibile però sradicare tutti i rischi". Molti ex detenuti hanno raccontato di essere stati torturati, mentre erano detenuti all’estero e che i fatti sarebbero stati a conoscenza dell’intelligence inglese.

Per gli attivisti per i diritti, inoltre, il governo non starebbe operando in modo efficace per prevenire ed evitare i maltrattamenti di detenuti a opera dei servizi di sicurezza con cui collaborano. Sulla stessa lunghezza d’onda la commissione parlamentare che ha redatto il rapporto.

La commissione parlamentare in particolare ha chiesto l’apertura di un’inchiesta indipendente sulla collaborazione fra Gran Bretagna e servizio di intelligence Pakistano (l’ISI): "Mentre il Regno Unito deve, per necessità, mantenere rapporti con l’intelligence pakistana, siamo molto interessati dalla natura del rapporto dei funzionari britannici con l’ISI, funzionari che potrebbero essere stati complici di tortura. L’utilizzo di prove che possano essere state ottenute sotto tortura - si legge inoltre nella relazione - potrebbe essere interpretato come complicità in questo tipo di comportamento".

Iran: i funzionari delle carceri ammettono torture sui detenuti

 

Ansa, 11 agosto 2009

 

In una lettera inviata all’ex presidente iraniano e ora guida del Consiglio degli Esperti, l’esponente riformista Mehdi Karroubi riporta le testimonianze di dirigenti e detenuti: giovani donne e uomini hanno subito violenti stupri riportando gravi danni fisici e psicologici. Alti funzionari ammettono torture sugli attivisti arrestati nelle proteste contro Ahmadinejad. Il presidente lascia parlare le sue milizie, che chiedono di portare in tribunale i leader dell’opposizione, veri ispiratori della "rivoluzione di velluto" di Teheran.

Mehdi Karroubi, uno dei leader dell’opposizione riformista iraniana, chiede che venga aperta un’inchiesta per accertare verità e responsabilità riguardo presunti stupri compiuti nelle prigioni ai danni dei manifestanti arrestati nelle proteste di strada scoppiate dopo il 12 giugno scorso in seguito alla contestata rielezione del presidente Mahmud Ahmadinejad.

La richiesta è stata avanzata in una lettera inviata dieci giorni fa all’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, attualmente presidente del Consiglio di discernimento del regime e dell’Assemblea degli Esperti, divenuto uno dei maggiori sostenitori dell’opposizione.

Quelle guidate da Rafsanjani sono due istituzioni chiave nel regime iraniano, e la sua guida ha assunto negli ultimi tempi un peso rilevante in seguito all’aperta contrapposizione alla guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei. Lo stesso ex presidente, alcune settimane durante la tradizionale preghiera del venerdì aveva chiesto la liberazione di tutti i manifestanti arrestati.

Nella lettera - il cui contenuto è apparso sul sito internet del suo partito Etemad Melli - Karroubi denuncia essere stato informato da alti funzionari di "comportamenti vergognosi" tenuti nelle prigioni e parla di violenze sessuali compiute su numerosi giovani: "Diverse persone arrestate hanno affermato che giovani donne sono state stuprate selvaggiamente",, ma a subire le violenze sono stati anche i ragazzi che "soffrono da allora di depressione e gravi problemi psicologici e fisici".

Contemporaneamente emergono anche ammissioni di torture da parte di funzionari iraniani. Il direttore del carcere di Kahrizak, arrestato dalla polizia in seguito alla chiusura dell’istituto voluta da Khamenei per il mancato rispetto dei diritti dei detenuti - gesto che aveva fatto parlare di allentamento della morsa del regime - ha ammesso che molti delle centinaia di attivisti qui rinchiusi dopo il 12 giugno sono stati torturati e tre di loro, tra i quali il figlio di uno stretto collaboratore dell’ex candidato conservatore alle presidenziali Mohsen Rezai - da qui l’intervento di Khamenei -, sarebbero morti. Affermazioni confermata anche dal procuratore generale Qorbanali Dori-Najafabadi: "Sono accaduti episodi indifendibili e chi ne è stato protagonista pagherà".

Il presidente Ahmadinejad non resta a guardare, ma non essendo nella posizione per esprimersi direttamente, lascia parlare i Pasdaran, le milizie islamiche pilastro del suo potere, che puntano il dito contro i leader dell’opposizione ancora in libertà, chiedendo che vengano messi alla sbarra: "Se Moussavi, Karrubi e Khatami sono i principali sospettati della cosiddetta "rivoluzione di velluto" in Iran, e lo sono" scrive sul loro giornale Sobhe Sadegh il capo dell’ufficio politico, l’ultra conservatore Yadwollah Javani, "ci aspettiamo che la magistratura indaghi su di loro, li arresti, li processi e le punisca".

Palestina: carceri in emergenza sanitaria, detenuti in ospedali

 

Infopal, 11 agosto 2009

 

Un avvocato del Circolo del detenuto, Luai Akka, ha riportato ieri quanto detto dal rappresentante dei detenuti della prigione Ofer, Shadi Shalalda, secondo cui la direzione del carcere avrebbe trasferito l’altro ieri sera 25 detenuti nella clinica dello stabilimento.

Akka ha specificato che i prigionieri presentavano condizioni critiche, con febbre molto alta, e che la direzione della prigione ha dichiarato lo stato di emergenza ieri mattina: quattro dei detenuti, con febbre a 40, sono stati messi in isolamento. La direzione stessa ha rifiutato di rilasciare commenti, finché i medici non termineranno le loro analisi sui prigionieri. Da parte sua, il detenuto Shalalda ha lanciato un appello ai medici e a tutte le parti coinvolte, invitando a visitare la prigione per conoscere da vicino lo stato di panico che si è diffuso tra i detenuti, come pure tra le guardie carcerarie, e che l’amministrazione della struttura sta tentando di nascondere.

 

 

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