Rassegna stampa 9 settembre

 

Giustizia: il piano svuota-carceri? molto fumo e poco arrosto

di Stefano Anastasia (Associazione Antigone)

 

Aprile on-line, 9 settembre 2008

 

Braccialetti elettronici per mandare a casa sotto controllo i detenuti a meno di due anni dalla fine della pena; espulsione per gli stranieri nelle stesse condizioni. Si tratta di misure già previste nel nostro ordinamento e che non hanno finora dato alcun effetto significativo, meno che mai in termini di riduzione della popolazione detenuta

Molto fumo e poco arrosto. Questo in sintesi il cosiddetto "piano svuota-carceri" elaborato dal Ministero della giustizia. Molto fumo: braccialetti elettronici per mandare a casa sotto controllo i detenuti a meno di due anni dalla fine della pena; espulsione per gli stranieri nelle stesse condizioni. Poco arrosto: si tratta di misure già previste nel nostro ordinamento e che non hanno finora dato alcun effetto significativo, meno che mai in termini di riduzione della popolazione detenuta.

Le espulsioni dei detenuti sono soggette alle incertezze di qualsiasi altra espulsione di immigrati irregolari: come è difficile effettuare queste, non si fanno neanche quelle, non perché gli immigrati scappano, ma perché noi non abbiamo mezzi e soldi per espellerli e i loro paesi d’origine non vogliono prenderseli.

Quanto al braccialetto, poi, i detenuti se lo metterebbero anche al collo, pur di uscire, ma in anni di sperimentazione si è capito solo che costa tanto e aggiunge poco alle capacità di controllo delle forze di polizia.

Molto fumo e poco arrosto anche sui risultati attesi: se il Governo dovesse trovare i fondi necessari (quanti? dove?), se i giudici si decidessero ad applicare più di quanto non facciano norme già esistenti, se - infine - il Governo riuscisse a convincere i principali Paesi di provenienza degli stranieri detenuti a riprenderseli quando e come vogliamo noi, e se tutto questo accadesse domattina, uscirebbero dalle carceri italiane circa settemila persone, lasciando in galera cinquemila persone più del consentito, che rapidamente tornerebbero a moltiplicarsi, come dopo l’indulto.

A ben guardare, quel po’ d’arrosto di cui si sente l’odore sotto la coltre nebbiosa degli annunci del Governo è più nel riconoscimento del problema che nelle soluzioni proposte. Abbacinati dalla propria stessa propaganda, nei primi mesi di legislatura Governo e maggioranza hanno minacciato fuoco e fiamme contro qualsiasi forma di devianza e di irregolarità, usando qualsiasi strumento per rassicurare un’opinione pubblica terrorizzata dalla loro stessa propaganda.

Oggi, finalmente, il Ministro della giustizia deve aver fatto un giro per le carceri e avrà scoperto dove vanno a finire le parole in libertà spese sulla sicurezza e la certezza della pena.

Il problema dell’indulto non è stato quello che abbia fatto uscire troppe persone di galera (ne sono uscite il giusto, quante erano necessarie per riportare la legalità nelle carceri), ma che a esso non abbia fatto seguito una politica conseguente, fatta di riduzione del ricorso alla giustizia penale di fronte a gravi problemi sociali e di ordinario ricorso alle alternative al carcere.

Per questo (e non per la recidiva degli indultati, che rimane ancora oggi ampiamente al di sotto delle medie abituali), le carceri sono tornate ad affollarsi, sotto la spinta di una cattiva propaganda politica che spinge a incarcerare chiunque appaia fuori dalla norma prima ancora che pericoloso.

Dunque, il piano svuota-carceri del Ministro della giustizia merita di essere preso in considerazione per quel tanto di aperta contraddizione vi è in esso, rispetto alle politiche e alla propaganda del Governo in carica. Non a caso il Ministro dell’Interno, che finora - con il suo partito - ha dato la linea in materia di sicurezza, non ne vuole sentire parlare: il piano Alfano non solo è in contraddizione con le scelte di politica criminale fin qui compiute, ma ne è anche una aperta denuncia di insostenibilità.

Maroni se la cava dicendo che bisogna costruire più carceri, ma anche lui lo sa che il suo slogan è l’ultimo vessillo degli imprenditori politici della paura. Prima o poi bisognerà far qualcosa, e qualcosa di radicalmente diverso, se non si vuole far precipitare l’Italia nell’abisso delle pene e dei trattamenti inumani.

Giustizia: Radicali; l’unica strada è nuovo indulto e amnistia

 

Apcom, 9 settembre 2008

 

Contro il sovraffollamento delle carceri i Radicali tornano a proporre al ministro della Giustizia "la strada dell’indulto accompagnato dall’amnistia e da concrete misure di depenalizzazione e decarcerizzazione unite ad un serio piano per il reinserimento sociale delle persone detenute". "Le risorse, non solo economiche ma anche professionali - spiega Rita Bernardini membro della commissione Giustizia della Camera - ci sono tutte, basta smetterla con la propaganda da gioielleria di scena di bracciali, braccialetti e simili amenità".

"Nessuno rileva che esistono condizioni di illegalità da parte dello Stato che vanno al più presto sanate: è contro la Costituzione e contro ogni principio di umanità costringere in spazi ristrettissimi esseri umani che sono stati sì privati del bene della libertà ma che non possono in alcun modo essere privati della loro dignità di persone" conclude l’esponente radicale.

Giustizia: Radicali; i fondi della Cassa Ammende finiti nei Bot

 

Il Velino, 9 settembre 2008

 

"Braccialetto sì, braccialetto no, braccialetto forse. Non rassicurano le dichiarazioni di queste ore sul sovraffollamento delle carceri la cui realtà infernale abbiamo toccato con mano nelle nostre visite ispettive ferragostane". È quanto dichiara Rita Bernardini (Radicali/Pd).

"Intanto - prosegue -, nessuno rileva che esistono condizioni di illegalità da parte dello Stato che vanno al più presto sanate: è contro la Costituzione e contro ogni principio di umanità costringere in spazi ristrettissimi esseri umani che sono stati sì privati del bene della libertà ma che non possono in alcun modo essere privati della loro dignità di persone.

Se è ancora in vigore il principio costituzionale per il quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, cosa dire delle disastrose condizioni igieniche dei penitenziari, della mancata possibilità di lavoro per la stragrande maggioranza dei detenuti costretti a divenire forzati dell’ozio, del fatto che oltre il 55 per cento dei reclusi sono in attesa di giudizio, che c’è una carenza cronica di educatori, psicologi e assistenza sociali e che gli stessi agenti di polizia penitenziaria, a causa della persistente scarsità di organico, vengono costretti a turni massacranti per ore e ore di straordinari sottopagati"?

"Nessuno poi - continua Bernardini - sembra preoccuparsi di cosa siano in condizione di fare i detenuti una volta conquistato il portone d’uscita del carcere, seppure con un braccialetto al polso o alla caviglia. Cosa possa fare un ex recluso dopo un periodo di detenzione che lo ha incattivito, senza lavoro, magari senza casa e senza affetti?

Quanti sanno che esiste una cassa apposita, la Cassa delle Ammende, che ha fra le sue finalità istitutive quella di finanziare programmi di assistenza economica in favore delle famiglie di detenuti e di reinserimento sociale di detenuti? Questa Cassa - spiega l’esponente dei Radicali - tanto rigurgita di denari non spesi che ogni anno (e da anni) l’amministrazione investe i fondi disponibili per acquistare Bot: l’ultimo stanziamento risale al maggio di quest’anno, per una cifra pari a 87 milioni di euro". "Lo scandalo della Cassa delle Ammende è stato sollevato dai radicali fin dal 2003, grazie alla testardaggine della Segretaria dell’Associazione Radicale Satyagraha, la radicale storica Jolanda Casigliani.

Giustizia: Cgil; il Governo improvvisa, carceri sono un inferno

 

Comunicato stampa, 9 settembre 2008

 

Abbiamo da tempo tentato invano di mettere in guardia il Ministro della Giustizia e l’opinione pubblica sui rischi di deriva che stava prendendo il sistema penitenziario e dei pericolosi effetti che questa avrebbe potuto generare, se non immediatamente contrastata, nel perseguimento del mandato costituzionale affidato all’istituzione e delle conseguenti gravi ripercussioni sul mondo del lavoro in carcere". Afferma Francesco Quinti, Responsabile Nazionale Fp Cgil Comparto Sicurezza.

"Avevamo avvertito che il complesso delle misure inserite nel pacchetto sicurezza avrebbero presto contribuito a rendere invivibili gli istituti penitenziari, sarebbero risultate inadeguate a garantire condizioni minime di sicurezza ed avrebbero avuto pesanti ricadute anche nel lavoro quotidiano dei poliziotti penitenziari - privi degli strumenti indispensabili e costretti ad operare tra mille disagi.

E così, mentre in questi ultimi mesi il tema si è inutilmente consumato sull’indulto del 2006 (occasione, comunque, persa per l’avvio delle necessarie riforme strutturali del sistema), sulla possibilità di espulsione di 3500 detenuti stranieri detenuti e sui braccialetti elettronici (peraltro già sperimentati con alti costi e pessimi risultati negli anni passati), in queste ultime settimane le presenze negli istituti di pena hanno ormai largamente superato il livello di guardia, contribuendo ad alimentare fortissime tensioni, che all’interno delle carceri troppo spesso stanno sfociando in tumulti ed in gravissimi atti di violenza portati contro gli appartenenti alla Polizia penitenziaria, già demotivata e resa irresponsabilmente insufficiente negli organici, anche con l’ultima manovra economica triennale, che ha tagliato circa tre miliardi alla sicurezza e circa 200 milioni di euro al solo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria".

"Occorre prevedere con urgenza un piano straordinario di interventi per il sistema penitenziario, - prosegue Quinti - che avverte come pressante il bisogno di eliminare alcune effetti perversi delle leggi Bossi-Fini, ex Cirielli e Fini-Giovanardi e una profonda riforma del codice penale; mentre sono indispensabili investimenti nella prevenzione e nella riabilitazione, anche per implementare il ricorso a misure alternative alla detenzione.

Crediamo, inoltre, sia indispensabile dotare il sistema delle risorse economiche e umane fondamentali (sia delle diverse professionalità penitenziarie che della Polizia penitenziaria) per garantire la piena attuazione del mandato affidato e la sicurezza delle strutture, ma anche per rendere le condizioni di lavoro dei poliziotti penitenziari migliori di quelle attuali, per garantire luoghi di lavoro più vivibili, assicurare il rispetto della dignità professionale e dei diritti del lavoro, troppo spesso tornati ad essere messi pesantemente in discussione".

"Pensiamo che il nuovo Capo del Dap - sottolinea Quinti - debba quanto prima avviare una incisiva azione di recupero agli istituti penitenziari del personale di Polizia penitenziaria tuttora impiegato in compiti impropri e/o distaccato presso servizi e uffici centrali con compiti amministrativi che possono essere evasi dal personale preposto".

"I poliziotti che sono rimasti a lavorare nei servizi e istituti penitenziari - sempre meno ormai, anche per effetto del blocco al turnover imposto dalla manovra economica - sono stanchi di lavorare in condizioni di assoluto disagio operativo, con mezzi e strumenti inadeguati, senza alcuna prospettiva di miglioramento e di rischiare la propria incolumità in ogni turno di servizio negli istituti di pena o nei servizi su strada - conclude il Responsabile Nazionale Fp Cgil Comparto Sicurezza - sono esasperati per essere costretti ad operare senza sosta e senza riposo, con turni massacranti che vanno ben oltre quelli previsti dai contratti collettivi di lavoro, ore e ore di lavoro straordinario per giunta pagato meno di quello ordinario".

Giustizia: edilizia carceraria post-indulto, un fallimento totale

 

Il Tempo, 9 settembre 2008

 

Il sistema giustizia va a rotoli. E quello carcerario è sull’orlo del collasso. Due anni fa la scelta di promuovere l’indulto per liberare le carceri e ora che l’effetto è finito, le celle sono di nuovo piene. Non solo. Una volta mandati a casa i detenuti doveva partire un piano di ristrutturazione delle case di reclusione per aumentarne la capienza. Tutto abortito.

La notizia è contenuta in un rapporto dello stesso Ministero della Giustizia e degli uffici del Dap, il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria che facendo il punto dello stato dei lavori di fatto rivela il fallimento dell’intero progetto.

L’elaborato tiene conto dello stato dell’arte al 30 giugno 2008. Un impegno di spesa che oscilla di diversi milioni di euro. Questi fondi hanno subito un ulteriore taglio del 30 per cento nella Finanziaria approvata lo scorso agosto. Solo per le piccole manutenzioni l’amministrazione penitenziaria avrebbe già contratto debiti per circa 600 mila euro.

Dal dettaglio dei numeri emerge anche una certa diffusa sciatteria burocratica che impegna gli uffici centrali del ministero a sollecitare gli istituti di pena per ottenere i dati "sui metri quadri delle celle soggette a lavori". Il rapporto viene redatto mediamente ogni trimestre ma i tempi di risposta degli uffici periferici resta la stessa: lunga.

I lavori dovevano produrre l’aumento della ricettività delle carceri, compresi gli ospedali psichiatrici giudiziari, portando così i posti cella da 47.457 a 48.678: un incremento di 1.221 da realizzarsi in due anni. Ma la scadenza è surreale perché nel compilare le schede inviate al ministero i vari istituti hanno segnato date di fine lavori che rasentano la chiusura del terzo millennio. La più gettonata è infatti il 2099 ma si trova, nel caso di Livorno, anche 11 gennaio 4671.

Si legge che sempre a Livorno è stata avviata l’istruttoria il 1 settembre 2007 per realizzare nel 2100, otto nuovi posti letto. Un escamotage, quello delle date impossibili, per mantenere aperti i capitoli di spesa così da non perdere i finanziamenti. In molti casi i lavori sono già sospesi. E in altri non è neppure previsto un vero e proprio ampliamento ma una semplice e ordinaria operazione di manutenzione di celle.

"È la totale mancanza di una politica sull’edilizia penitenziaria - sostiene Leo Beneduci segretario del’Osapp, agenti penitenziari - In soli 15 giorni le carceri hanno registrato un aumento dell’affluenza di circa 600 detenuti. Il totale presenze è ora 55.647, su una capienza regolamentare di 43 mila. Quasi mille detenuti al mese. E i lavori per garantire maggiore capienza sono praticamente bloccati. I posti nelle carceri sono così pochi, fittizi e neppure sicuri".

Secondo le valutazioni del Dap, costruire un padiglione nuovo da 200 posti in una struttura carceraria esistente costerebbe all’incirca, euro più euro meno, 9 milioni contro i 45 di una struttura nuova con la medesima capienza. Per non parlare, poi, dei tempi di costruzione che oggi, per una nuova struttura, vanno dai 7 ai 10 anni. Per coprire una carenza di 20 mila posti occorrerebbe uno stanziamento di circa 3,5 miliardi di euro.

Fra il 2000 e il 2002 le varie Finanziarie hanno stanziato circa 450 milioni di euro per la costruzione di nuove carceri. Le prime quattro sono state appaltate a dicembre 2005 e le stanno costruendo tutte in Sardegna: a Oristano, Cagliari, Tempio Pausania e Sassari. Altre due, Marsala e Reggio Calabria, sono da completare. A Savona e Rovigo i progetti sono stati approvati. Con un finanziamento straordinario del 2002 sono state avviate le procedure per l’acquisizione in leasing delle nuove carceri di Varese e Pordenone. Da ricordare che la costruzione delle nuove carceri è di competenza del ministero delle Infrastrutture.

Giustizia: carceri da ristrutturare, in un giorno o in mille anni!

 

Il Tempo, 9 settembre 2008

 

Chi dice che la pubblica amministrazione non è lungimirante di certo non ha letto la relazione sullo stato dei lavori di ampliamento e ristrutturazione dei penitenziari italiani. Non si allarmino ad esempio i detenuti del carcere di Livorno dato che i lavori in sette celle per ottenere altrettanti posti letto non inizieranno prima del 4 ottobre 4670, anche se, sempre secondo i dati della relazione, parte dei lavori dovrebbe già essere in corso.

Ma, se per Livorno è solo questione di millenni, la situazione è decisamente più stressante per i detenuti del San Lazzaro di Piacenza. L’istruttoria per sistemare 13 celle dava il via ai lavori 208 anni fa, prevedendone il termine nel 2999. Risultato: 1199 anni di lavori e nessun posto letto in più dopo l’intervento. Per non parlare del carcere di San Gimignano che, se per sistemare 50 stanze con altrettanti posti letto concluderà i lavori nel 2011, per ottenerne altri 10 è in attesa dal 1800 di qualcuno che gli consegni i lavori 1.800 contando di concluderli poi nel 2.100. Infine una sorte simile è toccata all’Ucciardone, il famoso carcere di Palermo, che su 358 posti letto previsti dopo i lavori, 50 sono previsti in consegna tra 92 anni.

Queste sono solo alcune delle stranezze che le carceri hanno spedito ai rispettivi provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria (Prap) inseguito raccolti dal dipartimento nazionale. Significativo è anche vedere come su 210 strutture carcerarie 55 non hanno risposto all’invito del Prap ad inserire i metri quadrati relativi alle singole celle. Se infatti gli istituti detentivi di Liguria, Umbria e Sardegna hanno nella loro totalità segnalato il dato, in Calabria ben 7 su 12 non lo hanno fatto e nelle Marche ben 5 istituti su 7 hanno glissato il dato.

Inoltre, ciò che più colpisce, è vedere come alcune carceri italiane non stiano provvedendo minimamente a sistemare le celle. Se l’indulto, voluto dall’ex Guardasigilli Mastella, le aveva svuotate, oggi il problema di sovraffollamento è tornato alla ribalta. Umbria, Marche, Abruzzo, Molise, Basilicata e Calabria non hanno preventivato alcun lavoro per adeguare le strutture esistenti, a fronte invece di regioni come la Sicilia e la Toscana che prevedono di incrementare rispettivamente di 624 e 299 posti letto le loro strutture.

In conclusione non si possono tacere quelle 10 richieste di istruttoria, o addirittura lavori siglati come "in corso", che prevedono l’inizio dei lavori e la loro fine nello stesso giorno per sistemare in totale 80 celle e creare 65 posti letto in più.

Giustizia: Castelli; pochi 60mila posti, per controllo criminalità

 

Ansa, 9 settembre 2008

 

"In Italia abbiamo la necessità assoluta e inderogabile di costruire nuovi penitenziari. Non è pensabile che si possano controllare tutti i fenomeni criminali con un sistema penitenziario che sostanzialmente non supera i 60 mila posti". Lo ha detto il senatore leghista ed ex ministro della Giustizia, Roberto Castelli, intervistato da Radio R101. "In base all’ipotesi di espellere i detenuti - ha aggiunto Castelli - devo ricordare che già esiste una legge.

L’articolo 15 della Bossi-Fini prevede proprio questo e durante il mio dicastero, utilizzando questo articolo, abbiamo allontanato dall’Italia, dal nostro sistema penitenziario, qualche migliaio di detenuti". Per quanto riguarda invece le polemiche sull’utilizzo del braccialetto elettronico "prendiamo atto - ha concluso l’ex Guardasigilli - che il ministro Alfano dichiara che ci sono dei braccialetti tecnologicamente avanzati. Il braccialetto che abbiamo sperimentato qualche tempo fa costava troppo e non dava alcuna garanzia. Per noi della Lega è evidente che ci deve essere l’assoluta certezza che il detenuto resti tale".

Giustizia: Berselli (Pdl); più pene alternative, ma non per tutti

di Maurizio Gallo

 

Il Tempo, 9 settembre 2008

 

Nuove prigioni, braccialetto elettronico per chi è agli arresti domiciliari ma, soprattutto, allargamento delle pene alternative al carcere. È la "ricetta" di Filippo Berselli, presidente della Commissione Giustizia del Senato, per risolvere l’emergenza-sovraffollamento nelle celle del Belpaese.

 

Presidente, a due anni dall’indulto siamo di nuovo in emergenza...

"I penitenziari stanno scoppiando. La via maestra è costruirne di nuovi. Nello stesso tempo, però, bisogna garantire la certezza della pena e io, a questo proposito, ho preparato un disegno di legge per ridurre i benefici della Gozzini ad alcuni tipi di condannati".

 

Braccialetto sì o braccialetto no?

"Credo che il braccialetto sia utile, anzi indispensabile, nei casi di arresti domiciliari per gli indagati e di detenzione domiciliare a carico dei condannati. Se sappiamo che quella persona resta a casa si possono risparmiare risorse umane per i controlli e utilizzarle per altri scopi. Diverso il discorso per chi è in prigione in attesa di giudizio. In questo caso sarebbe meglio la misura dei domiciliari, perché in giro col bracciale avrebbero comunque maggiore libertà d’azione".

 

È d’accordo con la proposta di Alfano di far scontare agli stranieri la pena nel Paese d’origine?

"Sì. Ma sono necessari accordi internazionali. Per ora li abbiamo con Albania e Romania e forse li avremo con la Libia".

 

Di Pietro parla di "indulto mascherato"...

"Non è così. A parte il fatto che per noi sarebbe un risparmio in termini economici, non penso che queste persone tornino in Patria a fare ricreazione. Alcune carceri, ad esempio in Marocco o in Algeria, sono a dir poco meno accoglienti di quelli italiani".

 

Come impedire che rientrino nel nostro territorio nazionale?

"Se tornano verranno espulsi di nuovo".

 

Costruire nuove carceri va bene. Ma ci vogliono soldi e tempo. C’è un sistema, secondo lei, per farle riempire di meno o più lentamente?

"Premesso che dopo il terzo grado di giudizio la pena deve essere scontata fino in fondo, la custodia cautelare va prevista solo in casi gravi. La mia proposta è aumentare la rosa delle pene alternative al carcere, depenalizzare i reati attualmente di competenza dei giudici di pace e trasferire a loro il trattamento dei reati che destano meno allarme sociale".

Giustizia: oltre 15mila i detenuti che sono in attesa di giudizio

 

Redattore Sociale - Dire, 9 settembre 2008

 

A giugno 59 mila presenze negli istituti italiani. Di Lillo (Consulta penitenziaria di Roma): "In molte situazioni siamo al limite della rottura". "Siamo tornati ai livelli pre-indulto. Nelle carceri italiane, a giugno, c’erano 55 mila persone. Ora siamo sulle 59 mila. Solo nel Lazio siamo tornati a 5.200 presenze e anche negli istituti della capitale il trend è in continua crescita con 360 detenute a Rebibbia femminile (a giugno erano 333), 1.398 nel nuovo complesso, 937 presenze a Regina Coeli e 231 in reclusione. Molte sono le mamme e tanti i bambini da zero a tre anni che crescono dietro le sbarre. E" di nuovo emergenza, ma l’opinione pubblica non sa nulla dei tagli che sono stati decisi per la giustizia e non sa neppure nulla del fatto che il 40% del totale dei detenuti presenti in tutte le carceri italiane è in attesa di giudizio. Molti di loro, magari, sono innocenti e quindi non dovrebbero neppure stare in carcere". Mauro Di Lillo, Presidente della Consulta Penitenziaria di Roma e vicepresidente del Forum per la medicina penitenziaria infantile (ed ex consulente del governo Prodi), parla della situazione del carcere e delle recenti misure proposte dal ministro della Giustizia, Alfano.

"Per quanto riguarda la situazione reale delle carceri - dice Di Mauro - siamo ormai ai livelli di emergenza che si registrarono prima dell’indulto. La situazione è davvero drammatica per il sovraffollamento, ma anche per la mancanza di risorse per le attività trattamentali: è stato infatti taglio del 30% il finanziamento al ministero della Giustizia per queste attività relative al carcere e in particolare al reinserimento e il recupero dei detenuti". Un dato molto importante, per Di Mauro, riguarda i detenuti in attesa di giudizio che sono appunto il 40% del totale: si tratta in sostanza di oltre 15 mila persone che sono in carcere in attesa di essere giudicate.

Altri dati rendono il senso della drammaticità della situazione attuale: il 25% dei detenuti è di nazionalità straniera e il 20% è composto di tossicodipendenti. "Con il nuovo sovraffollamento la crisi - dice ancora Di Mauro - è diventata profonda e in molto situazioni siamo al limite della rottura. Ma non esistono leggi per intervenire, mentre le nuove proposte avanzate dal governo sembrano palliativi o sono addirittura misure sbagliate come quelle, per esempio, relative alla mamme detenute con figli in carcere". "La proposta delle piccole carceri esterne al carcere per le madri detenute - spiega il Presidente della Consulta Penitenziaria - è sbagliata perché riproduce in piccole le stesse condizioni del carcere grande: i bambini sono costretti a vivere tra le sbarre e in mezzo a poliziotti, mentre i direttori dovranno governare il carcere grande e il carcere piccolo nello stesso tempo con dispendio di forze e risorse. Noi abbiamo invece avanzato la proposta di nessun bambino dietro le sbarre. Crediamo cioè che in carcere debbano restare solo quelle mamme che sono realmente pericolose socialmente (le mafiose, le camorriste, terroriste, ecc), mentre tutte le altre dovrebbero stare in case famiglia sorvegliate dai servizio sociali. Su 60 donne presenti oggi in carcere, 50 potrebbero vivere fuori dalle sbarre con i loro bambini sotto il controllo non della polizia, ma degli operatori dei servizi sociali comunali e Uepe. Perché un bambino deve cominciare la sua esistenza dietro le sbarre? È anche noto che il 30% di questi bambini nati e cresciuti in carcere nell’età adolescenziale tende a emulare il genitore, ovvero comincia a delinquere".

Giustizia: nelle carceri italiane ci sono più di 20 mila stranieri

 

Redattore Sociale - Dire, 9 settembre 2008

 

La percentuale sul totale è passata dal 15% degli anni ‘90 a percentuali vicine al 34% subito prima dell’indulto, fino ad assestarsi al 37%. Nel solo 2007 gli ingressi in carcere di persone non italiane hanno rappresentato il 48% del totale. Sono 20.439 i detenuti stranieri presenti nelle 205 prigioni italiane al 31 luglio 2008, di cui 19.375 uomini e 1.074 donne, quasi il 37% dell’intera popolazione carceraria. Una percentuale che però - fanno sapere dall’Ufficio del Garante regionale dei detenuti del Lazio - può alzarsi in maniera molto sensibile da regione a regione e da carcere a carcere: a Regina Coeli, per esempio, gli stranieri rappresentano il 63% dei detenuti. Ma il dato si spiega con la particolarità della situazione del Lazio e della città di Roma, che rappresenta uno snodo e una sorta di regione cerniera tra l’Italia e i Paesi di immigrazione.

Inoltre, secondo il quinto Rapporto sul sistema penale e penitenziario pubblicato lo scorso luglio da Antigone, il numero dei detenuti stranieri presenti nelle carceri straniere è andato aumentando in misura costante nel corso degli anni. La percentuale sul totale della popolazione carceraria è, infatti, passata dal 15% degli anni Novanta a percentuali vicine al 34% subito prima dell’indulto, fino ad assestarsi al 37% di fine dicembre 2007 (e tuttora costante). Tuttavia, avverte Antigone, questo aumento incessante ha subito una forte accelerazione negli ultimi tempi: nel 2007, infatti, gli ingressi in carcere di persone non italiane è stato di ben il 48%. Riguardo alla nazionalità, poi, il 20,8% dei detenuti stranieri arriva dal Marocco, il 12,2% dall’Albania e il 10,2% dalla Tunisia. Invece i cittadini comunitari rappresentano il 19,8%, una percentuale riconducibile sostanzialmente al recente ingresso della Romania nell’Unione Europea.

Ma quali sono le principali ragioni della permanenza in carcere dei detenuti stranieri? Sempre secondo Antigone, in circa il 29,5% dei casi si tratta di reati contro il patrimonio (percentuale sostanzialmente analoga a quella dei loro colleghi italiani), nel 24,8% dei casi si tratta di reati legati alla normativa sulle droghe e nel 19,2% di reati contro la persona. Dunque - commenta Antigone - quasi la metà dei detenuti stranieri si trova in carcere per reati contro il patrimonio o per detenzione e spaccio di stupefacenti, le due condotte più tipiche delle persone in situazione di maggiore difficoltà economica.

Giustizia: per i detenuti stranieri vita diventa sempre più dura

 

Redattore Sociale - Dire, 9 settembre 2008

 

Difficoltà di accedere alle misure alternative, difficoltà di mantenere i rapporti con le famiglie e con i consolati, mancanza di interpreti e traduttori: le difficoltà dei detenuti stranieri secondo l’Ufficio del garante del Lazio

È più grama la vita dei detenuti stranieri rispetto ai loro colleghi italiani. Perché se il carcere è lo specchio deformato (ma fedele) dei mali della società, la vita di dentro si porta dietro (amplificandoli) gli stessi problemi della vita di fuori. Difficoltà di accedere alle misure alternative, difficoltà di mantenere i rapporti con le famiglie e con i consolati, mancanza di interpreti e traduttori. Così dall’Ufficio del Garante dei detenuti del Lazio sintetizzano lo scotto ulteriore che gli stranieri in carcere sono costretti a pagare. È, infatti, molto difficile accedere alle misure alternative per i detenuti non italiani anche perché molti di loro non sono in possesso dei documenti e soprattutto del permesso di soggiorno che, tra parentesi, tutta una serie di reati impedisce di rinnovare.

Il problema delle misure alternative e dell’uscita dal carcere diventa ancora più drammatico nel caso dei detenuti malati, per i quali si pone il problema di dove debbano stare una volta fuori. Vi è poi la questione della forte carenza di traduttori, che impedisce la comprensione dei documenti e di seguire adeguatamente le diverse fasi del processo.

Ma le difficoltà si vedono anche nelle piccole cose, a cominciare dalle telefonate. I detenuti, infatti, hanno diritto di fare una telefonata a settimana, ma ciò non sempre è possibile per gli stranieri che dovrebbero fornire una documentazione relativa alle utenze che non sempre gli è possibile reperire. Insomma - commentano dall’Ufficio del garante del Lazio - per gli stranieri è più che mai vero che il carcere non rappresenta un trattamento ma soltanto estinzione della pena.

Giustizia: su mille detenuti, solo 200 potrebbero essere espulsi

 

Redattore Sociale - Dire, 9 settembre 2008

 

L’opinione di Desi Bruno, Garante dei detenuti a Bologna: "In assenza di misure strutturali, le carceri si riempirebbero di nuovo in meno di 6 mesi". "Sugli oltre mille detenuti della struttura bolognese della Dozza, che ha una capienza regolamentare di 483 persone, solo 200 potrebbero essere interessati da misure di custodia alternativa al carcere o di espulsione verso i paesi d’origine. Ma, in assenza di provvedimenti strutturali e dato l’elevato ritmo degli ingressi, i posti lasciati liberi si riempirebbero di nuovo nel giro di sei mesi".

Desi Bruno, Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Bologna e responsabile del Coordinamento nazionale dei garanti italiani, non esita a esprimere le proprie perplessità sulle misure annunciate dal ministro della Giustizia Angelino Alfano per sfoltire le sovraffollate carceri italiane. L’ipotesi di rimpatriare i cittadini stranieri rinchiusi in carcere (700 a Bologna) "non è una novità, perché in realtà il provvedimento è già contenuto nel nostro ordinamento", spiega Bruno: l"articolo 16 della legge Bossi-Fini prevede infatti "l’espulsione per i detenuti stranieri identificati e condannati in via definitiva a una pena inferiore ai due anni".

Ma la misura "resta in gran parte inapplicata perché trova ostacoli su due fronti: l’identificazione delle persone e la difficoltà di stipulare accordi con i paesi d’origine". Tanto che, nel caso del carcere della Dozza, i detenuti rimpatriati nel corso del 2008 "si contano sulla punta delle dita".

Un altro problema riguarda la definitività della condanna poiché, tra i mille ospiti della struttura bolognese, solo 200 hanno concluso il loro iter processuale: gli altri 800 sono ancora in attesa di giudizio. Per chi non è italiano, continua Bruno, le difficoltà poi si moltiplicano: "Spesso si pone un problema di lingua, di integrazione e a volte di alimentazione". Inoltre, i cittadini stranieri reclusi in carcere "spesso non hanno nessun progetto concreto perché la loro prospettiva è di finire la pena ed essere espulsi. Per questo, diventa più difficile con loro attuare percorsi di recupero". Per risolvere la questione del sovraffollamento delle carceri, secondo la responsabile nazionale del Coordinamento italiano dei garanti dei diritti delle persone private della libertà, servirebbero "interventi strutturali sulle strutture penitenziarie e sull’ordinamento giudiziario: in prigione ci dovrebbe andare solo chi è veramente pericoloso. Per i reati minori, invece, bisognerebbe favorire le misure alternative che diminuiscono il rischio di recidiva".

Giustizia: "braccialetto", come renderlo coerente con le norme

 

Il Velino, 9 settembre 2008

 

In seguito alle polemiche degli ultimi giorni sull’eventualità di ricorrere al braccialetto elettronico per aumentare il numero di detenuti agli arresti domiciliari, liberando così le carceri sovraffollate, senza però aggravare il lavoro per le forze dell’ordine responsabili del controlli, al ministero di via Arenula sono stati rimessi "all’ordine del giorno" analisi e studi che già negli anni scorsi vennero realizzati sull’ipotesi braccialetto elettronico.

In attesa di una proposta articolata da parte dell’Ufficio legislativo che indichi le possibili modifiche normative per garantire un’effettiva applicazione del controllo a distanza, anche riducendo la discrezionalità dei tribunali di sorveglianza, la squadra di giuristi che affianca il Guardasigilli Angelino Alfano ha fatto il punto sui molti dubbi relativi all’efficacia dell’iniziativa. "Lasciando da parte eventuali problemi tecnici - dicono al ministero - che negli ultimi anni si possono definire in gran parte risolti, come dimostra l’esempio della Francia, che ha adottato con un buon successo il braccialetto elettronico, il nodo centrale del problema resta quello normativo". Attualmente infatti il braccialetto può essere applicato soltanto con il consenso del detenuto "e una prima modifica - sottolineano i tecnici di via Arenula - dovrà riguardare l’eliminazione di questa condizione". "Inoltre - precisano le stesse fonti - bisogna chiarire che i benefici penitenziari riconosciuti dall’ordinamento italiano sono di gran lunga superiori a quelli previsti in qualsiasi altro ordinamento, almeno in quei Paesi che hanno adottato il braccialetto elettronico". Una circostanza, a parere dei tecnici, che spiega perché negli Stati Uniti, ad esempio, sia così stretto il nesso tra concessione della libertà vigilata e l’uso del braccialetto elettronico.

"Anzitutto il diritto anglosassone - aggiungono i magistrati di via Arenula - non prevede l’istituto delle detenzione domiciliare ma solo quello della semilibertà, che viene scontata in istituti convenzionati diversi dalle strutture carcerarie, o della libertà vigilata". In entrambi i casi il braccialetto elettronico è la condizione essenziale: "viene applicato automaticamente per effetto della decisione che concede la scarcerazione".

"In secondo luogo - dicono ancora in via Arenula - le sanzioni previste per chi mette fuori uso il braccialetto o si allontana oltre il raggio previsto, sono molto pesanti e vengono applicate direttamente dall’amministrazione penitenziaria, senza passare, almeno in alcuni Paesi, per un processo o una qualunque procedura giurisdizionale che invece, in Italia, sarebbe obbligatoria perché il nostro ordinamento non consente in nessun caso all’autorità amministrativa di limitare la libertà personale".

Una condizione questa, a parere degli uffici giuridici del ministero della Giustizia, che "costituisce un fortissimo deterrente contro le evasioni". A ciò bisogna aggiungere, dicono gli esperti di relazioni internazionali in servizio a via Arenula, che "soprattutto negli Stati Uniti il libero vigilato è affidato ad un garante, spesso titolare di associazioni che svolgono questo ruolo per diverse decine di persone, che ha il potere di ricercare e catturare l’evaso senza gravare sulle forze dell’ordine, se non vuole rischiare le somme che sono state vincolate a garanzia della libertà vigilata dell’ex detenuto". In altri casi, inoltre, "è possibile vincolare le proprietà dell’ex detenuto o dei suoi familiari al rispetto delle condizioni di libero vigilato o semilibero".

La situazione sarebbe invece "del tutto diversa in Italia, dove da un lato non esistono norme che consentono di vincolare somme o beni al rispetto delle regole da parte del semilibero o del detenuto in casa, e dall’altro già attualmente tutti i detenuti ai quali resta da scontare metà della pena possono beneficiare, a seconda dei casi, della semilibertà, del lavoro esterno, dell’affidamento in prova ai servizi sociali o degli arresti domiciliari. In tutte queste circostanze - spiegano al ministero - aggiungere un braccialetto elettronico costituirebbe soltanto un notevolissimo aggravio di costi tecnologico senza alcun beneficio pratico sul piano dell’affollamento carcerario".

Sarebbe allora necessario, secondo le prime analisi dell’Ufficio legislativo del ministro Alfano, "introdurre norme che da un lato considerino la detenzione extracarceraria con braccialetto elettronico qualcosa di diverso e più grave della semplice detenzione domiciliare, e a maggior ragione della semilibertà".

Una sorta di "carcere fuori le mura", al quale ricorrere nei casi di minore pericolosità sociale. "Seguendo questa logica - ipotizzano al ministero - si potrebbe anche prevedere che in tali casi il ricorso alla detenzione extramuraria con dispositivo di controllo a distanza sia obbligatoria".

Ma, si affrettano a precisare in via Arenula, "si dovrebbe comunque agganciare questa procedura ad un giudizio di minore pericolosità sociale e un giudizio simile deve necessariamente darlo o il giudice che procede se il detenuto è in attesa di giudizio, o il tribunale di sorveglianza se è condannato definitivo". Una precisazione che fa comprendere come "non sarebbe comunque garantito il ricorso al braccialetto elettronico: i tribunali di sorveglianza potrebbero motivare in modo diverso anche a seconda dei contesti sociali nei quali il provvedimento deve essere adottato". Un’ipotesi che finirebbe comunque per incidere negativamente sulla "diffusione" del braccialetto.

Dalle analisi che sono state condotte al ministero della Giustizia nelle ultime ore emergerebbe, in sostanza, che se da un lato il ricorso al braccialetto elettronico potrebbe essere non solo possibile ma anche utile, dall’altro sarebbe comunque impossibile fare previsioni certe sui numeri interessati all’eventuale applicazione del dispositivo.

Su un punto in via Arenula sono tutti d’accordo: "Non ha alcun senso l’obiezione dei sindacati di polizia circa la presunta necessità di assumere nuovi agenti per controllare gli allarmi dei braccialetti, perché si tratta di un compito che spetterebbe alle autorità penitenziarie e non alle forze dell’ordine, che invece dovrebbero essere allertate soltanto in caso di evasione, proprio come succede oggi, con la differenza che per coloro che hanno il braccialetto non servono i controlli periodici al domicilio da parte di polizia e carabinieri". "Certo è però - concludono - che se è vero che non servono nuovi agenti, sarebbe necessario nuovo personale penitenziario addetto alle centrali di controllo satellitare".

Giustizia: sul braccialetto elettronico il Tavolo Interni-Giustizia

 

Ansa, 9 settembre 2008

 

Un tavolo tecnico di esperti del ministero dell’Interno e della Giustizia per verificare l’efficienza delle tecnologie di utilizzo del braccialetto elettronico, sarà istituito presso il Viminale. Domani già la prima riunione.

E tra le ipotesi c’è quella di trasferire alla polizia penitenziaria il compito di intervenire nel caso suoni l’allarme legato al braccialetto. Questo sistema di controllo già introdotto nel 2000 per i detenuti agli arresti domiciliari è stato poco utilizzato in questi anni (quindici mesi dopo l’avvio della sperimentazione ne erano attivi appena 13 su un totale di circa 400 kit, mentre ad oggi non ve ne è nessuno in funzione).

I problemi principali di affidabilità del braccialetto sono stati riscontrati nella ricezione del segnale trasmesso a bassa frequenza ad una centralina sistemata in casa, a sua volta collegata via telefono con la sala operativa più vicina di polizia, carabinieri o guardia di finanza. Se il detenuto si allontana dal raggio consentito di circa 200 metri, scatta l’allarme. Ma sin dall’inizio della sperimentazione sono stati segnalati problemi di mal funzionamento se il braccialetto entra a contatto con l’acqua o nel caso di mura troppo spesse (in cantina, ad esempio). Al Viminale si valuteranno problemi e l’esistenza di nuove tecnologie, più avanzate e più sicure. Tenendo in considerazione anche i costi. Il contratto stipulato anni fa dal Ministero dell’Interno (e valido fino al 2011) prevede un costo annuo di 11 milioni di euro all’anno, di cui 6 milioni per le spese di gestione di 400 braccialetti.

Carceri sovraffollate Ora sono 4100 i detenuti con pene non superiori ai due anni che potrebbero usufruire dello strumento elettronico per liberare le carceri sovraffollate. Nel caso prendesse piede l’ipotesi del controllo da parte della polizia penitenziaria i sindacati hanno già fatto sapere che sarebbe necessaria l’assunzione di un maggior numero di "baschi azzurri" e la creazione di una centrale operativa.

Giustizia: "braccialetto"; 5 anni e mai più benefici a chi evade

di Liana Milella

 

La Repubblica, 9 settembre 2008

 

Cinque anni di pena e il blocco di qualsiasi successivo sconto o permesso per chi "evade" dal braccialetto elettronico. Una sanzione elevatissima che dovrà avere, come chiosa l'azzurro Niccolò Ghedini, "una poderosa efficacia dissuasiva". E che, nella strategia del ministro della Giustizia Angelino Alfano di mettere fuori dalle celle 7mila tra italiani e stranieri (i primi, 4mila, ai domiciliari col braccialetto; i secondi, 3mila, rispediti nei paesi d'origine), servirà per convincere la gente che dal governo Berlusconi non salta fuori un provvedimento svuota-carceri, ma "solo una diversa allocazione dei detenuti di scarsa pericolosità".

Il deputato forzista, stretto collaboratore di Berlusconi e suo consigliere giuridico, non lo dice, ma la durissima pena ha pure una motivazione politica. Serve ad evitare che, nel governo, si vada allo scontro sulla sicurezza tra Forza Italia da una parte, Lega e An dall'altra. Di più: ricorrere al braccialetto, che fu varato dalla sinistra nel 2000, ma con il correttivo di una punizione molto severa in caso di fuga, cancella l'idea che la destra insegue la sinistra e utilizza un suo strumento.

Cinque anni sono tanti. Ugualmente duro il diniego di sconti e benefici carcerari. Ragiona Ghedini: "Un detenuto, a cui restano due anni di pena, accetta di mettersi il braccialetto e ottiene i domiciliari, ma se scappa, se ne ritroverà addosso una che supera di gran lunga quella che doveva scontare". Una soluzione per rabbonire la Lega, il ministro dell'Interno Roberto Maroni e An? Un fatto è certo: al Viminale e nel partito di Fini c'è maretta. Ufficialmente il titolare della sicurezza smorza le polemiche ("Non c'è alcun contrasto con Alfano"), ma chi è stato con lui ha colto una duplice irritazione.

La prima: i provvedimenti sulla sicurezza spettano al Viminale e, in particolare, sia la gestione delle espulsioni che l'utilizzo del braccialetto, anche se la polizia penitenziaria la chiede per sé e oggi ci sarà il primo tavolo tecnico tra i due ministeri. Secondo motivo di fastidio: Maroni ritiene che Alfano abbia precorso i tempi e anticipato un piano che ha ancora bisogno di essere messo a punto. Col rischio che, se non dovesse andare in porto per difficoltà sulle espulsioni o sul braccialetto, il governo finirebbe per fare una brutta figura. E avrebbe ragione chi, come il democratico Massimo D'Alema, si chiede cosa ci sia veramente nel piano ("Cosa propone il governo spesso non si capisce"), o chi, come il centrista Michele Vietti, vede nel governo "troppe posizioni contraddittorie".

Del resto è un fatto che, mentre Alfano punta sul braccialetto, l'ex Guardasigilli leghista Roberto Castelli gli consiglia di "costruire nuove carceri". E, da An, batte sullo stesso tasto la presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno, la cui ricetta è molto secca: "Il problema carceri va risolto con nuove strutture e con una riforma organica della giustizia, perché molti detenuti sono in attesa di giudizio e, riducendo i tempi, si libererebbero anche le celle". Interrogativo: la punizione di 5 anni per chi "evade" dal braccialetto metterà tutti d'accordo?

Giustizia: Cgil; braccialetti? nel 2001 spesi 7 milioni in sei mesi

 

Costi esorbitanti, poca affidabilità e difficoltà nella gestione. La Cgil attacca sull’ipotesi "braccialetto" per svuotare gli istituti di detenzione italiani. "La precedente sperimentazione coi braccialetti elettronici è stata assolutamente negativa, un vero e proprio fallimento, perché non garantivano affatto il risultato che ci si aspettava". Lo sottolinea Francesco Quinti, responsabile nazionale Comparto Sicurezza della Cgil-Fp, ricordando che l’operazione del 2001, avviata sotto il governo Amato, è durata soltanto "circa sei mesi", con un accumulo di debito di 7 milioni di euro - aggiunge il sindacalista - per l’affitto di 400 apparecchi rimasti praticamente inutilizzati.

"Gli strumenti - sottolinea Quinti - non garantivano dal punto di vista tecnico un risultato, in alcuni ambienti, come in acqua, perdevano addirittura il segnale". Inoltre, dice, è difficile controllare "un panorama di detenuti che non hanno un domicilio, una residenza fissa certa". Per questo, secondo il rappresentante sindacale, "più che spendere cosi tanti soldi, si parla di 20 milioni di euro, sarebbe meglio percorre strade che già ci sono, applicando misure alternative alla detenzione come gli arresti domiciliari e quant’altro, costano meno e sono più facili da attuare nel rispetto del mandato costituzionale".

Secondo Quinti, quello per il settore carcerario, "è un intervento che avrebbe costi rilevanti per un sistema carcerario dove già sono stati tagliati 150 milioni di euro per le strutture, compresi quelli per la traduzione dei detenuti". E sottolinea: "Ci chiediamo da dove vengano presi tutti questi soldi se nel frattempo vengono fatti tagli".

Nelle carceri, ricorda infine il dirigente sindacale, "sta veramente scoppiando l’inferno, c’è un sovraffollamento spaventoso, e si sono moltiplicati gli attacchi ad agenti polizia penitenziaria che sono pochissimi rispetto alle esigenze e non ne possono davvero più. La soluzione- conclude- va cercata in altre direzioni".

Giustizia: "braccialetto"; io l’ho provato, è meglio stare in cella

 

Agi, 9 settembre 2008

 

"Piuttosto che il braccialetto elettronico, preferisco il carcere. E, infatti, dopo avere sperimentato quella che per me era stata una vera e propria tortura, ho preferito tornare in cella". Parla Mario Marino, 34 anni, uno dei detenuti che partecipò all’esperimento introdotto dall’ex ministro all’Interno Enzo Bianco, davanti alle telecamere dell’emittente catanese Telecolor.

"Mi sembrava - ricorda l’uomo che stava scontando ai domiciliari una condanna per rapina, ma che nell’aprile 2003 ha pensato fosse meglio tornare in carcere - di avere una catena ai piedi e poi suonava ogni cinque minuti, anche quando ero in casa, persino di notte mentre dormivo. Gli agenti di polizia arrivavano continuamente a casa mia e io e la mia famiglia trascorrevamo la notte insonne". Così alla fine ha deciso: "Ora basta - mi sono detto - ho reciso il nastro che lo teneva alla gamba e l’ho buttato nel cassonetto, con la consapevolezza che sarei tornato in carcere: almeno lì stavo tranquillo e potevo dormire sereno. Non lo auguro a nessuno, ma magari la tecnologia oggi è cambiata ed è più evoluta. Se è così va bene, altrimenti tornerei a preferire la mia cella".

Giustizia: "braccialetto"; in Svizzera è un’esperienza positiva

 

Aise, 9 settembre 2008

 

Si discute in questi giorni in Italia del piano "svuota-carceri" soprattutto attraverso lo strumento del braccialetto elettronico. Come su ogni questione importante, anche al riguardo c’è scontro non solo fra maggioranza e opposizione, ma anche nell’opinione pubblica.

Una discussione che va affrontata con senso di realismo e di civiltà. Per questo è importante tener presente due costatazioni principali, fatta salva la certezza della pena, tanto reclamata da tutti i politici di destra e di sinistra e dall’intera opinione pubblica.

La prima costatazione è il sovraffollamento delle carceri e degli oneri enormi che comporta la gestione carceraria in generale, ma soprattutto in relazione ad altre modalità di esecuzione delle pene. Anche solo fermandosi a questo punto è facile concludere che un carcere sovraffollato è costoso e disumano. Il detenuto può essere privato della libertà personale, ma non della dignità di persona umana.

Il secondo elemento è il rapporto tra sistema carcerario e finalità rieducative della pena. È invece sotto gli occhi di tutti il carattere piuttosto diseducativo del carcere. Inoltre, per l’esecuzione di certe pene di breve durata, è evidente la sproporzione tra il carcere e altre pene alternative, sia quelle di utilità pubblica e sia il discusso braccialetto elettronico.

Perché dunque non affrontare serenamente e realisticamente l’ipotesi di introdurre questo moderno strumento di controllo a distanza di una forma più umana di esecuzione extracarceraria di pene minori o di residui di pene anche gravi? L’esempio della Svizzera può aiutare.

In questo Paese, per poter scontare la pena con questa modalità, il condannato deve avere un lavoro, un’abitazione e un collegamento telefonico. Il cosiddetto braccialetto elettronico consiste in una fascia con integrato un trasmettitore sul quale l’autorità competente ha registrato il programma settimanale del condannato. Questo strumento o, più propriamente, l’Electronic Monitorino, è stato definito in Svizzera "la forma di espiazione di una pena più sostenibile socialmente".

In Italia ci s’interroga, giustamente, sulla sua sicurezza ed efficacia. Si potrebbe facilmente rispondere che non esiste niente di assolutamente sicuro ed efficace, nemmeno il carcere. Realisticamente si può comunque osservare che, dove questo strumento è in uso (ad esempio in Svezia, nei Paesi Bassi, in Gran Bretagna, in Svizzera) è sicuro ed efficace.

In Svizzera il braccialetto elettronico è stato introdotto a titolo sperimentale già negli anni Novanta (insieme ad altre misure, soprattutto il lavoro di pubblica utilità). Ebbene, il ricorso al braccialetto (e al lavoro di pubblica utilità), è andato costantemente aumentando con unanime giudizio positivo. Le persone che dal 1999 hanno scontato una pena detentiva con un braccialetto elettronico applicato alla caviglia sono oltre 2.000.

L’effetto "svuota-carceri" è evidente. Nonostante l’aumento delle incarcerazioni annue, nel 2000 si costatava che le carceri svizzere presentavano le stesse capacità d’accoglienza che nel 1900, per una popolazione, tuttavia, più che raddoppiata.

Poiché la certezza dell’esecuzione della pena deve essere garantita, occorre dire che, proprio per questa ragione, ad esempio per evitare fughe e dileguamenti, i magistrati svizzeri sono piuttosto cauti nel concedere l’uso del braccialetto elettronico agli stranieri.

Per chi deve portarlo, non c’è dubbio, che il suo carattere sanzionatorio sia efficace. Il braccialetto è applicato alla caviglia ventiquattro ore su ventiquattro e chi lo porta deve attenersi scrupolosamente al programma impostogli, pena lo scatto automatico di un segnale d’allarme.

A complemento d’informazione va detto infine che, nonostante gli ottimi risultati della sperimentazione del braccialetto elettronico, in Svizzera questo tipo di sorveglianza non rientra ancora in modo definitivo nella legislazione sull’esecuzione delle pene, ma probabilmente vi rientrerà a partire dal 2009.

Giustizia: "braccialetto"; in Belgio 550 detenuti fuori controllo

 

Associated Press, 9 settembre 2008

 

Il braccialetto elettronico serve a controllare a distanza se il detenuto sta dove deve stare. Se però, a distanza, non c’è nessuno, ecco che il controllo diventa una sorta di pena "a ore" o di indulto "temporaneo".

È quanto succedeva in Belgio questo inverno, quando circa 550 detenuti erano controllati con il braccialetto elettronico, ma solo dalle 6 alle 22. Poi gli uffici chiudevano (in un paese dove la tutela dei ritmi e dei carichi di lavoro è sacra) e i detenuti potevano passare la notte come e dove meglio preferivano. Il ministero della Giustizia ha naturalmente affrontato il problema, che è poi stato risolto, ma per qualche mese le polemiche, evidentemente, sono state cocenti. In Belgio ci sono circa 9.600 detenuti ma solo 8.358 celle.

In Italia le cifre sono ben diverse, ma il problema del sovraffollamento delle carceri comincia a diventare serio anche per il governo belga. La costruzione di nuovi istituti di pena è prevista, ma ci vorranno ancora quattro anni prima che sia completata e per questo periodo il ministero della Giustizia sta cercando soluzioni temporanee.

Una prima idea era stata quella di affittare qualche cella nelle carceri olandesi vicine al confine, come a Maastricht e Breda, ma le autorità dell’Aia non hanno ritenuto questa una proposta interessante. Hanno fatto però una controproposta: vi affittiamo un paio delle nostre navi-prigione.

Il Governo belga a sua volta non ha trovato l’ipotesi interessante, giudicandola costosa e anche poco sicura contro le evasioni. Allora dove trovare queste 1.500 celle provvisorie? Nella prevenzione, ha pensato il Governo, e nelle pene alternative al carcere.

Ad esempio, nella città fiamminga di Gent i tossicodipendenti possono evitare il carcere se accettano aiuto per disintossicarsi. Si pensa anche di estendere l’uso del braccialetto elettronico, questa volta prevedendo che gli uffici di controllo siano aperti anche la notte

Taranto: detenuto muore in ospedale, per una cirrosi epatica

 

La Gazzetta del Mezzogiorno, 9 settembre 2008

 

Un detenuto di 39 anni, Michele Montervino, è morto ieri in ospedale. Soffriva di cirrosi epatica. L’uomo era stato trasportato dal 118 domenica notte dal carcere al Santissima Annunziata a seguito di un ennesimo malore. In carcere era nella sezione "precauzionali ". Sulla sua morte sono in corso gli accertamenti e intanto spunta un giallo. Pare che il detenuto avesse più volte sollecitato adeguata assistenza, accusando di star male, così come sembrerebbe che i medici del carcere avessero più volte suggerito il suo ricovero in ospedale escluso invece dal personale del 118. Montervino avrebbe dovuto scontare la pena sino al 2012. Aveva fatto appello alla condanna di primo grado.

Verona: detenuto morto; manca denuncia, è "causa naturale"

 

L’Arena di Verona, 9 settembre 2008

 

Muore in carcere. Aperta un’inchiesta. La segnalazione di alcuni detenuti su un decesso avvenuto a luglio. Doveva scontare un anno. I compagni di reclusione: "Era gravemente malato, andava portato in ospedale".

È morto nella sezione dell’infermeria del carcere di Montorio lo scorso 22 luglio ma la notizia è emersa solo in questi giorni grazie alla segnalazione di alcuni detenuti. La procura ha aperto un’inchiesta che, però, è destinata a finire in archivio. Secondo indiscrezioni, non sarebbero emersi elementi sufficienti a modificare la dicitura di morte naturale sul fascicolo, intestato a Mustafà, 41 anni, francese di origine magrebina.

"Potremmo iniziare l’inchiesta solo se arrivasse un esposto o una denuncia che segnalasse qualcosa di anomalo nella sua morte", si lascia scappare un inquirente. E fino a ieri, nessuno si era fatto vivo per denunciare irregolarità nel decesso del migrante nell’indagine coordinata dal sostituto procuratore Giulia Labia.

È impossibile, invece, conoscere la versione "istituzionale". Al telefono della casa circondariale, risponde una segretaria e riferisce che il direttore Salvatore Erminio è in ferie fino a domani ed è sostituito da un collega che, però, è fuori sede. Attualmente il carcere è comandato da un ispettore capo. Nessuno tranne il direttore del carcere, però, è autorizzato a parlare con la stampa su vicende interne al carcere.

Non resta che rifarsi alla segnalazione dei compagni di cella sulla morte del magrebino di 41 anni. Secondo il loro racconto, Mustafà era stato arrestato per il furto di una bicicletta e aveva subito una condanna ad un anno di carcere. "Era gravemente malato. Le sue gambe e i suoi piedi erano rossi e gonfi per cattiva circolazione" scrivono i detenuti in una lettera firmata. E poi la critica: "Non è stato curato abbastanza, dovevano portarlo all’ospedale", insistono i detenuti, "dove avrebbero potuto garantirgli le cure necessarie".

Una morte e i ricordi che spuntano: "Io lo conoscevo perché prima di stare male, veniva spesso all’aria: un posto all’aperto di 15 metri per 15, tutto in cemento grigio, con muri altissimi dove si può andare una volta alla mattina e una al pomeriggio". Mustafà si era conquistato in poco tempo la simpatia dei suoi compagni di cella: "Era un tipo tranquillo, allegro ed era divertente parlare con lui".

Non faceva certo pesare a chi gli stava vicino il suo stato di salute certo non brillante: "Il suo errore", riporta ancora la lettera dei detenuti, "se così si può chiamare, era che non diceva niente quando qualcosa gli mancava o quando stava male". Faceva fatica a farsi capire Mustafà. Non parlava l’italiano e forse non si faceva capire bene con i medici e infermieri che l’avevano in cura, così almeno ritengono i compagni di cella.

Gi ultimi giorni di vita di Mustafà sono stati contrassegnati da alcune crisi di vomito fino alla sera del 22 luglio scorso quando un assistente l’ha trovato privo di vita nella sua cella. È stato chiamato un medico che non ha potuto far altro che constatarne il decesso. "Hanno scattato una foto poi l’hanno portato via" racconta ancora il detenuto. Alla fine della lettera, c’è il saluto dei suoi compagni di cella: "Dio lo benedica e porti la sua anima in paradiso. Adieu Mustafà".

Taranto: direttore; in celle "singole" abbiamo 3 o 4 detenuti

di Giacomo Rizzo

 

La Gazzetta del Mezzogiorno, 9 settembre 2008

 

Nel carcere di Taranto, dopo un periodo di relativa tranquillità, si sta riproponendo il problema del sovraffollamento. Passata la sbornia delle pene condonate e delle scarcerazioni facili, la situazione è tornata esplosiva. Sono presenti circa 430 detenuti, 3 o 4 per celle destinate, in sede progettuale, ad ospitare una sola persona. Diverse sezioni sono chiuse per lavori di ristrutturazione e lo saranno fino alla fine dell’anno. Ci sono solo quattro educatori impegnati iniziative di reinserimento sociale. E poi c’è il problema della carenza di organico che riguarda gli agenti di polizia penitenziaria. Sono 300, dovrebbero essere 354.

Il direttore della casa circondariale di Taranto, Luciano Mellone, plaude allo studio di nuove iniziative per ridurre il numero di detenuti, ma dice no alle soluzioni- tampone. "Bisognerebbe costruire delle strutture migliori, più grandi e moderne. L’indulto - osserva Mellone - doveva essere accompagnato, perché così era stato detto, da tutta un’altra serie di provvedimenti che dovevano migliorare la situazione. Solo che poi provvedimenti non ne sono stati presi e quindi la situazione a tutti i livelli, sia legislativa che strutturale, è rimasta la stessa".

La capienza regolamentare del carcere di via Magli prevede 315 presenze: 291 uomini e 24 donne. La popolazione carceraria è cresciuta in maniera esponenziale soprattutto a causa della contemporanea celebrazione di numerosi maxiprocessi. Un’ottantina di detenuti rientrano nel circuito penitenziario dell’alta sicurezza: ovvero coloro che hanno commesso reati di mafia, omicidi e rapine, o sono stati coinvolti in traffici di sostanze stupefacenti. "Un po’ alla volta - ammette il direttore Mellone - siamo tornati alla situazione pre-indulto. Ci hanno trasferito circa un centinaio di detenuti tra luglio e agosto per i noti lavori di ristrutturazione, ma la proporzione non è cambiata: sono 3 o 4 i detenuti per cella".

Il direttore del carcere di Taranto giudica positivamente la proposta del ministro della Giustizia Angelino Alfano di utilizzare il bracciale elettronico per controllare 4.000 detenuti agli arresti domiciliari e ridurre il numero degli agenti. "Ma bisognerà verificare - sottolinea Mellone - se tecnicamente questo strumento funzioni veramente. Almeno da quello che abbiamo saputo noi o comunque abbiamo letto, le sperimentazioni che ci sono state un po’ di tempo fa non erano state del tutto positive". "Comunque - prosegue il responsabile della struttura penitenziaria di via Magli - è auspicabile uno strumento che renda più efficaci i controlli non solo per i soggetti che dovrebbero poi usufruire di arresti domiciliari o di misure alternative ma anche per coloro che già ne usufruiscono adesso. Spesso, invece, capita che vengano violate le varie prescrizioni".

Mellone si augura poi che venga approvato il decreto che prevede l’istituzione di un nucleo di personale di polizia penitenziaria addetto esclusivamente al controllo dei i detenuti ai quali è stata concessa una misura alternativa al carcere. "Il nucleo sarà attivato presso gli uffici dell’ex Centro di Servizio sociale, che attualmente si chiama Uepe, ovvero l’ufficio per l’esecuzione penale esterna in cui lavorano gli assistenti sociali del Ministero della Giustizia. Questa - conclude Mellone - mi sembra un’ottima soluzione perché i giudici, sapendo che i controlli diventeranno, veri, efficaci ed effettivi, potranno concedere con maggiore facilità queste misure alternative".

Trieste: direttore; svuota-carceri? non credo finché non vedo

 

Il Piccolo, 9 settembre 2008

 

Un piano svuota carceri con l’utilizzo del braccialetto anche per i detenuti di Trieste? Non nasconde le sue perplessità Enrico Sbriglia, direttore del carcere triestino del Coroneo e segretario del Sindacato dei direttori e dirigenti penitenziari".

Comunque non ci credo finché non li vedo arrivare visto che se ne parla da anni del progetto - spiega - Sono cauto anche sulla percentuale delle persone detenute che potrebbero ricevere i braccialetti anche a Trieste. Perché noi abbiamo attualmente circa 200 detenuti, ma nell’arco dell’anno abbiamo un flusso continuo di 1.000 in entrata e altri 1.000 in uscita, visto che periodicamente dobbiamo svuotare il carcere appena i detenuti passano dal primo passo previsto dall’iter giudiziario. Il 70% dei detenuti sono stranieri, provenienti da tutto il mondo, dalla Cina al Nord Africa o all’Africa sub sahariana".

"Mediamente, circa il 30% delle persone detenute a Trieste sono italiani - aggiunge Sbriglia - ma la percentuale di coloro che potrebbero ricevere il braccialetto tra essi sarebbe comunque fluttuante poiché dipende dal tipo di reato e di condanna e da quanto tempo rimangono comunque a Trieste prima di essere trasferiti in altre strutture".

In altre parole, si può parlare del 70% come anche del 30%. Secondo il direttore del carcere triestino, "il vero problema del settore è un altro e parte dalla mancanza di strutture per accogliere i detenuti". "Ho già proposto l’istituzione di una specie di commissario straordinario per l’emergenza carceri - spiega - sul modello del commissario per l’emergenza rifiuti". "Il commissario dovrebbe occuparsi dell’emergenza costruzioni affinché sia superata in tempi brevi con l’aiuto di privati a cui si possa affidare la gestione di alcuni servizi".

Pisa: al Don Bosco troppi detenuti, più di metà sono stranieri

di Federico Cortesi

 

La Nazione, 9 settembre 2008

 

Dopo due anni dalla concessione dell’indulto la casa circondariale pisana è già sovraffollata. Ieri mattina, infatti, secondo le cifre fornite dal direttore del carcere, il dottor Vittorio Cerri, i detenuti presenti erano ben 309, quando la capienza è di 250 posti. Di questi carcerati sono una decina quelli che nell’agosto di due anni fa avevano potuto lasciare il Don Bosco, appunto beneficiando della concessione dell’indulto.

Ad essere scarcerati, furono 105 detenuti, gran parte dei quali di origine extracomunitaria, molti dei quali arrestati per reati legati alla microcriminalità. L’effetto svuota-carceri determinato dal tanto criticato indulto è dunque già finito. E, quindi, il problema del sovraffollamento dei penitenziari italiani è tornato in primo piano.

E meno male che durante lo scorso mese di agosto almeno una cinquantina di ospiti ha lasciato il Don Bosco: chi perché è stato scarcerato, chi perché trasferito in un altro penitenziario. Il record di presenze nella casa circondariale pisana risale - ovviamente - a (poco) prima della concessione dell’indulto: curiosamente, proprio al giorno di Natale del 2005, quando dietro alle sbarre del Don Bosco c’erano ben 398 persone. Dei 309 detenuti attualmente al Don Bosco la maggioranza è straniera.

A fronte di 142 italiani, gli stranieri sono 167; si tratta di 266 uomini (109 italiani e 157 stranieri), e 43 donne (33 italiane e 10 straniere). Per quanto riguardo il centro clinico, vero e proprio fiore all’occhiello della casa circondariale pisana, attualmente ha solo 41 degenti. Di solito può ospitarne fino a 65, ma sono in corso alcuni importanti lavori di ristrutturazione che ne hanno momentaneamente ridotto la ricettività a 45 pazienti.

I detenuti definitivi in attesa di giudizio sono meno della metà, ovvero 99, mentre quelli che stanno scontando una pena definitiva sono 110. Sono invece una decina le persone che da più tempo si trovano rinchiuse in questa struttura, ovvero sette-otto anni. La maggior parte dei carcerati sono fini in cella per reati attinenti lo spaccio di sostanze stupefacenti e per violazione della legge sull’immigrazione.

Molti anche per rapine, furti e non manca neppure qualche omicida, mentre nessun detenuto si è macchiato (oppure e accusato) di violenza sessuale. Da notare, infine, che il Don Bosco è una casa circondariale e non una casa penale (come invece le carceri di Volterra, Massa e Porto Azzurro. A Pisa dovrebbero essere detenuti solo persone in attesa di giudizio o con pene definitive inferiore ai tre anni. Ma, come si è visto, così non è, stante l’affollamento dei penitenziari italiani (e toscani in particolare).

Brescia: il 66% degli arrestati rimane in cella meno di 3 giorni

di Thomas Bendinelli

 

Giornale di Brescia, 9 settembre 2008

 

Canton Mombello è l’istituto penitenziario d’Italia con il più alto tasso di detenzioni brevi inferiori ai tre giorni. Il poco invidiabile record del carcere cittadino emerge dallo studio pubblicato sull’ultimo numero di "Le due città", la rivista dell’amministrazione penitenziaria.

Lo studio analizza la situazione di tutti gli istituti italiani che nel corso del 2007 hanno avuto un numero maggiore di 350 ingressi, una settantina di istituti sui circa 200 presenti in Italia. Ebbene, in base alla ricerca, a fronte di una media nazionale del 32 per cento come rapporto tra detenzioni brevi, ovvero di persone entrate e uscite dal carcere nell’arco di tre giorni, e ingressi complessivi, a Brescia la percentuale sale al 66 per cento. In termini assoluti questo significa che, nel 2007, a Canton Mombello sono entrate 2.832 persone, 1.856 delle quali uscite nel giro di 72 ore.

Dietro brescia, con il 64 per cento, ci sono Rovigo e Vercelli, strutture che però registrano anche un numero piuttosto basso di ingressi, rispettivamente 409 e 604.

La ricerca evidenzia anche il fatto che un quarto delle detenzioni brevi è relativa a violazioni sulla legge per gli stranieri, in pratica alla mancanza del permesso di soggiorno. Un altro 20 per cento di detenzioni brevi riguarda invece soggetti che hanno violato la legge sulla produzione e spaccio di stupefacenti, il 19 per cento per furto, il 12 per cento per violenza e resistenza a pubblico ufficiale.

Sulla rivista, a commento della ricerca effettuata da Elisabetta Sidoni della sezione statistica del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, trova spazio la riflessione del magistrato Francesco Patrone, il quale rileva che se appaiono maggiormente comprensibili le situazioni relative alle case circondariali di Teramo (52 per cento), Ferrara (55), Reggio Emilia (55) o altre sedi con dati simili e caratterizzate dall’esistenza di un tribunale di piccole e medie dimensioni o dalle peculiarità geografiche del territorio, "più eclatanti sembrano i dati relativi a sedi penitenziarie in cui sono istituiti tribunali di dimensioni medio-grandi, quali Bari (43 per cento) e Brescia Canton Mombello (66), e grandi, quale Torino Lorusso e Cotugno (56)".

Per quanto riguarda questi tre istituti, il magistrato osserva che "le percentuali di detenuti arrestati e scarcerati entro tre giorni appaiono decisamente preoccupanti, tanto da dover richiedere la necessità di specifici approfondimenti".

Nel 2007, nei tre istituti penitenziari, sono transitate oltre 6.500 persone con carcerazioni brevi inferiori ai tre giorni, "con conseguente impegno di tempi, spazi e risorse personali e strutturali davvero incongruo in relazione alle necessità". Non solo, prendendo spunto dalle tipologie di reati, il magistrato osserva che "oltre l’80 per cento delle detenzioni brevi sono riferibili esclusivamente a delitti attribuiti alla competenza del tribunale monocratico".

Questo significa che "nella maggior parte dei casi la regola generale prevista dal legislatore con l’articolo 386.4 del codice di procedura penale, la regola che impone che gli arrestati in flagranza per reati di competenza del giudice monocratico non devono essere condotti in carcere prima dell’udienza di convalida, è rimasta sostanzialmente inapplicata".

Da qui, anche la considerazione conclusiva del magistrato: "Toccherà alle istituzioni direttamente interessate al fenomeno, e per alcuni versi protagoniste dello stesso, quali le autorità giudiziarie e i responsabili territoriali dei servizi di polizia giudiziaria, farsi carico della necessità di trovare congiuntamente soluzioni idonee a governare una situazione che altrimenti, se non si apporteranno gli occorrenti correttivi e non si riporteranno all’accettabilità statistica i dati (oggetto della ricerca), rischia di divenire una delle possibili cause occulte del sovraffollamento degli istituti penitenziari, anche in epoca post indulto".

Sulmona: Uil; i 15 agenti "arrivati" e "partiti"... con Del Turco

 

www.primadanoi.it, 9 settembre 2008

 

Calda ed intensa la fine dell’estate per il supercarcere di Sulmona dopo l’ovattato mese di detenzione dell’ex presidente Ottaviano Del Turco, uscito di scena l’11 agosto dopo la lunga coda di parlamentari e politici "felici e contenti" per le condizioni della struttura visitata. "Ispezioni" che, però, hanno glissato i problemi del carcere, tra detenuti psicotici e alcool dipendenti, inadeguatezza dell’istituto a contenerli e personale sotto organico. Nardella (Uil Penitenziari), però, assicura: "non esiste alcun "caso Sulmona". Gli episodi avvenuti solo il chiaro segnale di nodi irrisolti, che riguardano tutte le carceri italiane".

L’ultimo episodio di violenza è di poco più di una settimana fa, quando un detenuto completamente ubriaco ha scagliato una bomboletta di gas contro sei agenti in servizio, provocandone il ferimento. Per loro cure mediche presso l’infermeria e prognosi di sette giorni.

Un’aggressione che per Mauro Nardella, vice segretario regionale Uil Pa Penitenziari, "ha fatto seguito ad analoghi episodi avvenuti nei mesi scorsi e che hanno visto protagonisti alcuni internati, con conseguenze fisiche per il personale di polizia penitenziaria".

Ma il problema è un altro: "il detenuto in questione era alcool dipendente e in cura dallo psichiatra", ha specificato Nardella. "Questo in una struttura che conta cento soggetti psicotici per un solo psichiatra, e che non ha personale adeguatamente formato per il loro contenimento".

Insomma, una condizione troppo ristretta per garantire la sicurezza dei detenuti in questione, e neppure quella degli agenti, in sofferenza numerica ed operativa: sono 275 i poliziotti penitenziari in servizio nell’istituto sulmonese (la pianta organica ne prevede 320) a fronte di una popolazione di quasi 400 reclusi. Gli internati, soggetti sottoposti a misure di sicurezza preventiva, sono saliti a 105 contro una sessantina di qualche tempo fa.

Effetto dell’indulto, secondo Nardella, "che ha prodotto l’aumento esponenziale di internati assegnati in strutture con case lavoro, come Sulmona, dove è impegnato effettivamente meno del 50%". Detenuti difficili, "il 70% affetto da dipendenze come alcool o droga", non garantiti dall’insufficienza delle case lavoro e neanche dalle condizioni di cura.

Il caso del detenuto che ha dato in escandescenze sotto l’effetto dell’alcool, "a seguito di presunti dissapori con altri compagni", è solo la spia di un problema generale sullo spaccio di alcolici all’interno delle carceri, "quanto di più pericoloso possa esserci nel produrre crimini", ha affermato Nardella, "nonostante l’azione quotidiana di perquisizione preventiva effettuata dagli agenti, che hanno sempre operato con professionalità ed umanità per il bene di tutti".

Nessun caso Sulmona, allora, per il sindacalista, solo il chiaro segnale di criticità irrisolte nel sistema, alle quali non si sottrae neppure quello di Sulmona, con le sue specificità: sovraffollamento, inadeguatezze croniche per la detenzione di specifici soggetti, personale sotto organico, carenze strutturali.

Sotto accusa c’è, infatti, la manutenzione degli impianti interni agli istituti di pena. "Come accadde nelle strutture abruzzesi, la manutenzione degli impianti non viene quasi più fatta", ha spiegato. "A Sulmona c’è una cella frigorifera che non funziona da maggio, e solo la qualità delle persone che lavorano nella mensa sopperisce all’inadempienza della ditta appaltatrice sulle macchine".

Stessa cosa per il sistema di condizionamento: "all’interno delle carceri, come nei locali passeggio e nelle garitte per le sentinelle, si raggiungono temperature oltre i 35° d’estate e sotto i 5° d’inverno, quando si dovrebbe rimanere tra i 25 e i 16 gradi".

 

Dopo Del Turco, ritirate le 15 unità inviate in missione

 

Ma è quella del personale la vera spina nel fianco per il penitenziario peligno. Alla fine di luglio, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria aveva inviato 15 unità aggiuntive in missione, provenienti da sei diversi provveditorati regionali. Unità che, il giorno dopo la scarcerazione dell’ex governatore Del Turco - ha spiegato Nardella - sono state subito revocate con una circolare del Dap in cui si spiegava che, per problemi legati al piano ferie dei provveditorati di invio, gli agenti in missione erano richiamati a servizio.

"Il fatto di aver perso quelle 15 unità sta producendo gravi effetti sulla condizione di sovraffollamento del carcere, non tanto per i detenuti che stanno scontando la pena, quanto soprattutto per gli internati e a tutela della loro salute", ha concluso il vice segretario Uil Penitenziari. Insomma, missione speciale finita nel giro di poco meno di un mese e organico di nuovo sotto pressione.

 

Sì al braccialetto, ma nuovo ruolo degli agenti

 

Una strada che non permetterà di gestire il sovraffollamento delle carceri se non si rimetterà al centro il ruolo del poliziotto penitenziario. "Il sovraffollamento dei nostri istituti non potrà essere risolto né dalla costruzione di nuovi carceri, in Abruzzo a San Valentino Citeriore sta cadendo a pezzi una struttura nuova di zecca, ma neppure senza affrontare il ruolo dei poliziotti penitenziari", ha detto Nardella.

"Come Uil sono favorevole al controllo dei detenuti sottoposti a misure alternative alla detenzione, compreso il braccialetto elettronico", ha continuato, sottolineando che queste misure annunciate dal guardasigilli Alfano devono implicare anche un "nuovo piano di assunzione di unità" nel Corpo e anche una rivisitazione delle norme di garanzia che riguardano la continuità usurante del lavoro degli agenti, "penalizzati dal decreto Brunetta in merito alle assenze per malattia".

Una graticola di problemi dai quali si spera di avere una risposta il 18 settembre, nella convocazione fatta dal capo del Dap, Franco Ionta, a tutte le organizzazioni sindacali di categoria, insieme a quella sugli episodi di violenza che hanno portato al ferimento nell’ultimo mese di venti agenti nelle carceri.

 

Stima per il lavoro del direttore e del commissario

 

Episodi di aggressività sui quali, nel caso di Sulmona, si vuole troppo soffiare. Una settimana prima dell’aggressione ai sei agenti da parte del detenuto ubriaco, un pentito della camorra aveva tentato il suicidio, ingoiando pillole per dormire conservate per più giorni. Qualche giorno fa, sui muri della città sono comparse scritte, a firma anarchica, contro il direttore del carcere, Sergio Romice, e il sindaco, Fabio Federico. Nessun riferimento all’accaduto nelle parole di Nardella, solo un’ampia attestazione di stima per l’operato del direttore. "Siamo fortunatissimi ad avere un direttore preparatissimo ed estremamente umano, che ci aiuta a vivere con maggiore serenità il lavoro che svolgiamo,- ha detto il sindacalista- e lo stesso vale per il commissario. È quanto di meglio abbiamo in Italia".

Angela Di Giorgio

Torino: detenuto tunisino tenta evasione dal Ferrante Aporti

 

Agi, 9 settembre 2008

 

Un detenuto di nazionalità tunisina, Touzi Medi, imputato per spaccio di droga, ha tentato di evadere ieri pomeriggio dal carcere minorile Ferrante Aporti di Torino.

Due tentati suicidi ad aprile, le dimissioni del direttore a maggio, i materassi dati alle fiamme a luglio e ora anche un’evasione. È un anno terribile, quello in corso, per il Ferrante Aporti. Il carcere minorile che, l’altro ieri, ha vissuto l’ennesimo momento di tensione con un detenuto che prova a darsi alla fuga e due agenti di polizia penitenziaria che rimangono feriti.

L’evasione è avvenuta domenica pomeriggio. Touzi Medi, che compirà 18 anni il 14 settembre, sta passeggiando. È già stato arrestato altre volte, sempre per spaccio, ed essendo sottoposto ad una sorta di regime di isolamento, trascorre l’ora d’aria nel cortile riservato al braccio femminile. Alle 16 e 15, si arrampica sul muro di cinta che dà sull’impianto Sisport e fa per saltare dall’altra parte.

Due agenti cercano di afferrarlo per i piedi. Ma lui, dopo averli feriti scalciando, riesce a raggiungere gli impianti sportivi. Toccata terra, si accorge di essere stato notato dal custode, e quando questo chiama la polizia, Touzi Medi preferisce tornare da dove è venuto. Scavalca il muro e si nasconde all’interno di una vecchia serra. Là dove, dopo due ore, verrà trovato dagli agenti di polizia penitenziaria che ora protestano. "Da tempo - affermano - avevamo segnalato le carenze della struttura e la mancanza di recinzioni che garantiscano la sicurezza, ma nessuno ha fatto niente. E anche questa volta ci troviamo a fare la conta dei danni". Uno dei due agenti, colpito al volto con un calcio, guarirà in due settimane. L’altro, ferito ad una mano, tornerà in servizio tra cinque giorni.

 

L’Osapp: serve un reato ad hoc

 

Di fronte alle continue aggressioni ai danni di agenti di polizia penitenziaria, l’Osapp, nei giorni scorsi, ha scritto al ministro della Giustizia Alfano e al presidente Berlusconi. "La situazione - denuncia il sindacato - non è più sostenibile. È quindi necessario e urgente introdurre nel nostro sistema penale, come è avvenuto per la violenza negli stadi, il reato di lesioni personali gravi o gravissime a un pubblico ufficiale impiegato nei servizi di tutela dell’ordine e della sicurezza all’interno degli istituti penitenziari". Le lesioni gravi, sostiene l’Osapp, "andrebbero punite con la reclusione da 4 a 10 anni. Quelle gravissime, da 8 a 16".

Campobasso: nato il Comitato "I Nuovi Educatori Penitenziari"

 

Ristretti Orizzonti, 9 settembre 2008

 

Il 30 giugno 2008 si è costituito il Comitato "I Nuovi Educatori Penitenziari", con sede legale in Via Firenze, 8, Campobasso - Presidente: Dott.ssa Lina Marra.

Il Comitato è formato da vincitori e idonei del concorso per 397 educatori penitenziari bandito nel 2004, ed è orientato ad attivarsi ai fini di una rapida conclusione di questo iter concorsuale, attraverso l’immissione in servizio dei 397 vincitori. Il Comitato "I Nuovi Educatori Penitenziari" si propone inoltre di attivarsi ai fini di un lavoro di sensibilizzazione e approfondimento inerente le tematiche dell’istituzione carcere, della funzione rieducativi della pena e del ruolo degli educatori penitenziari.

Nostro auspicio sarebbe vedere il nostro impegno tradursi, completate le assunzioni dei vincitori, in un’estensione della graduatoria agli idonei, considerata l’annosa carenza di personale dell’area educativa nei nostri penitenziari.

 

Dario Scognamiglio

Spoleto: i detenuti-attori diventano protagonisti del Rigoletto

 

Agi, 9 settembre 2008

 

Con l’anteprima straordinaria del "Rigoletto" di Giuseppe Verdi, in scena questa sera al Teatro Nuovo di Spoleto, si aggiunge un altro tassello alla collaborazione tra il Teatro Lirico Sperimentale spoletino e la Casa di Reclusione di Spoleto, resa possibile grazie anche alla convinta azione dell’ assessorato alla cultura della Provincia di Perugia, guidato da Pier Luigi Neri, promotore del progetto "La musica dei colori - Progetto Spettacolo Umbria 2008".

Un progetto promosso, inoltre, dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, dal Ministero della Giustizia - Casa di Reclusione Maiano di Spoleto, dalla Regione Umbria e dal Comune di Spoleto. Obiettivo del progetto far entrare in una delle Case di Reclusione più attive in Italia l’opera lirica rendendo protagonisti in prima linea venti detenuti impegnati nei lavori e che hanno risposto prontamente al programma operativo proposto. I corsi hanno avuto inizio con una parte propedeutica di inquadramento storico e musicologico del Rigoletto.

Dalla parte teorica, dove i detenuti hanno dimostrato immediatamente grande interesse e una profonda preparazione, si è passati alla realizzazione del materiale editoriale, con la pubblicazione del programma di sala, di un giornale dal titolo Rigoletto News e un’intervista al regista del Rigoletto, Marco Carniti. Nel corso delle lezioni si sono, inoltre, affrontate tematiche inerenti alle tecniche di scrittura, di giornalismo sia della carta stampata che televisivo. Una delle lezioni è stata tenuta anche dal giornalista di Rai 3 nazionale, Moreno Cerquetelli, che ha fatto visionare alcuni video sulla trasmissione Chi è di Scena parlando loro delle tecniche di realizzazione.

Contemporaneamente un altro gruppo di lavoro è stato impegnato con la costumista Maria Filippi, con il responsabile della sartoria dello Sperimentale Francesco Morabito, con l’assistente Clelia De Angelis alla realizzazione di vari elementi di costume.

Egitto: sparatoria nel carcere di Assiut, un morto e 19 feriti

 

Apcom, 9 settembre 2008

 

Non è ancora chiaro cosa sia successo nella prigione di Assiut, a 400 chilometri dal Cairo, dove sono state ferite 19 guardie carcerarie, mentre una persona, forse un detenuto, ha perso la vita. Le versioni dei fatti finora possibili sono due: forse una rissa interna o forse un attacco armato esterno. Secondo la tv araba Al Jaazera, la versione ufficiale (e quella più accreditata), che verrà comunicata a breve dal ministero dell’Interno egiziano, parla di una rissa scoppiata all’interno della prigione scoppiata dopo la morte di un detenuto e che ha portato a scontri tra agenti e detenuti. Questi ultimi hanno sorpreso le guardie con armi introdotte clandestinamente.

La seconda versione - sempre secondo l’emittente satellitare - si basa sulle affermazioni di alcuni testimoni, i quali hanno affermato di aver assistito all’attacco messo a segno da uomini armati per far evadere i loro compagni. Ad introdurre delle armi, secondo la tv araba, sarebbero stati i familiari dei detenuti in visita al carcere.

In entrambi ci sono 19 feriti, molti dei quali gravi, e un morto, ma non è chiaro se sia stato ucciso durante gli scontri o se sia la causa della rivolta. Secondo la tv araba al Arabiya, che cita altri testimoni, inoltre, "20 camioncini della polizia hanno bloccato gli interessi del carcere".

 

 

Segnala questa pagina ad un amico

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 349.0788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

 

 

 

Precedente Home Su Successiva