Rassegna stampa 10 settembre

 

Giustizia: un patto trasversale per "tagliare le braccia" ai Pm

di Giuseppe D’Avanzo

 

La Repubblica, 10 settembre 2008

 

È l’uovo di Colombo. Che cos’è un pubblico ministero senza polizia giudiziaria? Più o meno, niente. Un corpo senza braccia. Una toga nera che cammina. E allora se, nella scelta e nell’avvio dell’esercizio dell’azione penale, si toglie all’accusa la collaborazione della polizia; se si attribuiscono alla polizia i poteri che oggi sono del pubblico ministero (dalle notizie di reato alla direzione delle indagini), il gioco è fatto. Quel che oggi appare una faticosa (e ardua) ascesa alle vette di una riforma costituzionale diventa, più o meno, una quieta passeggiata in riva al mare.

Un percorso legislativo ordinario e svelto che, senza troppo clamore e piazze Navona, altera gli equilibri costituzionali più di quanto possa fare una risicatissima riscrittura della Costituzione. La "riforma della giustizia" (o meglio lo scontro ideologico tra politica e magistratura) ha già un suo compromesso concreto, rapidamente realizzabile e già per buona parte condiviso.

L’abolizione di qualche parola in due articoli del codice di procedura penale consente alla politica di ottenere, senza "guerre di religione", quel che dai tempi della Bicamerale è apparso alla politica una chimera: il controllo dell’azione penale e l’attenuazione dei poteri del pubblico ministero a vantaggio dell’esecutivo.

Come si sa, la riforma ha un’agenda autunnale già annunciata dal ministro della Giustizia Alfano: riforma del processo penale e civile e, poi, interventi costituzionali che muteranno il ruolo del Csm, l’obbligatorietà dell’azione penale, la separazione delle carriere. È un’agenda, per la prima parte (riforma del processo), condivisa anche dall’opposizione che vuole rendere concreta la ragionevole durata del processo e più efficiente (finalmente efficiente) la macchina della giustizia.

Ma, a saper ascoltare Luciano Violante e Niccolò Ghedini - le vere "teste d’uovo" protagoniste di questo minimalismo al tempo stesso riformista e rivoluzionario - è sufficiente già il riordino del processo penale per raccogliere qualche desideratissimo risultato. L’accordo non è segreto. Il compromesso è lì alla luce del sole e basta soltanto unire i punti per vederne il disegno.

Chiedono a Violante della separazione delle carriere (2 settembre, il Giornale). Curiosamente, prima di dirsi contrario alla separazione, Violante ragiona a lungo (in apparenza c’entra come il cavolo a merenda) sulla "confusione tra attività di polizia e attività del pm". Per concludere: "Il ruolo della polizia è stato schiacciato dal ruolo del pm. Bisogna tornare ai principi della Costituzione: la polizia da una parte e il pm dall’altra, ciascuno con proprie attribuzioni".

È una stravaganza il richiamo alla Carta. Come se le "attribuzioni" delle polizie fossero prescritte dalla Costituzione che, al contrario, all’articolo 109 recita: "L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria".

A stretto giro (3 settembre, il Giornale), risponde a Violante Niccolò Ghedini. Tecnico sapientissimo, di fatto il Guardasigilli, scorge il varco. Dice: "Sono d’accordo sulla necessità di valorizzare il lavoro della polizia giudiziaria rendendolo più autonomo da quello del pm. L’accordo si può trovare in tempi brevi". Si può immaginare che l’avvocato e consigliere di Berlusconi sfoggia uno dei suoi sorrisi, quando si lancia nella difesa dell’obbligarietà dell’azione penale ("La manterrei"). Ghedini sa che, liberata la polizia giudiziaria dalla dipendenza al pm, non vale più la pena occuparsi dell’obbligatorietà dell’azione penale che sarebbe già fritta. Vediamo perché.

Oggi (art. 327 del codice di procedura penale) "il pubblico ministero dirige le indagini e dispone direttamente della polizia giudiziaria che, anche dopo la comunicazione della notizia di reato, continua a svolgere attività di propria iniziativa". Se si cancellano le parole in corsivo la norma diventa: "La polizia giudiziaria, anche dopo la comunicazione della notizia di reato, svolge attività di propria iniziativa".

Il pubblico ministero perde la direzione delle indagini mentre la polizia guadagna la sua libertà. Come chiunque comprende, la variazione non è neutra e senza conseguenze. Il pubblico ministero è indipendente dal potere politico e "soggetto soltanto alla legge", mentre il poliziotto è un funzionario dello Stato che risponde agli ordini di un ministro e alle scelte politiche del governo. Una seconda "correzione" accentua la discrezionalità della polizia e la distanza dal pm.

Articolo 347 del codice di procedura di penale: "Acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria, senza ritardo, riferisce al pubblico ministero". Se cade il corsivo ("Acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria riferisce al pubblico ministero") l’intero gioco investigativo finisce nelle mani delle forze dell’ordine.

Lo scenario diventa questo. Le polizie raccolgono la notizia di reato; fanno i primi accertamenti; ne possono valutare protagonisti, modalità e conseguenze. Informare la catena gerarchica e il governo. Decidere quando e come informare il pubblico ministero. Non si può escludere che, nelle occasioni meno gradite o imbarazzanti per il potere politico o economico, la comunicazione possa avvenire fuori tempo massimo quando i buoi sono già scappati dalla stalla o quando diventa difficile raccogliere coerenti e tempestive fonti di prova per accertare reato e responsabilità. (Naturalmente sempre possono esserci pressioni sulla polizia giudiziaria per "aggiustare" le indagini, ma la dipendenza dal pubblico ministero protegge i funzionari dello Stato dalle gerarchie e dai governi).

Come si può comprendere, grazie a poche parole soppresse in un codice, giustizia e processo muterebbero. Sarebbe il governo a decidere, attraverso le polizie, quale fenomeno criminale aggredire e quali affari penali indagare. La separazione della polizia giudiziaria dal pubblico ministero risolve all’origine molte questioni cui la politica non ha trovato soluzione nel corso del tempo. L’obbligatorietà dell’azione penale sarebbe sterilizzata.

Oggi nella disponibilità delle procure, l’inizio dell’azione penale viene consegnata al governo che può selezionare quando, come e contro chi esercitare l’azione, attraverso la notizia di reato raccolta dalla polizia giudiziaria e i tempi di comunicazione alle procure. L’indipendenza del pubblico ministero sarebbe marginalizzata. Decretata la sua autonomia nelle indagini, sarà il poliziotto a decidere del lavoro soltanto formalmente indipendente del magistrato trasformando il pubblico ministero in "avvocato della polizia".

Un "avvocato" che mette le sue competenze tecniche al servizio di un’accusa preconfezionata in questure e caserme che lavorano alle dipendenze e con gli input del governo. La soluzione può essere gradita a larga parte del mondo politico (è un errore sottovalutare l’influenza e le connessioni di Violante nell’opposizione e nelle istituzioni) e peraltro Silvio Berlusconi non ha mai fatto mistero di volerla ad ogni costo. Forse, l’avrà. Senza tanti ghirigori costituzionali, la quadra - come l’uovo di Colombo - è lì a portata di mano. In poche parole da cancellare con un tratto di penna.

Giustizia: fuorilegge 84% celle, 400mln per metterle a norma

 

Ansa, 10 settembre 2008

 

Doccia, acqua calda, servizi igienici in ogni cella: il regolamento carcerario del 2000 prevede questo sulla carta. Ma in regola sono solo il 16% dei posti. Tant’è che uno studio del Dap dello scorso maggio stimava in 400 milioni di euro la somma per mettere a norma le carceri. Una chimera.

Di fronte ai tagli dell’ultima finanziaria (circa il 20-25% nel capitolo manutenzione straordinaria e ristrutturazione del Dap) la priorità va data al recupero di spazi nuovi in vista di una situazione che si prevede esplosiva: "i detenuti potrebbero raggiungere in meno di due anni il tetto delle oltre 70mila unità", è scritto nel rapporto.

A oggi i detenuti sono 55.960 contro 42.974 posti regolamentari. Ma il limite tollerabile è di 63.406, e al ministero considerano un margine di manovra di circa un anno prima di tornare alla situazione pre-indulto. Puntare su accordi bilaterali per trasferire 3.300 detenuti stranieri nelle carceri dei loro paesi e usare il braccialetto elettronico (se la tecnologia sarà sicura) su 4.100 detenuti italiani da mandare ai domiciliari, prevedendo pene più severe in caso di evasione:queste le due principali linee di intervento del piano ipotizzato dal ministro Alfano.

Nel frattempo, resta in piedi il piano avviato nel 2007 per ristrutturare i vecchi padiglioni delle carceri per recuperare 11mila posti nei prossimi tre anni. Quel capitolo di spesa (80 milioni di euro) ha però subito i tagli dell’ultima finanziaria. Soldi che comunque Alfano conterebbe di recuperare. La costruzione di nuove carceri, invece, spetta al ministero delle Infrastrutture.

Giustizia: Osapp; il piano di edilizia carceraria è solo un bluff

 

Agi, 10 settembre 2008

 

"Con queste previsioni di spesa, e dei tempi per gli interventi soprattutto, esortiamo il ministro della Giustizia a prendersi tutto il tempo che vuole per elaborare un serio piano di edilizia carceraria". Rilancia così il segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma di Polizia Penitenziaria (Osapp), Leo Beneduci, alla luce di un’inchiesta pubblicata oggi da un quotidiano che ha "denunciato il bluff - rileva Beneduci - delle opere di ristrutturazione ed ampliamento degli istituti di pena".

Se "su 210 istituti di pena, 55 non hanno fornito risposte - osserva l’Osapp in merito all’inchiesta - e se, peggio ancora, i tecnici incaricati di redigere quei piani e di stabilire le partite di spesa, tecnici pagati con i nostri soldi, hanno l’audacia di fissare scadenze al 2099, o al 4670, solo per nuovi 1.000 posti letto. A questo punto i numeri diventano crudeli, rispetto una situazione penitenziaria che oramai conosciamo tutti".

Per questo, di fronte a un dibattito pubblico "che assume ogni giorno i toni del grottesco - continua Beneduci - dove tutti parlano di braccialetto elettronico quasi fossero esperti di tecnologie, o ancor peggio di politiche del reinserimento sociale, ci chiediamo come dovrebbe reagire un ministro della Pubblica Amministrazione, sebbene sul piano dell’Amministrazione Penitenziaria si perpetui l’idea di un servizio pubblico quanto mai ridicolo".

Dunque, afferma ancora il sindacalista, "o immaginiamo che una vera politica penitenziaria non sia mai esistita nell’agenda di questo e del precedente Governo, a parte l’indulto ovviamente", oppure "ci rassegneremo presto all’unica via di uscita pensata per la soluzione dei problemi carcerari, che di questo passo, e dopo i tagli dell’ultima manovra di fine giugno, diventeranno sempre più di impatto sociale". Una cosa, conclude Beneduci, "è certa: continueremo a discutere di sovraffollamento, senza vedere la polvere che qualcuno intanto sta nascondendo sotto il tappeto. Ma per spostare i detenuti su Marte c’è sempre tempo!".

Giustizia: braccialetto non è funzionale a vera "rieducazione"

di Monica Cali (Magistrato di Sorveglianza a Novara)

 

www.ilsussidiario.net, 10 settembre 2008

 

In questi ultimi tempi si parla molto dell’introduzione del braccialetto elettronico come forma di controllo più efficace sui detenuti agli arresti domiciliari, e della necessità di adottare forme di espulsione nei confronti di cittadini extracomunitari perché espiino la pena nel loro paese di origine. In realtà forme elettroniche di controllo sono già previste dalla legge e non sono state mai più adottate. Alcuni tentativi sono stati abbandonati. Laddove esercito la mia giurisdizione (province di Novara, Aosta e Verbania), ad esempio, il braccialetto elettronico non è mai stato in uso. I detenuti domiciliari sono controllati nella corretta esecuzione del beneficio, fisicamente dalle forze dell’ordine, durante i servizi di pattuglia o i controlli in abitazione.

Sinceramente non sono in grado di formulare un giudizio prognostico sulla positività o meno di questo strumento, non avendone avuta un’esperienza diretta. Azzardo una riflessione come magistrato: la detenzione domiciliare è una pena alternativa al carcere che viene concessa a un soggetto in determinate condizioni e la cui pericolosità sociale residua si ritiene possa essere contenuta con questa misura alternativa particolarmente restrittiva. È una pena e in quanto tale si propone comunque obiettivi di rieducazione (lo prevede l’articolo 27, comma 3 della Costituzione), come tutte le misure alternative. Mi sembra che ciò diventi difficilmente perseguibile se il detenuto domiciliare viene completamente isolato da un rapporto umano e personale, che invece favorisce per definizione gli obiettivi di rieducazione.

Nel nostro ordinamento chi deve scontare una pena viene innanzitutto consegnato ad alcune persone prima che ad alcuni luoghi. In carcere il detenuto è affidato a magistrati, educatori, polizia penitenziaria. Se esce in misura alternativa deve rapportarsi ancora con il magistrato, con l’assistente sociale, con le Forze dell’Ordine. Vedo il rischio di una misura che non sollecita un cambiamento, che non fa leva sul fattore umano, fosse anche solo il rapporto con l’agente di pubblica sicurezza che diffida ad una corretta osservanza delle prescrizioni. Quanto agli stranieri extracomunitari l’emergenza c’è e non si discute. Esistono già le espulsioni degli stranieri che devono scontare una pena al di sotto dei due anni. È un provvedimento a carico del magistrato di sorveglianza e che trova difficoltà di perfezionamento in fase esecutiva. Moltissimi di questi cittadini sono privi di documenti di identificazione e pertanto non possono essere fisicamente accompagnati alla frontiera dalle forze dell’ordine.

Ci sono poi i provvedimenti di estradizione, che però richiedono tempi molto lunghi e per i quali anche la procedura risulta piuttosto farraginosa. Insomma strumenti ce ne sono, ma giustamente il nostro ordinamento vuole che siano rispettate certe garanzie che un iter processuale deve per forza salvaguardare. La mia esperienza mi suggerisce che, osservate certe condizioni come un’offerta di un lavoro serio o di una rete di rapporti significativi, anche cittadini extracomunitari condannati si sono reinseriti nel nostro tessuto sociale. Certo non è la stragrande maggioranza dei casi, ma sono casi che andrebbero presi ad esempio, magari per far fronte al problema sicurezza anche con altri strumenti non strettamente giuridici.

Giustizia: Veltroni; bracciale elettronico è indulto mascherato

 

Ansa, 10 settembre 2008

 

"Diciamo le cose come stanno, il braccialetto elettronico è un indulto mascherato". Così il segretario del Pd, Walter Veltroni, nel corso di una conferenza stampa sulla scuola, giudica la proposta del guardasigilli di utilizzare il braccialetto elettronico come misura per far fronte al problema del sovraffollamento delle carceri. Provvedimento sul quale la maggioranza ha evidenziato le ormai consuete spaccature. Lo stesso ministro dell’Interno Roberto Maroni ha espresso tutte le sue perplessità.

"I dubbi sollevati dal ministro dell’Interno Maroni sul funzionamento stesso dei braccialetti elettronici - ha aggiunto il ministro ombra dell’interno Marco Minniti - affossano il progetto Alfano prima ancora che questo veda la luce. Colpisce e stupisce che su argomenti tanto importanti il governo agisca con approssimazione e colpi d’ingegno, salvo poi spaccarsi in tante polemiche. Quando è in ballo la certezza della pena e la sicurezza dei cittadini bisognerebbe avere un atteggiamento più serio".

Il ministro ombra della Giustizia Lanfranco Tenaglia ricorda invece che in fase di sperimentazione l’esperimento del braccialetto elettronico ha dato risultati pessimi. "Il ministro Alfano - ha affermato Tenaglia - smetta di fare il gioco delle tre carte e dica tutta la verità. L’espulsione dei detenuti stranieri della quale si può discutere, rischia di essere un pannicello caldo perché di difficile applicazione necessitando di accordi bilaterali con gli stati di origine, che l’attuale Governo non sta stipulando. Mentre il braccialetto elettronico in sede di sperimentazione ha dato pessimi risultati".

Giustizia: Ucpi; il braccialetto? può essere, e la sinistra sbaglia

 

Affari Italiani, 10 settembre 2008

 

Intervista a Renato Borzone, segretario dell’Ucpi, l’Unione delle Camere Penali Italiane.

 

Crede sia condivisibile la linea scelta dal ministro Alfano per ridurre il sovraffollamento carcerario?

La linea è certamente condivisibile, anche perché sembra superare alcune posizioni espresse da altri esponenti del Pdl. La assolutizzazione della risposta carceraria non è in linea con i moderni ordinamenti e con le soluzioni più avanzate. Il carcere deve essere una risposta estrema per i reati più gravi, mentre per altre situazioni il ventaglio di situazioni da adottare può essere diverso e prevedere risposte più efficaci, come servizi di pubblica utilità, volontariato, sanzioni pecuniarie effettive, eliminazione delle conseguenze del reato. Senza contare che il precedente Governo, dopo l’indulto, non ha fatto nulla per evitare che le carceri si riempissero nuovamente.

 

Il braccialetto elettronico può essere uno strumento adatto per evitare di rinchiudere nei penitenziari persone la cui pericolosità sociale è tutta da dimostrare?

Su questo bisogna intendersi. Se l’idea non è una boutade estiva, se ne può discutere. Negli Stati Uniti lo strumento è usato e, per quanto se ne sa, è assolutamente affidabile. Leggo invece sulla stampa che i "braccialetti" italiani sarebbero piuttosto "all’italiana", e cioè di dubbio funzionamento. Chiaro che i costi e l’aspetto tecnico possono condizionare l’effettiva applicabilità dello strumento. Non dimentichiamo però anche che la legge Gozzini funziona per il recupero dei condannati e che molto affollamento carcerario deriva dalla concezione della custodia cautelare. Una parte rilevantissima di detenuti sono in attesa di giudizio. Giudizio che bisogna velocizzare con provvedimenti mirati sulle effettive cause dei ritardi, senza speculare per ridurre garanzie. Su quest’ultimo punto, a breve, l’Unione delle Camere Penali Italiane fornirà importanti strumenti di valutazione alla pubblica opinione.

 

E la politica delle espulsioni per i reati meno gravi riguardante gli stranieri?

Tutto sta a rendere effettiva la convenzione e l’espulsione, superando i non indifferenti problemi pratici.

 

Il ministro ombra Lanfranco Tenaglia si è scagliato contro queste misure definendole un’amnistia mascherata. Lei che ne pensa?

È impressionante l’arretratezza della nostra sinistra rispetto alle forze progressiste europee in materia di giustizia. Qualcuno potrebbe dire che la vera destra è la sinistra. L’Ucpi, che è forza trasversale ed apartitica, ha cercato di stimolare un percorso critico all’interno del Pd. Qualcosa si muove e va incoraggiato. Ma è ancora troppo poco. Un editorialista come Panebianco ha osservato che per troppo tempo il Pd ha rappresentato solo il megafono dell’Anm. E purtroppo questa analisi si conferma oggi con lo stantio slogan usato contro la separazione delle carriere, riforma contrasta perché " non accelera" i processi. Come se il problema del processo penale fosse soltanto di velocità e di quantità e non anche, e forse soprattutto, di qualità.

 

Si è parlato anche e di nuovo di ampliamento delle carceri e di costruzione di nuovi istituti di pena. Come mai i lavori però procedono così a rilento?

Questo non lo so. Le nuove carceri vanno bene per sostituire quelle fatiscenti e medioevali di oggi. Ma risolvere i problemi della criminalità costruendo più galere è un’illusione, una sconfitta ed anche un pericolo per le concezioni liberali di un paese democratico.

 

Sono queste le riforme essenziali per il pianeta giustizia? Non sarebbe meglio affrontare il nodo dell’obbligatorietà dell’azione penale e quello della separazione delle carriere?

Sarebbe certamente meglio, ed anche da perseguire rapidamente. Delle riforme di sistema si parla da qualche mese, tuttavia si ha il sospetto in qualche momento che si prepari qualche compromesso al ribasso, magari con accordi sottobanco con la magistratura mediati da qualche forza di centro. Gli avvocati penalisti questa volta non potranno accettare pateracchi, l’occasione non può essere persa per la consueta reverenza verso l’Anm. Il principio della terzietà del giudice e l’articolo 111 della Costituzione sono il frutto di battaglie ideali ed operative anche durissime dell’avvocatura penale. La nostra determinazione per sostenere chi vuole vere riforme è assoluta e inderogabile. Ma le riforme devono essere vere. Non si dimentichi che nel 2000 dieci milioni di cittadini si espressero, in un referendum, per separare le carriere: il consenso nel paese c’è, e la riforma del Csm è indispensabile come pure lo stop alla contiguità tra chi accusa e chi giudica. Non contro la magistratura ma nel suo stesso interesse, per recuperare credibilità presso i cittadini.

 

Come mai l’Italia con un numero di magistrati superiore in media a quello di ogni altra nazione europea è il paese in cui la giustizia funziona di meno?

Alla giustizia servono riforme legislative ma soprattutto, quanto al processo, capacità manageriali e organizzative per far funzionare gli uffici, le notifiche, le udienze, nonché le risorse economiche gestite imprenditorialmente.

 

Non crede che rimettere mano alla legge sulla responsabilità civile dei magistrati potrebbe essere un metodo per creare un valido stimolo per fare lavorare tutti meglio?

La legge è indispensabile. Sul punto l’Ucpi terrà a Firenze un grande convegno nazionale il 10 e l’11 ottobre.

Giustizia: Manconi; sì al braccialetto, ma carceri piene presto

 

www.ilsussidiario.net, 10 settembre 2008

 

Il dibattito in tema di giustizia si è in questi giorni spostato sul versante carceri. Due le proposte sul tavolo, per facilitare la riduzione della popolazione carceraria: il braccialetto elettronico, per permettere di scontare una parte residuale della pena fuori dal carcere, e l’espulsione dei carcerati stranieri, per far sì che possano scontare la pena nel loro Paese. Entrambe le proposte, secondo Luigi Manconi, ex sottosegretario alla Giustizia, rischiano però di essere semplici "messaggi ad effetto".

 

Professor Manconi, cosa pensa della proposta del braccialetto elettronico, per permettere di scontare la pena fuori dal carcere?

Preciso subito che non trovo assolutamente scandalosa questa ipotesi, ma vorrei che venisse considerata tenendo presenti tutti i dati. Il primo dato di cui essere avvertiti è il seguente: tra coloro che sono agli arresti domiciliari o in detenzione domiciliare, la percentuale di quanti violano le norme o commettono nuovi reati è oscillante tra lo 0,5 e l’1,7%. Percentuale irrisoria, e statisticamente insignificante. Il che dice immediatamente che il braccialetto elettronico, lungi dall’essere un pericolo, è semplicemente, in questo senso, superfluo.

 

Quindi secondo lei il braccialetto non cambierebbe nulla rispetto alla situazione attuale?

Una cosa potrebbe cambiare. Oggi chi è stato condannato per reati non gravi e deve scontare solo due anni residui può già essere ammesso alla detenzione domiciliare. Ma l’elemento essenziale è quel "può", cioè è decisione discrezionale della magistratura di sorveglianza. Il braccialetto elettronico - ed è questo il motivo che mi rende non ostile alla proposta - potrebbe far diventare automatica una decisione che adesso è solo discrezionale. Certo, fatta salva la garanzia effettiva del braccialetto in termini tecnici, e chiarito che stiamo parlando di coloro a cui mancano due anni e non sono responsabili di gravi reati.

 

Si è parlato anche di espulsione dei detenuti stranieri, per mandarli a scontare la pena nel loro Paese: è un’ipotesi realizzabile?

Si deve procedere ancora una volta con lucidità e dati di realtà. Quanti sono i paesi di provenienza degli immigrati con cui ci sono rapporti bilaterali? Non solo: quali di questi accordi prevedono non il semplice rientro, ma l’espiazione della pena nelle carceri locali? Da ciò che ho capito è che siamo molto al di sotto di un provvedimento effettivamente deflativo della popolazione carceraria, oggi più che sovraffollata. Il rischio ancora una volta è che ci siano messaggi ad effetto: si annuncia qualcosa il cui suono appare rassicurante, ma senza reali conseguenze, perché se si tratta di qualche centinaia, o anche qualche migliaia di detenuti espulsi, non vi vedo nulla di risolutivo. Non dobbiamo dimenticare che nei pochi mesi del governo Berlusconi il numero degli immigrati arrivati sulle coste italiane è cresciuto in maniera abnorme. È forse colpa del governo? No: il nodo è che i provvedimenti annunciati non sono in grado di rispondere a un fenomeno che non è di ordine pubblico e di controllo delle frontiere. Non è colpa di Maroni, è però il segno dell’inefficacia dei messaggi ad effetto.

 

Si è detto in questi giorni (ne ha parlato soprattutto Di Pietro) che per risolvere il problema del sovraffollamento bisogna costruire nuove carceri: è d’accordo?

Assolutamente no. L’aumento dei carcerati nei prossimi mesi e anni sarà sempre maggiore, e il problema è che tutte le commissioni tecniche certificano che il tempo medio per la costruzione di un istituto penitenziario è di 12-14 anni. Io, da sottosegretario, ho addirittura inaugurato un istituto che era stato iniziato negli anni 50. La posizione non mi sembra dunque assolutamente convincente. Innanzitutto non mi convince il fatto che noi inseguiamo un aumento della popolazione detenuta aggiungendo nuovi posti-carcere, immaginando quindi che questa popolazione è giusto che cresca. Questo è un grave errore strategico. Non dobbiamo dimenticare i dati sulla criminalità: nella più pessimista delle interpretazioni danno un panorama della situazione nazionale non allarmante, e il dato degli omicidi è drasticamente crollato. Di fronte a questo non possiamo continuare a parlare solo di aumento della popolazione carceraria, come se questo fosse normale.

 

Lei è tornato a parlare in questi giorni di indulto, un provvedimento che però ha fatto molto discutere…

Ho parlato di indulto con amnistia annessa, e con una capacità di accoglienza maggiore di quella che c’è stata nel 2006. In particolare rifiuto una lettura puerile e totalmente falsa degli effetti dell’indulto. Oggi siamo a una percentuale di recidiva largamente inferiore alla percentuale di coloro che non hanno beneficiato dell’indulto stesso. I dati contano o non contano? Se la persona sconta la sua pena fino alla fine, esce e delinque nella percentuale del 65% circa dei casi; chi è uscito con l’indulto con una percentuale del 25-30% circa. La decisione di un indulto con amnistia, dunque, continuo a ritenerla una cosa saggia, ma una cosa che la classe politica, per la sua codardia e scarsa lungimiranza, non farà certamente. Invece, a mio avviso, bisogna depenalizzare.

 

Come?

Ad esempio, per tornare al punto iniziale, usando il braccialetto come forma di pena e non solo come misura di sicurezza. Ora si pensa di utilizzarlo solo per assicurarsi che una persona che sconta l’ultima parte della pena fuori dal carcere non cerchi di scappare o delinquere: ma perché non utilizzarla come pena alternativa al carcere fin da subito? La logica può essere che nel caso di un reato di non particolare allarme sociale, quella persona stia in detenzione domiciliare con braccialetto fin dal primo giorno della condanna. Questo sarebbe un fatto positivo.

Giustizia: Fleres (Pdl); la rieducazione? in "custodia attenuta"

 

Il Velino, 10 settembre 2008

 

"La presunta contrapposizione tra il ministro della Giustizia, Alfano, e il ministro dell’Interno Maroni, circa l’uso dei braccialetti per i detenuti meno pericolosi, il rimpatrio degli stranieri con pene più lievi e la costruzione di nuove carceri mi sembra del tutto fuori luogo, in quanto le tre proposte affrontano problematiche diverse e non contrapposte".

Lo dichiara il senatore Salvo Fleres (Pdl), garante dei diritti dei detenuti per la Sicilia, sui provvedimenti riguardanti le carceri. "Il 40 per cento dei reclusi - spiega Fleres - si compone di tossicodipendenti o di autori di delitti del tutto marginali: in entrambi i casi l’uso del braccialetto, se tecnologicamente valido, così come la depenalizzazione e trasformazione in ammenda per alcuni reati, o il ricovero in comunità di recupero costituiscono un’ottima soluzione.

Il 40 per cento dei reclusi, oggi, è costituito da stranieri, dunque anche il rimpatrio rappresenta un’ottima soluzione sia in termini carcerari, sia in termini umanitari, sia in termini finanziari (un recluso costa circa 100.000 euro l’anno). La costruzione di nuove carceri, utilizzando dove possibile il progetto di finanza, rappresenta un obiettivo imprescindibile di economicità, funzionalità e reale rieducazione del condannato (articolo 27 della Costituzione)".

"In Italia - continua il senatore del Pdl - ci sono troppe carceri piccole e del tutto inadeguate. Esse sono sporche, umide, prive di spazi per la scuola e il lavoro, con ridotti presidi sanitari e rieducativi. È auspicabile che le nuove strutture vengano progettate in maniera adeguata, tenendo conto di un numero più consistente di posti (meglio se non superiori a 400/500), di attrezzature che consentano di lavorare, studiare e praticare lo sport, con un maggior numero di educatori, assistenti sociali, medici e psicologi e con un corpo di guardia non costretto a turni estenuanti di servizio. È opportuno, inoltre, pensare a istituti a sorveglianza attenuata, a case o colonie di lavoro sicuramente più adatti alla rieducazione ed la recupero, almeno per le tipologie di reato meno gravi. Mi auguro - conclude Fleres - che, per una volta, si esca dalle polemiche con qualche idea frutto dell’esperienza e non del presunto conflitto ideologico".

Giustizia: Sidipe; senza premialità carceri cadrebbero nel caos

 

Comunicato stampa, 10 settembre 2008

 

Seppure apprezziamo lo sforzo del Ministro Alfano di dare, in tempi rapidi, adeguate risposte all’emergenza carceraria, da noi più volte denunciata prima delle recenti consultazioni elettorali, allorquando abbiamo incontrato esponenti delle diverse aree politiche, non possiamo esimerci dall’esprimere, con spirito di lealtà, delle perplessità sulle recenti ipotesi di soluzioni che sono state pubblicizzate dagli organi d’informazione.

L’esperienza sul campo, infatti, ci dice che esse rischiano di rappresentare, soltanto, lo spostamento in avanti del timer di un ordigno destinato a deflagrare.

Non potranno essere poche migliaia di virtuali destinatari di un provvedimento, il quale finora non è stato reso noto ai direttori penitenziari d’istituto e degli uffici dell’esecuzione penale esterna, nonché agli altri operatori che, effettivamente lavorino a contatto reale con i detenuti, a risolvere, strutturalmente, la "madre" di tutti i problemi: l’assenza di spazi adeguati e dignitosi dove i ristretti siano tenuti ad espiare, in modo utile per la società, le condanne o essere sottoposti alle misure di custodia cautelare detentiva.

Ad oggi non sappiamo se le misure che si vorrebbero adottare rispondano al principio di dissuadere le persone detenute dal commettere nuovi crimini, soddisfacendo, contestualmente, il desiderio di giustizia della collettività e delle vittime dei reati, nonché la pretesa di giustizia dello Stato.

Non sappiamo se vi sia un qualche riferimento alle finalità del recupero delle persone detenute, attraverso il reinserimento nel mondo del lavoro, in famiglia, nella comunità, nel suo territorio.

Siamo convinti che non si voglia un arretramento culturale, ma non abbiamo, però, notizia di come sia stato salvato uno dei pilastri dell’ordinamento penitenziario italiano, quello della "premialità" verso quanti, detenuti, accettino le regole del vivere civile.

La pratica di "forzare" l’editto penale e, nei fatti, scarcerare anzitempo il detenuto, seppure con lo strumento del "braccialetto", sulla base di un automatismo (il dover lui ancora scontare gli ultimi due anni di pena), a prescindere dall’osservazione della sua personalità, rischia di ridurre la funzione penitenziaria all’esercizio della mera conta dei numeri "detenuti", piuttosto che all’esame delle personalità, rinunciando a costruire ipotesi di sicurezza duratura.

Inoltre, in tal modo, si demotivano ulteriormente gli operatori penitenziari, i quali vedono il carcere sempre più degradato a mero contenitore di una folta umanità prigioniera, invece che di luogo istituzionale capace di offrire l’ultima, se non unica, opportunità di cambiamento, per chi voglia mettersi ancora in gioco, attraverso la formazione professionale, il lavoro ed una condotta "riparativa" verso la società. Il carcere rischia di caratterizzarsi, unicamente, come luogo orrido di passaggio, capace di alimentare esclusivamente criminalità e dispensare "master" delinquenziali nel momento in cui smarrisce il suo significato pedagogico.

Ma queste possono apparire osservazioni "romantiche" di "inguaribili cultori della scienza penitenziaria", fuori luogo in un momento in cui prevalgano le spinte emergenziali, allora fingiamo di superarle e soffermiamoci sulle perplessità più evidenti, seppure alla sola luce delle indiscrezioni della stampa: per ciò che attiene i possibili detenuti destinatari dei "braccialetti segnalatori", sarà per essi obbligatorio accettare di andare in detenzione domiciliare prima della scadenza naturale della pena, anche se non abbiano i mezzi per sopravvivere, non siano in grado di avere un’abitazione, non abbiano famiglie o queste ultime non vogliano avere rapporti con essi, non siano accolti in comunità, ancor di più ove debbano seguire cure mediche a motivo di malattie gravi ed infettive, etc. etc.? come sarà concretamente organizzato il servizio di vigilanza a distanza, vi saranno centrali operative regionali, provinciali, locali, e con quale personale (non certo sottraendolo ancora una volta alle carceri), e quali saranno i tempi della formazione per gli addetti, chi assicurerà la manutenzione ordinaria e straordinaria, senza soluzione di sorta, delle sofisticate apparecchiature, come si procederà in caso di improvvisi guasti, che durata avranno i contratti da stipularsi con le imprese del settore, come ci si raccorderà con le altre forze dell’ordine, e siamo sicuri che non accadrà quello che oggi, e già da anni, si verifica negli istituti penitenziari, dove non vengono garantite le manutenzioni ordinarie degli impianti elettrici, dei sistemi di videocontrollo, di quelli antincendio, dove il parco mezzi per le traduzioni è obsoleto, e dove le caserme, destinate al personale di polizia penitenziaria, non sono state ancora adeguate a decenti standard di ospitalità?

Andiamo adesso alle "espulsioni" (misura che, in verità, già esiste): quanto altro tempo ci vorrà per stringere accordi internazionali efficaci con tutti gli stati che esprimano immigrati clandestini (la cui gran parte si trova nel Continente Africano, oltre che nel Centro e Sud America, nel Medio ed Estremo Oriente, e nell’Europa Sud-Orientale, etc.)?

Oggi le procedure sono lente, e la resistenza dei destinatari dei provvedimenti è rilevante, temendo essi, una volta rientrati forzatamente nei Paesi d’origine, il rischio di "sanzioni accessorie", ben maggiori della pena da espiare in Italia.

Ciò, ovviamente, non esclude una qualche modesta efficacia del provvedimento sul piano deflattivo, ma il numero dei detenuti, soprattutto se si confermerà una linea sicuritaria di maggior rigore nel contrasto alle criminalità piccole od organizzate, soprattutto in tema di sicurezza urbana, di lotta alla droga, alla prostituzione, etc., sarà comunque compensato da nuovi arresti.

E le carceri, le nuove carceri, di cui abbiamo un bisogno straordinario, si faranno, ed in che modo ciò avverrà? Oggi quanti istituti sono "in regola", quanti istituti sono rispettosi del D.lgs. 626/94 e norme successive, e fino a quando sarà consentito ai detenuti di poter detenere un fornello personale, autoalimentato a gas, e di cucinare all’interno dei locali, adibiti a gabinetto, col rischio che vengano utilizzati per sniffare butano o come strumenti di offesa verso compagni e operatori penitenziari ?

A tal proposito, chiediamo al Governo: "Non è forse, finalmente, il caso di investire su un ristrettissimo gruppo di operatori penitenziari che conosca dal di dentro le carceri, e che possa valersi della consulenza di organi tecnici "pubblici" (chiedendo la collaborazione delle facoltà di architettura, di ingegneri, di esperti in sistemi di sicurezza), il quale avrà il compito di supportare un commissario straordinario per le carceri, il quale dovrà affrontare, esclusivamente, il tema delle nuove strutture penitenziarie, anche rivolgendosi al mondo delle imprese e dei capitali, proponendo la finanza di progetto, al fine di trovare sostegno e partner per realizzare, su aree demaniali, semmai pure riqualificando le caserme dismesse, i vecchie aeroporti militari inutilizzati, etc., tutti gli istituti carcerari di cui necessitiamo in cambio del dovuto?

Ma se davvero si pensa a nuovi istituti penitenziari, diamo per scontato che dovrà pure considerarsi l’altra prioritaria condizione per tentare di normalizzare il sistema: la migliore utilizzazione del personale esistente e l’assunzione di ulteriori operatori penitenziari, in primo luogo di Educatori, e poi di Assistenti Sociali, di Psicologi, di Poliziotti Penitenziari, di Dirigenti Penitenziari. L’esperienza ci insegna a diffidare dalle soluzioni scritte "a tavolino" ed elaborate lontane "dalla prima linea". Forse sarebbe il caso di fermarsi un attimo a riflettere; nel frattempo, continuiamo ad assicurare al Ministro la nostra leale collaborazione di dirigenti penitenziari e di servitori dello Stato, auspicando, nel contempo, che prevalgano le ragioni della concretezza la quale, in un settore delicato come il nostro, non potrà mai essere disgiunta dalla ragionevolezza e non dovrà abdicare ai principi costituzionali della pena.

 

Il Segretario Nazionale

Dr. Enrico Sbriglia

Giustizia: nelle carceri manca più della metà degli educatori

di Maurizio Gallo

 

Il Tempo, 10 settembre 2008

 

Non è solo una questione di spazio, di posti letto, di edilizia penitenziaria. Nelle carceri italiane manca di tutto. Tanto da mettere in discussione la funzione "rieducativa" stabilita dalla Carta Costituzionale che, all’articolo 27 (comma 2) recita testualmente: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

Così non è. Il sovraffollamento non aiuta certo (su 43mila posti vi sono 55.800 detenuti) e accade quindi che, se le prigioni scoppiano, il tanto vituperato indulto, originariamente ispirato a ragioni di opportunità politica e pacificazione sociale, diventa uno strumento indispensabile di sfoltimento della popolazione carceraria.

La cronica carenza di educatori, invece, non rende possibile applicare il mandato dei padri costituenti. In 45 istituti analizzati da un gruppo di deputati radicali, a fronte di una pianta organica che prevede 373 educatori, ne sono stati effettivamente assegnati 168, cioè solo il 45% di quanti ne servirebbero. Per questo Rita Bernardini e altri esponenti del partito di Pannella eletti nel Pd hanno presentato un’interrogazione al ministero della Giustizia Angelino Alfano.

In previsione delle visite che i radicali hanno organizzato a Ferragosto nelle patrie galere, è stata inviata ai direttori dei suddetti istituti una richiesta di informazioni sullo "stato dell’arte" dei penitenziari. Il responso è stato a dir poco non edificante. La situazione peggiore è stata registrata a Poggioreale, Napoli. Qui, a fronte di una pianta organica che prevede 28 educatori, ne sono stati assegnati appena 6. Ma non va molto meglio neppure nella casa circondariale di Torino (13 educatori su 20), nella casa di reclusione "San Michele" di Alessandria (4 su 11 previsti), nell’istituto per minorenni di Treviso (3 su 11), nel carcere di Padova (6 su 13) e nella casa circondariale di Lecce (7 su 14), tanto per citare i casi più eclatanti.

Eppure nel lontano 2003 venne bandito un concorso pubblico per la copertura di 397 posti (nell’area C, posizione economica C1) di educatore. Il bando fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 16 aprile 2004 e, al termine di un lunghissimo iter procedurale, il concorso si è concluso il 13 giugno di quest’anno. I vuoti, però, non sono stati ancora riempiti. Per questo i deputati democratici, premesso che "ulteriori ritardi nella chiamata in servizio dei vincitori del concorso lederebbero le legittime aspettative di quanti attendono delle risposte per poter programmare in maniera più compiuta il proprio futuro e striderebbero con l’attuazione della Costituzione", chiedono ad Alfano "se sia a conoscenza di quanto descritto" e "se intenda rendere pubblico il numero degli educatori previsti in pianta organica e di quelli assegnati nei singoli istituti di cui, al momento, non si dispone dei dati". Inoltre vogliono sapere "in che modo" il ministro e il ministero intendano "intervenire per attuare il principio costituzionale del recupero sociale delle persone detenute e in quali tempi intenda chiamare in servizio i vincitori e gli idonei del concorso sopra citato per coprire l’organico".

Anche perché, sottolineano i parlamentari radical-democratici nell’interrogazione, "è dimostrato che negli istituti ove si attuino programmi di reinserimento per i detenuti il fenomeno della recidiva si riduce drasticamente, elevando così concretamente la sicurezza dei cittadini".

Giustizia: Arci; no al piano del Governo... è senza via d’uscita

 

Agi, 10 settembre 2008

 

È "senza via d’uscita" la strada intrapresa dal Governo sui temi della giustizia e delle carceri. È quanto rilevano Paolo Beni, presidente nazionale Arci e Franco Uda, responsabile Arci carcere e giustizia, secondo i quali "l’idea del ministro di attuare un cosiddetto ‘piano svuota carceri’ la dice lunga sulla difficoltà di governare un aumento della popolazione detenuta che porterà gli istituti di pena ad una condizione ancora peggiore di quella precedente all’indulto, con un rischio reale di deflagrazione sociale al proprio interno".

Le misure indicate da Alfano, rilevano gli esponenti dell’Arci, come quella del braccialetto o del rimpatrio dei detenuti stranieri nei propri Paesi d’origine, sono "costosissime, inefficaci e sbagliate e stanno provocando anche all’interno della maggioranza vistose spaccature". Secondo Beni e Uda, dunque, "la destra oggi deve prendere atto che seminando vento si raccoglie spesso tempesta. La deriva securitaria e repressiva con cui le forze politiche di maggioranza hanno infiammato gli istinti più barbari della pancia del Paese, seminando demagogiche paure e raccogliendo facile consenso, sembra arrivata al capolinea".

In questi ultimi anni, ricordano, "si è continuato a produrre paure e insicurezza, si è sostituita la risposta sociale con quella penale, si è alimentato il conflitto orizzontale col prossimo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un Paese carico di odio e di rancori, che guarda al proprio futuro con paura, che baratta le proprie libertà civili con la presunta sicurezza derivante da un controllo asfissiante del territorio, che dimentica la vera emergenza della criminalità organizzata che invece continua a prosperare".

L’approvazione parlamentare dell’indulto nella passata legislatura, "votato anche dalle destre e poi strumentalmente scaricato sul Governo Prodi - sottolineano I responsabili dell’Arci - era di fatto l’unico punto di partenza dal quale realisticamente poter ristabilire un processo virtuoso di contenimento della popolazione detenuta, ma è stato un processo incompleto e quindi efficace solo per poco tempo". Ora, quindi, concludono Beni e Uda, "è necessario avviare un corso lungo e complesso che riduca il tasso di crescita attuale dei detenuti attraverso l’abrogazione di alcune leggi repressive come la Bossi-Fini e la ex-Cirielli, che si approvi un nuovo Codice penale sulla base della proposta della commissione Pisapia, depenalizzando molti reati e definendo nuovi e più ampi percorsi di esecuzione penale esterna, che si abbandoni l’impianto del disegno di legge Berselli e invece si estendano le condizioni di applicabilità della legge Gozzini, che si rafforzino le politiche di contrasto all’esclusione sociale, le uniche in grado di garantire una vera sicurezza e la valorizzazione delle reti solidaristiche del Paese.

Giustizia: Caritas; carceri affollate da legge sull'immigrazione

 

Redattore Sociale - Dire, 10 settembre 2008

 

Oliviero Forti, responsabile del settore Immigrazione, esprime dubbi sul piano del ministro della Giustizia Alfano: "C’è un approccio emergenziale e l’espulsione non può essere la panacea di tutti mali".

Aprire canali di ingresso regolare in Italia più ampi e garantire meccanismi più efficaci per ottenere e mantenere la situazione di regolarità. Così Oliviero Forti, responsabile del settore Immigrazione della Caritas Italiana, riassume la ricetta dell’organismo pastorale della Cei a proposito del sovraffollamento delle carceri italiane e soprattutto della forte presenza di immigrati.

"Se si considera che gli stranieri rappresentano il 37% dell’intera popolazione carceraria e il 6% della popolazione residente in Italia, si comprende che esiste un problema reale - spiega Forti. - Ma riguarda soprattutto gli immigrati irregolari, perché chi ha un permesso di soggiorno sta molto attento a non perderlo". E a questo va aggiunto che molti degli stranieri in carcere sono colpevoli di aver violato la legge Bossi Fini, e quindi di non essere in regola con il permesso di soggiorno - . Basti pensare agli immigrati irregolari che, una volta usciti dai Centri di permanenza temporanea, vengono di nuovo intercettati sul territorio italiano.

Ma anche il piano proposto in questi giorni dal ministro della Giustizia, Angelino Alfano, di rispedire nei Paesi di origine gli oltre 3 mila detenuti stranieri che devono ancora scontare una pena non superiore a due anni, per il responsabile immigrazione della Caritas presenta non pochi problemi.

"L’espulsione nei fatti è molto complicata: - afferma - non solo perché i loro Paesi di origine non sono d’accordo, ma anche perché è difficile attuarla quando manca la volontarietà delle persone interessate". E allora la misura del governo non può certo essere "una panacea di tutti i mali", il provvedimento "in grado di risolvere tute le situazioni".

"C’è un approccio emergenziale" prosegue Oliviero Forti, che bolla la misura annunciata come uno "strumento di corto respiro". Dunque, conclude Forti, "comprendiamo che la difficoltà esiste, ma la nostra idea, che abbiamo più volte espresso, è quella di pensare a provvedimenti di lungo periodo:come a una normativa che apra più seriamente canali di ingresso regolare nel nostro Paese".

Sicilia: nelle carceri troppi detenuti, la rieducazione è difficile

di Dario La Rosa

 

La Sicilia, 10 settembre 2008

 

La voce è unanime: anche nelle carceri siciliane la situazione è critica e rischia di avvicinarsi a breve a quella fotografata poco prima dell’indulto. Ovunque, il numero di detenuti supera il numero di posti disponibili. I braccialetti proposti dal ministro Alfano? "Necessari e utili - dicono i direttori - per ridurre il numero effettivo di ospiti" ma probabilmente non efficaci se non supportati dalla tecnologia e da un buon programma di recupero del detenuto. La questione, infatti, ruota proprio intorno a quello che si pensa debba essere il lavoro educativo all’interno delle strutture penitenziarie.

Il carcere di Pagliarelli, a Palermo, è uno tra i più grandi dell’Isola. A fronte di una capienza di 750 posti, oggi gli ospiti sono 1.200 (poco prima dell’indulto erano 1.300). "Il numero eccessivo di detenuti - spiega la direttrice Laura Brancata - non ci consente di effettuare al meglio le attività di recupero. Il personale non è sufficiente a sopportare un carico così elevato di persone e quindi siamo costretti a stringere i denti. L’indulto - prosegue - ci ha consentito di respirare ma si è rivelato inutile, sono favorevole quindi alla proposta del braccialetto o dell’espulsione per gli extracomunitari che qui soffrono particolarmente a causa delle differenze culturali".

Non va meglio all’Ucciardone, dove attualmente ci sono 620 detenuti a fronte di 500 posti disponibili. E anche qui il fulcro è nella rieducazione. "Molti soggetti sono tossicodipendenti - dice il direttore Maurizio Veneziano - quindi, oltre alle ipotesi di braccialetto o espulsione, andrebbero studiate a fondo misure alternative e di reinserimento".

Nella casa circondariale di piazza Lanza, a Catania, quella con il più alto numero di ingressi dalla libertà, si è costantemente in esubero. Rispetto ai 320 posti ci sono 100 detenuti in più. "Però - afferma il direttore Rosario Tortorella - stiamo ristrutturando un piano e quindi il dato è lievemente falsato in questo momento".

Anche nell’isola di Favignana si è in esubero, ma il direttore preferisce non fornire i dati precisi.

In controtendenza è invece la casa di reclusione di Noto, dove i posti sono 73 e non c’è esubero. Anche in questa struttura ci sono lavori in corso, i posti saliranno a 200. Qui si scontano soltanto condanne definitive e i detenuti hanno la possibilità di lavorare in officine meccaniche o occuparsi di tessitura di abiti che poi vengono utilizzati nelle carceri di tutta Italia. "La particolarità dell’istituto - dice la direttrice Angela Lantieri - non mi consente di valutare le proposte del ministro in via generale. Qui i detenuti hanno alle spalle storie difficili, secondo me si deve valutare caso per caso".

Il viaggio termina a Nicosia, dove c’è una delle strutture più piccole della Sicilia. I posti disponibili sono 40 ma attualmente ci sono 63 detenuti. "Da noi - spiega la direttrice Gabriella Di Franco - ci sono degli stanzoni quindi l’esubero si sente parecchio. Abbiamo avuto grossi problemi con le brande".

Toscana: "Progetto Indulto" continuerà fino al 30 aprile 2009

 

In Toscana, 10 settembre 2008

 

Oltre 150 contratti di lavoro sottoscritti dagli ex detenuti dopo il tirocinio. La Toscana, insieme al Veneto, è la regione in cui si è avuto il maggior numero di assunzioni.

"L’indulto è stato il fatto scatenante, lo spunto da cui partire. Il tema forte sul quale riflettere è il reinserimento di chi esce dal carcere, che spesso ha perso qualsiasi rete sociale all’esterno, compresa la famiglia, non concentrandosi solo sulla quota di recidivi, ma soprattutto su coloro i quali riescono a restare lontani dal crimine".

Così Natale Forlani, amministratore delegato di Italia Lavoro, spiega la filosofia di fondo del progetto Indulto che, partito proprio dall’esigenza di realizzare interventi di reinserimento attraverso il lavoro destinati agli ex detenuti beneficiari del provvedimento di indulto, prosegue la sua azione fino al 30 aprile 2009 estendendola indistintamente a tutti i soggetti, non solo indultati, in trattamento penale che risultano in fine pena o che possono accedere a misure alternative.

"Nel nostro Paese - dice Forlani - c’è da sempre una forte disattenzione al rapporto carcere/lavoro, il che certo non vuol dire che manchino le esperienze in proposito; quello che manca è un’azione mirata ai grandi numeri e che realizzi servizi strutturali. È questo, credo, il valore aggiunto del progetto Indulto: la realizzazione di una vera e propria azione di sistema".

Passare quindi dalla gestione dell’emergenza ad interventi strutturali: è a questa esigenza che il progetto Indulto vuole dare risposta. "Dal progetto - spiega Forlani - abbiamo avuto due motivi di grande soddisfazione: le grandi aree metropolitane hanno chiesto di andare avanti con il progetto, oltre il termine previsto; e i comuni più piccoli ne hanno chiesto l’avvio".

Sono 1.566 i progetti formativi sottoscritti, al 1° settembre, nei territori coinvolti nel progetto Indulto. Il numero più consistente di progetti formativi attivati è in Sicilia (332). Seguono la Puglia (283), il Lazio (196), la Toscana (131), l’Emilia Romagna (129), il Piemonte (122), la Liguria (112) la Sardegna e il Veneto (82), la Campania (47), la Lombardia (27), il Friuli Venezia Giulia (23). Toscana e Veneto sono le regioni in cui si è avuto il maggior numero di assunzioni a seguito dei tirocini (26). Segue il Piemonte con 22 assunti, il Lazio (21), la Puglia (13), la Sicilia (12), la Liguria (9), la Sardegna (6), la Lombardia (4), il Friuli (1). Complessivamente, il progetto promosso dai ministeri del Lavoro e della Giustizia con l’assistenza tecnica di Italia Lavoro, ha portato finora all’assunzione di 142 persone.

"Una delle potenzialità maggiori del progetto è stata quella di ricostruire e valorizzare le competenze presenti all’interno del carcere sulla base di una rete di domanda reale. Una rete di imprese rappresentata innanzitutto dalle cooperative sociali, fondamentali perché fanno massa critica e perché al loro interno il reinserimento di soggetti svantaggiati è più agevole. Ma non mancano i privati, che anzi, ad esempio, in Sicilia sono la maggioranza".

Dal canto suo Mario Conclave, responsabile del progetto, sostiene la sua valenza aggiuntiva: "Si è sviluppata un’esperienza lavorativa per detenuti ed ex detenuti come opportunità insieme di percorso riabilitativo e prevenzione della recidiva; si è quindi configurato un contributo congeniale, seppur sperimentale, alla sicurezza delle comunità locali". Fondamentale l’incontro tra realtà pubbliche e private: "Si è attivato nei territori - spiega Conclave - l’incontro tra servizi pubblici di tipo diverso (lavoro, sociale, penitenziario) e di operatori privati (imprese, cooperative, associazioni) in modo di facilitare il rapporto virtuoso tra persone con esperienza detentiva e comunità produttiva.

È stata messa a punto e praticata una metodologia per l’inclusione sociale e lavorativa per soggetti a conclusione della pena o in misure alternative. Sono questi, secondo Conclave, i principali risultati concretizzati dal progetto di Italia Lavoro, promosso dal Ministero del Lavoro e della Giustizia, "progetto che - dice - partito dall’emergenza sociale dell’indulto, ha saputo realizzare una linea di intervento più strutturale. Oltre agli obiettivi quantitativi, è stato in grado, infatti, di rispondere a criteri di trasferibilità, cioè di poter estendere la sua portata anche a situazioni diverse dalle originarie e a quelli di sostenibilità, cioè proporsi il proseguimento degli interventi da parte delle istituzioni competenti oltre la specifica scadenza del progetto".

Milano: Pagano; braccialetto per autori reati a minore gravità

 

Ansa, 10 settembre 2008

 

Il conteggio è già cominciato. I direttori delle carceri, calcolatrice alla mano, stanno cercando di definire gli effetti su Milano del braccialetto per i detenuti invocato dal ministro della Giustizia Angelino Alfano. Un provvedimento che servirebbe a svuotare le carceri con un metodo di controllo per i detenuti ammessi alle misure alternative, quelli che hanno compiuto reati di minore gravità.

Un braccialetto indossato alla caviglia e dotato di un trasmettitore in collegamento con la centralina della polizia. Che permetterebbe di risolvere i problemi più pressanti di sovraffollamento, consentendo di non perdere mai di vista i circa 4.100 detenuti italiani che hanno fino a due anni di pena da scontare e possono usufruire degli arresti domiciliari. Bene, secondo fonti del ministero della Giustizia, solo in città, tra gli istituti penitenziari di Bollate, Opera e naturalmente San Vittore, sono almeno 500 i detenuti pronti a lasciarsi alle spalle le sbarre se il provvedimento si materializzerà.

E proprio mentre si infiammano le polemiche, tra chi vede nel braccialetto un "nuovo indulto" e chi lo definisce "un’amnistia mascherata", il provveditore delle carceri lombarde Luigi Pagano, promuove a pieni voti il progetto del ministro.

"Naturalmente si tratta di decisioni ministeriali - sottolinea Pagano - e il nostro compito è quello di applicarle se verranno approvate. Ma se il braccialetto può servire a svuotare le carceri, ben venga. In Lombardia siamo in stato da pre-indulto. Le celle sono sovraffollate. Con 8.250 detenuti in tutto. Ben oltre la soglia di tolleranza. Ogni provvedimento che ci aiuti a svuotare le carceri, soprattutto se si tratta di detenuti che non devono scontare pene per reati gravi, è ben accetto". Ma quanti sono ufficialmente i detenuti delle carceri milanesi che potrebbero beneficiare del provvedimento?

"Stiamo per l’appunto facendo i conteggi in questi giorni - assicura il provveditore delle carceri lombarde - ma non siamo ancora in grado di dare delle cifre precise. Non è facile perché bisogna fare la giusta distinzione fra reati che prevedono una pena inferiore a due anni e quelli che non sono socialmente pericolosi. Dovrebbero essere comunque centinaia e centinaia i detenuti pronti a lasciare le carceri".

Naturalmente, il timore più grande è quello delle evasioni. "Darò il mio ok al braccialetto solo se se si troverà una tecnologia adeguata per garantire al cento per cento la sicurezza. Lo attueremo solo se avrò la garanzia che non ci saranno casi di evasione, che le evasioni saranno zero", tuona il ministro dell’Interno, Roberto Maroni.

Milano: parenti vittime contrari e pronti a sciopero della fame

 

Ansa, 10 settembre 2008

 

Non la mandano proprio giù questa del braccialetto elettronico come alternativa alle pene detentivi, parlano di un secondo indulto mascherato e si dicono pronti a fare lo sciopero della fame se il progetto allo studio del Governo andrà in porto. Sono i parenti delle "Vittime della violenza", associazione senza scopo di lucro nata a Milano e che in tutta unisce le famiglie che hanno subito un lutto a causa di comportamenti violenti e criminali. Appena hanno appreso del progetto, dalla stampa, hanno mandato decine di fax all’indirizzo del ministro Alfano per chiedere di essere ricevuti. Nessuna risposta.

"Non capiamo perché il ministro abbia conferito con il Presidente della Repubblica e con i detenuti senza dedicare un minuto a chi più di tutti potrebbe essere offeso nell’intimo da un nuovo colpo di spugna". A parlare è Maria Teresa D’Abdon, attivista dell’associazione che i milanesi ricordano per una tragica e brutale vicenda di cronaca. La figlia, Simona Ravizza, è stata uccisa nel 2003 a soli 29 anni mentre aspettava un bimbo dal suo stesso compagno che le ha inferto diverse coltellate e ha poi tentato di bruciarne il corpo.

Una storia che Maria Teresa mette subito in calce alla lettera per il Ministro. Come dire: "Caro Alfano, è con questo dolore che devi venire a patti". Perché l’assassino di Simona rientra perfettamente nell’identikit del beneficiario: il suo assassino, infatti, ha confessato (c’era solo lui) e quindi ha ricevuto il rito abbreviato, in appello ha ricevuto la riduzione di pena, agevolato poi dall’indulto con la riduzione di 3 anni, poi altri sconti per buona condotta e ora la paura per tutta la famiglia è che presto da San Vittore possa uscire. Con o senza braccialetto. Così l’associazione Vittime della Violenza insiste nel chiedere a tutti i politici di fermarsi un momento a ragionare mettendosi per una volta nei panni di chi più di tutto teme di vedere chi ucciso, stuprato, picchiato di nuovo in libertà.

"Caro Ministro, lei che è un padre e ha dei figli, può immaginare cosa siano per noi...". Si legge nella lettera-appello. Che prosegue denunciando come lo Stato si occupi sempre dei detenuti, mai delle vittime o dei loro parenti. "Nessun aiuto psicologico o economico, neppure una visita o un momento di simbolica vicinanza. Abbiamo sempre dovuto svenarci per ottenere quella giustizia che è sempre pronta a garantire il diritto dell’imputato o del detenuto". Alla luce di tutto questo il tema del sovraffollamento delle carceri suona alle orecchie dei parenti delle vittime come una beffa. "I giornali segnalano puntualmente l’esistenza di strutture pronte e lasciate decadere. Basterebbe farle completare proprio ai detenuti così da dare piena realizzazione, tramite il lavoro, a quel concetto di riabilitazione che oggi avviene soltanto sul presupposto del tempo: stai dentro tanto, tanto paghi. E in realtà paghiamo noi e i tempi di detenzione si riducono. E nessuno ha i soldi per risarcire le vittime. Quando i parenti ricevono un indennizzo sono i cittadini per bene a pagare. È un sistema assurdo". Così si pensa a un gesto più eclatante. Se il ministro non risponde da Milano partiranno pullman verso Roma. E in contemporanea lo sciopero della fame.

Cuneo: il lavoro? è decisivo per la rieducazione dei detenuti…

 

www.cuneocronaca.it, 10 settembre 2008

 

Il presidente della Provincia, Raffaele Costa, interviene in merito alla situazione carceraria e dichiara: "In questi giorni i temi "caldi" della giustizia - dal sovraffollamento delle carceri all’introduzione del braccialetto elettronico - sono tornati prepotentemente sotto i riflettori: ma il vero problema, quello su cui occorrerebbe una seria riflessione, è il lavoro nelle carceri.

I dati sui detenuti lavoratori sono infatti emblematici: su più di 50.000 detenuti, solamente il 27% lavora e, di questi, appena il 3% lavora alle dipendenze di ditte esterne mentre ben il 24% lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria svolgendo sovente mansioni poco qualificanti e poco formative che si limitano a garantire la sopravvivenza in carcere senza offrire una valida alternativa per il "dopo".

Il lavoro carcerario, come peraltro sancisce la stessa Costituzione all’articolo 27, dovrebbe invece tendere al recupero del detenuto, alla sua rieducazione, ma affinché ciò avvenga è essenziale correggere i punti oscuri dell’attuale legislazione, sburocratizzare il sistema, prevedere nuovi investimenti e nuovi incentivi per le imprese esterne, introdurre il lavoro a cottimo (attualmente, invece, la remunerazione per legge non deve essere inferiore ai 2/3 di quella prevista dai contratti collettivi nazionali). Occorre dunque ripensare l’intero sistema e predisporre una nuova legge che tenga conto di quanto fatto finora anche sotto il profilo legislativo, ma che al contempo crei le condizioni necessarie affinché dall’esterno delle carceri vi sia qualcuno disposto ad affidare ai detenuti un lavoro retribuito, realmente formativo e produttivo. Solamente così chi lascerà il carcere riuscirà a reinserirsi più agevolmente nella società e non avrà motivo di tornare a delinquere".

Bologna: nei mercati arriva il basilico coltivato dietro le sbarre

 

Redattore Sociale - Dire, 10 settembre 2008

 

Fra pochi giorni arriverà sul mercato bolognese il basilico coltivato nelle serre del carcere della Dozza. Si tratta del terzo e ultimo raccolto di stagione che completa un progetto educativo finalizzato al reinserimento sociale dei detenuti: un progetto monitorato dal Garante dei detenuti del Comune di Bologna, Desi Bruno, con la collaborazione di Coldiretti Bologna, Cefal, Agribologna e dell’amministrazione carceraria.

Partito oltre due anni fa, il progetto ha trovato in Franco Generali, imprenditore agricolo di Castenaso e socio di Coldiretti, un punto di forza e una presenza costante che ha reso possibile la coltivazione di basilico in alcune serre in disuso all’interno del carcere. Dopo un corso di formazione gestito dal Cefal, alcuni detenuti, sotto la guida di Generali, hanno piantato e curato la coltivazione di basilico che, preso in consegna dall’agricoltore, viene conferito alla cooperativa Agribologna per la commercializzazione.

Per la loro attività i detenuti hanno percepito una borsa lavoro finanziata dal Comune di Bologna e dall’amministrazione carceraria. Dal prossimo anno, con l’avvio delle nuove coltivazioni, due detenuti saranno assunti in lavoro intramurario dall’azienda agricola di Generali il quale ha firmato in questi giorni una convenzione con la direzione del Carcere. Ma non è stato facile. "Ancora una volta è la burocrazia l’aspetto più faticoso in questa impresa - confessa Generali in una nota diffusa da Coldiretti - mentre è stato molto positivo il lavoro con i detenuti e le guardie carcerarie che hanno mostrato interesse ed entusiasmo".

Generali ha creduto nel progetto "agricolo" alla Dozza "sollecitato dalla mia associazione cercando di non mollare anche quando i tempi si sono allungati per non vanificare il mio personale impegno in campo sociale perché oggi non posso certo parlare di business. Ritengo, infatti, che il lavoro agricolo, e questo delle piante aromatiche, sia un ottimo strumento di reinserimento sociale per i detenuti". Pensiero condiviso anche da Gabriele Cristofori, presidente di Coldiretti Bologna, per il quale "esperienze come questa possono aprire la strada ad altre iniziative all’interno del mondo agricolo dove possano trovare adeguata collocazione più detenuti seguiti e addestrati nel modo corretto e senza dimenticare l’obiettivo del loro reinserimento nel tessuto sociale".

Diritti: prostituzione; carcere per clienti, no "zone luci rosse"

 

La Stampa, 10 settembre 2008

 

Ieri il via libera in pre-consiglio, domani l’esame in Consiglio dei ministri: il ddl di Mara Carfagna contro la prostituzione accelera il passo, con la sua coda di polemiche. Fulcro del provvedimento, il divieto di dare e ricevere sesso a pagamento per strada, comportamenti puniti con sanzioni pecuniarie ma anche con il carcere. Prostituirsi, comunque, continuerà a non essere un reato, purché lo si faccia in forme e luoghi "privati"; diventerà invece reato esercitare "in luogo pubblico o aperto al pubblico", nonché avvalersi delle prestazioni sessuali. Per i trasgressori, sia le lavoratrici del sesso sia i clienti, sono previste in egual misura sanzioni, che possono arrivare anche all’arresto.

Il ddl Carfagna, già annunciato prima dell’estate nell’ambito del pacchetto sicurezza, introduce dunque due novità: sanzioni per i clienti e divieto di prostituirsi nei luoghi aperti al pubblico. Le sanzioni ipotizzate prevedono l’arresto, da cinque a 15 giorni, oltre che un’ammenda, da 200 euro a 3 mila euro. In arrivo anche un giro di vite contro la prostituzione minorile: per chi sfrutta le baby prostitute (o il loro equivalente maschile), è previsto il carcere da sei a 12 anni e multe da 15 mila a 150 mila euro; si potrà ricorrere anche al rimpatrio assistito, purché sia nell’interesse del minore.

Immediato il "no" della principale organizzazione di rappresentanza delle "lucciole", il Comitato per i diritti civili delle prostitute: le norme che si vogliono introdurre vanno solo a colpire i più deboli, insorge Pia Covre, fondatrice del Comitato. Il sottosegretario Giovanardi, intanto, ha spiegato che l’obiettivo è colpire il "mercato indecente causato dallo sfruttamento". "Le case chiuse non torneranno più - ha specificato il sottosegretario

Immigrazione: bruciarsi i polpastrelli è reato, arresti in Sicilia

 

Redattore Sociale - Dire, 10 settembre 2008

 

La novità introdotta dal pacchetto sicurezza sta causando i primi arresti in Sicilia. Secondo la procura di Agrigento aumentano i casi di migranti che si feriscono per non essere identificati in frontiera.

C’è un nuovo reato in Italia. È stato inserito senza colpo ferire nel pacchetto sicurezza, convertito nella legge numero 125 del 24.07.2008. Se ne sono accorti in pochi. Ma i primi arresti sono già iniziati. Da circa un mese, "chiunque al fine di impedire la propria o l’altrui identificazione altera parti del proprio o dell’altrui corpo utili per consentire l’accertamento dell’identità", viene punito col carcere, da uno a sei anni. Una legge scritta pensando agli stranieri costretti a mutilarsi con coltelli e rasoi i polpastrelli per non dare le proprie impronte digitali, per evitare l’espulsione o perché è l’unico modo che hanno, nell’Europa di oggi, per poter raggiungere i parenti nel Nord Europa senza essere rispediti in Italia, in base al Regolamento Dublino II che obbliga i richiedenti asilo a rimanere nel primo Stato europeo che incontrano.

I primi arresti si sono verificati il 24 agosto 2008, quando 17 richiedenti asilo politico eritrei sono stati fermati dalla squadra mobile di Siracusa e trasferiti nelle carceri di Ragusa e Siracusa. Erano sbarcati il giorno prima, con i 245 passeggeri a bordo della nave soccorsa a 50 miglia da Portopalo di Capo Passero. Secondo la procura di Agrigento, da un anno a questa parte, sono sempre più numerosi gli immigrati che sbarcano in Sicilia con i polpastrelli bruciati oppure mutilati, per evitare che possano essere loro rilevate le impronte digitali.

Droghe: Cassazione; su pene alternative nessun automatismo

 

Diritto & Giustizia, 10 settembre 2008

 

Carcere o lavoro di pubblica utilità? Per il tossicodipendente-spacciatore si decide caso per caso. Nessun automatismo per la concessione del lavoro di pubblica utilità al drogato condannato per spaccio. (Cass. Sezione Sesta, sentenza n. 34620/08; depositata il 4 settembre 2008).

Nessun automatismo per la concessione del lavoro di pubblica utilità al drogato condannato per spaccio. La norma (articolo 73, comma 5bis, Dpr 309/90), che consente al tossicodipendente che ne faccia espressa richiesta la possibilità di sostituire la pena detentiva, non attribuisce alcun diritto né prevede che la trasformazione della condanna al carcere nel lavoro di pubblica utilità avvenga automaticamente, in presenza dei presupposti di legge. Insomma, è il giudice che valuta caso per caso se procedere o meno alla sostituzione.

È quanto emerge dalla sentenza 34620/08 (qui leggibile come documento correlato) con cui la Cassazione fa il punto sulla disposizione introdotta dalla legge 49/2006, meglio conosciuta come "Fini-Giovanardi", nel Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza (Dpr 309/90 "Jervolino-Vassalli"). Il comma 5bis dell’articolo 73 - ha ricordato infatti la Suprema corte - prevede la possibilità di applicare in luogo della pena detentiva la sanzione del lavoro di pubblica utilità. Che consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso Enti ed Organizzazioni di assistenza e di volontariato e presso le strutture private autorizzate che svolgono attività sanitaria e socio sanitaria a favore di soggetti tossicodipendenti. Condizione imprescindibile per l’applicazione di tale istituto però - ha aggiunto la Corte - è che vi sia il consenso dell’interessato, il quale dovrà farne espressa richiesta visto che comporta lo svolgimento di un’attività lavorativa.

Ma non è tutto. La sesta sezione penale ha ricordato anche l’esistenza degli altri presupposti, tutti altrettanto vincolanti, per domandare la sostituzione della pena detentiva con quella del lavoro di pubblica utilità: a) condizione di tossicodipendente o di assuntore di stupefacenti; b) sentenza di condanna o di patteggiamento che ritenga l’attenuante del fatto lieve; c) non sussistenza delle condizioni per concedere la sospensione condizionale della pena.

Iran: da due settimane nessuna notizia su cristiano incarcerato

 

Asia News, 10 settembre 2008

 

Vani i tentativi della famiglia di sapere perché Ramtin Soodmand è stato arrestato e dove si trovi. Alle loro domande, funzionari della sicurezza hanno risposto con minacce.

Nessuna notizia, da due settimane, di un cristiano protestante iraniano, imprigionato non si sa perché. È la drammatica vicenda che racconta la famiglia di Ramtin Soodmand, arrestato ormai da quindici giorni a Mashhad, nel nordest del Paese, quasi al confine con il Turkmenistan, da agenti di polizia e dell’intelligence.

Racconta Rooz, sito di esuli iraniani, che da quando l’uomo è stato arrestato, la sua famiglia ed i suoi amici hanno ripetutamente detto pubblicamente che hanno invano cercato di sapere in che luogo Ramtin si trova. In più: i loro contatti con funzionari del ministero della sicurezza non solo non hanno portato a sapere sulla situazione del cristiano o sul perché è stato arrestato e viene tenuto in prigione, ma sono stati minacciati di "conseguenze" se continuano a fare domande, aggiungendo che anche la situazione di Ramtin potrebbe peggiorare.

Secondo quanto lamenta la piccola e preoccupata comunità cristiana iraniana - stimata in tutto in circa 60mila persone - una settimana prima dell’arresto di Soodmand, nella stessa città era stato arrestato un altro cristiano, Iman Rachidi. Da allora, del giovane, non ha 18 anni, non si ha alcuna notizia.

 

 

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