Rassegna stampa 29 settembre

 

Giustizia: Alfano; la riforma va avanti, senza nessun ricatto

di Francesco La Licata

 

La Stampa, 29 settembre 2008

 

Le agenzie di stampa hanno da poco battuto le dichiarazioni del presidente del Consiglio sulle possibili conseguenze - "un’approfondita riflessione su tutto il sistema giudiziario" - che potrebbero conseguire dall’eventualità che la Corte Costituzionale annulli il "lodo Alfano", quando si sblocca il cellulare del ministro della Giustizia. Angelino Alfano, ovviamente, conosce già il contenuto della "bordata" del premier e dunque non si fa trovare impreparato.

 

Signor ministro, ha sentito Berlusconi? Messa così, la sua dichiarazione è sembrata ai più una minaccia, anzi un ricatto, un voler interferire sulle decisioni dell’Alta Corte.

"No, nessun ricatto. Penso che Berlusconi abbia voluto semplicemente ribadire la propria fiducia sul buon esito della vicenda del lodo davanti ai giudici della Corte Costituzionale. E non mi sembra il caso che ci si cominci a strappare le vesti - come qualcuno in queste ore ha già cominciato a fare - a fronte di una ventilata "approfondita riflessione su come funziona la giustizia in Italia". Questi catastrofisti, a volte, mi ricordano quei calciatori che "cascano morti in area di rigore" ma poi rimediano una punizione contro per fallo simulato".

 

Quindi l’intervento del presidente del Consiglio non è a gamba tesa?

"Assolutamente no e lo dimostra la cronologia dei fatti: la decisione dell’Alta Corte arriverà certamente dopo che noi avremo presentato alle Camere il nostro progetto di riforma costituzionale. Questo dovrebbe provare che non esiste alcuna volontà, diciamo, di condizionamento. Mi sembra perciò di poter affermare serenamente che in nessun modo si vuole che il giudizio della Corte possa interferire in qualche modo nel dibattito sulle riforme costituzionali. La discussione parlamentare precederà certamente la sentenza sul lodo".

 

Il progetto di riforma è stato modificato o resta nei binari finora dibattuti e contestati dai magistrati e dall’opposizione?

"Il tema centrale su cui poggia la riforma di rango costituzionale - quella sulla giustizia civile è altra cosa - è il conseguimento della parità fra accusa e difesa nel processo, che oggi vede penalizzati gli avvocati. Appaiono persino isolati fisicamente rispetto a giudici e pm che hanno fatto lo stesso concorso, frequentano gli stessi uffici e spesso fanno vita sociale comune, anche per tutelarsi rispetto al pericolo del condizionamento ambientale. Ecco, questo mi sembra il ritratto perfetto di una parità mancata tra protagonisti del processo: parità che era il principio fondante, tradito, del processo accusatorio".

 

Parità che intendete ripristinare trasformando i pm in avvocati dell’accusa.

"È stato Berlusconi a offrire per primo questa chiave semantica, parlando di avvocati della difesa e avvocati dell’accusa".

 

E quindi il passo successivo, che esula dal progetto di riforma costituzionale ma pure esiste come proposta ordinaria, di trasferire alla polizia giudiziaria prerogative che oggi sono dei pm. Si torna alle indagini gestite dagli apparati investigativi, come prima della riforma dell’89.

"Così andarono le cose dal 48 all’89 e non andarono male. D’altra parte è innegabile che il magistrato studia il diritto e fa un concorso per divenire giudice, non nasce poliziotto. La tecnica dell’individuazione della notizia criminis è in sé la caratteristica principale della polizia giudiziaria. L’investigatore offre al magistrato un prodotto, consentitemi il termine, semilavorato che il pm dovrà affinare e portare a dibattimento, qualora ritenga l’indagine sufficientemente forte".

 

Eppure c’è chi vede in tutto ciò il tentativo del governo di privilegiare la polizia giudiziaria, già sottomessa all’esecutivo, piuttosto che i pm ancora protetti dall’indipendenza dal potere politico.

"Ricordo, ancora ai catastrofisti, che l’idea di ripristinare in qualche modo la funzione della polizia giudiziaria non è sembrata scandalosa a gran parte dello schieramento parlamentare che comprende noi, il centro e parte della sinistra. Cito due per tutti: Vietti e Violante, che non stanno certamente con Berlusconi. Ripeto ancora: non c’è alcuna volontà di assoggettare i giudici all’esecutivo, anche perché esiste l’alternanza e non oso pensare a cosa potrebbe portare un pm dipendente da una certa sinistra".

 

Ministro, l’altro tema caldo riguarda la separazione delle carriere dei magistrati. Avete avuto ripensamenti?

"Assolutamente no. Riteniamo indispensabile andare avanti sulla parità tra accusa e difesa e crediamo che la separazione sia una declinazione di questo principio. Noi non partiamo dalla separazione delle carriere - che preferisco piuttosto definire come la nascita di un Ordine della difesa e dell’accusa - ma ci arriviamo per sostenere il raggiungimento di un giusto processo attraverso la parità dei ruoli nel processo".

 

Per finire, signor Guardasigilli, cosa direbbe ai numerosi magistrati che non si identificano nelle toghe rosse ma non condividono il programma del governo?

"Dico che nel tempo dell’alternanza e della indicazione diretta del premier esiste il dovere politico di portare avanti il programma sottoposto agli elettori. E dico inoltre che è giunto il tempo che i politici si interessino sempre meno delle sentenze e i giudici si astengano dall’interferire lungo il cammino dell’iter formativo delle leggi".

Giustizia: così la paura, da collettiva, è diventata individuale

di Lisa Ginzburg

 

Il Messaggero, 29 settembre 2008

 

La paura era collettiva, adesso è individuale. Non più terrore condiviso di epidemie, catastrofi, guerre. Invece un tarlo insinuante e sottile vissuto in solitudine, ognuno acquattato nel grembo delle proprie nevrosi. È per esplorare le dimensioni dei nostri più profondi timori che in questi giorni a Roma si è tenuto il primo World Social Summit, organizzato dalla Fondazione Roma e dal Censis.

Attraverso le voci di sociologi, filosofi, architetti, scrittori, rifugiati, magistrati, politici, psicoanalisti. Calarsi nel baratro delle "paure planetarie" e di lì immaginare strade per arginarle, dare loro un contenitore. "Governare la paura", è stato detto dal Presidente della Fondazione Roma nel discorso di apertura dei lavori, "è possibile solo se si è in grado di ascoltare l’anima". Già, ma l’anima del mondo è a tal punto opaca, indefinita, che della sua stessa illeggibilità c’è di che aver paura. Tutto suona caotico, irrazionale, imprevedibile e perciò non risolvibile. Alla nostra paura e alla sua ancor più perniciosa alleata, la paura della paura, il solo vero rimedio - ha argomentato James Hillman - è l’immaginazione con le sue infinite possibilità.

La vita corre, il mondo ancora di più. Quel che ognuno di noi teme è di "perdere il treno", il proprio posticino nella società. Come ha spiegato il sociologo Zygmunt Bauman, la sindrome più forte è quella di venire esclusi, proprio come nel "Grande Fratello". Siamo tutti vulnerabili, esposti, prossimi all’umiliazione. La paura non è tanto quella di una catastrofe che può avventarsi sul mondo. La paura maggiore è di venire esclusi dal "gruppo".

Non si temono, come era prima, i lupi - bestie feroci sì, ma visibili e riconoscibili. Ora quel che si paventa sono i lupi travestiti da uomini, i kamikaze, portatori di morte camuffati, assassini padroni dell’imprevisto. La realtà è un mistero, gli esseri umani sono tutti potenziali nemici. Da questa condizione di insicurezza esistenziale (perché è ormai impossibile pensare la società come una rete che possa proteggerci, tutelarci), la paura diventa un business. Una gigantesca occasione di profitto, un capitale commerciale. Sulla paura si specula. La si manipola, a seconda delle opportunità che essa offre.

Le statistiche parlano chiaro. L’Italia spicca, prima vittima della manipolazione mediatica. Tra le grandi metropoli globali, Roma è quella dove il maggior numero di persone (48,4%) attribuisce all’informazione l’essere causa scatenante di panico. È anche, Roma, la città del mondo con la più alta percentuale di sistemi di auto protezione (porte blindate, allarmi, etc.). Come dire: siamo strabici. Da un lato sappiamo bene di quali macro-meccanismi risultiamo i burattini, dall’altro i fili si tendono e scattiamo sull’attenti ad ogni allarme, falso o patinato che sia. Senza riuscire a vedere i pericoli veri, né essere lucidi abbastanza da contattare le nostre ansie interne. Un mondo talvolta estremo (come quello descritto da Roberto Saviano, anche lui ospite del Summit), dove "la dimensione di morte è necessaria a raggiungere gli obiettivi, dove parlare di paura genera paura".

C’è una società "scura", che agisce inconsapevolmente, pervasa di fragilità. Una comunità globalizzata dove tutto coesiste, generando osmosi di merci, di culture, ma anche di violenze e di criminalità organizzate. E le diverse reazioni a questo grande mescolarsi del mondo. Roma è la capitale mondiale più restia a riconoscere le proporzioni del mutamento, con un 19,7% di spaventati dalla crescente immigrazione di contro al 4,6% di Parigi. (Proprio Roma che, lo ha sottolineato Massimiliano Fuksas, con i suoi 2 milioni di abitanti ai tempi di Augusto è stata la prima megalopoli della storia).

Vaste plaghe di pessimismo, contrazioni psicologiche, chiusure. In una parola: sfiducia. Se l’antidoto a questo stato di cose è sembrato sinora essere il rifugiarsi in sé o nel mondo parallelo del virtuale (Second Life ha 12 milioni di utenti registrati nel mondo), le cose parrebbero mature per cambiare. In nome dei grandi corsi e ricorsi della storia, tornare alla solidarietà tra umani. Condividere i nostri timori, recuperare le risorse della solidarietà. Ricominciare a vedersi, parlarsi. Dare così le giuste proporzioni a tante delle nostre angosce. Perché - lo ha detto Edoardo Boncinelli parlando delle possibilità liberatorie offerte dalla scienza - "la paura non si può eliminare, ma si può rendere sempre più immotivata".

Giustizia: Sant’Egidio; in corso campagna di insicurizzazione

 

Il Messaggero, 29 settembre 2008

 

Per il portavoce della Comunità di Sant’Egidio Mario Marazziti l’Italia è uno dei Paesi più sicuri al mondo "eppure non c’è un solo italiano che segue i telegiornali che non sia convinto del contrario". Lo ha detto intervenendo al convegno di studi dei Cristiano sociali che si è svolto ad Assisi. Secondo Marazziti "è in atto una campagna di insicurizzazione che è un boomerang per il Paese. Perché quando la malattia non c’è e le medicine si prendono lo stesso - ha proseguito - queste fanno danni ancora più gravi. I cattolici devono aiutare il Paese a rimettere al centro del dibattito problemi quali quelli del debito e della povertà. È un errore seguire sul terreno della sicurezza - ha concluso il portavoce della Comunità - chi fa una battaglia di questi temi".

Giustizia: gli ex terroristi devono dire tutto, oppure stiano zitti

di Peppino Caldarola

 

Il Tempo, 29 settembre 2008

 

Era un terrorismo tutto politico. Lottava con le armi per prendere il potere. E l’obiettivo era scandito da omicidi di persone inermi o di funzionari dello Stato, da rapine alle banche e sequestri di persona, dal reclutamento nelle università, in alcune fabbriche del Nord o nelle carceri.

La grande illusione terrorista ha al suo attivo il più clamoroso scacco allo Stato con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta. Non li abbiamo dimenticati quei mesi in cui lo statista catturato scriveva lettere dignitose e intense che calavano come una scure su un paese attonito.

Ancora si discute su quanto questo terrorismo possa essere stato manovrato da servizi segreti interni o stranieri, ma quel che sappiamo è che non avrebbe potuto godere di oltre un decennio di vita se non avesse avuto solide protezioni nella società, in quella che conta in particolare, si pensi ad un apparato pubblico, a un circuito di intellettuali arrabbiati e delusi, a zone sindacali di frontiera, a professionisti della borghesia bene.

Del terrorismo sappiamo anche che è stato storicamente sconfitto, ma non del tutto. Siamo l’unico paese in cui di tanto in tanto si scopre una nuova cellula Br ancora in attività o in cui si ha sentore che settori della nuova anarchia lavorino in profondità dentro alcune curve di ultras o nell’emarginazione sociale. La sconfitta non è, quindi, definitiva. Lo sarebbe, se tutti avessero fatto la loro parte. Soprattutto gli ex terroristi.

Molti di loro si sono pentiti e vivono fra di noi. Altri si sono dissociati senza pagare il prezzo della denuncia dei "compagni" e dell’organizzazione. Altri ancora stanno uscendo dal carcere per fine pena. Alle loro spalle c’è un’intera stagione. Sono donne e uomini incanutiti, ormai anziani, che spesso hanno mantenuto gli antichi convincimenti oppure dichiarano di averli cambiati. In quasi tutti loro c’è l’orribile orgoglio di aver combattuto una battaglia militare. Non la rifarebbero, ma si sentono protagonisti di un combattimento alla pari fra due eserciti.

Spesso si sono rifatti una vita. Addirittura è capitato che alcuni di loro abbiano lavorato come consulenti di ministeri. Una volta mi capitò di partecipare ad un dibattito a Roma che si svolgeva in un giardino pubblico e scoprii che a metà discussione uno degli interlocutori dovette abbandonare il tavolo della presidenza perché si avvicinava l’ora del ritorno in carcere per trascorrervi la nottata.

Non devono più parlare? Devono patire tutta la vita in silenzio, emarginati e esclusi? Meno vittimismo. La richiesta che rivolgiamo è più semplice. C’è bisogno di una maggiore sobrietà, in loro e in chi li invita. Anche perché hanno parole pensose su tutto, ma di una cosa non parlano volentieri. Di loro, della loro esperienza. Criticano lo Stato, le carceri dello Stato, i servizi sociali pubblici, ma sul loro passato hanno tirato giù una saracinesca. Ci sono tante zone buie nei racconti degli ex terroristi. Nessuno sa, ad esempio, quanti fossero i loro sostenitori non armati, quelli che ne ospitavano le riunioni, ne favorivano la fuga o ne proteggevano la latitanza, che davano informazioni sugli obiettivi da colpire. È mai possibile che fosse in armi un esercito di militanti senza un retroterra nelle principali città italiane? Un pentito di mafia deve raccontare tutto di sé, della sua famiglia, delle sue relazioni. Un terrorista pentito, dissociato o libero per fine pena, invece, può tenere tutto in serbo, può continuare ad avere relazioni con chi lo aiutò un tempo, teoricamente può ricattare chi tifava per lui. Di fronte a queste domande viene opposto uno sdegnato silenzio, come se il passare del tempo imponesse di mettere una pietra sopra. Non è così. Non ci stiamo.

Dite tutto. Dite tutto, se volete avere il diritto di continuare a contestare pacificamente lo Stato in cui vivete. Altrimenti, abbiate pietà di noi, banali cittadini disarmati e rispettosi delle leggi, e statevene un po’ zitti!

Giustizia: bambini in carcere… un lungo cammino legislativo

 

Redattore Sociale - Dire, 29 settembre 2008

 

Dai primi asili nido dentro il carcere degli anni 20 alla legge Finocchiaro: un cammino legislativo verso la de-istituzionalizzazione, tra molte difficoltà.

Il cammino legislativo che norma il rapporto madre-bambino all’interno del carcere è lungo e complesso. Il primo asilo nido nasce nel carcere di Regina Coeli nel 1927, seguito da quello di Napoli nel 1930: il bambino rimaneva in carcere con la madre fino al compimento del secondo anno d"età. È la legge n. 354 del 26 luglio 1975 a prevedere l’inserimento di specialisti (ginecologi, ostetriche, pediatri, puericultrici e assistenti per l’infanzia) per garantire la salute psico-fisica della madre e del bambino e a permettere alle detenute di tenere con sé i figli fino all’età di tre anni. Sempre la stessa legge prevede che per assistere e curare i bambini l’amministrazione penitenziaria debba organizzare appositi asili nido. La legge Gozzini (n. 663/86) introduce la "detenzione domiciliare speciale", ovvero la possibilità per la donna incinta o che allatta - ovvero madre di prole inferiore a tre anni - di poter scontare la propria pena, per reati che prevedono una pena fino a quattro anni di detenzione, presso la propria abitazione o in un altro luogo pubblico di cura o di assistenza. La legislazione sembra favorire un’ottica di de-istituzionalizzazione, ma il problema dei detenuti-bambini persiste.

La Convenzione sui Diritti dell’Infanzia tenutesi a New York nel novembre 1989 ribadisce il diritto alla tutela per l’infanzia: in tutte le decisioni di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi amministrativi o degli organi legislativi, deve prevalere l’interesse superiore del fanciullo. La legge n. 176 del 27 maggio 1991, "Ratifica ed esecuzione sulla convenzione dei diritti del fanciullo fatta a New York il 20 novembre 1989" introduce nella legislazione italiana questo principio.

Nel 2001 viene promulgata la legge n. 40, "Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori", la cosiddetta legge Finocchiaro, che prevede la possibilità di scontare in luoghi alternativi al carcere la pena per le condannate, madri di prole di età non superiore a 10 anni. L’applicazione della legge, tuttavia, è fortemente limitata da fatti concreti: tra questi, la mancanza di strutture adeguate per accogliere le detenute madri che non possono usufruire della detenzione domiciliare. La normativa inoltre esclude le madri straniere, senza permesso di soggiorno, che restano in carcere con i figli. Il Testo, risultante dall’approvazione degli emendamenti e promulgato dalla Commissione Giustizia della Camera in data 13 dicembre 2006, apporta ulteriori modifiche agli articoli 147 del codice penale, 275 del codice di procedura penale, 285 del codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n.354. Tra le novità la nascita delle "case famiglia protette", strutture apposite per permettere alle detenute con prole che non abbiano strutture proprie e adeguate di trascorrere la condanna con i propri figli, in i case dove ai bambini siano assicurate attenzioni psicologiche e igieniche adeguate.

Giustizia: condizione delle donne detenute e problema dei figli

di Desi Bruno (Garante dei diritti dei detenuti di Bologna)

 

Il Domani, 29 settembre 2008

 

Gli istituti penitenziari dedicati esclusivamente alla popolazione femminile disseminati nel territorio della Penisola sono 7 e 62 le piccole sezioni femminili situate in istituti penitenziari maschili. La popolazione detenuta femminile incide nei termini del 4% - 5% della totale popolazione carceraria e di questa porzione il 43% è rappresentato da donne straniere.

I reati per i quali, principalmente, si caratterizza l’universo femminile sono il furto (anche legato al mondo della tossicodipendenza che comporta progressivi processi di marginalità), lo spaccio di sostanze stupefacenti, infrazioni della legge penale legate allo sfruttamento della prostituzione (in particolare le autrici sono donne straniere).

Merita di essere ricordata la casistica dei reati legata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti, che in particolare caratterizza le detenute provenienti dall’America centrale e del sud le quali effettuano i cosiddetti "viaggi della speranza", ovvero come corriere della droga per tentare di migliorare le proprie condizioni materiali di vita, e che spesso sono al primo impatto con le risposte penali dello Stato.

Le donne nomadi vengono incarcerate per piccoli furti e sono le stesse che, per ragioni legate al loro stile di vita che non prevede una fissa dimora e per l’elevato rischio di recidiva, incontrano notevoli difficoltà per ottenere misure alternative al carcere, le stesse che incontrano quelle detenute italiane i cui reati sono legati al mondo della tossicodipendenza e per i quali, appunto, alta è la recidiva.

Un capitolo delicato all’interno della detenzione al femminile meritano le detenute madri, comprese fra privazione della libertà e affettività e speranza di una nuova vita. L’Ordinamento Penitenziario appronta una serie di garanzie a favore delle detenute madri e della loro prole. L’articolo 11, 9° comma, prevede che alle madri sia consentito di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni e che per la cura e l’assistenza dei bambini siano organizzati appositi asili nido.

A completamento della norma interviene l’articolo 19 del Regolamento di esecuzione che prevede l’assistenza particolare alle gestanti e alle madri con bambini di professionisti specialisti in ostetricia, in ginecologia e in pediatria, e, in particolare, viene previsto che negli appositi reparti adibiti ad ospitare madri con bambini le camere non debbano essere chiuse al fine di garantire gli spostamenti all’interno del reparto o della sezione, con il limite di non turbare l’ordinato svolgimento della vita nei medesimi.

All’articolo 15 dell’Ordinamento Penitenziario emerge l’unitarietà del rapporto madre - figlio fra gli elementi del trattamento orientato verso la rieducazione della condannata, individuandone come momento centrale quello del mantenimento degli affetti familiari.

Sempre nel corpus normativo penitenziario è prevista una forma speciale di detenzione domiciliare, espiabile nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di assistenza e accoglienza (come le case-famiglia che sono strutture residenziali che consentono di ospitare madri e figli), quale misura alternativa alla detenzione in carcere quale è quella prevista per la donna incinta o la madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente. sempre che la pena della reclusione sancita nella condanna non sia superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena.

Inoltre è prevista la possibilità di assistenza all’esterno di figli di età non superiore ai dieci anni, alle stesse condizioni previste per il lavoro esterno (proposta della direzione del carcere, approvazione del magistrato, periodo di pena scontato). In una siffatta cornice normativa rimangono ineludibili le perplessità che attengono al rilievo centrale che assume l’espiazione della pena nella forma della privazione della libertà personale a discapito dell’innocenza del bambino, che starà con la madre nel caso in cui il bambino minore dei tre anni non sia altrimenti affidabile o tutelabile dall’altro genitore (spesso anch’egli detenuto).

E in siffatte condizioni anche i ristretti spazi di socializzazione verranno a segnare in maniera decisa il percorso evolutivo del bambino, con una madre che vive la carcerazione con grande senso di angoscia e fallimento e instaurandosi un legame simbiotico che verrà reciso al compimento del terzo anno di età, producendo un trauma difficilmente sanabile, con un danno emozionale - relazionale per il minore non facilmente definibile.

Giustizia: Ionta; un regolamento ad hoc per le donne detenute

 

Ansa, 29 settembre 2008

 

Un "carcere per le donne": a questo mira il regolamento-tipo messo a punto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per tutelare la differenza di genere e modulare l’esecuzione della pena tenendo conto delle specificità di problemi che riguarda attualmente 2.584 detenute, 50 delle quali con bambini. A parlarne è stato il Capo del Dap, Franco Ionta, al convegno "Donne in carcere", organizzato nella casa circondariale femminile di Rebibbia dalla consulta cittadina permanente del Comune di Roma per i problemi penitenziari.

Ionta ha ribadito la necessità di garantire dignità e diritti delle persone detenute. In questo senso, utili indicazioni sono arrivate dalla ricerca sulla condizione detentiva femminile realizzata dal Dap sulla base della quale è stato sviluppato il regolamento. I problemi principali per le donne in carcere sono noti: maternità e rapporto con i figli, affettività, peculiarità dal punto di vista fisico e psicologico, le difficoltà delle detenute straniere.

L’obiettivo è evitare che i disagi collegati alla detenzione possano essere aggravati da ulteriori meccanismi di marginalizzazione per le donne recluse. Si tratta, per la verità, di un numero esiguo di detenute - il 5 per cento circa del totale della persone dietro le sbarre - ma il regolamento vuole tener presenti le loro esigenze e i loro bisogni consentendo alle donne di fruire di pari opportunità trattamentali e di reinserimento sociale.

Giustizia: Antigone; "sì" a nuove regole per le donne detenute

 

Ansa, 29 settembre 2008

 

L’aver elaborato da parte del Dap un regolamento penitenziario specifico per le donne detenute, come annunciato dal Capo del Dipartimento Franco Ionta, è un’idea corretta nella sostanza. Resta da vedere come potrà essere applicato a tutte le detenute. A dichiararlo è Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone che si batte per i diritti nelle carceri.

"Le esigenze, ma anche la composizione sociale, delle donne in carcere sono differenti da quelle degli uomini - spiega Gonnella - ed è giusto che questa differenza venga rispecchiata dalle istituzioni. Resta però da vedere - prosegue - da un lato, i contenuti del regolamento approntato dal Dap e, dall’altro e soprattutto, in che modo il capo del Dap, Ionta immagina di poter applicare il nuovo regolamento davvero a tutte le donne nelle carceri italiane. Molte di esse sono infatti disperse in piccole sezioni ospitate all’interno di istituti maschili, che dunque non beneficerebbero di un tale regolamento. Inoltre, secondo Gonnella l’operazione rischia di vanificarsi se non viene accompagnata da una riorganizzazione complessiva della disposizione delle donne detenute. Seguendo il modello inglese, è oggi assolutamente necessario rafforzare l’ufficio centrale che si occupa specificatamente del trattamento delle donne detenute dotandolo di responsabilità e poteri adeguati.

Giustizia: alcune riflessioni sul concetto di pericolosità sociale

di Luigia Padalino

 

www.aipsimed.org, 29 settembre 2008

 

Ci sono notizie che gridano vendetta. Questa mattina il quotidiano di Milano "Cronaca qui" recava in prima pagina la notizia dell’arresto di un energumeno che per anni aveva torturato e picchiato selvaggiamente la sua compagna. Ci sono alcuni dettagli che mi hanno fatto oltremodo indignare.

"Il carnefice, in un crescendo di violenza, la picchiava con calci e pugni, la insultava e minacciava, infieriva sul suo viso e nella parte interna della bocca con un paio di forbici." Mi sono detta: con tutte gli arresti e le denunce precedenti, nessuno aveva pensato di fare una perizia psichiatrica a questo individuo? Nessuno aveva pensato di sottoporre questo individuo a un bel trattamento sanitario obbligatorio?

Dico questo perché a Milano se ne raccontano di belle circa il modo di procedere dei reparti psichiatrici, ma evidentemente i reparti sono troppo impegnati a occuparsi di poveri cristi per accorgersi che in giro ci sono autentiche mine vaganti. E sono gentile, perché li vorrei chiamare con il loro nome: mostri. Secondo voi è una persona normale uno che mette in atto simili violenze? Non è "pericoloso socialmente"?

Se le commissioni giustizia del nostro beneamato parlamento fossero meno impegnate a elaborare nuovi "lodi" per salvare presidenti e ministri dalle "attenzioni" della giustizia, potrebbero invece seriamente occuparsi di come nel nostro paese venga gestito il problema sicuramente presente della "pericolosità sociale". Una tale sensibilità presupporrebbe però l’esistenza di uno Stato degno di questo nome, uno Stato che non rinchiude per decenni le persone nei manicomi criminali (li voglio proprio chiamare esattamente come si chiamavano fino al 1975), condannandoli al cosiddetto "ergastolo bianco", mentre lascia in libertà recidivi predatori di anime come l’individuo di cui stiamo parlando.

Uno Stato degno di questo nome rinchiuderebbe per il tempo necessario e curerebbe con decenza persone che sono delle autentiche mine vaganti per le tante creature deboli e indifese che popolano il mondo. E invece sapete chi ci sta, nei manicomi criminali?

Vittorino Andreoli, illustre psichiatra veronese, nel 2001 aveva condotto una ricerca sui detenuti ricoverati nelle sei strutture italiane : "Anatomia degli ospedali psichiatrici giudiziari italiani". Certo lascia perplessi leggere che: "Vi sono però anche 52 casi, sottolinea la ricerca, circa il 4% dell’intera popolazione, senza una diagnosi possibile. Si tratta in altre parole di casi "dubbi" o che non sono classificabili psichiatricamente".

In altre parole persone che nulla hanno a che fare con l’ospedale psichiatrico giudiziario e che quindi mai ci sarebbero dovuti entrare. Tutto a spese del contribuente italiano che peraltro se ne è sempre ampiamente fregato della qualità delle cure ammannite in queste strutture. C’è chi le vuole chiudere e forse ha ragione. Ma cosa succederà delle persone veramente pericolose come l’energumeno di cui stiamo parlando? Affidiamoci alla provvidenza perché non incroci mai la nostra strada.

Giustizia: Mantovano; presto in servizio 2.100 nuovi agenti 

 

Ansa, 29 settembre 2008

 

Il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano ha incontrato nella sede di An una delegazione di sindacati della polizia e degli agenti penitenziari, che gli hanno espresso le preoccupazioni per la situazione degli operatori del comparto sicurezza. Entro la fine dell’anno - ha detto Mantovano - entreranno in servizio 2.100 nuove unità, anche se la carenza totale è di circa 25mila persone. I 3.500 militari recentemente inviati nelle città rappresentano una prima risposta, in futuro ne arriveranno altre.

Per quanto concerne il sovraffollamento delle carceri, il sottosegretario si è detto ottimista: Le espulsioni saranno maggiormente certe e stiamo cercando di stipulare accordi con diversi Stati per fare espiare ai detenuti stranieri la pena nel Paese di origine. Per ora la Ue non lo consente, speriamo che la normativa sia modificata.

Giustizia: sulla prostituzione Saltamartini contro la Carfagna

 

Corriere della Sera, 29 settembre 2008

 

Non basta togliere le prostitute dalle strade. O meglio, non ci si può fermare lì. La deputata di An Barbara Saltamartini, responsabile per il suo partito delle Pari Opportunità riapre il dibattito, n punto è ridiscutere, e riaggiustare, il ddl del ministro Mara Carfagna. "C’è una maggiore tutela per le minorenni - elenca Saltamartini - c’è l’accompagnamento protetto per un ritorno a casa più tranquillo, c’è un inasprimento delle pene per gli sfruttatori ma".

C’è pure un ma. "Sono sinceramente perplessa sul dopo - continua -. Togliere dalle strade le prostitute va bene ma poi? Siccome la prostituzione in Italia è al 90 per cento coatta, non volontaria, togliere dalle strade quelle 9 prostitute su 10 vittime di malavitosi significa solo farle diventare invisibili".

Non è per fare polemiche, dice, ma bisogna pure che si cominci a ragionare su questo: "Dobbiamo far qualcosa per aiutare queste ragazze, aiutarle a rientrare nel loro Paese. Insomma, il problema non può essere solo di decoro pubblico".

"Tocca fare una scelta di fondo - continua la deputata di An -. Vogliamo considerare la prostituzione come un lavoro? Bene, allora le norme andranno in quel senso e vanno bene pure le cooperative hard. Se al contrario, ed è la mia posizione, come pure quella del ministro Carfagna, la prostituzione non va legalizzata, allora il mio sogno è il modello svedese dove la legge vieta di corrispondere denaro in cambio di prestazioni sessuali, e solo il cliente viene punito".

Campania: dopo 2 anni metà degli indultati di nuovo in carcere

di Elio Scribani

 

Il Mattino, 29 settembre 2008

 

L’indulto? In Campania è stato un flop. Non chiacchiere, ma cifre. Una fonte ufficiale, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Dunque: in appena due anni, dopo lo sfollamento che ha scatenato feroci polemiche, il carcere di Poggioreale rischia nuovamente di esplodere. Dovrebbe accogliere, infatti, 1.308 detenuti e ne ospita, invece, 2.141. Troppi. L’altra faccia del flop è che addirittura la metà (1.520 su 3.166) dei detenuti scarcerati grazie alla legge sull’indulto sono tornati in galera e qualcuno è già stato arrestato perfino più di una volta.

Meno preoccupante, ma non certo confortante, la situazione complessiva delle carceri campane, che contano un totale di 6.904 reclusi a fronte di una capienza regolamentare di 5.306 unità. Altri 1.022 sono i detenuti definitivi gestiti all’esterno con le misure alternative. Se non siamo all’allarme, poco ci manca. Le analisi dei dati confermano che Napoli e la Campania, per ragioni socio-culturali che non c’è più bisogno di spiegare, contano il maggior numero di reclusi nelle proprie celle e vantano la maggiore quantità di detenuti anche nelle altre carceri italiane.

Record su record, dunque. E tutti negativi. Una spiegazione tecnica, che, però, giustifica solo in parte il sovraffollamento "storico" di Poggioreale, sottolinea il fatto che il carcere napoletano è una casa circondariale e che, come tale, accoglie, quindi, tutti gli arrestati della provincia e la maggior parte dei detenuti trasferiti in città per motivi di giustizia. È vero. È altrettanto vero, però, che, tabelle alla mano, la capacità della nostra regione di "produrre" crimini e criminali, non trova riscontro in nessun’altra parte dello stivale.

Dati del ministero. Gli ingressi nelle carceri della Campania, nel primo semestre di quest’anno, sono stati 5.455, stranieri (1.212) compresi. Nella classifica nazionale è il secondo posto, ma il piazzamento appare del tutto formale. Ci supera, infatti, la sola Lombardia, con 8.216 ingressi, ma basta analizzare il dato per scoprire che metà degli arrestati "lombardi" sono stranieri. Non solo. Nel paragonare le cifre, non si può non considerare il fatto che la Lombardia conta una popolazione quasi doppia rispetto a quella campana. Siamo noi, dunque, i primi in classifica. Molto diversi, del resto, anche i numeri degli ingressi in carcere nelle altre regioni italiane, comprese quelle con una indiscussa tradizione criminale: 1.435 in Calabria, 3.811 in Sicilia, 3.380 in Puglia. Record della Campania, infine, anche nella presenza dei detenuti nelle carceri italiane per regione di residenza. Cifre chiarissime. Al 30 giugno 2008, i reclusi campani erano 8.396 su un totale nazionale di 55.057. Primi, insomma. Qualche esempio: i calabresi erano 1.922, i laziali 3.190, i siciliani 5.666. Perfino i lombardi, con 7.712 presenze, erano meno dei campani.

Infine, l’indulto in Campania. Bruttissime notizie. Dal 1 agosto 2006 al 15 luglio 2008 sono stati rimessi in libertà 3.166 detenuti (388 gli stranieri), ma 1.520 hanno commesso un altro reato e sono tornati in cella. Alcuni sono usciti e rientrati nello stesso mese. Non è un male endemico della legge. Altrove, infatti, è andata diversamente. I soliti esempi. In Lombardia sono tornati in carcere 1.378 detenuti su 3.946, in Calabria 224 su 911, in Sicilia 943 su 2.908, in Puglia 788 su 1.652. Che dire: conta molto, evidentemente, quello che i detenuti trovano fuori della cella. Siamo tutti d’accordo, ma chi ci deve pensare?

 

Secondigliano, chiusa "l’area verde" ora meno posti letto

 

Numeri ancora accettabili nel carcere di Secondigliano, penitenziario destinato soprattutto ad accogliere condannati in via definitiva, dove al 24 settembre si registrava una presenza di 1177 detenuti contro i 1079 previsti dalla capienza regolamentare. Dal marzo scorso, però, il carcere di Secondigliano ha dovuto rinunciare a qualche decina di posti-letto per l’arrivo degli ospiti dell’ex ospedale psichiatrico di Sant’Eframo chiuso per motivi strutturali e igienico-sanitari. Ai detenuti di Sant’Eframo è stata destinata la cosiddetta "area verde", una zona del carcere totalmente autonoma rispetto alla struttura centrale del penitenziario. La manovra non è rimasta senza conseguenze. Per i detenuti sottoposti a custodia attenuata, che erano ospitati appunto nell’area verde, è stato necessario, infatti, trovare un’altra destinazione. I reclusi, in tutto una quindicina, sono stati trasferiti nel carcere di Eboli e in quello di Lauro, due istituti a custodia attenuata.

 

Santa Maria, altro caso a rischio

 

Un altro dato allarmante riguarda i detenuti presenti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: 909 invece dei 522 previsti dalla capienza regolamentare. L’incremento rispetto alle statistiche precedenti può essere spiegato solo in parte con la massiccia presenza di extracomunitari nel Casertano. L’alto numero di arresti è legato probabilmente anche allo straordinario dispiegamento sul territorio di forze dell’ordine mobilitate nella lotta al clan dei Casalesi.

 

Il Provveditore: nuove strutture per evitare la crisi

 

Tommaso Contestabile, 56 anni, è il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Campania.

 

Provveditore, l’indulto non è servito a niente?

"Questo non si può dire, perché l’indulto ci ha consentito di abbattere il numero delle presenze e di avviare lavori di manutenzione soprattutto negli istituti medio-piccoli".

 

Ora, però, siamo quasi al punto di prima.

"È vero, ma non si può non sottolineare anche che in Campania, negli ultimi due anni, c’è stato un forte incremento di arresti. Senza l’indulto, il sistema penitenziario sarebbe saltato".

 

Che cosa si può fare adesso?

"Intanto, bisognerebbe dare maggiore spazio alle misure alternative alla detenzione in carcere".

 

Chi dovrebbe beneficiarne?

"Le misure, naturalmente, andrebbero applicate a detenuti con reati minori e pene brevi".

 

Non c’è il rischio che cresca l’allarme sociale?

"Questo rischio c’è. Il cittadino, infatti, potrebbe anche ricavarne una sensazione di maggiore insicurezza, ma tocca agli enti locali, segnatamente ai comuni, attrezzarsi per offrire agli ex detenuti opportunità di lavoro e di reinserimento sociale che li dissuadano dal commettere nuovi reati".

 

Vista la crisi dell’occupazione, a quali lavori si riferisce?

"Penso all’artigianato, ai lavori di pubblica utilità e ai mestieri imparati in carcere".

 

Intanto, come si fa a sfollare le carceri?

"A parte le misure alternative, penso che occorra proseguire nella politica di ampliamento degli istituti anche al fine di offrire ai detenuti maggiori spazi e una vita più dignitosa".

 

Quali sono le iniziative in corso?

"Per quanto riguarda il carcere di Poggioreale, entro febbraio riaprirà il padiglione "Firenze", totalmente ristrutturato con camere piccole fornite anche di doccia. Sono in corso, inoltre, i lavori per la costruzione di 4 nuovi padiglioni ad Avellino, Santa Maria, Carinola e Ariano Irpino per un totale di mille posti-letto".

 

Come si può affrontare il sovraffollamento di Poggioreale?

"Lo facciamo ogni giorno con i trasferimenti dei detenuti, cercando di restare sotto la soglia di crisi".

 

Qual è la soglia di crisi?

"La situazione è buona fino a quota 1.600, ma il problema è anche quello degli spazi comuni per le attività sportive, ricreative e culturali".

 

C’è chi propone il braccialetto elettronico: lei che ne pensa?

"Se serve a sfollare le carceri, va benissimo".

Lazio: da Regione 3 mln per interventi a sostegno dei detenuti

 

Redattore Sociale - Dire, 29 settembre 2008

 

Oltre 3 milioni di euro per il 2008 per interventi a sostegno della popolazione detenuta del Lazio. Di questi 1,5 per adeguare le strutture penitenziarie regionali con particolare attenzione al carcere femminile di Rebibbia al quale andranno 523.000 euro per il rifacimento delle strutture igienico-sanitarie. È quanto stanziato dalla Regione Lazio che, attraverso quattro provvedimenti presentati questa mattina, dà attuazione alla legge regionale concernente misure a sostegno della popolazione carceraria approvata un anno fa dal Consiglio regionale del Lazio.

A presentare il pacchetto di provvedimenti regionali sono stati, tra gli altri, l’assessore agli Affari Istituzionali e Sicurezza Daniele Fichera, il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni e la responsabile della giustizia minorile di Roma e Lazio Donatella Caponetti. "Si tratta - ha spiegato Fichera - di provvedimenti attuativi della legge regionale sui detenuti.

Il Consiglio aveva approvato la normativa e stanziato risorse che, però, erano bloccate in quanto le strutture penitenziarie sono di competenza statale. Con un lavoro di triangolazione tra regione Lazio, Provveditorato di Stato e direttori delle strutture abbiamo sbloccato la situazione".

Tra i provvedimenti presentati spicca quello sul finanziamento delle strutture penitenziarie. Oltre un milione e mezzo saranno destinati all’adeguamento dei servizi igienici alla Casa circondariale femminile di Rebibbia, all’istallazione di una piattaforma elevatrice a Regina Coeli, alla ristrutturazione dei locali dell’istituto minorile di Casal Del Marmo (250.000 euro circa) e alla creazione di un’area verde al carcere di Frosinone. Ed ancora sono previsti interventi per la messa in sicurezza del centro di prima accoglienza di Roma (circa 150.000 euro), per il completamento del teatro del carcere di Velletri e per finanziare, infine, il progetto pilota di "Teledidattica-Università in Carcere".

Si tratta, in quest’ultimo caso, di un esperimento "unico in Italia" spiega Marroni "che consentirà ad alcuni detenuti, 40 attualmente, di studiare in prigione e laurearsi nelle materie di Lettere, Giurisprudenza ed Economia. Crediamo che per uscire dalla cultura del crimine ci voglia cultura".

Gli altri tre provvedimenti prevedono infine, spiega Fichera, un bando per la promozione di iniziative a sostegno dei detenuti attraverso la promozione e l’accesso al lavoro (750.000 euro), interventi per la formazione professionale dei detenuti (750.000) e risorse per la formazione e degli operatori (150.000). "Siamo convinti - conclude Fichera - che la qualità della vita nelle carceri è un elemento che consente di andare nella direzione del recupero e del reinserimento dei detenuti, un interesse primario non solo degli stessi carcerati e della società tutta".

 

Un incontro con Alfano per evitare un peggioramento

 

"Prenderò un’iniziativa con il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, per chiedere un incontro al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, per affrontare insieme la questione dell’assetto complessivo del sistema penitenziario del Lazio. Nostro obiettivo è evitare un peggioramento della situazione nei prossimi anni sul fronte delle strutture e del sovraffollamento". Così, durante una conferenza stampa alla Regione Lazio, l’assessore agli Affari istituzionali e Sicurezza, Daniele Fichera.

Napoli: col progetto "Paracadute", un lavoro fuori dal carcere

 

Il Mattino, 29 settembre 2008

 

Un progetto finanziato dalla cassa delle ammende dell’amministrazione penitenziaria ha dimostrato che anche in Campania un ex detenuto può essere recuperato, una volta libero, se il contesto nel quale si ritrova dopo la scarcerazione è favorevole al suo reinserimento sociale. Il progetto, chiamato "paracadute", è stato realizzato tra agosto 2006 e maggio 2008 e ha riguardato 80 persone uscite di galera grazie alla legge sull’indulto.

Agli ex detenuti, scelti tra 408 candidati sulla base di una rigorosa selezione, è stata offerta l’opportunità di usufruire di una borsa lavoro della durata di sei mesi per l’impiego nei settori della manutenzione edile e dei campi sportivi, l’ortoflorovivaistica, la custodia dei cimiteri, la ristorazione e le attività tipografiche.

Buoni i risultati. Anzi, semplicemente sorprendenti se si considera che in Campania addirittura la metà degli indultati hanno poi commesso un altro reato e sono già rientrati in carcere. Grazie al progetto "paracadute", dunque, il 75 per cento degli indultati ha portato a termine con regolarità le attività lavorative nelle quali erano inseriti, mentre il 25 per cento degli 80 ex detenuti ammessi al progetto ha ottenuto un lavoro a tempo indeterminato a conclusione del periodo di stage.

Ecco che cosa scrive nella sua relazione Dolorosa Franzese, coordinatrice del progetto per conto del Dap: "L’impegno dimostrato dai partecipanti ha rappresentato una significativa testimonianza che andrebbe sottolineata con lo stesso clamore usato per le azioni criminose perpetrate da persone che hanno beneficiato dell’indulto".

"Tale impegno - continua la relazione - conferma l’ipotesi secondo cui maggiori occasioni di reinserimento socio-lavorativo per le persone che, terminata la pena, dimostrino reali intenzioni di cambiamento, aiuterebbero chi lo vuole a reintegrarsi". "Tali opportunità - conclude la Franzese - rappresenterebbero per la comunità, inoltre, un valido deterrente alla recidiva, la condizione favorevole per la prevenzione del crimine e una concreta risposta al bisogno di sicurezza".

Napoli: nuove sfide per i soldati, sono ambiente e criminalità 

 

Il Mattino, 29 settembre 2008

 

Il generale di corpo d’armata Carlo Gibellino, 59 anni, lascia il secondo comando delle forze di difesa, con base a Napoli, per assumere l’incarico di sottocapo di stato maggiore dell’Esercito. Gibellino lascia, dunque, la città dopo aver gestito "strade pulite" e "strade sicure", due operazioni che hanno visto i soldati assumere un ruolo da protagonisti sul fronte dell’emergenza rifiuti e su quello della sicurezza.

 

Generale, è un momento di gloria per l’Esercito?

"Non parlerei di gloria, ma di un momento di maggiore visibilità dell’esercito. Noi non ci mettiamo in mostra, ma eseguiamo con serenità e umiltà i compiti che ci vengono affidati".

 

Parliamo dell’emergenza rifiuti. Come è cominciata per voi?

"Erano i primi giorni di gennaio. Passeggiavo in Galleria con mia moglie, quando mi telefonò il prefetto Pansa. Mi disse: le scuole non riaprono per i rifiuti, abbiamo bisogno di una mano".

 

Lei che fece?

"Chiesi e ottenni le autorizzazioni, il giorno dopo tutti i mezzi disponibili dell’esercito erano già al lavoro per ripulire le strade".

 

E poi?

"Questo fu solo l’inizio dell’emergenza, poi il nostro contributo è cresciuto progressivamente fino all’impegno stabile di oltre mille soldati che si occupano di approntamento, vigilanza e protezione dei siti e di raccolta e trasporto dei rifiuti".

 

Un lavoro insolito per un soldato.

"L’intervento è inconsueto per le forze armate, ma viene ritenuto a tutti i livelli di prioritario valore sociale. Ed è con questo spirito che noi lo portiamo avanti, sentendocene coinvolti e responsabilizzati".

 

Come hanno vissuta quest’esperienza, i soldati?

"È stata un’esperienza importante anche sotto il profilo umano: le donne scendevano in strada per portare un caffè ai ragazzi o li applaudivano dalle finestre, alcuni ufficiali hanno addirittura ricevuto la cittadinanza onoraria nei comuni dove hanno lavorato".

 

Stessa accoglienza anche nell’operazione sicurezza?

"A differenza dell’emergenza rifiuti, l’operazione sicurezza si è spalmata su tutto il territorio italiano, ma a Napoli abbiamo avuto una risposta entusiastica".

 

Come va l’operazione?

"Non ci sono sbavature di alcun genere, i soldati si muovono in piena intesa con le forze di polizia. E i risultati sono lusinghieri: in meno di due mesi abbiamo controllato più di 22mila persone e quasi diecimila veicoli".

 

Ora vi aspetta una nuova emergenza, questa volta contro il clan dei Casalesi.

"Questa emergenza ci impegnerà soltanto fino alla fine dell’anno, ma idealmente si lega a quella sulla sicurezza".

 

Quali compiti svolgerete nel Casertano?

"Lo decideranno i prefetti. Il nostro, impegno, comunque, sarà sempre quello di liberare forze di polizia da applicare all’investigazione".

 

Invierete degli specialisti?

"Parliamo di soldati e, quindi, di uomini specializzati in attività militari. Sono professionisti abituati a stabilizzare i territori dopo i conflitti e a mantenere la pace. È quello che faremo".

Padova: 80 posti e 220 detenuti, casa circondariale strapiena

 

Il Mattino di Padova, 29 settembre 2008

 

A due anni dall’indulto, la nuova ala della Casa circondariale di via Due Palazzi sta per "scoppiare". Siamo ai limiti del collasso, con una presenza di detenuti ormai stabilizzata su una media di 200 presenze, con punte che sono arrivate anche a quota 220, poco meno del triplo rispetto alla capienza massima regolamentare, fissata in 80 posti. Morale della favola: tre detenuti ammassati in celle singole e sette-otto in quelle da tre, con problemi igienico-sanitari e di incompatibilità ambientale facilmente intuibili, dal momento che circa l’80% dei ristretti (in attesa di giudizio od appellanti) sono stranieri di etnie diverse e la cui convivenza nel chiuso di una cella finisce per creare un clima di rissosità permanente.

Tra nigeriani e magrebini volano scintille, ma anche tra albanesi e rumeni non corre buon sangue, così come marocchini e algerini non vogliono stare coi tunisini. Ai Due Palazzi vengono attualmente ospitati detenuti di circa 30 nazionalità diverse che rappresentano una "Babele" non facilmente gestibile. Se nei primi sei mesi di apertura non si è mai superata una capienza di 150-160 reclusi, oggi la situazione è assai peggiore.

E di trasferimenti in altri istituti di pena non è nemmeno il caso di parlarne. Sono più o meno tutti nelle stesse condizioni di quello di Padova. Ad aggravare la situazione c’è la cronica carenza di personale. Nella Casa circondariale patavina mancano una cinquantina di agenti penitenziari rispetto alla pianta organica che ne prevede 135.

Succede allora che un solo addetto debba controllare un centinaio di detenuti suddivisi in due sezioni. Per non parlare della Casa penale dove operano 110 agenti in meno del dovuto: 321 anziché 431. Al 31 agosto 2008 i detenuti in Italia erano 55.880, contro una capienza regolamentare che ne prevede 42.992. Facendo i salti mortali, se ne possono ospitare ancora 8 mila. Poi basta.

Roma: Alemanno; io… "sceriffo"? l’appellativo non mi turba

 

Il Messaggero, 29 settembre 2008

 

"L’appellativo di sceriffo non mi turba più di tanto, perché lo sceriffo in genere difende i buoni e gli onesti dai ladri, come disse anche Cofferati". Lo ha detto il sindaco di Roma Gianni Alemanno intervenendo alla trasmissione Sabato e domenica su Rai Uno.

"A Roma per una serie di cause anche storiche i vigili urbani non erano armati, a differenza di quasi tutte le città italiane - ha aggiunto - Quindi non si capiva perché la nostra polizia municipale dovesse andare disarmata a fronteggiare situazioni criminali anche molto pericolose. Per la loro sicurezza e per quella dei cittadini - ha concluso - è opportuno che queste persone, giustamente addestrate, possano essere armate".

Campi rom. Alemanno è poi intervenuto sul tema del censimento ai campi rom: "Il 15 ottobre terminerà il censimento all’interno dei campi rom - ha detto - e saremo in grado di indicare una strategia che punti da un lato a portare tutti i rom nei campi autorizzati smantellando definitivamente quelli abusivi, e dall’altro ad espellere di tutti coloro che commettono reati". Il sindaco ha ricordato che "comunque il problema non riguarda solo i rom, ma anche i senza fissa dimora.

Ci sono migliaia di persone che vivono in vere e proprie favelas, veri e propri accampamenti abusivi, in sostanza aree prive di qualsiasi tipo di controllo. Già adesso - ha concluso - è in atto una forte azione della questura per smantellare i micro insediamenti abusivi".

Sempre oggi, nel corso della manifestazione "Puliamo Roma" nel quartiere Alessandrino, Alemanno è intervenuto sui temi della prostituzione, del contratto con l’Ama e dei tragici incidenti stradali avvenuti ieri a Roma.

Prostituzione. Sul fenomeno della prostituzione che, dopo l’ordinanza del Comune, si sta spostando in provincia, Alemanno ha affermato che "È sufficiente che gli altri sindaci della Provincia adottino la nostra stessa ordinanza".

Ama. Poi è intervenuto sul contratto con l’Ama: "Il contratto di servizio con Ama è vecchio e inadeguato alle esigenze della città - ha detto - Stiamo lavorando per modificarlo".

Sicurezza stradale. Sugli incidenti accaduti ieri a Roma il sindaco ha detto che i vigili urbani hanno aperto due inchieste: "Siamo molto preoccupati per la sicurezza stradale nella nostra città. Abbiamo già fatto una conferenza cittadina sulla sicurezza stradale - ha aggiunto - ma bisogna continuare ad insistere con molta decisione, fare in modo che ci sia una più forte cultura del codice stradale soprattutto nelle scuole. La settimana prossima l’assessore Marchi firmerà un protocollo con l’Ania (Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici, ndr) per aumentare i controlli, la sicurezza stradale e il rapporto con le assicurazioni".

Rientro debito. Alemanno ha parlato oggi anche del piano di rientro del debito: "Domani presentiamo il piano di rientro che deve recuperare il debito accumulato dalle precedenti gestioni - ha detto - È un piano molto impegnativo, molto serio e richiede l’aiuto del governo per poter essere risolto. Insieme cominceremo a tracciare le linee dello sviluppo, quindi un momento di svolta che rappresenta la fine della gestione commissariale del comune di Roma. L’apertura di una fase centrata sul risanamento e lo sviluppo".

Piacenza: dibattito sicurezza, "tolleranza zero" non è soluzione

 

Il Messaggero, 29 settembre 2008

 

La sicurezza ha costi, sociali e non, abbastanza alti, va bilanciata con la libertà dei cittadini ma la ricetta per garantirla non è la "tolleranza zero", che porta popolarità ai sindaci ma non efficacia.

Questo il senso del dibattito, dedicato al prezzo della sicurezza, che si è svolto in mattinata al Festival del diritto di Piacenza. A confronto un giurista e un magistrato (Vittorio Grevi e Stefano Dambruoso), un sociologo (Marco Revelli), un architetto (Vittorio Gregotti) e un politico (il Sindaco di Piacenza Mario Reggi).

Ciascuno per la sua competenza, ha mostrato i retroscena della sicurezza tanto invocata, in termini economici, di limitazioni alla libertà, di costi sociali. Momento forte della discussione, la provocazione lanciata dal primo cittadino: dopo il decreto Maroni i sindaci-sceriffi hanno una popolarità enorme ma meno potere. Reggi l’ha dimostrato ricordando che "se prima le ordinanze comunali dovevano essere trasmesse con tempestività ai prefetti, oggi devono essere preventivamente mandate". Insomma "si è tornati al tempo in cui i prefetti bocciavano le ordinanze".

Di conseguenza attenzione al modello "tolleranza zero": "Rende molto in termini di consensi politici ma, come sindaco, devo considerare anche i costi sociali delle ordinanze, cioè applicarle con intelligenza tenendo conto delle loro conseguenze sui cittadini". La sua ricetta è quindi "mixare la politica inclusiva con un’azione sulla percezione dell’insicurezza che si fa anche con le ordinanze". D’accordo sulla necessità di un equilibrio il professor Grevi.

"Esiste un grosso problema di bilanciamento tra sicurezza e libertà, nelle moderne società questo compito spetta al legislatore", ha ricordato facendo poi l’esempio delle intercettazioni telefoniche usate dai pm: "È chiaro che il rischio è di un’invasione dell’altrui privacy, ma credo sia un sacrificio che, per ragioni di giustizia penale, si debba sopportare".

Più disincantata la riflessione di Dambruoso che, riguardo il cosiddetto "decreto svuota carceri" attraverso il rimpatrio dei detenuti stranieri, ha sottolineato che "ogni trasferimento ha un costo enorme". Altra strada è quella degli accordi con i Paesi di provenienza dei detenuti, purché siano "convenienti" per loro.

Con la Romania ad esempio, secondo il pm milanese, "forse con qualche profferta economica per il reinserimento sociale di questi soggetti, si avrebbero risultati". Ma aiuti antidegrado possono venire pure dall’architettura. Gregotti ha suggerito di "evitare la monofunzionalità urbanistica" cercando invece di mescolare classi e funzioni all’interno dei quartieri e "moltiplicare i centri storici".

Mantova: corso di formazione su "sicurezza urbana e sociale"

 

Comunicato stampa, 29 settembre 2008

 

Scuola di Alta Formazione in Scienze Criminologiche e Investigative. Oggi, presso la Sala Norlenghi della Bam, alla presenza di moltissime autorità locali tra cui, il Comandante della Polizia Locale di Mantova I. Volpi, il Direttore dell’Opg di Castiglione delle Stiviere A. Calogero, il Direttore della Casa Circondariale E. Baraniello e il vice comandante della Compagnia Carabinieri di Mantova Ten. Col. Pucci; la Scuola di Alta Formazione in Scienze Criminologiche e Investigative ha presentato il suo programma formativo per l’anno in corso.

Nella mattinata vi sono stati innumerevoli spunti di collaborazione tra la direzione della Scuola e le autorità presenti, che hanno promesso appoggio e collaborazione reciproca a progetti di sviluppo sul territorio di politiche serie riguardanti la sicurezza urbana e sociale. Tale incontro è stato utile a dimostrare la volontà di percorrere un cammino condiviso tra l’amministrazione mantovana e i futuri esperti formati dalla scuola triennale.

Un cammino che vedrà sicuramente, come primo scambio scientifico, la costituzione di una commissione ricerca sul fenomeno dello stalking, tema oggi di attuale interesse politico e sociale, anche oggetto di discussione parlamentare all’interno del c.d. "pacchetto sicurezza". Per informazioni sulle attività, la direzione dell’Istituto Fde di Levata di Curtatone, è disponibile a fornire chiarimenti allo 0376.415683.

Rovigo: don Marco Balzan porta la musica "reggae" in carcere

 

Comunicato stampa, 29 settembre 2008

 

Domenica 28 ottobre la cappellina della Casa Circondariale di Rovigo è stata letteralmente inondata dalle note della musica reggae di don Marco Balzan e la Tribù di Yahweh, il gruppo musicale che ha animato la celebrazione religiosa domenicale.

Alla presenza di una folta rappresentanza delle persone detenute nelle sezioni femminile e maschile, del cappellano don Marino Zorzan, del Vice Commissario Rosanna Marino, del magistrato di sorveglianza Giovanni Maria Pavarin, del volontario Innocente Lorenzetto del Centro Francescano di Ascolto che ha organizzato questo evento, degli agenti della polizia penitenziaria e di altri volontari, don Marco ha celebrato la Santa Messa nel suo stile, cioè condendola con tanti canti che hanno dato gioia ai presenti.

Il messaggio del prete di Villamarzana, per otto anni missionario in Brasile, è stato forte e coinvolgente per le persone recluse quando ha parlato e cantato di "liberazione" dei prigionieri e ricordato la frase evangelica "ero carcerato e mi siete venuti a trovare". La promessa conclusiva di don Marco è stata quella di ritornare e portare altri messaggi, attraverso la musica con il suo gruppo, in un momento da organizzare nel piazzale del carcere all’aperto, affinché possano partecipare tutti gli oltre cento ristretti presenti mediamente nell’istituto di Rovigo.

 

Centro Francescano di Ascolto

Libri: "Amore per l’odio", di Leonidas Donskis (Ed. Erickson)

 

La Repubblica, 29 settembre 2008

 

Anticipiamo parte della prefazione che Zygmunt Bauman ha scritto per Amore per l’odio. La produzione del male nelle società moderne, di Leonidas Donskis (Erickson, pagg. 344, euro 20) che esce in questi giorni.

L’odio e la paura dell’odio sono antichi quando il genere umano (forse ancora più antichi...), e le probabilità che la loro eterna familiarità con la condizione umana possa essere interrotta in un prossimo futuro appaiono alquanto scarse, sempreché ve ne siano. Odiamo perché abbiamo paura; ma abbiamo paura a causa dell’odio che avvelena la nostra coabitazione sul pianeta che condividiamo. Così ci sono sempre motivi più che sufficienti per avere paura; e sempre motivi più che sufficienti per odiare. Sembra che l’odio e la paura siano prigionieri di un circolo vizioso, che si alimentino vicendevolmente e traggano l’uno dall’altra l’animosità e l’impeto che li infiammano.

L’odio è sempre stato con noi, lo è adesso e lo sarà per sempre? qualunque cosa facciamo, e per quanto impegno mettiamo per cercare di rimpiazzare ciascuna delle sue numerose e variegate manifestazioni con la mutua compassione, la comprensione, la solidarietà. È vero? Sì, ma non del tutto. Come ha fatto notare Albert Camus, c’è una novità impressionante nella vecchia storia che abbiamo riportato. Nei tempi moderni - i tempi in cui viviamo, e soltanto nei tempi moderni - ci accade di diffondere e coltivare la paura e l’odio, e di commettere atti di violenza che tendono a esserne conseguenza, in nome di una vita migliore e pacifica, della felicità, dell’umanità, dell’amore. Di usare il male per promuovere il bene.

Abbiamo bisogno di qualcuno da odiare per sbarazzarci del senso devastante della nostra indegnità, sperando così di sentirci meglio, ma affinché questa operazione riesca, essa deve svolgersi celando tutte le tracce di una vendetta personale.

Il legame tra la percezione della ripugnanza e dell’odiosità del bersaglio prescelto e la nostra frustrazione alla ricerca di uno sbocco deve restare segreto. In qualunque modo l’odio sia nato, preferiremmo spiegarlo, agli altri e a noi stessi, adducendo la nostra volontà di difendere cose buone e nobili che essi, quegli individui odiosi, denigrano e contro le quali cospirano, sostenendo che la ragione per la quale li odiamo e la nostra determinazione a liberarci di loro siano causate (e giustificate) dal desiderio di assicurarci la sopravvivenza di una società ordinata e civile. Insistiamo a dire che odiamo perché vogliamo che il mondo sia libero dall’odio.

Recentemente la Suprema Corte di Cassazione italiana ha deliberato che sia legittimo discriminare i rom sulla base della motivazione che "gli zingari sono ladri". E quando i delinquenti di Napoli, brandendo mazze, spranghe di ferro e bottiglie incendiarie, si precipitarono sui campi dei rom e dei sinti situati nella periferia est della città a causa della diceria che una bambina fosse stata rapita da una zingara, la reazione del ministro dell’Interno [Roberto Maroni, ndt] del governo democraticamente eletto di Silvio Berlusconi, fu l’affermazione che "questo è ciò che accade quando gli zingari rubano i bambini", mentre il leader della Lega Nord e ministro dello stesso governo [Umberto Bossi, ndt], dichiarò (benedicendo "la gente" che mette i campi nomadi a ferro e a fuoco e manifestando uno sprezzante sarcasmo per la "classe politica" reticente) che "se lo Stato non fa il suo dovere, lo fa la gente". Fatti analoghi - benché meno pubblicizzati perché annunciati meno esplicitamente e spudoratamente - erano avvenuti in precedenza nella Slovacchia, nella Repubblica Ceca e in Ungheria. L’editorialista del Guardian Seuman Milne riflette che, dato il clima europeo caratterizzato da un acuto senso di incertezza e ansia, "la degenerazione sociale e democratica raggiunta ora in Italia" potrebbe verificarsi dovunque. "La persecuzione degli zingari è la vergogna dell’Italia", conclude, "e un monito per tutti noi".

A differenza delle paure del passato, le paure contemporanee sono aspecifiche, disancorate, elusive, fluttuanti e mutevoli ? difficili da identificare e localizzare esattamente. Abbiamo paura senza sapere da dove venga la nostra ansia e quali siano esattamente i pericoli che causano la nostra ansia e la nostra inquietudine. Potremmo dire che le nostre paure vagano alla ricerca della loro causa; cerchiamo disperatamente di trovarne le cause, per essere capaci di "fare qualcosa in proposito" o per chiedere che "qualcosa venga fatto". Le radici più profonde della paura contemporanea - la graduale ma inesorabile perdita di sicurezza esistenziale e la fragilità della propria posizione sociale - non possono essere affrontate direttamente, poiché le agenzie ancora esistenti di azione politica non hanno potere sufficiente per sradicarle in un mondo che si sta rapidamente globalizzando.

E così le paure tendono a spostarsi dalle cause reali di malessere per scaricarsi su bersagli che sono solo remotamente, sempreché lo siano, connesse alle fonti di ansia, ma che presentano il vantaggio di essere prossimi, visibili, a portata di mano e per ciò stesso possibili da gestire. Tali battaglie sostitutive, intraprese contro un nemico sostitutivo, non cancelleranno l’ansia, poiché le sue radici reali resteranno dov’erano, assolutamente intatte - ma perlomeno trarremo qualche consolazione dalla consapevolezza di non essere restati inerti, di aver fatto qualcosa per cercare di vendicare la nostra infelicità e di esserci visti mentre lo facevamo. la tormentosa consapevolezza della nostra umiliante impotenza ne sarà forse lenita - per qualche tempo, almeno.

L’afflusso dei migranti, e specialmente di quelli fuggiti da vittimizzazioni, persecuzioni e umiliazioni, o la minaccia del loro arrivo, dà ai nativi dei Paesi a cui approdano un profondo disagio poiché ricorda loro sgradevolmente la fragilità dell’esistenza umana - la loro stessa debolezza che i nativi preferirebbero decisamente nascondere e dimenticare ma che nondimeno li tormenta per la maggior parte del tempo. Quei migranti hanno lasciato le loro case e hanno dovuto separarsi dagli affetti più cari perché non avevano più mezzi di sostentamento e avevano perso il lavoro all’impatto con il "progresso economico" e il "libero mercato", o perché le loro case erano state bruciate, sventrate e rase al suolo a causa del corto circuito dell’ordine sociale, di sommosse e tumulti, o perché vi erano stati costretti dal fatto di essere in esubero, incapaci ormai di guadagnarsi da vivere e segnati a dito come un "fardello della società". Essi perciò rappresentano - o, meglio, incarnano - tutte le cose che i nativi temono; rappresentano quelle terrificanti e misteriose "forze globali" che decidono le regole del gioco in cui tutti noi, i migranti al pari dei nativi, siamo non già giocatori bensì pedine o gettoni. Quando respingono i migranti e li costringono a fare i bagagli per tornarsene da dove sono venuti, i nativi possono almeno bruciare quelle forze odiose e spaventose in effigie; possono conseguire una specie di "vittoria simbolica" in una guerra che sanno (o sospettano, per quanto ne neghino la consapevolezza) di non poter vincere "sul serio".

Prendere i migranti per le cause delle proprie difficoltà e paure può sembrare illogico, ma tutto ciò riposa su una sorta di logica perversa: c’era la sicurezza del lavoro e la certezza di buone prospettive di vita, prima ? ma lo scenario è cambiato sostituendovi la flessibilità del mercato del lavoro e assunzioni incerte e a breve termine, accompagnate da uno sgradevole allentamento dei legami fra le persone, e tutte queste novità si sono verificate proprio quando arrivavano i migranti. È dunque "ragionevole" presupporre che l’arrivo di questi stranieri e l’insicurezza che prima non esisteva siano connessi, e che se si obbligano i nuovi arrivati ad andarsene, tutto tornerà nuovamente agevole e sicuro come ci si ricorda che fosse (indipendentemente dal grado di correttezza del ricordo) prima del loro arrivo.

Le paure di oggigiorno sono generate in larga parte dalla globalizzazione (in altre parole, la nuova extraterritorialità) di forze che decidono delle questioni fondamentali riguardo alla qualità della nostra vita e alle possibilità di vita dei nostri figli. Il primo nesso causale collaterale riguarda il senso di sicurezza esistenziale.

La questione della sicurezza esistenziale è scivolata via dalle mani dei partiti che per forza d’inerzia vengono ancora chiamati "la Sinistra", che potevano contare in passato, ma non più nel tempo presente, su uno Stato intraprendente che risolvesse il problema. La questione perciò giace, letteralmente, in mezzo alla strada - da cui è stata lestamente raccolta da forze che, anch’esse erroneamente, vengono chiamate "la Destra". Il partito italiano di destra, la Lega, promette adesso di ripristinare la sicurezza esistenziale - che il Partito Democratico, l’erede della Sinistra, promette di minare ulteriormente con una maggiore deregolamentazione dei capitali e dei mercati, un sovrappiù di flessibilità nel mercato del lavoro e un’apertura ancora più larga delle porte del Paese alle misteriose, imprevedibili e incontrollabili forze globali (porte che, come sa dalle sue amare esperienze, non si possono chiudere comunque).

Soltanto la Lega intercetta l’insicurezza esistenziale, ma la interpreta, ingannevolmente, non come il tipico prodotto del capitalismo senza regole (che significa in pratica libertà per i potenti e impotenza per chi è a corto di risorse), bensì come la conseguenza, per i ricchi lombardi, di dover condividere il loro benessere con i pigri calabresi o siciliani, e come la disgrazia di dover condividere, gli italiani tutti, i loro mezzi di sussistenza con gli zingari ladri e con tutti gli altri stranieri (dimenticando che la migrazione di milioni di loro antenati italiani negli Stati Uniti e nell’America Latina ha contribuito enormemente all’attuale ricchezza di quei Paesi).

Droghe: narco-sale nei vicoli di Genova, per ridurre il danno

 

Redattore Sociale - Dire, 29 settembre 2008

 

Contrasto all’illegalità e tutela della salute: questi gli obiettivi delle narco-sale. A Genova a confronto le sperimentazioni europee e la realtà italiana. Grosso (Abele): "Uno strumento di gestione di sanità e ordine pubblico".

Il Teatro Modena ha ospitato sabato il convegno "Dal baluardo di Barcellona alla città vecchia di De Andrè. Luoghi igienici del consumo e politiche di riduzione del danno sulle droghe in Europa. Una proposta alla città di Genova." In una sala occupata da circa 200 persone ad aprire i lavori è don Andrea Gallo, fondatore della Comunità di San Benedetto al porto, organizzatrice dell’evento: "Sintesi della giornata - dichiara - è promuovere il rispetto della persona, in qualunque stato si trovi, tossicodipendente o no.

Oggi noi - aggiunge riferendosi agli operatori e agli ospiti della comunità presenti, che hanno lavorato gratuitamente alla realizzazione del convegno - vogliamo dare voce ai fragili e ai perdenti". L’evento, patrocinato dall’assessorato alle politiche sociali del comune di Genova e dal dipartimento per le dipendenze dell’Asl 3 di Genova, è strutturato in due momenti: al mattino, un primo tavolo mette a confronto le esperienze europee, mentre al pomeriggio si discute sulle politiche educative e di intervento sulle dipendenze in Italia.

"L’evento di oggi - dichiara Domenico Chionetti della Comunità di San Benedetto al porto - si può definire non tanto come un convegno a scopo informativo quanto come momento reale di approfondimento e proposta alla città di un progetto culturale, che vedrà nei prossimi mesi la necessità di sperimentare luoghi igienici di consumo in modo ragionato e dialogato".

La mattinata scorre tra i racconti e le testimonianze degli operatori che lavorano alla Sala Baluard, nata agli inizi degli anni ‘80 come servizio a bassa soglia nella zona di maggior consumo di Barcellona e oggi trasformata in luogo di incontro ed attenzione sociale e sanitaria. Nella struttura, come spiegano la fondatrice Esther Henar e l’operatrice Alejandra Pineva, è infatti possibile consumare sostanze con materiale sterile in un luogo controllato e sicuro (da qui la definizione di luoghi igienici di consumo), farsi una doccia e prendere un caffè in compagnia.

"I nostri obiettivi - dichiara Henar - sono: ridurre il danno associato al consumo di droga illegale, migliorare la vita dei consumatori e, contestualmente, migliorare la qualità della vita della comunità pubblica. Il problema della droga, infatti, va affrontato non tanto come fenomeno in sé quanto nella manifestazione delle conseguenze che provoca: i luoghi igienici di consumo permettono di ridurre sia il degrado del consumatore sia quello della comunità".

Infatti uno spazio deputato così organizzato, mentre offre condizioni di sicurezza igienico - sanitaria al consumo di droga, contemporaneamente lo allontana dalla strada e dagli altri luoghi pubblici. Raul Pradas Torres e Jesus Recio Rodriguez, vigili urbani che collaborano al progetto, sostengono quest’ipotesi: "Stiamo adottando una nuova formula di polizia preventiva ovvero interveniamo prima che succedano grossi guai, cerchiamo soluzioni che non portino al conflitto e ci impegniamo per favorire la comunicazione e la mediazione nei dintorni della Sala Baluard".

Chiude la mattinata l’intervento del sociologo Peter Coehn che, dopo aver raccontato l’esperienza dei luoghi igienici di consumo di Amsterdam, sottolinea che è necessario affrontare al più presto il problema della distribuzione illegale di droga poiché "genera maggior disagio di quanto ne provochi il consumo".

Tra gli interventi del pomeriggio quello di Maria Gabriella Zanone, educatrice dell’Asl 3 e coordinatrice del progetto genovese di riduzione del danno, che fa notare che "gli spazi di tolleranza in questa città sono in netta diminuzione" intendendo per tolleranza "il peso delle diversità", di cui una società dovrebbe farsi carico. Giuseppe di Pino, operatore di strada del progetto Tip&Tricks, pur lavorando in un’altra città, Venezia, è dello stesso avviso: partire dai luoghi comuni per sviluppare progetti complessi. "La strada è il luogo dove capire bisogni e conflitti e le politiche sociali dovrebbero investirci".

La parola passa poi a Susanna Ronconi del Forum Droghe che descrive l’articolata natura del progetto dei luoghi igienici di consumo: "tiene insieme tre livelli: professionale degli operatori che vi lavorano, pratico poiché è sperimentazione e politico ovvero riguardante le politiche sociali di una città. Pertanto - continua - bisogna salvaguardare la natura delle stanze del consumo come servizi sanitari e far sì che il confronto che ne consegue rientri nel dibattito pubblico, anche a livello istituzionale".

L’intervento successivo è sulla stessa linea: Leopoldo Grosso del Gruppo Abele di Torino sostiene che "la riduzione del danno non è solo da intendersi come attenzione alla persona bensì anche come strumento di gestione di sanità e ordine pubblico." Un’altra suggestione per trattare la questione droga in modo più incisivo arriva in chiusura da Ingo Stokel, referente dell’area tossicodipendenze della cooperativa sociale Parsec di Roma: "Bisogna lavorare per togliere l’ideologizzazione del problema droga ed essere più pragmatici, ispirandosi alle esperienze internazionali e prendendo in carico il consumatore passando da un approccio sanitario ad un approccio globale".

Droghe: don Gallo; chiesa, politica, scuola... sono tutti latitanti

 

Liberazione, 29 settembre 2008

 

Un luogo nei carrugi per il consumo igienico di sostanze. Narco-sala è solo una semplificazione giornalistica. Il luogo - può anche essere un pullman attrezzato - serve a restituire responsabilità e dignità a persone marginalizzate, e spesso uccise, dal proibizionismo. L’ottantenne prete partigiano, fondatore della comunità di San Benedetto al Porto, Andrea Gallo, preferisce chiamarli "luoghi di pace".

Perché fuori c’è una guerra da quarant’anni, una strage mafiosa, e la sua comunità ne è ospedale da campo. "Arrivano i feriti e mica li puoi non accogliere". Lui e la Comunità di S. Benedetto, quel luogo, sono pronti ad aprirlo e farlo funzionare. A insegnargli come c’è l’esperienza del Baluard di Barcellona visitato in primavera dagli emissari della comunità che, ieri, hanno ricambiato l’ospitalità portando un pezzo dello staff catalano in un teatro di Sampierdarena riempito di addetti ai lavori, attivisti antiprò, consumatori ed ex. Il progetto di Gallo comincia così: mettendo in rete segnali ed esperienze fuori dalle angustie dettate dalla Fini-Giovanardi. "A volte, per innovare le leggi, sono necessarie battaglie per i diritti civili. Non confondere questa giornata con un convegno di approfondimento come altri - raccomanda Domenico "Megu" Chionetti della comunità - oggi si apre la nostra progettualità per creare a qualunque costo un luogo igienico del consumo".

"Latitanti", così li chiama don Gallo, tutti gli altri: chiesa, istituzioni, scuola, politica. Eccezioni il consigliere comunale del Prc, Antonio Bruno, e il segretario cittadino del partito, Paolo Scarabelli, nonché Enrico Musso, senatore e consigliere comunale del Pdl, che giura di voler compiere ogni sforzo per ridurre il danno. Un’altra sorpresa arriva da Torino dove i comitati più o meno spontanei e spesso xenofobi di residenti in quartieri ad alta densità di migranti ora le narco-sale le invocano. Non è che i lupi si siano fatti pecora - vorrebbero anche il Tso per chi venga sorpreso a bucarsi in strada! - ma è una breccia nella mentalità di chi impone "la propria agenda sulla sicurezza alla città", come dirà Susanna Ronconi (Forum droghe).

Non è la prima volta che Barcellona insegna qualcosa a Genova. Da due anni, l’esperienza catalana di legalizzazione delle organizzazione di strada dei giovani latinos tiene banco in un progetto gestito da sociologi dell’università e dai centri sociali sotto la Lanterna. Così ieri mattina è stata possibile una visita virtuale alla sala Baluard, aperta in un barrio, il Raval, molto simile al centro storico genovese.

Esther Henar, la fondatrice, ha ripercorso il passaggio dalla tenda che voleva arginare l’epidemia dei primi anni ‘80 (3mila siringhe in sei ore a Can Tunis, una baraccopoli dietro al porto) al Baluard dove l’Espacio de agopuncion asistida s’è trasformato in un bus e poi in luogo nella Ciutat Vella, il centro storico, con 48 addetti e servizi sanitari e relazione per 5mila consumatori abituali senza fissa dimora, il 65% dei quali è straniero, 800 solo gli italiani. Dal 2004 sono riusciti a ridurre le morti per overdose e le infezioni.

Due guardie municipali della capitale catalana dimostrano che un’altra polizia è possibile per trovare mediazioni prima della repressione. I casi di Francoforte, della Svizzera e dell’Olanda (11 i luoghi solo ad Amsterdam) - come ha raccontato il sociologo Peter Cohen, un’autorità in materia - potrebbero smontare le diffidenze di un ceto politico e di un’opinione pubblica super ideologizzata: "il mercato nero esiste solo perché il consumo è illegale, perché non viene riconosciuto il diritto di scelta", avrebbe detto il sociologo.

"Come tossica ho vissuto il degrado e il rifiuto della mia città, i gradini sporchi di sangue, anche del mio. E mica è facile rialzarsi da lì". Giovanissima ed emozionata, Viviana spiega dal palco l’importanza di poter avere relazioni "senza fingere", quello che avviene, appunto in una narco-sala. "Ma certe strategie funzionano solo in una società tollerante, dal latino tollere: saper sopportare il peso, il peso della complessità - avverte Gabriella Zanone, educatrice della Asl3 del capoluogo ligure".

Perciò, dirà Giuseppe Di Pino del progetto Tips&Tricks, quando chi abita la strada si trova solo, come gli operatori di strada veneziani (lì le Asl sono contrarie alla riduzione del danno), vanno riscoperte le capacità di autoformazione, gli spazi dell’informalità, l’autodeterminazione, la disobbedienza civile. "Anche la riduzione del danno - ricorda Ronconi - è nata dal basso e anche allora la cornice legislativa era pessima".

Francia: detenuto ucciso da un "cecchino", il carcere in rivolta

 

Ansa, 29 settembre 2008

 

Un detenuto del carcere di Varces-Grenoble è stato ucciso nel tardo pomeriggio di ieri, ed un altro è rimasto ferito, in maniera non grave. I due sono stati presi di mira da un tiratore che era appostato all’esterno dell’edificio e ha esploso alcuni colpi verso i detenuti durante l’ora d’aria.

Come in un film: un detenuto interrogato su un omicidio è stato ucciso da un proiettile partito da un edificio vicino al carcere. È accaduto in Francia, dove l’uomo sospettato di aver sparato il colpo è stato fermato, la canna del fucile ancora calda per il colpo, mentre tentava di fuggire in moto. Il presunto killer, che ha sparato cinque colpi mirando con precisione il reparto della prigione a Vances-Grenoble, ha ferito anche un altro detenuto. A seguito dell’omicidio, nel carcere si è scatenata una rivolta. I detenuti si sono rifiutati di tornare nelle celle e hanno dato fuoco ai materassi.

Secondo il ministro transalpino della Giustizia, Rachida Dati, è la prima volta che in Francia qualcuno viene ucciso dall’esterno di una prigione. La vittima, il 29enne Sghair Lamiri legato al crimine organizzato, era in prigione per furti commessi nel 2001 e nel 2002. Il detenuto era stato interrogato nel corso delle indagini su un omicidio.

Si ignora invece l’identità del presunto killer, che ha 58 anni. "Ha negato ogni addebito - ha detto Rachida Dati -, ma quando è stato fermato, saliva su una moto che aveva documenti falsi e il suo fucile, con obiettivo telescopico, era ancora caldo".

Turchia: rivolta per condizioni detentive, 5 guardie in ostaggio

 

Apcom, 29 settembre 2008

 

Rivolta in un carcere turco nell’ovest del Paese. I detenuti - come riferisce il quotidiano tedesco Die Bild citando l’agenzia stampa turca Anadolu - hanno preso in ostaggio 5 guardie carcerarie per protestare contro le condizioni carcerarie e il rifiuto di un’amnistia. La rivolta nel carcere di Burhaniye, provincia di Balikesir, è iniziata durante la colazione del mattino, prima del digiuno per il mese di Ramadan. Si sta trattando per il rilascio delle guardie, ha spiegato il governatore della provincia, Selahattin Hatipoglu. Gli ostaggi sarebbero già stati rimessi in libertà e la rivolta conclusa senza vittime né feriti.

Filippine: la Chiesa denuncia; carceri affollate e processi lunghi

di Santosh Digal

 

Asia News, 29 settembre 2008

 

Denunciato il sovraffollamento delle carceri e l’allungamento nei tempi dei processi. I vescovi chiedono programmi di recupero per i detenuti e lo snellimento delle fasi processuali. Le iniziative di Caritas Manila per i detenuti e i familiari.

Promuovere "solidarietà" e "programmi di recupero" per i detenuti e rendere più efficiente il "sistema giudiziario del Paese". È quanto chiede la Conferenza episcopale al governo, per migliorare le condizioni di oltre 180mila prigionieri rinchiusi nelle "sovraffollate" carceri delle Filippine e "snellire le fasi processuali", per arrivare con maggiore velocità alla sentenza.

"Un sistema giudiziario efficiente e rispettoso dei diritti dei detenuti - sottolinea mons. Pedro Arigo, vescovo di Puerto Princesa e capo della Commissione episcopale per la cura pastorale dei carcerati - è un prerequisito per combattere la criminalità e per costruire una società in cui le persone vengano rispettate nella loro interezza".

I vescovi denunciano una "crescita esponenziale nella popolazione carceraria" registrata negli ultimi anni. Essa ha contribuito a peggiorare le "condizioni di vita dei prigionieri", prolungare la "durata dei processi", diminuire la possibilità di essere "difesi nel corso del dibattimento in aula" e, soprattutto, impedisce il "recupero del detenuto" e il successivo "reinserimento nel tessuto sociale".

Rodolfo Diamante, segretario esecutivo della Commissione episcopale, deplora la "scarsa attenzione" del governo alla realtà carceraria e ribadisce che la funzione della pena deve essere quella di "riabilitare" il condannato.

La Chiesa filippina ha indetto una "settimana per le carceri" che prenderà il via il prossimo 20 ottobre: essa intende sensibilizzare il Paese sulle condizioni dei prigionieri, pregare per loro e promuovere iniziative che li aiutino ad affrontare la condanna e a ritornare, espiata la pena, nella società civile. Per aiutare detenuti e familiari, Caritas Manila offre assistenza legale, istruzione per i figli e progetti di aiuto dedicati a famiglie che hanno un parente in carcere.

 

 

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