Rassegna stampa 27 settembre

 

Giustizia: lodo Alfano è incostituzionale? deciderà la Consulta

 

Corriere della Sera, 27 settembre 2008

 

I giudici della prima sezione del Tribunale di Milano hanno accolto l’eccezione di costituzionalità del Lodo Alfano proposta dal pm nel processo sui diritti tv di Mediaset, disponendo la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale. Il processo è stato sospeso per tutti i 12 imputati. I giudici hanno sostanzialmente accolto tutti i rilievi mossi dal pm Fabio De Pasquale, che aveva sollevato l’eccezione di costituzionalità del provvedimento riguardante le più alte cariche dello Stato. In particolare, i giudici hanno rilevato come la questione sia rilevante e non manifestamente infondata in relazione all’articolo 138 della Costituzione che riguarda la revisione delle norme costituzionali, mentre il lodo Alfano è stato approvato con procedura ordinaria. Il processo vede imputato, fra gli altri, il premier Silvio Berlusconi per presunte irregolarità nella compravendita dei diritti televisivi da parte di Mediaset.

"Decisione sbagliata" - Negativo il commento dei legali del premier. Nicolò Ghedini parla di "provvedimento sbagliato". "Sabato sarà la stessa cosa - ha detto Ghedini in relazione all’udienza del processo Berlusconi-Mills prevista appunto per sabato -, non si potrà che attendere la decisione della Consulta". "È la dimostrazione di come a Milano non si vogliano applicare certe normative anche in processi decotti - ha concluso -. Evidentemente a Milano sono affezionati a Silvio Berlusconi".

"Incostituzionale sotto vari profili" - Secondo il pm De Pasquale il lodo Alfano è costituzionalmente illegittimo sotto svariati profili e restano irrisolti svariati problemi che la Corte Costituzionale pose nel 2004 quando dichiarò illegittimo in parte il cosiddetto lodo Schifani-Maccanico sempre riguardante la sospensione del processo per le più alte cariche dello Stato. Nel lodo Alfano non vi sarebbe "una definizione del concetto di alte cariche nel corpo della legge", il riferimento è invece solo nel titolo.

"Contrasta con l’articolo 3" - Secondo il pm il lodo Alfano contrasta con la Costituzione in relazione al articolo 3, uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Il riferimento è alla irragionevolezza perché il lodo sospende i processi per tutti i reati e automaticamente senza considerare la fase in cui si trovano i procedimenti. Un altro riferimento del pm è al trattamento diverso tra il presidente del Consiglio e i ministri e al trattamento sempre diverso tra i presidenti delle Camere da una parte e deputati e senatori dall’altra. Il pm ha poi ricordato la violazione dell’articolo 136, cioè del giudicato costituzionale in relazione alla sentenza del 2004 con cui era stato bocciato il lodo Schifani. Infine ha ricordato che al lodo Alfano si è arrivati con una legge ordinaria e non con una legge di revisione costituzionale.

Ghedini cita Napolitano - Niccolò Ghedini, difensore di Silvio Berlusconi, replicando all’eccezione di incostituzionalità formulata dal pm ha spiegato davanti ai giudici del processo Mediaset che il lodo Alfano "rispetta la Costituzione". Per dimostrare la sua tesi Ghedini ha ricordato le parole pronunciate dal capo dello Stato Giorgio Napolitano il 28 luglio scorso. Napolitano disse nel promulgare la norma: "Il mio unico punto di riferimento è stato la sentenza della Corte costituzionale del gennaio 2004 per cui ogni altra valutazione appartiene esclusivamente alla politica". Secondo Ghedini la legge Alfano ha accolto le indicazioni che la Corte costituzionale fece in occasione dell’annullamento del lodo Schifani quattro anni fa. Sempre secondo il difensore di Berlusconi il pm "fa confusione fra la sospensione del processo e l’immunità vera e propria". Per Ghedini "l’eccezione di costituzionalità è manifestatamente infondata".

Opposizione - Il Pd ha poi chiesto alla maggioranza (e segnatamente a Niccolò Ghedini che ha richiamato le dichiarazioni del capo dello Stato) di smettere "di tirare il presidente della Repubblica per la giacca in questa vicenda". La posizione del Pdl, denuncia il ministro della Giustizia del governo ombra Lanfranco Tenaglia, è "ancora più inaccettabile e istituzionalmente scorretta visto che proviene da uno dei difensori del premier che riveste anche le funzioni di parlamentare". "Il Pd - ha ricordato il presidente dei senatori democratici Anna Finocchiaro - durante la discussione parlamentare aveva già sollevato questioni di costituzionalità sul lodo Alfano, così come le aveva già sollevate precedentemente sul lodo Schifani". "Eravamo e siamo convinti - ha spiegato la Finocchiaro - che il lodo Alfano sia in contrasto con i principi di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e di ragionevolezza, in relazione alla diversità delle cariche accomunate nella prerogativa".

Di Pietro - Anche Antonio Di Pietro ha apprezzato l’intervento del pm Fabio De Pasquale. "Siamo di fronte a una grave violazione della legge - dice il leader dell’Italia dei Valori - e il pm ci rende giustizia. Sin dal primo giorno l’Idv ha ritenuto il lodo illegale da un punto di vista costituzionale e immorale".

Giustizia: Palamara (Anm); c’è aria di "regolamento di conti"

 

La Repubblica, 27 settembre 2008

 

Luca Palamara, e dal palco del congresso dell’Ucpi, dopo l’intervento durissimo del guardasigilli Angelino Alfano, afferma di sentire "un’aria di regolamento di conti" nei confronti delle toghe.

Al presidente dell’Anm non sono affatto piaciute le dichiarazioni del Guardasigilli. E di fronte alla platea del congresso degli avvocati ma in assenza di Alfano che se ne è andato subito dopo il proprio discorso, Palamara cerca di replicare punto per punto, precisando a più riprese che "la magistratura è davvero arroccata" quando si tratta di "difendere la propria autonomia" e rilancia tirando in mezzo gli avvocati con i tempi e le modalità processuali.

Alfano aveva attaccato frontalmente i magistrati: basta "veti" e "attacchi preventivi" da parte dell’Anm. Un vero e proprio "cartellino" giallo per l’associazione sindacale delle toghe con l’aggiunta dell’annuncio che il ministro non intende più firmare "al buio" gli incarichi al vertice della magistratura che, secondo il Guardasigilli "sono lottizzati". E Alfano, a titolo esemplificativo, lamenta anche l’"aggressione" ricevuta dall’Anm sul dl sulle sedi disagiate. Un provvedimento fatto "in ossequio al Csm", che aveva sollecitato incentivi per i magistrati che vanno negli uffici giudiziari di frontiera e per dare "la massima efficienza". Ma che è stato bocciato dall’Anm come una "risposta sbagliata". "Non è questo il modo di collaborare con la politica - lamenta il ministro - Noi non accettiamo attacchi preventivi. Noi vogliamo il dialogo ma non il chiacchiericcio che non porta a niente. Vogliamo decidere e non intendiamo fermarci davanti ai veti dei magistrati" ha aggiunto tra gli applausi.

E il ministro della Giustizia ha assicurato: il pubblico ministero non verrà mai sottomesso al potere esecutivo. "Siccome nulla è eterno, e conoscendo i rapporti di alcuni dell’opposizione nel confrontarsi con i magistrati sul rapporto tra politica e giustizia, voi pensate davvero che potremmo consegnare ai futuri governi un pm sottomesso all’esecutivo?". E chiarisce: "Se non credete alla nostra virtù credete almeno al nostro pragmatismo".

"Non mi aspettavo l’attacco del ministro: così non lo avevo mai sentito. Al momento - conclude Palamara - non mi pare ci siano le condizioni per il dialogo".

Giustizia: riformare l'azione penale e l'appello, no pm poliziotti

di Luciano Violante

 

www.radiocarcere.com, 27 settembre 2008

 

Il documento di Radiocarcere sulla crisi della giustizia sintetizza in modo chiaro le questioni più rilevanti. Potrebbe essere integrato con alcune riflessioni. Una sullo stato di drammatica crisi di efficienza della giustizia determinata dal taglio di fondi. Il Tribunale di Iglesias, ad esempio, si regge solo sui giudici onorari (La Stampa del 25 settembre) ai quali peraltro una circolare del Ministero della Giustizia ha dimezzato le retribuzioni.

Occorre inoltre avviare un’analisi sulla parte di responsabilità che grava sull’avvocatura. Nella seconda edizione del suo importante libro sulla professione d’avvocato, Guido Alpa, presidente del Consiglio Nazionale Forense, dopo aver ricordato che gli avvocati in Italia sono 200.000 (uno ogni 300 abitanti, compresi gli infanti, aggiungo io), sottolinea la necessità di una riforma della professione forense. Nel programma per una giustizia efficace e moderna questo tema non dovrebbe essere trascurato.

La crisi, infine, non ha le stesse dimensioni dovunque. Nel distretto di Corte d’Appello di Bari, ad esempio, un processo civile dura in media 639 giorni, in quello di Campobasso 368 giorni, in quello di Milano 261 giorni. Alcuni uffici giudiziari, nonostante la mancanza di fondi e la confusione normativa, funzionano bene ed ottengono prestigiosi riconoscimenti internazionali (tribunale civile di Torino, procura della Repubblica di Bolzano, ad esempio). Sarebbe il caso studiare i moduli organizzativi degli uffici che funzionano meglio per estenderli a tutti gli altri. Sintetizzo qui di seguito le mie considerazioni critiche su alcune delle proposte di Radiocarcere.

Generale eliminazione dell’appello avverso la sentenza di proscioglimento. La Corte Costituzionale ha già dichiarato incostituzionale la legge approvata nella XIV Legislatura che prevedeva appunto la non impugnabilità di tutte le sentenze di proscioglimento. La Corte non ha chiuso totalmente la porta ad un provvedimento del genere e quindi si potrebbe ritornare sul tema; ma in modo certamente diverso dal passato, soprattutto delimitando rigorosamente i casi del divieto di impugnazione.

Valutazione della professionalità dei magistrati. Non può fondarsi, come pare emergere dal documento, sull’esito del processo. Chi ci dice che l’appello o la Cassazione abbiano sempre ragione quando modificano le decisioni emesse dal giudice precedente? E non si può costituire in questo modo una remora professionale alla modifica delle decisioni? Come si valuta il giudice collegiale? Inoltre, se si vuol cancellare l’impugnazione delle sentenze di proscioglimento, questo vuol dire che verranno sottoposte a valutazione i magistrati che emettono sentenze di condanna? Il lavoro del giudice è troppo serio per poter essere sottoposto a valutazioni pigramente quantitative. A me pare condivisibile la valutazione quadriennale del lavoro di ciascun magistrato, oggi prevista dall’ordinamento giudiziario.

Obbligatorietà dell’azione penale. Le conseguenze inflazionistiche della obbligatorietà dell’azione penale potrebbero essere temperate rinunciando al ricorso inflazionistico al diritto penale per governare fenomeni di massa, dalla prostituzione alla immigrazione. Utile sarebbe, inoltre, estendere i casi di perseguibilità a querela e inserire come clausola generale quella della non punibilità per i casi di non lesività o ridotta lesività del fatto, clausola già prevista per i delitti commessi dai minori e per quelli di competenza del giudice di pace. Sono inoltre favorevole ad un sistema fondato sul principio per il quale il Parlamento esprime il parere sulle priorità indicate dai Capi di Corte per ciascun distretto e controlla successivamente che i criteri siano stati osservati.

Separazione delle carriere. La separazione delle carriere o è il presupposto per giungere al controllo politico del pubblico ministero, oppure ha lo scopo di costituire un corpo di magistrati, separati da tutti gli altri e autogovernati. Nel primo caso la contrarietà è determinata dai rischi connessi, in un sistema come il nostro, all’uso politico del processo penale. Nel secondo caso si darebbe vita ad un corpo di superpoliziotti, corporativo e privo di controlli. In Portogallo c’è questa situazione; è considerata grave per gli equilibri costituzionali e pericolosa per le garanzie dei cittadini. Per lo stesso motivo considero un errore la costituzione nel Csm di una sezione per i Pm.

Pm e polizia. Deve essere chiarito in modo inequivoco che il Pm raccoglie e riceve le notizie di reato , ma non può ricercarle. Questo è il compito della polizia amministrativa. La polizia giudiziaria deve restare, come oggi, alle dipendenze del p.m. Un buon modello per i rapporti tra p.m. e polizia giudiziaria è indicato, a mio parere, dalle norme sul giudice di pace.

Giustizia: il reato di tortura… basterebbe poco per introdurlo

di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone)

 

Aprile on-line, 27 settembre 2008

 

Nel nostro codice penale manca il crimine di tortura eppure nel paese esiste. Per rispondere a questo vuoto basterebbe una legge composta da un unico articolo che riproduca la definizione presente nella Convenzione delle Nazioni Unite del 1984. Un segnale importante per la nostra democrazia in crisi.

Nelle agenzie di stampa si legge che una delegazione di alto livello del Comitato europeo per la prevenzione della tortura di Strasburgo è in visita in Italia. Si legge anche che è stata ricevuta dal sottosegretario agli interni Michelino. Evidentemente il ministro Maroni aveva altro di più importante da fare. Una mancanza di rispetto grave. Una indifferenza verso il lavoro degli organismi internazionali che si era vista solo nelle epoche buie della storia italica.

Negli ultimi mesi c’è stata una escalation di provvedimenti parlamentari, governativi, municipali nella direzione della repressione e dell’autoritarismo. Alcuni di questi provvedimenti hanno già lasciato segni brutali sui corpi delle persone: a Monza un cittadino arrestato viene custodito dagli agenti di polizia locali legato a un palo; a Bussolengo la comunità rom denuncia violenze gratuite ad opera dei Carabinieri; ad Anzio viene denunciato un pestaggio mortale ai danni di un tossicodipendente etc. etc.

Oramai si prova fastidio o noia per i militanti dei diritti umani. Vi è un razzismo istituzionale verso il sotto-proletariato urbano che arriva a giustificare pratiche violente e lesive della dignità della persona. Della vita dura e degradata nelle prigioni pare non importi più a nessuno. La storia del detenuto paraplegico suicidatosi ad Opera non interessa la stampa. Il fatto che arrivi una delegazione ufficiale europea a ispezionare i nostri luoghi di detenzione dovrebbe essere la notizia di apertura dei giornali. Questo sarebbe accaduto in Francia. Non da noi. Fu invece la "democratica" Repubblica a sdoganare il razzismo di sinistra. Non si era mai visto nulla di simile nella storia del riformismo italiano.

Alcuni punti fermi non massimalisti vanno allora ricordati. La tortura è bandita dal diritto internazionale, sia da quello universale che da quello continentale. In Italia il diritto interno ha accumulato una inadempienza oramai più che ventennale rispetto a quanto imposto dai trattati Onu. Manca il crimine di tortura nel nostro codice penale. Ci vuole ben poco a raggiungere questo risultato: basterebbe una legge composta da un unico articolo che riproduca la definizione di tortura presente nella Convenzione delle Nazioni Unite del 1984. Sarebbe questo un segnale importante per la nostra democrazia in crisi.

La tortura è un crimine contro l’umanità: é scritto nello Statuto istitutivo della Corte Penale Internazionale. Secondo Luigi Ferrajoli, autore dell’immensa Opera Iuris, sarebbe l’unico reato la cui codificazione avrebbe una diretta legittimazione costituzionale. Rachida Dati, ministro della Giustizia francese, nel commentare la recente introduzione in Francia di una figura indipendente di controllo dei luoghi di detenzione, ha detto che "i diritti umani non sono né di destra né di sinistra". Da noi analoga espressione è stata riferita alla sicurezza nell’ambito di un dibattito meschino e fuorviante. I diritti umani vanno presi sul serio, vanno promossi, vanno codificati, vanno tutelati.

Nelle carceri italiane è tornato il sovraffollamento. I detenuti sfiorano le 55 mila unità. I posti letto regolamentari sono circa 43 mila. La questione dei diritti in carcere è una questione che riguarda la vita quotidiana delle persone: la possibilità di accesso alle cure mediche, il numero di ore di socialità, la disponibilità di docce e acqua calda, la qualità delle offerte lavorative.

È necessario, nonché doveroso alla luce del diritto internazionale, istituire un meccanismo di controllo dotato di poteri ispettivi e di libero accesso non solo nelle carceri, ma anche nelle caserme, nei commissariati, nonché nei centri di permanenza temporanea per immigrati. In Italia manca. Noi di Antigone ci auto-promuoviamo ad assumere questo ruolo. Per questo abbiamo istituito il nostro difensore civico (difensorecivico@associazioneantigone.it).

Giustizia: le Associazioni chiedono "mai più dei bambini reclusi"

 

Redattore Sociale - Dire, 27 settembre 2008

 

Difesa della legge Gozzini, tutela della salute dei detenuti e mai più bambini reclusi: queste le richieste delle associazioni presenti al convegno "Donne e carcere".

Il carcere femminile è un mondo a parte, e le donne fanno ancora più fatica ad adattarsi alla vita ristretta. Soprattutto perché questo comporta spesso il distacco dai propri figli, a cui non riescono mai a rassegnarsi. Questo uno dei molti spunti emersi ieri mattina a Roma nel corso convegno "Donne in carcere", organizzato dalla Consulta cittadina permanente per i problemi penitenziari del Comune di Roma e dalla Casa circondariale Rebibbia femminile all’interno delle mura dell’istituto penitenziario.

Le donne, infatti, hanno più problemi dei loro colleghi di sesso maschile ad accettare la mancanza di libertà e soffrono (come una delle detenute presenti al convegno ha messo in luce) di disturbi psico-somatici tra cui disordini del ciclo, menopausa precoce, ansia e depressione. Ma la questione più scottante riguarda però la maternità, vissuta in maniera dolorosa sia quando sono obbligate a separarsi dai propri figli sia quando sono costrette a crescerli all’interno del carcere, come avviene nel caso dei bambini da zero a tre anni (su questo tema Redattore Sociale si è più volte soffermato in questi giorni).

E la questione dei bambini in carcere è stata affrontata anche dal presidente della Consulta cittadina per i problemi penitenziari del Comune di Roma, Luigi Di Mauro, che ha richiamato l’attenzione su una battaglia che le associazioni vanno facendo da tempo: "Auspichiamo - ha affermato - che venga al più presto approvata dal Parlamento la proposta di legge per cui nessun bambino varchi più la soglia di un carcere, rimuovendo tutti gli ostacoli che non consentono ai bambini di non entrare in carcere. La proposta - ha precisato è stata presentata dalla Consulta e dalle organizzazioni che operano nei nidi del carcere femminile, tra cui l’associazione Roma Insieme".

A questo il presidente della Consulta ha aggiunto un secondo auspicio. "Per dieci anni abbiamo lottato - ha dichiarato - per il passaggio della medicina penitenziaria al Sistema Sanitario Nazionale. E ora che la legge è stata definitivamente approvata, ecco che ci sono gravi problemi di finanziamento e di presa in carico da parte delle Asl. Tali problemi - ha continuato - rischiano di rendere questo passaggio molto problematico a discapito del diritto della salute dei detenuti. E questo noi non lo consentiremo". A questo proposito Di Mauro ha aggiunto: "Abbiamo costituito un Forum nazionale sulla salute dei detenuti attraverso il quale vigileremo affinché le Asl facciano il loro dovere. Altrimenti - ha avvertito - ci rivolgeremo alla Procura della Repubblica, perché non ci si può permettere che le Asl non si assumano le proprie responsabilità".

Il terzo monito riguarda, infine, la legge Gozzini. "Chiediamo che non venga assolutamente toccata la legge Gozzini - ha concluso Di Mauro - che in questi anni ha permesso di reinserire nella società persone che hanno compiuto reati attraverso il sistema premiale". E a questo proposito il presidente della Consulta ha chiesto "che non si trasformi il carcere nel luogo dove ogni devianza viene reclusa. I soldi dello Stato vanno usati per dare pari opportunità ai cittadini. Solo così riusciremo a garantire un’effettiva sicurezza".

Giustizia: D’Elia; le donne detenute hanno sempre meno diritti

 

Redattore Sociale - Dire, 27 settembre 2008

 

"Le donne detenute hanno sempre meno diritti e rimane lo scandalo delle troppe donne madri ospitate nelle carceri con i loro figli. Va ribadita e resa operativa l’incompatibilità della maternità e dell’accudimento dei figli con la struttura carceraria".

È quanto dichiarato ieri mattina dalla vice presidente della Provincia di Roma, Cecilia D’Elia, intervenuta al Convegno "Donne e Carcere" presso la casa circondariale di Rebibbia in occasione del decennale della Consulta cittadina per i problemi penitenziari del Comune di Roma. "Oltre un terzo delle donne detenute sono immigrate e tra di loro altissima è la percentuale delle donne madri. A peggiorare la situazione arriverà inoltre la legge Carfagna - continua D’Elia - sulla prostituzione che sposterà dalla strada al carcere migliaia di ragazze senza incidere minimamente sul fenomeno dello sfruttamento. Le donne vedono peggiorare le loro condizioni in carcere ma delinquono sempre meno degli uomini, sono solo il 4% della popolazione carceraria nazionale, nel Lazio 398 donne su 5.157 detenuti".

"Allarmante anche la situazione sanitaria - conclude D’Elia - c’è una riduzione di fondi per le visite specialistiche. L’amministrazione penitenziaria in questi anni sarebbe stata in grave difficoltà nel garantire opportunità di recupero umano e sociale senza il contributo delle associazioni e degli enti locali. Nel futuro sarà tutto più difficile garantire a causa dei tagli che il Governo porterà alle casse degli enti locali".

Roma: a Rebibbia 360 detenute; 150 per droga, 200 straniere

 

Redattore Sociale - Dire, 27 settembre 2008

 

200 straniere, 60 giovanissime tra i 18 e i 25 anni e 29 madri con bambini. Molte le tossicodipendenti (110); cresce il numero di donne che hanno commesso un reato connesso alla violazione della legge sulle sostanze stupefacenti.

Sono 360 le donne recluse all’interno Casa Circondariale Femminile di Rebibbia, 200 delle quali straniere, 110 tossicodipendenti, 60 giovanissime tra i 18 e i 25 anni, e 29 madri (con 30 bambini da zero a 3 anni al seguito). A fornire la fotografia dell’istituto femminile più grande d’Italia è l’ispettrice superiore Clementina Annibali, che ieri mattina è intervenuta al convegno "Donne in carcere", organizzato dalla Consulta cittadina permanente per i problemi penitenziari del Comune di Roma e dalla Casa Circondariale Rebibbia femminile all’interno delle mura del carcere. Dal 1 gennaio a oggi - spiega - nel carcere sono entrate 905 donne e 966 ne sono uscite. Mentre nel solo mese di settembre ci sono stati 60 ingressi contro 53 uscite. (Numeri questi ultimi che la dicono lunga su come i tempi di detenzione spesso possono essere anche brevissimi, ndr).

"La comunità carceraria femminile viene continuamente modificata dalla presenza sempre più numerosa di donne detenute per reati connessi alla droga", afferma l’ispettrice Annibali, precisando che a Rebibbia femminile sono ben 150 le donne che hanno commesso una violazione della legge sulle sostanze stupefacenti). Mentre molte altre sono dentro per sfruttamento della prostituzione, per reati contro il patrimonio e per omicidio. Insomma, spiega Annibali, la popolazione del carcere è cambiata: "Tra le donne aumentano le giovani e soprattutto le giovani straniere e in generale il quadro della trasgressione appare più complesso". Si registra, infatti, un incremento dei reati contro il patrimonio e di quelli contro lo Stato, l’amministrazione della giustizia e l’ordine pubblico, mentre diminuiscono quelli contro la famiglia e contro la morale.

Delle 200 detenute straniere, invece, ben 113 provengono dall’Est Europeo, mentre tra le africane, 30 arrivano soltanto dalla Nigeria. E il carcere non fa che accrescere il disagio delle donne immigrate. Molte di esse, infatti, spiega Annibali, "essendo prive di adeguata documentazione relativamente a permessi di soggiorno e documenti di identità, arrivano a scontare anni di carcerazione senza poter avere un colloquio con i propri familiari e i propri figli". Una situazione che diventa ancora più drammatica nel caso delle donne che arrivano dal continente africano in quanto "le rispettive ambasciate spesso non riescono a fornire adeguate informazioni sulle famiglie e sulle utenze telefoniche delle donne, con la conseguente impossibilità di avere colloqui telefonici con i familiari".

Inoltre, prosegue l’ispettrice, "per le detenute straniere sarà certamente più difficile, se non impossibile, trovare un sostegno nel mondo esterno, una casa e un lavoro, tale da poter far ritenere al giudice che non sussistano gravi indizi di possibile reiterazione del reato o il pericolo di fuga". Nell’istituto, poi, fanno ingresso molte donne senza fissa dimora, per le quali - precisa Annibali - "il reato non è qualcosa di grave ed è diventato la loro professione". Per le donne rom - per esempio - il furto spesso non è considerato reato, ma una normale attività per sopravvivere. E una persona fortemente recidiva difficilmente riuscirà a ottenere "dal Tribunale di sorveglianza una valutazione positiva in merito al fatto che non commetterà più questi reati".

Un problema a parte e di forte complessità riguarda, infine, le donne tossicodipendenti che entrano in carcere per reati minori e con basse pene da scontare. "Esse rimangono spesso estranee alla vita collettiva del carcere e alle poche risorse che vengono offerte - spiega l’ispettrice, con la conseguenza che quando escono ritornano facilmente nel circuito della dipendenza e della marginalità: un circolo vizioso che aumenta in maniera esponenziale le possibilità di rientrare in carcere.

Milano: nella Custodia Attenuata 10 detenute madri con i figli

 

Redattore Sociale - Dire, 27 settembre 2008

 

Nata nell’aprile del 2007, l’istituto di custodia attenuata è la prima struttura creata in Europa per le detenute che hanno bambini fino a tre anni.

È la prima struttura creata in Europa per le detenute che hanno figli minori di tre anni. L’Icam (Istituto di custodia attenuata per detenute madri) è nato il 2 aprile del 2007 per volontà di cinque diversi enti che oggi lo gestiscono: l’amministrazione penitenziaria (la struttura risulta una sezione distaccata del carcere di San Vittore) la Provincia e il Comune di Milano, la Regione Lombardia e il Miur.

"L’abbiamo pensata per una vita di tipo comunitario, con aspetti di vita familiare e cercando di eliminare o almeno attenuare quegli effetti negativi per la crescita del bambino che possono derivare dalla detenzione in carcere", dice Giovanna Longo della Dap. "Quando iniziai il mio lavoro da assistente sociale nel 1973 -aggiunge Francesca Corso, assessore provinciale e tra i principali sponsor della struttura - scoprii che a San Vittore c’erano madri e bambini. L’ho sempre pensato come un oltraggio nei confronti dei più piccoli, che dal carcere possono subire danni irreversibili".

Così all’interno di un ex brefotrofio che la Provincia di Milano ha concesso in comodato gratuito e arredato, è nato l’Icam. Possono esservi ospitate fino a quattordici madri assieme ai loro bambini. Attualmente vi sono detenute dieci donne, per il 40% italiane, in parte in attesa di giudizio e in parte con condanna passata in giudicato. All’interno, oltre alle camere letto, ci sono cucina, soggiorno, una biblioteca, una sala multifunzionale, una giocoteca, per i giorni nei quali i bambini non vengono accompagnati al nido.

Anche le madri vanno a lezione: nella sala polifunzionale gli educatori del Cfp "Cavalleri" impartiscono corsi di recupero scolastico. Lo scorso anno in sette hanno conseguito la licenza media. Tra le attività proposte ci sono anche un laboratorio di sartoria, corsi di psicomotricità per i bambini e - due volte alla settimana - lezioni di pasticceria. All’interno della struttura lavorano 14 agenti di polizia penitenziaria (in borghese, per la metà donne), tre operatori delle Provincia, un educatore del Comune e un’educatrice del nido, a fare da raccordo tra l’asilo e le madri.

"L’Unione europea ha finanziato un progetto per far conoscere la nostra struttura nel resto d’Europa - dice Francesca Corso - quindi non vedo perché l’Icam non potrebbe essere esportato prima di tutto in Italia. Non comporta costi aggiuntivi, a patto che l’immobile sia concesso in modo gratuito. Gli operatori sono gli stessi che sarebbero presenti anche in carcere".

Genova: 50% detenuti è tossicodipendente; 40% ha l’epatite C

 

La Repubblica, 27 settembre 2008

 

Il 40 per cento dei detenuti in Liguria ha l’epatite C. Ancora: più della metà dei carcerati sono tossicodipendenti. Numeri pesanti. Ma problema non è il contagio in carcere: "Meno di cinque casi l’anno per l’epatite C e zero per l’Hiv", precisa Emanuele Pontali, infettivologo al Galliera e alla Casa Circondariale di Marassi. Il fatto è che chi arriva in carcere ha già contratto la malattia fuori, e la casa di detenzione diventa "un concentrato di patologie".

La strategia, dunque, spiega il direttore Salvatore Mazzeo, consiste in "informazione e prevenzione, oltre ad attività di recupero". Spesso, però, quello che manca è il tempo: fino ad oggi, i medici penitenziari facevano capo al ministero della Giustizia, e la loro attività si limitava a tre ore giornaliere. Ma ora le cose cambieranno: la sanità penitenziaria, infatti, passerà sotto l’egida del Servizio Sanitario Nazionale entro il giugno 2009.

"Una sfida", commenta l’assessore Milò Bertolotto intervenuta al convegno "Sprigioniamo la cura!", ieri al Galliera. Per gli operatori sanitari che in carcere svolgevano incarichi provvisori e consulenze, però c’è un problema contrattuale. E l’incertezza maggiore riguarda gli psicologi.

Brescia: il recupero del bosco affidato al lavoro di 14 detenuti

di Magda Biglia

 

Il Giorno, 27 settembre 2008

 

Chi è passato ieri nella riserva di Bosco Fontana, nel mantovano, ha visto all’opera un insolito gruppo di "forestali", intenti a ripulire il terreno, a tagliare arbusti sotto la guida delle divise verdi. Erano quattordici detenuti di Canton Mombello e Verziano, usciti all’interno di un progetto di riparazione penale dedicato al recupero ambientale.

Finora il progetto ha coinvolto vari gruppi per un totale di 35 detenuti maschi, che hanno passato quattro giornate a Padenghe, due a Concesio, dove altre due ne faranno, quattro in un parco privato di Toscolano, e due nella riserva in collaborazione con il Corpo forestale e il suo comandante Gualtiero Stolfini.

Sul Garda hanno setacciato la spiaggia, nel paese dell’hinterland nord le rive del Mella, in collaborazione con le amministrazioni comunali. Sia il primo sindaco, Giancarlo Allegri, che il secondo Diego Peli, si sono dichiarati molto soddisfatti e hanno chiesto di ripetere l’iniziativa. In futuro si aggiungerà il comune di Brescia secondo quanto promesso dall’assessore all’Urbanistica Paola Vilardi.

Ieri in un incontro, tutti hanno parlato di entusiasmo dei partecipanti, di grande energia ed impegno nel lavoro. La coordinatrice del progetto di Concesio, Cristina Saiani, ha raccontato la giornata con il pranzo autogestito in una casa accoglienza comunale, con la fraternizzazione insieme ai volontari, con l’apprezzamento della gente. "L’ira ura". Era ora, è stato il commento di un’anziana signora che con la sua bella frase dialettale ha espresso tutto il significato di esperienze come questa, orientata per il detenuto a risarcire la società e a ritrovare la propria dignità e una forma di reinserimento.

La direttrice della Casa Circondariale bresciana Mariagrazia Bregoli, con Francesca Paola Lucrezi la nuova direttrice di Verziano, struttura carceraria divenuta recentemente autonoma da Canton Mombello, hanno coordinato l’operazione, assolutamente non facile, con l’appoggio del Tribunale di sorveglianza presieduto da Beniamino Spizzuoco. "Sono momenti che richiedono molta preparazione ed estrema cautela", ha detto il magistrato.

Sono positivi in una situazione come quella delle carceri cittadine sovraffollate. A Canton Mombello, nell’edificio che ha compiuto il secolo, ci stanno circa 450 carcerati, di cui solo una settantina con pena definitiva, con una percentuale di stranieri tra il 70 e l’80%, in continua crescita. Per questi sono organizzati corsi di alfabetizzazione, quest’anno per la prima volta anche a Verziano. Ci sono poi le scuole medie, classi per geometri del Tartaglia e classi professionali del Fortuny. Quest’anno sono già iscritti in una cinquantina come riferisce il responsabile dell’area pedagogica Angelo Russo, ma si arriva anche al centinaio. Un piano è interamente destinato alle classi che ogni giorno si riempiono.

Sassari: sit-in degli agenti davanti al carcere di San Sebastiano

 

La Nuova Sardegna, 27 settembre 2008

 

Carichi di lavoro troppo pesanti, aggressioni da parte dei detenuti, carenza di personale femminile, sono solo alcuni dei problemi che sono stati denunciati dal Sappe Sardegna, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che per lunedì prossimo ha organizzato un sit-in di protesta davanti alla Casa Circondariale di San Sebastiano, per sensibilizzare le autorità ministeriali e l’opinione pubblica sulle problematiche dell’istituto.

Il Sappe invita alla manifestazione tutto il personale penitenziario di Sassari "per dimostrare e rendere note le difficoltà operative in cui versa la struttura sarda". Tra le situazioni che "mettono seriamente a repentaglio l’ordine e la sicurezza", si legge nella nota diffusa nei giorni scorsi dalla segreteria provinciale del Sappe, ci sono i "carichi di lavoro particolarmente onerosi e stressanti per il personale del corpo".

Ma anche "episodi di aggressione da parte della popolazione detenuta - aggiunge la segreteria -; la carenza di personale femminile, che si riflette soprattutto sulla vigilanza e sui controlli durante i colloqui; il ricorso nella sezione femminile a personale maschile, a causa di una permanente insufficienza di colleghe, non in grado di coprire tutti i turni di servizio; l’apertura di un reparto di degenza, realizzata senza la concertazione con le organizzazioni sindacali che comporta una integrazione di almeno quindici unità del corpo; una riorganizzazione delle attività lavorative e dei servizi che richiedono un adeguamento, ormai indifferibile, del personale; una particolare attenzione alla portineria e ai relativi dispositivi ausiliari, all’armeria, alla porta carraia, alla sala regia, alle perquisizioni".

Immigrazione: l'Osservatore Romano; c’è clima di intolleranza

 

Redattore Sociale - Dire, 27 settembre 2008

 

"Intristisce che dal mondo politico arrivino segnali contrari, che alimentano un clima di paura e intolleranza". Con un articolo in prima pagina a firma del direttore della Caritas italiana don Vittorio Nozza, L’Oservatore Romano attacca il Governo italiano sull’immigrazione, sottolineando il "giro di vite Italia sui ricongiungimenti e per i richiedenti asilo" e la "tolleranza zero contro gli irregolari, ma anche qui con eccezioni in base alle nostre convenienze". Tendenze, si legge nell’articolo, "che non meravigliano in questo primo segmento del terzo millennio in cui c’è sempre meno memoria e scarsa speranza. In cui la vita è sempre più usa e getta, più che curata e vissuta. Con i deboli e i poveri costretti a pagare due volte".

Secondo l’Osservatore Romano, "le recenti parole del Papa, di compassione per le tragedie nelle quali si concludono i tentativi degli immigrati di approdare alle nostre coste e di appello ai Paesi occidentali affinché mettano in atto politiche di soccorso, sono però un invito a valutare criticamente le scelte che criminalizzano l’immigrazione indesiderata".

Certo, si legge nell’articolo, "è giusto chiedere alla politica l’indicazione di un progetto fondato sull’equilibrio tra diritti e doveri, tra sicurezza e integrazione, che produca provvedimenti idonei ad affrontare i diversi profili di una questione che chiama in causa valori profondi del nostro modo d’essere e di rapportarci agli altri". E la stessa Commissione europea, prosegue l’articolo, "ha definito l’integrazione come un processo continuativo e a doppio senso, basato su diritti e doveri che gravano tanto sugli immigrati che sulla società di accoglienza".

Ma il problema, secondo l’Osservatore Romano, "è che ci si deve interrogare circa i cambiamenti culturali in atto. È evidente che il solo appello, pur necessario, ai valori presenti nella cultura istituzionale e nel diritto internazionale (si prenda il caso dell’asilo) non sono più considerati valori comuni". Perché, spiega il quotidiano della Santa Sede, "esistono più voci, nell’informazione, nella cultura, nelle forze politiche, che spingono a forme più o meno raffinate, di diffidenza, intolleranza, contrasto, violenza. È urgente pertanto una rinnovata tensione e azione pedagogica".

In quest’ottica deve essere chiaro, conclude l’articolo, che quando la Chiesa predica i valori di rispetto della dignità, solidarietà, condivisione tra i popoli, di incontro tra le culture e le religioni non fa battaglie politiche ma precisa solo i presupposti sui quali la politica deve costruire. Si tratta di un contributo morale, culturale, di esperienza, di disponibilità del quale, a nostro avviso, la politica ha bisogno".

Immigrazione: Cie stracolmi, prostitute fermate tornano libere

 

Il Corriere della Sera, 27 settembre 2008

 

Posti esauriti: per questo motivo quattro prostitute bosniache, fermate a Roma in seguito ai controlli antilucciole voluti dal sindaco Gianni Alemanno, non potendo trovare accoglienza nel Centro immigrazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria, sono state subito rilasciate. Quel giorno erano al completo anche le altre strutture sparse in Italia e di liberazioni anticipate ce ne potrebbero essere state ancora di più. I provvedimenti contro la prostituzione in strada adottati da numerosi sindaci nell’ultimo periodo e gli sbarchi via mare di clandestini che non accennano a diminuire hanno di fatto portato alla saturazione dei Cie, incluso quello della capitale.

"Ci sono alti e bassi nelle presenze, com’è normale - racconta Fernando Capuano, presidente del comitato provinciale della Croce Rossa Italiana romana, che si occupa dell’assistenza sociale e legale a Ponte Galeria -. Nell’ultimo periodo si è superata la media dei 180-200 stranieri, fino ad arrivare a punte di 280-290 persone, che è il limite massimo per un complesso da 300 posti (160 riservati alle donne, 140 agli uomini). Continuiamo a svolgere al meglio il nostro lavoro quotidiano di supporto agli immigrati, ma che la situazione sia critica non sfugge a nessuno. In un lotto attiguo al Cie romano si stanno predisponendo altri 60 posti. E due giorni fa 60 giovani nigeriane sono state rimpatriate con un charter da Fiumicino".

Poco più di 1.200 stranieri trovano posto attualmente nei Cie: oltre a Roma, Bari-Palese, Bologna, Caltanissetta, Catanzaro, Gorizia, Milano, Modena, Torino, Trapani. Il ministro dell’Interno Roberto Maroni conta di realizzare in tempi brevi altri sei centri. Ed è prevista anche una seconda fase di nuove aperture, fino al raddoppio della disponibilità totale.

Il prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento per l’immigrazione del Viminale, non si stupisce di quello che è accaduto a Ponte Galeria: "Fra i Centri esiste un coordinamento. Può succedere, e probabilmente è accaduto a Roma, che anche gli altri Cie si trovassero nell’impossibilità di ospitare persone. E che sia stato semplicemente disposto un ordine di allontanamento dall’Italia, anche se intimazioni di questo tipo spesso, come noto, non sono rispettate. Oltretutto, va valutata l’economicità di spostare agenti e mezzi da un punto all’altro d’Italia per trasferire clandestini".

Droghe: le multe? un'idea per guadagnare con il proibizionismo

di Luca Borello

 

Fuoriluogo, 27 settembre 2008

 

La Moratti, forte del decreto Maroni, ha deciso che a Milano chi verrà sorpreso a consumare sostanze stupefacenti in luoghi pubblici potrà essere multato di 500 euro, o in alternativa farsi "curare", come se le cose fossero davvero così semplici.

Va detto subito che, al di là dei dubbi che qualunque persona assennata potrebbe sollevare sulla reale utilità della proposta, questo discorso una logica ce l’ha. Ed è quella del profitto.

Oggi, secondo le stime dell’Onu e di analisti indipendenti, a fronte di una spesa pubblica globale di 40 miliardi di euro l’anno per mantenere le politiche proibizioniste (retate, arresti, spese giudiziarie, incarcerazioni), la criminalità organizzata guadagna tra i 400 e i 500 miliardi di euro con il traffico delle sostanze stupefacenti messe al bando.

Per ogni euro speso dai contribuenti per vietare i traffici di droga, la criminalità ne guadagna dieci volte tanto. C’è decisamente qualcosa che non va: paghiamo un sacco di soldi per rendere illegale qualcosa in modo che chi la commercia al mercato nero guadagni palate di quattrini.

Qualunque imbecille, di fronte a questa situazione paradossale, pur di togliere la droga dalle mani dei mafiosi e dirottare quei 40 miliardi di euro a scopi più intelligenti, penserebbe a qualche strategia sensata di liberalizzazione delle sostanze, magari mettendole sotto controllo medico. La Moratti no. La Moratti, da buona berlusconiana della prima ora, ha pensato di guadagnarci. Si è spremuta le meningi, e ha capito come fare.

Prendiamo in considerazione il costo di una "pallina" di cocaina o eroina da strada, i cui prezzi sono precipitati negli ultimi anni fino alle 10-20 euro a dose (almeno a Torino, nei contesti di strada; in altri, sempre a Torino, una dose di cocaina può costare anche 50-80 euro).

Con l’idea della multa, la Moratti potenzialmente può guadagnare 500 euro ogni 10-20 incassate dai narcotrafficanti a Milano, ribaltando il rapporto costi-benefici del proibizionismo: sarebbe lei a guadagnare fino a 50 volte più che i narcotrafficanti. Chiamala scema. Il fatto che le mafie da questa storia non perdano niente nell’ottica morattiana non fa che sottolineare il fatto che si tratta di un ottimo affare per tutti.

Insomma: ora non gli resta che battere i bassifondi di Milano alla ricerca di tossici da multare. I quali, per altro, difficilmente avranno a disposizione 500 euro da regalare al sindaco, e questo è in effetti il punto debole del piano. Peccato. I tossici saranno costretti a scegliere in blocco la gita a San Patrignano, a prendere sberle per pranzo e per cena, il che consentirà a Muccioli jr. di incassare ancora più denaro in beneficenza. Alla faccia di chi dice che con il proibizionismo non ci guadagna nessuno.

Mondo: pena di morte; 90% dei Paesi è abolizionista de facto

di Emanuela Citterio

 

Vita, 27 settembre 2008

 

Il 90% dei Paesi è abolizionista de facto. Il prossimo paese a cancellarla sarà il Mali. ma è un trend che coinvolge tutto il continente.

Il prossimo Paese a cancellarla sarà il Mali. Ma è l’Africa nella sua totalità ad essere il continente che va più veloce verso l’abolizione della pena capitale. Lo fa notare la comunità di Sant’Egidio e lo confermano i dati di Amnesty International. "L’Africa ha saputo con coraggio ritagliarsi negli anni recenti uno spazio importante nell’alveo dei Paesi che con convinzione hanno sostenuto la necessità di non utilizzare la pena capitale. Anzi in molti casi il continente africano si è segnalato come il continente che ha voltato pagina più velocemente, riducendo in maniera sensibile il numero complessivo delle esecuzioni e procedendo in diversi casi con l’abolizione prima de facto e successivamente de jure della pena di morte, di Paese in Paese". A sottolinearlo è la Comunità di Sant’Egidio che lunedì 29 settembre promuove a Roma un congresso internazionale con Ministri della Giustizia, Parlamentari, Responsabili delle Corti Supreme di Giustizia da 16 Paesi del mondo. Il tema è "Dalla moratoria all’abolizione della pena capitale".

In Africa, solo sei Stati hanno portato a termine esecuzioni nel 2006 rivela l’ultimo rapporto di Amnesty International. Il Gabon è stato l’ultimo Paese in ordine di tempo ad abolire la pena capitale (ottobre 2007). Burundi e Mali si stanno muovendo verso l’abolizione. E nel luglio dello scorso anno ebbe grande risonanza l’abolizione da parte del Ruanda, a 13 anni dal genocidio.

Nel 2007 il ministro dell’Interno del Ghana, Albert Kan Dapaah, ha annunciato la commutazione in ergastolo di 36 condanne a morte. Ad aprile, l’Alta corte del Malawi ha dichiarato incostituzionale l’assenza di discrezionalità nell’infliggere la pena capitale. In Nigeria, a maggio, le autorità hanno annunciato che avrebbero garantito l’amnistia per tutti i detenuti ultrasessantenni che avessero già trascorso almeno 10 anni in attesa dell’esecuzione.

"Il prossimo Paese africano ad abolire la pena di morte sarà il Mali, il 25 dicembre di quest’anno" anticipa Mario Giro, responsabile delle relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio, che insieme ad altre organizzazioni non governative ha fatto pressione presso le diplomazie di questo ed altri governi per raggiungere l’obiettivo.

"L’Africa si avvia ad essere il secondo continente più avanzato rispetto alla non applicazione della pena di morte dopo l’Europa. Il 90% degli Stati del continente africano è abolizionista "de facto", ovvero non esegue una sentenza capitale da oltre dieci anni" sottolinea Giro. "Anche se a molti governi resta da compiere il passo dell’abolizione vera e propria in Africa si nota un movimento maggiore in questa direzione rispetto a tutti gli altri continenti del mondo". Gli "ossi più duri" restano l’Asia, la Cina e i Paesi del Medio Oriente in particolare e, per quanto riguarda l’America, gli Stati Uniti, fa notare il responsabile di Sant’Egidio.

 

 

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