Rassegna stampa 8 ottobre

 

Giustizia: quando i Governi alimentano le paure dei cittadini

di Nadia Urbinati

 

La Repubblica, 8 ottobre 2008

 

Le società occidentali vivono in una paradossale situazione che ripropone in tutta la sua gravità la lungimiranza del paradigma di Thomas Hobbes secondo il quale, proprio perché difficilmente razionalizzabile, la paura indistinta e generica è la condizione peggiore per l’affermazione della pace sociale. Al tempo di Hobbes erano i profeti religiosi e i fanatici ad alimentare quella paura con l’arma della retorica e del linguaggio apocalittico delle sacre scritture. Oggi è la stessa società liberale che sembra trovare economicamente e politicamente conveniente alimentare una paura indistinta e anonima per nemici che possono essere dovunque e che sono totali. In ogni epoca, la pace civile è stata minacciata da tiranni, dittatori o demagoghi. Si trattava di minacce visibili e identificabili.

Oggi è il sistema sociale stesso che genera panico e minaccia la pace. Scrive Jaume Curbet in un libro sulla insicurezza in uscita presso Donzelli che espressioni generiche come "insicurezza urbana", "criminalità organizzata", "disastro ecologico", infine "terrorismo" creano un tipo di paura che molto più di quella per i tiranni del passato tocca le corde più ancestrali ed è quindi più estrema e meno risolvibile.

Questo rende il bisogno di sicurezza un bisogno mai appagato tanto che neppure lo Stato riesce a trasmettere sicurezza attraverso la paura della legge. L’indistinta paura si traduce in soluzioni che sono altrettanto indistinte - che mirano più a colpire l’immaginazione dei cittadini che a risolvere la loro insicurezza. In effetti, una volta che la paura è associata a un oggetto indistinto, è al contingente che si presta più attenzione.

Questo spiega la richiesta da parte dei cittadini di interventi immediati o del "qui e ora"; richiesta di provvedimenti di emergenza e di decisioni esemplari; soluzioni effimere (e poco in sintonia con le procedure e la deliberazione democratiche) che servono essenzialmente a tenere sotto controllo i sintomi dell’insicurezza. La politica della sicurezza nell’era dell’insicurezza indeterminata e globale, dove tutti subiscono l’influenza di tutti, ha una funzione essenzialmente sedativa.

Chiamiamo sicurezza lo stato psicologico che ci viene dal credere di vivere in un ambiente immutato, uguale a se stesso. Quindi ogni turbamento dell’ordinario status quo è visto come fonte di sicurezza. Questo spiega il paradosso descritto da Zygmunt Bauman: sebbene le nostre siano tra le società più sicure, ciò nonostante, molti di noi si sentono più minacciati, insicuri e spaventati, e sono quindi più propensi a cadere in preda al panico e ad entusiasmarsi di tutto ciò che è relativo alla protezione e alla sicurezza.

In un mondo nel quale il rischio prende i contorni dell’imprevedibile e dell’indefinito, ai cittadini non importa sapere che le cause del pericolo sono complesse e non riducibili a una; desiderano soltanto che i rimedi siano semplici, immediati e soprattutto vicini nel tempo e nello spazio; esperimentabili nella quotidianità.

Per esempio, la globalizzazione dei mercati e delle speranze di benessere porta milioni di immigrati a cercare una vita migliore nel nostro continente e nel nostro Paese. La trasformazione multietnica di molti quartieri delle nostre città basta da sola a mobilitare la paura, una paura senza una causa specifica; la prima condizione per domarla è che gli immigrati siano pochi o che siano e restino invisibili; che infine, o soprattutto, contro di loro si mobiliti lo Stato (e i privati cittadini se necessario) con tutti i mezzi disponibili, anche se arbitrari e anche se incostituzionali. Purché se ne vedano alcuni esiti immediati, anche se minimi.

Ma un aspetto nuovo di questa "ossessione per la sicurezza" consiste nel fatto che essa è anche un business sotto molti punti di vista. Esiste un mercato della insicurezza il quale, come ogni altro mercato, deve per poter prosperare e quindi alimentare il bisogno di sicurezza. Ecco il circolo vizioso del quale sono vittima le società democratiche mature: la paura generica alimenta il bisogno di sicurezza ed è a sua volta alimentata da questo bisogno. In cima a questa catena vi è la sicurezza come affare (politico prima di tutto, ma non solo, perché le "aziende" che offrono sicurezza sono sempre di più).

Alimentare la paura artificialmente, dunque: questa è l’arte delle agenzie che si occupano della sicurezza. Ma come produrre insicurezza artificialmente? Se è vero che la paura anonima e indistinta è all’origine del panico dell’insicurezza, non c’è modo migliore per tenerla viva che creare capri espiatori. La storia è prodiga di esempi: la caccia alle streghe, la caccia agli ebrei, la caccia ai sovversivi. L’odierna insicurezza urbana è alimentata artificialmente dalla retorica dalla paura del diverso: zingaro, nero, extracomunitario, musulmano. È certo che l’origine della nostra criminalità (causa tangibile e documentata di giustificata paura) non sta per nulla qui: l’Italia ha una criminalità organizzata e spietata che strangola metà o forse più del suo territorio nazionale, eppure giornali e televisioni ci parlano quasi soltanto degli episodi di violenza che coinvolgono gli "altri".

La politica dell’insicurezza trova un naturale alimento nelle politiche neoliberali, quelle che oggi godono di maggiore stima presso i nostri governi, politiche orientate principalmente a rispondere alle richieste di sicurezza di una popolazione spaventata più che a risolvere i problemi e i diversi conflitti che stanno all’origine delle varie manifestazioni di delinquenza. Le politiche della sicurezza hanno preso il posto delle politiche sociali.

La filosofia dei governi di destra, come quello italiano, è che se disagio si dà questo non è un segno di ingiustizia sociale, ma invece di cattiva sorte e disgrazia, oppure di incapacità personale o mancanza di merito. In ogni caso, la carità umanitaria e religiosa può meglio dello stato sociale curare queste piaghe. Spetta quindi alle associazioni civili, alla famiglia (alle donne in primo luogo, potente surrogato dello stato sociale in ritirata) e alle parrocchie occuparsi della povertà.

Lo Stato dovrà al massimo dispensare tessera di povertà ai bisognosi e sostegno economico a chi li soccorre. Ma il suo compito è un altro: quello di occuparsi dell’insicurezza generata dalla paura. Il neoliberalismo libera lo Stato dall’impegno di promuovere politiche sociali (questo è il significato della sussidiarietà) per occuparlo intensamente nel compito repressivo. Dissociando il disagio sociale dalla sicurezza viene messa in atto un’interessante divisione del lavoro tra società civile e Stato: la prima si occupa del disagio, il secondo della sicurezza.

Il paradosso è che, vivendo della insicurezza lo Stato sarà naturalmente portato a alimentare la percezione della insicurezza. Esso ha bisogno di cittadini impauriti per essere legittimato nel proprio ruolo. Lo fa moltiplicando esponenzialmente le sue polizie perché, come si è detto, è l’azione esemplare che colpisce l’immaginazione; quindi il territorio più vicino deve essere soprattutto curato e pattugliato - i quartieri, le città (questo spiega il favore che incontra la retorica federalista).

Insieme alle polizie di Stato nascono e si moltiplicano piccole polizie private, in un crescendo di offerte di sicurezza, la quale è, come ha scritto Ulrich Beck, "come l’acqua o l’elettricità, un bene di consumo, amministrato sia pubblicamente che privatamente per ottenere benefici". In ogni caso, le frontiere apparentemente forti tra sicurezza pubblica e sicurezza privata sembrano svanire e quella che è una paura indistinta per il non consueto e il diverso diventa una formidabile merce: venduta dai governi per tenere alta la tensione e quindi incrementare consensi, amplificata dai media che sono comunque un prodotto di mercato, recepita dai cittadini nella solitudine dei loro quartieri che una paura generica alimentata ad arte sta desertificando.

Giustizia: Bauman; questo mondo drogato dalla vita a credito

di Zygmunt Bauman (Traduzione di Emilia Benghi)

 

La Repubblica, 8 ottobre 2008

 

Dall’industria dei prestiti è nata quella dei nuovi prestiti per pagare quelli vecchi Il piano di Bush serve solo a rimettere in moto un meccanismo ormai inceppato.

Un quotidiano britannico ha pubblicato la storia di un cinquantunenne che ha accumulato un debito di 58.000 sterline su 14 carte di credito e finanziamenti vari. Con l’impennata dei costi del carburante, dell’elettricità e del gas non riusciva più a pagare gli interessi.

Deplorando, col senno di poi, la sconsideratezza che lo ha gettato in questa situazione spiacevole se la prendeva con chi gli aveva prestato il denaro: parte della colpa è anche loro, diceva, perché rendono terribilmente facile indebitarsi. In un altro articolo pubblicato lo stesso giorno, una coppia spiegava di aver dovuto drasticamente ridurre il bilancio familiare, ma esprimeva anche preoccupazione per la figlia, una ragazza giovane già pesantemente indebitata. Ogni volta che esaurisce il plafond della carta di credito subito le viene offerto in prestito altro denaro. A giudizio dei genitori le banche che incoraggiano i giovani a prendere prestiti per acquistare, e poi altri prestiti per pagare gli interessi, sono corresponsabili delle sventure della figlia.

C’era un vecchio aneddoto su due agenti di commercio che giravano l’Africa per conto dei rispettivi calzaturifici. Il primo inviò in ditta questo messaggio: inutile spedire scarpe , qui tutti vanno scalzi. Il secondo scrisse: richiedo spedizione immediata di due milioni di paia di scarpe, tutti qui vanno scalzi. La storiella mirava ad esaltare l’intuito imprenditoriale aggressivo, criticando la filosofia prevalente all’epoca secondo cui il commercio rispondeva ai bisogni esistenti e l’offerta seguiva l’andamento della domanda. Nel giro di qualche decennio la filosofia imprenditoriale si è completamente capovolta. Gli agenti di commercio che la pensano come il primo rappresentante sono rarissimi, se ancora esistono. La filosofia imprenditoriale vigente ribadisce che il commercio ha l’obiettivo di impedire che si soddisfino i bisogni, deve creare altri bisogni che esigano di essere soddisfatti e identifica il compito dell’offerta col creare domanda. Questa tesi si applica a qualsiasi prodotto, venga esso dalle fabbriche o dalle società finanziarie. La suddetta filosofia imprenditoriale si applica anche ai prestiti: l’offerta di un prestito deve creare e ingigantire il bisogno di indebitarsi.

L’introduzione delle carte di credito è stata un segno premonitore. Le carte di credito erano state lanciate sul mercato con uno slogan rivelatore e straordinariamente seducente: "Perché aspettare per avere quello che vuoi?". Desideri una cosa ma non hai guadagnato abbastanza per pagarla? Beh, ai vecchi tempi, ora fortunatamente andati, si doveva procrastinare l’appagamento dei propri desideri: stringere la cinghia, negarsi altri diletti, essere prudenti e parchi nelle spese e depositare il denaro così racimolato su un libretto di risparmio nella speranza di riuscire, con la cura e la pazienza necessarie, ad accumularne abbastanza per poter realizzare i propri sogni. Grazie a Dio e al buon cuore delle banche non è più così! Con la carta di credito si può invertire l’ordine: prendi subito, paghi dopo. La carta di credito rende liberi di appagare i desideri a propria discrezione: avere le cose nel momento in cui le vuoi, non quando te le sei guadagnate e te le puoi permettere.

Questa era la promessa, ma sotto c’era anche una nota in caratteri minuscoli, difficile da decifrare anche se facile da intuire in un momento di riflessione: quel perenne "dopo" ad un certo punto si trasformerà in "subito" e bisognerà ripagare il prestito. Il pagamento dei prestiti contratti per non aspettare e soddisfare subito i vecchi desideri, renderà difficilissimo soddisfarne di nuovi? Non pensare al "dopo", significò, come sempre, guai in vista. Si può smettere di pensare al futuro solo a proprio rischio e pericolo. Sicuramente il conto sarà salato. Più presto che tardi arriva la consapevolezza che allo sgradevole differimento dell’appagamento si è sostituito un breve differimento della vera terribile punizione per l’essere stati precipitosi. Ci si può togliere uno sfizio quando si vuole, ma anticipare il diletto non lo renderà più abbordabile? In ultima analisi, sarà differita solo la presa di coscienza della triste realtà. Per quanto nociva e dolorosa, questa non è l’unica nota in caratteri minuscoli sotto la promessa del "prendi subito, paga dopo". Per evitare di limitare ad un solo prestatore il profitto derivante dalle carte di credito e dai prestiti facili, il debito contratto doveva essere (e così è stato) trasformato in un bene che procuri profitto permanente. Non riesci a ripagare il tuo debito? Non preoccuparti: a differenza degli avidi prestatori di denaro vecchio stile, ansiosi di veder ripagate le somme prestate entro termini ben precisi e non differibili, noi prestatori di denaro moderni e disponibili non ti chiediamo indietro i nostri soldi, bensì ci offriamo di prestartene altri per pagare il vecchio debito e avere un po’ di disponibilità (cioè di debito) in più per toglierti nuovi sfizi. Siamo le banche che dicono "sì", le banche disponibili, le banche col sorriso, come diceva una delle pubblicità più geniali.

Quello che nessuno spot diceva apertamente, lasciando la verità ai cupi presagi del debitore, era che le banche prestatrici in realtà non volevano che i debitori pagassero i debiti. Se lo avessero fatto entro i termini non sarebbero stati più in debito, ma sono proprio i loro debiti (il relativo interesse mensile) che i moderni, disponibili (e geniali) prestatori di denaro hanno deciso, con successo, di riciclare come fonte prima del loro profitto costante, assicurato (e si spera garantito). I clienti che restituiscono puntualmente il denaro preso in prestito sono l’incubo dei prestatori. Le persone che si rifiutano di spendere denaro che non abbiano già guadagnato e si astengono dal prenderlo in prestito, non sono di alcuna utilità ai prestatori ? perché sono quelli che (spinti dalla prudenza o da un senso antiquato dell’onore) si affrettano a ripagare i propri debiti alle scadenze. Una delle maggiori società di carte di credito presenti in Gran Bretagna ha suscitato pubbliche proteste (che certo avranno vita breve) nel momento in cui ha scoperto il suo gioco rifiutando il rinnovo delle carte ai clienti che pagavano ogni mese il loro intero debito, senza quindi incorrere in sanzioni finanziarie.

L’odierna stretta creditizia non è risultato del fallimento delle banche. Al contrario, è il frutto del tutto prevedibile, anche se nel complesso inatteso, del loro straordinario successo: successo nel trasformare una enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una genìa di debitori. Perenni debitori, perché si è fatto sì che lo status di debitore si auto-perpetui e si continuino a offrire nuovi debiti come unico modo realistico per salvarsi da quelli già contratti. Entrare in questa condizione, ultimamente, è diventato facile quanto mai prima nella storia dell’uomo: uscirne non è mai stato così difficile. Tutti coloro che erano nelle condizioni di ricevere un prestito, e milioni di altri che non potevano e non dovevano essere allettati a chiederlo, sono già stati ammaliati e sedotti a indebitarsi.

E proprio come la scomparsa di chi va a piedi nudi è un guaio per l’industria calzaturiera, così la scomparsa delle persone senza debiti è un disastro per l’industria dei prestiti. Quanto predetto da Rosa Luxemburg si è nuovamente avverato: comportandosi come un serpente che si mangia la coda il capitalismo è nuovamente arrivato pericolosamente vicino al suicidio involontario, riuscendo ad esaurire la scorta di nuove terre vergini da sfruttare?

Negli Usa il debito medio delle famiglie è cresciuto negli ultimi otto anni - anni di apparente prosperità senza precedenti - del 22 per cento. L’ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è cresciuto del 15%. E, cosa forse più minacciosa, il debito complessivo degli studenti universitari, la futura élite politica, economica e spirituale della nazione, è raddoppiato. L’insegnamento dell’arte di "vivere indebitati", per sempre, è ormai inserito nei programmi scolastici nazionali? Si è arrivati a una situazione molto simile in Gran Bretagna. Il resto dei Paesi europei segue a non grande distacco. Il pianeta bancario è a corto di terre vergini avendo già sconsideratamente dedicato allo sfruttamento vaste estensioni di terreno sterile.

La reazione finora, per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita : il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, dell’indebitarsi e mantenersi indebitato, potrebbe tornare alla "normalità". Il welfare state per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega per evitare invidiosi paragoni. Lo Stato ha nuovamente flesso in pubblico muscoli a lungo rimasti inattivi, stavolta al fine di proseguire il gioco che rende questo esercizio ingrato ma, abominevole a dirsi, inevitabile; un gioco che stranamente non sopporta che lo Stato fletta i muscoli, ma non può sopravvivere senza.

Quello che si dimentica allegramente (e stoltamente) in quest’occasione è che l’uomo soffre a seconda di come vive. Le radici del dolore oggi lamentato, al pari delle radici di ogni male sociale, sono profondamente insite nel nostro modo di vivere: dipendono dalla nostra abitudine accuratamente coltivata e ormai profondamente radicata di ricorrere al credito al consumo ogni volta che si affronta un problema o si deve superare una difficoltà. Vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe, e decenni di abbondante disponibilità di una droga non possono che portare a uno shock e a un trauma quando la disponibilità cessa. Oggi ci viene proposta una via d’uscita apparentemente semplice dallo shock che affligge sia i tossicodipendenti che gli spacciatori: riprendere (con auspicabile regolarità) la fornitura di droga.

Andare alle radici del problema non significa risolverlo all’istante. È però l’unica soluzione che possa rivelarsi adeguata all’enormità del problema e a sopravvivere alle intense, seppur relativamente brevi, sofferenze delle crisi di astinenza.

Giustizia: sull’uso dei decreti legge uno scontro a tutto campo

di Amedeo La Mattina

 

La Stampa, 8 ottobre 2008

 

Il governo va per le spicce quando si tratta di approvazione di provvedimenti che considera importanti. La logica di Palazzo Chigi è racchiusa in due parole: "Democrazia decidente". Che in pratica vuol dire ricorrere con frequenza alla fiducia e alla decretazione d’urgenza. Secondo Berlusconi è l’unico modo per governare di fronte a un sistema parlamentare lento e regolamenti vecchi.

E di questo il premier è andato a parlare con il Capo dello Stato Napolitano, mentre Veltroni definisce "pericoloso" questo modo di governare ("non parlerò mai di regime autoritario"). Il segretario del Pd è consapevole che le società veloci hanno bisogno di decisioni veloci, ma "il rischio è che venga considerato come cosa migliore lo scambio tra decisione e democrazia. Se le riforme, come ad esempio quella della riduzione del numero dei parlamentari, arrivano in Parlamento, noi siamo pronti a votarle".

Il Pd considera quello di Berlusconi un "presidenzialismo" introdotto in maniera surrettizia. E si sente sostenuto in questa battaglia dal presidente della Repubblica, il quale in una lettera pubblicata ieri da "La Stampa" ha precisato che "in Italia si governa, come in tutte le democrazie parlamentari, con leggi discusse e approvate dalle Camere nei modi e nei tempi previsti dai rispettivi regolamenti".

E solo "in casi straordinari di necessità e urgenza con decreti". Di fronte a questa presa di posizione del Capo dello Stato è partito il contropiede di governo e maggioranza che ritengono necessario cambiare al più presto i regolamenti parlamentari considerati troppo farraginosi: una palla al piede al decisionismo di Berlusconi. Così oggi alla riunione congiunta dei capigruppo di Camera e Senato, chiamata a sciogliere il nodo della presidenza della Vigilanza Rai e della nomina di un giudice costituzionale, il Pdl porterà questo altro problema.

Per Maurizio Gasparri sarà l’occasione giusta per avviare il discorso sulla riforma dei regolamenti. E Gaetano Quagliariello ha chiesto che la proposta messa a punto dal Pdl venga messa all’ordine del giorno della Giunta per il regolamento già martedì prossimo. "La politica - ha osservato Quagliariello - deve mettersi al passo con gli elettori che hanno scelto una democrazia decidente con un governo che deve attuare il programma e un’opposizione che si candida alla successione.

Ci era sembrato che anche Veltroni fosse dello stesso avviso...". Il Pd è pronto a discutere di nuovi regolamenti, ma considera quello del Pdl un "bluff" che serve a trasformare l’opposizione in uno "spettatore muto": non vogliono veramente cambiare i regolamenti ma continuare a governare a colpi di "decreto-selvaggio" e fiducia.

E su questo lo scontro è assicurato. Così la capogruppo Pd a Palazzo Madama, Anna Finocchiaro, spiega di essere d’accordo con il presidente del Senato Schifani quando dice che "la semplificazione dell’iter ordinario delle leggi può ridurre la decretazione d’urgenza". E accoglie l’invito della seconda carica dello Stato a "sotterrare l’ascia di guerra". Ma la Finocchiaro fa presente che l’ascia di guerra è sempre Berlusconi a brandirla. "L’ispirazione del presidente del Consiglio sembra essere quella di bypassare il Parlamento o limitare la sua attività a quella di una semplice funzione di ratifica. Vedo - aggiunge Finocchiaro - una maggioranza troppo silenziosa nelle Aule parlamentari e mai dissenziente".

Il problema per il governo è invece quello di avere tempi certi nell’approvazione dei suoi provvedimenti. "Nessuno vuole buttare via la centralità del Parlamento - precisa Elio Vito - si tratta solo di far sì che essa sia esercitata non in termini di contrattazione assembleare: al governo va riconosciuto un ruolo guida nella realizzazione del programma elettorale votato dagli elettori". È lo stesso concetto che esprime il presidente della Camera Fini nella lettera che oggi pubblica "La Stampa": in un sistema di alternanza tra schieramenti contrapposti la separazione dei poteri "non passa più attraverso la separazione del legislativo dall’esecutivo, quanto dalla dialettica tra il continuum governo-maggioranza, da una parte, e opposizione, dall’altra".

Giustizia: referendum sul lodo Alfano è diventato un dovere

di Arturo Parisi e Mario Segni

 

La Stampa, 8 ottobre 2008

 

Fin dalla prima formulazione del lodo Alfano, anche se muovendo da posizioni distinte, abbiamo manifestato la nostra opposizione alla pretesa di Berlusconi di sottrarsi alla sua condizione di cittadino e la nostra determinazione a sostenere ogni iniziativa che contrastasse la legge. Mentre si avvia la campagna referendaria vogliamo rendere espliciti i motivi che ci chiamano a impegnarci in questa difficile battaglia.

Sono passati quasi vent’anni dal primo referendum diretto ad una riforma che affidasse ai cittadini la scelta dei governi ed a questi la forza di governare nell’interesse del Paese. Quella riforma ci ha dato l’elezione diretta dei capi degli esecutivi locali e la legge elettorale maggioritaria. È grazie a quella riforma che oggi Berlusconi governa a capo di un governo che si annuncia stabile, pur non avendo ottenuto la maggioranza assoluta dei consensi alle ultime elezioni. Continuiamo a difendere quella riforma, spesso osteggiata da coloro che ne hanno beneficiato, e a batterci per portarla a termine. Ma la regola maggioritaria è stata introdotta per governare, non per stravolgere unilateralmente le regole del sistema. E proprio perché vogliamo continuare su questa strada, e dare finalmente all’Italia una democrazia che funzioni, che ci sentiamo chiamati a contrastare chi, come Berlusconi, abusa per interesse personale di quella forza che le regole hanno messo nelle sue mani.

Chiedere il referendum sul lodo Alfano è un dovere morale; è un dovere verso l’Italia, è una necessità istituzionale. È un dovere morale perché non è accettabile che un presidente del Consiglio si sottragga alla giustizia con una norma che sospende i processi a suo carico già in corso. Il principio di maggioranza non consente qualunque cosa, qualunque prepotenza, e soprattutto non permette di sottrarsi al principio fondamentale di ogni convivenza civile: il principio di responsabilità personale. Come è possibile che proprio chi, per la carica che ricopre, dovrebbe essere di guida e di esempio a tutta la comunità si sottragga a un principio cardine di ogni società democratica? Come potremmo guardare negli occhi i nostri giovani, chiedere sacrifici e rispetto delle regole, imporre loro di rispondere dei propri comportamenti se permettiamo che chi ha la guida del governo si sottragga ad ogni responsabilità? Come può il ministro Gelmini imporre ai giovani, con il voto in condotta, comportamenti seri e responsabili se il presidente del Consiglio è sottratto ad ogni responsabilità addirittura per violazioni della legge penale? Come è possibile perseguire i tanti furbetti che inquinano il mondo finanziario e imprenditoriale se cancelliamo, ai vertici della politica, il principio della responsabilità personale?

Chiedere il referendum è un dovere verso l’Italia perché il nostro Paese non deve, ancora una volta, passare agli occhi del mondo come la nazione nella quale il diritto non vale per i potenti. "Ci sarà pure un giudice a Berlino" disse il mugnaio prussiano che aveva subito un torto dal suo Re. E nella Prussia di Federico II il mugnaio trovò il giudice che gli diede ragione. Sono passati tre secoli e i principi dello stato di diritto si sono diffusi in tutto il mondo. Perché proprio l’Italia vuole fare un gigantesco salto all’indietro, cancellare il principio della uguaglianza di tutti, ripetiamo di tutti i cittadini di fronte alla legge? È infine un dovere istituzionale. L’Italia deve finalmente giungere a istituzioni forti. Ma più forti sono le istituzioni, più ferree e chiare devono essere le regole e i limiti. Stordito da una informazione televisiva in cui è più che mai assente il pluralismo e più forte il controllo del governo, il Paese non ha avvertito la gravità dei fatti e il dibattito parlamentare è passato del tutto inosservato. Il popolo, i cittadini, rimangono quindi l’unico baluardo a difesa delle regole democratiche e dello stato di diritto.

Giustizia: Maroni; vigilanza privata protagonista di sicurezza

 

Reuters, 8 ottobre 2008

 

Le aziende che si occupano di vigilanza privata devono diventare protagoniste del progetto di sicurezza integrale voluto dal governo di centro-destra. Lo ha detto oggi il ministro dell’Interno Roberto Maroni.

All’assemblea annuale dell’Associazione Italiana Vigilanza (Assiv), associazione di categoria della vigilanza privata aderente a Confindustria, Maroni ha spiegato che nel sistema di sicurezza integrale ciascuno ha il proprio ruolo ma è prevista "una più diretta, importante partecipazione del settore privato".

"L’attenzione del ministro al vostro settore c’è, perché penso che in questo progetto di sicurezza integrale anche il mondo della vigilanza privata debba avere un ruolo di maggiore protagonismo", ha aggiunto Maroni.

In questa fase di transizione in cui gli istituti di vigilanza si fanno imprese di sicurezza, il titolare del Viminale ha invitato chi opera nella vigilanza privata ad avanzare proposte per migliorare la sicurezza del paese nell’ambito di due progetti: quello per cui in quattro regioni del Sud sono a disposizione fondi europei per 1,25 miliardi di euro nei prossimi cinque anni, e un altro legato alla sicurezza urbana per cui sono a disposizione almeno 100 milioni di euro dal 2009, un progetto, ha sottolineato Maroni, "da riempire di contenuti per tutte le città italiane".

"Questi due temi ... penso che debbano vedervi protagonisti". Il ministro ha poi ribadito che il governo non mira a una militarizzazione del paese: "Non voglio militarizzare il territorio, mettere un poliziotto accanto a ogni cittadino". "I cittadini sono contenti nel vedere i militari (nelle strade) non perché sono diventati tutti guerrafondai ma perché vedere una divisa... dimostra che c’è qualcuno che si preoccupa - lo stato, il governo - che presidia il territorio .. questa è la strada che seguiremo (senza) militarizzare il territorio".

Giustizia: multe salate e carcere contro i graffitari e i vandali

 

Asca, 8 ottobre 2008

 

Berlusconi aveva anticipato il provvedimento con le sue parole sui "beceri graffiti" che deturpano le nostre città. Ora il disegno di legge è in dirittura finale e ve ne anticipiamo i contenuti. Le multe per gli imbrattatori saranno moltiplicate esponenzialmente fino ad arrivare a un massimo di 30.000 euro. Tremila euro sarà invece l’ammontare da pagare per chi si renderà responsabile di spostamento o manomissione di cassonetti dei rifiuti.

La stangata vera si abbatterà però su chi raffigurerà criminali in senso positivo, per il quale sarà previsto il carcere fino a un massimo di sei mesi. Fin qui la parte sanzionatoria inserita nella bozza elaborata dal ministro Prestigiacomo nei confronti dei rei. Molto più perplessi lascia invece l’ipotesi normativa verso i proprietari degli immobili colpiti, dai quali il Comune dovrà pretendere la copertura delle scritte entro 90 giorni col solo beneficio della detraibilità dei costi sostenuti. Se così dovesse rimanere, non si capisce perché le multe incassate non possano essere utilizzate proprio per ridipingere i muri in questione, ma forse sarebbe una soluzione di eccessivo buon senso.

Le multe saranno molto più alte in caso di imbrattamento di edifici di interesse storico-artistico, e ai giudici sarà data comunque facoltà di convertire una parte o tutta la sanzione in un periodo di obbligo domiciliare oppure di pena di lavoro pubblico socialmente utile, nel qual caso il reo potrà chiedere di fornire aiuto proprio nei lavori di ripulitura.

Giustizia: se la "malavita" colma l’assenza di identità sociale

di Fabio Perugia

 

Il Tempo, 8 ottobre 2008

 

La prima certezza è un "modello" di disagio giovanile che dalle periferie si è esteso alle province. La seconda è l’assenza di sovranità nelle aree urbane ai confini delle città. Un’assenza che crea un vuoto d’identità tale da essere colmato dalla delinquenza. Il professor Maurizio Fiasco, sociologo romano esperto di sicurezza urbana, dipinge il dramma sociale del rapporto malavita-periferie con un "freddo dispiacere" di chi conosce perfettamente i problemi, ma oggi non ha più fiducia in chi dovrebbe risolverli.

 

Professore cosa favorisce la criminalità in quelle zone?

"Ci sono una serie di ingredienti che si combinano. Primo, nelle periferie c’è visibilità di beni e ricchezze, basta pensare alle grandi aree commerciali. Secondo, c’è una mobilità di questa ricchezza. Infatti le grandi rapine non avvengono a Prati o Monteverde, ma sulle strade che portano ai centri commerciali".

 

E chi vive lì?

"Oggi la periferia attraversa una fase di grave disorganizzazione dello spazio per decisioni di tipo urbanistico. Così si creano ampi luoghi privi di sovranità, dove si localizzano delle disfunzioni. Questo genera un’opportunità per le organizzazioni criminali. Parliamo di un ambiente sociale con debole identità ed estraneo alla comunità cittadina: la criminalità colma questo vuoto".

 

Molti si rifugiano in questo modello "deviante". Il problema è anche l’insofferenza dei giovani nei confronti della società?

"Nelle periferie i giovani covano un risentimento che non si indirizza verso un bersaglio, causando anche un’esclusione linguistica. Un esempio è il tatuaggio. Quelle immagini infantili disegnate sul corpo sono uno dei pochi modi con cui si esprimono. E il bisogno è ulteriormente soddisfatto con l’imbrattamento dei muri, come se marcassero il territorio non avendo la possibilità di pensarlo. È l’incapacità di verbalizzare. La novità è che ormai questo sentimento si è propagato anche nei piccoli comuni. Periferia e provincia hanno lo stesso deficit e primitivismo delle emozioni".

 

La politica cosa dovrebbe fare?

"Oggi la politica, su questi temi, è un concentrato di ignoranza speculare al fenomeno. Una politica così becera non si ricorda a memoria d’uomo".

 

Esiste "un’altra periferia"?

"Sintetizzando, possiamo dire che c’è una prima fase in periferia dove la popolazione è schiacciata dai propri deficit. Superata, c’è la seconda in cui vengono selezionate le persone che si fanno carico dei deficit e cercano di soddisfarli. Sono le figure che organizzano la scuola calcio, è il parroco, l’insegnante. Sono loro, questi leader naturali, a consentire che non si verifichino le banlieue in Italia".

 

Siamo immuni?

"La possibilità di assistere al fenomeno francese in versione italiana ora non è quotata grazie a questo tessuto sociale".

 

C’è un criterio per cui il ragazzo di periferia predilige i criminali alla partita di calcetto?

"I giovani scelgono la criminalità perché dove non arriva "l’apostolato" competente arriva la micidiale offerta d’identità che fornisce la criminalità".

 

La malavita sceglie con cura le zone dove "reclutare" i giovani?

"La criminalità pesca nei luoghi più tipici, come una sala giochi. Uno degli ultimi dati rivela che la diffusione capillare delle sale da gioco e del gioco d’azzardo ha contribuito notevolmente a prendere la strada della criminalità".

Giustizia: a cinque anni dalla morte di Lonzi 3 nuovi indagati

di Susanna Marietti

 

www.linkontro.info, 8 ottobre 2008

 

Sono oggi tre gli indagati nell’inchiesta per la morte di Marcello Lonzi, avvenuta nel luglio del 2003 nel carcere di Livorno, dove stava scontando una breve pena. A Gabriele Ghelardini, il detenuto che viveva nella cella di Lonzi al momento del decesso, si sono aggiunti due agenti della polizia penitenziaria.

Le indagini vanno avanti, e lo scorso venerdì il pubblico ministero Antonio Giaconi ha ascoltato due giovani vicini a Maria Ciuffi, la madre di Marcello che da cinque anni si batte perché si faccia luce sull’accaduto. I due, nel tentativo di raccogliere informazioni, avevano tempo fa avuto un colloquio proprio con Ghelardini, ai cui esiti il pm è ora interessato.

Il caso di Marcello Lonzi parte da uno degli eventi drammatici che hanno accompagnato la vita nelle nostre carceri in questi anni. Marcello muore all’età di 29 anni e l’autopsia parla subito di cause naturali. Poco prima del presunto arresto cardiaco era stato visto in ottima salute. Maria Ciuffi ritiene che il figlio sia morto in seguito a percosse, e sporge denuncia. Il pm Roberto Pennisi apre un fascicolo per omicidio contro ignoti. Il primo luglio dell’anno successivo Pennisi chiede l’archiviazione confermando l’esito dell’autopsia. Maria Ciuffi si oppone alla richiesta. Chiede un supplemento di indagine a partire da fotografie del cadavere di Marcello che mostrano spaventose ecchimosi, gonfiori e striature sulla pelle. Il volto di Marcello è tumefatto e il corpo coperto di sangue. Nel settembre 2004 il gip del Tribunale di Livorno respinge la richiesta di archiviazione e fissa per il dicembre successivo l’udienza preliminare. Ma in questa sede il giudice delle udienze preliminari accoglie la richiesta di archiviazione.

Maria Ciuffi non si dà per vinta e nel gennaio 2006 denuncia il pm Pennisi (magistrato di turno durante la notte della morte di Marcello), il medico legale che eseguì l’autopsia e un agente di polizia penitenziaria. All’udienza davanti al gip di Genova viene presentata una controperizia medico legale, ma pochi giorni dopo il gip archivia la denuncia della Ciuffi. Nell’occasione, però, afferma che la controperizia contiene elementi che potrebbero "avere una qualche rilevanza ai fini della riapertura delle indagini, a norma dell’articolo 414 del codice penale".

Maria Ciuffi continua nella sua battaglia e riesce a fare riaprire il caso nell’agosto 2006. Chiede nuovi accertamenti sul corpo del figlio. Alla fine di ottobre la salma del ragazzo viene riesumata e, su richiesta della madre, sottoposta a una nuova perizia che getta una luce ambigua sulla precedente autopsia, evidenziando fratture e lesioni non compatibili con una semplice caduta a terra a seguito di infarto. Le indagini proseguono e ora si attendono gli ulteriori sviluppi processuali.

Giustizia: strage Bologna; libertà condizionale per la Mambro

 

Agi, 8 ottobre 2008

 

Libertà condizionale fino al 2013 per Francesca Mambro, condannata all’ergastolo assieme al marito Valerio Fioravanti per la strage alla stazione di Bologna nel 1980. Il provvedimento è del tribunale di sorveglianza di Roma che "ha preso atto del percorso carcerario di una donna - ha detto il suo difensore, l’avvocato Tommaso Mancini - che ha scontato venti anni e più di reclusione e che non ha mai dato fastidio a nessuno durante la sua detenzione".

"Con la libertà condizionale - ha proseguito il penalista - la Mambro esce dal carcere a tutti gli effetti con la spada di Damocle che nei prossimi cinque anni non potrà fallire altrimenti perderà questo beneficio". Mancini, che ha difeso la Mambro nel processo a Bologna per la bomba alla stazione, vicenda per la quale l’ex terrorista e Giusva Fioravanti si sono sempre dichiarati innocenti, ha anche sottolineato che "se esiste la Gozzini e se questa legge ha un senso (cioè recuperare i detenuti) è anche doveroso che il tribunale di sorveglianza decida di applicarla quando ci sono i requisiti".

Francesca Mambro, 50 anni il prossimo aprile, era dal 1998 in semilibertà e collaborava con l’associazione Nessuno Tocchi Caino. "Ogni tanto ci sentiamo - ha confidato Mancini - e ripeto: non trovo nulla di scandaloso nel provvedimento dei giudici di sorveglianza che hanno tenuto conto del periodo scontato in cella dalla Mambro e del buon percorso carcerario avuto".

Giustizia: Sappe; 11mila detenuti in più in 1 anno, allarmante

 

Ansa, 8 ottobre 2008

 

Carceri al collasso: i dati più recenti, diffusi dal Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe) e aggiornati al settembre di quest’anno, parlano di una popolazione carceraria di 56.768 unità, su una capienza regolamentare di circa 43 mila. Nell’ultimo anno, l’aumento è stato 11 mila detenuti. Un’emergenza che interessa tutte le regioni italiane, ma in particolare quelle del nord.

Alta la presenza di stranieri: sono 21.178, pari al 37% della popolazione carceraria. Le nazionalità più rappresentate sono romeni, marocchini, albanesi e tunisini, che insieme rappresentano il 60% degli stranieri nei penitenziari. I dati parlano di una situazione particolarmente critica nelle regioni del nord. La maglia nera va all’Emilia-Romagna, che ospita 3.919 detenuti, contro una capienza di 2.282 (+72%). Nel carcere bolognese della Dozza e in quello di Reggio Emilia, le presenze sono ben oltre il doppio della capienza.

Non stanno molto meglio il Piemonte, con 5.387 detenuti su 3.407 regolamentari (+58%), e la Lombardia, 8.295 presenze contro 5.383 previste (+53%). Ma a San Vittore, i reclusi (1.461) sono più del doppio delle presenze regolamentari (702). Anche al sud, comunque, i limiti previsti sono largamente superati. La Puglia sfora del 55% (3.976 detenuti contro una capienza di 2.556), la Campania del 34%, la Sicilia del 39.

Numeri che, secondo il consigliere del Sappe Aldo Di Giacomo, "offrono una panoramica sconcertante". Inoltre, solo 24.172 detenuti hanno una condanna definitiva. Tra gli altri, 16.171 sono in attesa di primo giudizio, 9.765 aspettano la sentenza d’appello, 3.419 quella di Cassazione.

Giustizia: Osapp; non diserteremo festa Polizia penitenziaria

 

Il Velino, 8 ottobre 2008

 

"L’Osapp parteciperà alla festa della Polizia penitenziaria in programma il prossimo 15 novembre. Parteciperemo come d’altra parte abbiamo sempre fatto: è nostra intenzione essere sempre in prima linea, come facciamo di solito nel pieno rispetto dei ruoli e delle responsabilità che ci assumiamo ogni giorno". Lo annuncia il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduci in risposta al Sappe che ha dichiarato ieri il proposito contrario in polemica con l’amministrazione penitenziaria, rea di aver scelto una location inadatta". "Ci saremo aspettati - prosegue - motivi più nobili, e più gravi allo stesso tempo, per una diserzione così clamorosa, soprattutto perché a dichiararlo è il sindacato più grande di tutta la categoria. A parte il fatto che la celebrazione ritorna dopo due anni nel luogo d’origine, pensiamo che non sia il caso e il momento di strumentalizzare un evento così importante, quale che sia la denuncia che si intende muovere".

"Abbiamo invece scelto - aggiunge Beneduci - tre motivi, tre simboli, che consideriamo determinanti per la nostra partecipazione e speriamo siano fondanti per una rinascita del Corpo di cui facciamo parte. Unitarietà, perché in questo particolare momento è necessario essere uniti, magari critici con chi ci governa ma comuni nell’intento. Solidarietà, perché la festa è sempre un momento di vicinanza con chi lotta ogni giorno in istituto. Riconoscimento, perché è quello che ci attendiamo da una Riforma che consideri una volta per tutte il ruolo del Poliziotto Penitenziario, anche e soprattutto alla stregua del nuovo impulso che potrà dare alla funzione rieducativa del carcere. Al ministro Alfano ribadiamo ancora una volta il nostro obiettivo, per essere protagonisti delle Riforme che questo Governo saprà mettere in campo. Ricordiamo come la Polizia Penitenziaria sia l’unica forza lavoro in grado di garantire nuovo slancio ad un istituzione in forte crisi di credibilità. Se la manifestazione - conclude il segretario generale dell’Osapp - può essere un giorno per testimoniare tutto questo, è bene che non si diserti il momento".

Lettere: la condanna all’ergastolo e la "perpetua alienazione"

 

Lettera alla Redazione, 8 ottobre 2008

 

In questi anni di prigionia mi è capitato spesso che persone con cui sono entrato in contatto -insegnanti nei corsi che frequento, sia uomini che donne conosciuti per via epistolare e talvolta anche compagni di detenzione- mi abbiano chiesto: "Cosa comporta la pena dell’ergastolo?".

Per una sorta di pudore a parlare di una condizione così intima e per la scarsa propensione ad essere commiserato, ho sempre scansato questa domanda ammantando le risposte di lugubre ironia.

E questo lato della mia personalità, ha fatto sì che quella risposta, fino a non tanto tempo fa fosse poco chiara anche a me stesso. Tutto questo fino a qualche anno fa, quando in seguito alla scomparsa di mio padre, in una lettera scritta da un amico, che vive la mia stessa condizione, trovai la risposta a quel quesito. Lettera che oggi, con l’augurio che serva ad indurre qualcuno alla riflessione su questa tematica, mi appresto a rendere pubblica.

"Carissimo Sebastiano, Ho ricevuto ieri la tua lettera con la funesta notizia della morte di tuo padre, il vecchio "Zio Bore" (Zio Salvatore). Credo potrai facilmente immaginare il dolore e la rabbia che quella notizia e i suoi risvolti - che ho appreso sempre dal tuo scritto - hanno provocato in me. Ho trovato a dir poco assurda la decisione del magistrato di concederti l’autorizzazione a poter rivedere tuo padre per l’ultima volta solo dopo che era morto - cosa che giustamente hai rifiutato di fare -.

Ormai, come ben sai, la nostra esistenza anche nei momenti più drammatici, è regolata dal "burocrate di turno" che avvalendosi del suo misero potere, si arroga il diritto, talvolta più per negligenza e disinteresse che per reale volontà di concederti o meno quel privilegio naturale che consiste nella presenza di un figlio al capezzale del proprio padre in quel fatidico momento.

Poco fa, da un’altra lettera giuntami stavolta dal paese, ho appreso un’ulteriore particolare sulla morte di tuo padre che, se possibile, me l’ha reso ancora più caro. Mi hanno scritto che Zio Bore è rimasto lucido fino alla fine, e che in quegli ultimi istanti di vita era evidente a tutti i presenti che i suoi occhi, tra tanti volti che lo attorniavano, ne cercava uno che non trovava: il tuo. Quello del figlio più amato".

Quel giorno, leggendo quelle righe, capii quale era la funzione primaria dell’ergastolo. Tutto si condensava in una sola parola: alienazione. Perpetua alienazione. Cioè la peggior condizione a cui può essere sottoposto un uomo. Dunque, compagni ergastolani, rialziamoci in piedi e riappropriamoci delle nostre esistenze. Insieme è possibile!

 

Sebastiano Prino

Per Gli Ergastolani in Lotta di Sulmona

Sicilia: Osapp; 6.500 detenuti, i numeri di una tragedia umana

 

Il Velino, 8 ottobre 2008

 

"Aver presente i numeri della tragedia umana che si sta compiendo è sempre utile, specie se a patire è una regione come quella siciliana". Lo afferma il segretario generale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria), Leo Beneduci. "Consideriamo la Sicilia emblema di una realtà nazionale, ma soprattutto meridionale, che anche sul fronte dei detenuti presenta i suoi drammi e le sue criticità, su cui ad oggi non mette le mani nessuno.

Allo stato attuale la popolazione carceraria italiana ha superato abbondantemente i 56 mila detenuti, in questa terra siamo a oltre 6.500 unità, quanto alla quota fissata dal Dipartimento per considerare la cosiddetta tollerabilità (6.970 detenuti) mancano meno di 500 reclusi. Ma c’è di peggio nella terra del ministro della Giustizia, il sovraffollamento - dice Beneduci -, oltre a creare quei disagi che denunciamo da tempo, ci presenta un quadro funesto dal punto di vista dei servizi che il sistema stesso può ancora offrire. Se si guarda solo al servizio traduzioni, quel sistema cioè che permette l’accompagnamento del detenuto in aula e per esigenze d’ufficio, nel 1997 qui i Nuclei Operativi avevano un organico di 893 unità, oggi questo stesso organico è sceso a circa 600 unità".

"Come in tutte le altre parti d’Italia - continua l’Osapp - siamo tornati ai numeri del pre-indulto, sono aumentati i detenuti e sono vertiginosamente aumentati i servizi, qui per esempio sono cresciuti i compiti di tutela e scorte. Ma mancano i mezzi e gli uomini. A Palermo per esempio attualmente sono impegnate solo 50 unità, e i mezzi per il trasferimento dei detenuti hanno subito una forte ridimensionamento: la sostituzione che ci era stata promessa dei 70 furgoni fuori uso, è stata effettuata solo parzialmente con 10 nuove assegnazioni.

Per il resto, in tutta la regione si continua a viaggiare con mezzi di trasporto non idonei, per il più delle volte sono vecchi pulmini da 15 o da 50 posti, che per la maggior parte dei casi si rivelano fuori uso e per questo l’Amministrazione è costretta ad utilizzare furgoni ordinari, non blindati, posti sotto scorta. Ora, se la situazione descritta sembra ai più non essere poi così drammatica, prospettiamo soltanto l’idea, in una terra particolare come quella siciliana, che certi processi possano corre il rischio di non essere celebrati, o solamente rinviati, perché qualche detenuto non arriva a udienza. In una fase questa caratterizzata da un’attenzione mediatica che si concentra soprattutto sul problema della sicurezza, e su un ministro dell’Interno che festeggia, insieme al titolare della Giustizia, gli arresti eccellenti degli ultimi giorni in Campania, confidiamo che anche certe nostre vicende non siano sacrificate come questioni marginali o di poco conto dal punto di vista dell’effetto che possono suscitare. Confidiamo che qualcuno si ridesti e ci faccia sapere da che parte sta, anche perché al buon sonno c’è sempre tempo".

Campania: Osapp; le carceri senza distinzioni del trattamento

 

Il Velino, 8 ottobre 2008

 

"Il carcere non è una pattumiera! A tutt’oggi negli istituti di pena non esiste distinzione di trattamento, e il caso Napoli è senz’altro emblematico dell’allarme che vogliamo lanciare". Lo dichiara il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduci alla luce dei recenti arresti in Campania. "Da quanto apprendiamo dalla cronaca, gli esponenti dei Casalesi e i tifosi del Napoli arrestati ultimamente - aggiunge - sarebbero coinvolti anche negli scontri con le forze dell’ordine nell’ambito delle proteste per i rifiuti.

Non sta a noi anticipare gli esiti delle indagini, ma se solo esiste un pericolo di commistione camorristica, tra i protagonisti del tifo napoletano e gli affiliati, è bene che si consideri la possibilità di un trattamento distinto all’interno degli istituti che li ospitano. Se tanto mi dà tanto - sottolinea Beneduci -, è presumibile che certi esponenti delle tifoserie coinvolte debbano sottostare a determinate logiche all’interno dei circuiti della delinquenza".

"Come è desumibile, da quello che leggiamo sulla cronaca quotidiana, che la composizione dei gruppi di supporter - afferma Beneduci - rispecchi spesso le gerarchie dei clan che orbitano in determinate zone della città. Queste considerazioni devono imporre una accurata riflessione sulla presenza dei soggetti, quelli considerati più innocui, all’interno di istituti che già afflitti da carenze logistico-strutturali (che l’Osapp ebbe a segnalare a suo tempo) non possono fronteggiare l’ennesima emergenza. Il problema della promiscuità - prosegue - non viene minimamente affrontato nelle realtà cosiddette a rischio limitato, figuriamoci in una regione come la Campania, o in istituti come quelli di Napoli dove la probabilità che si determini un effetto boomerang dell’ondata di arresti è più alto".

"Invitiamo il ministro Alfano e il dottor Ionta - conclude Beneduci - a riflettere sulla circostanza, non poco inquietante, che il fenomeno pone rispetto alle esigenze di separazione dei coimputati imposte dal codice di procedura penale. Ci troviamo di fronte a una realtà tutta nuova che seppur non interamente giustificabile con l’inserimento dei fermati nel circuito ad Alta sicurezza, riservato appunto ai mafiosi, impone le stesse cautele. Una considerazione la nostra che obbliga comunque l’intero apparato carcerario a una riflessione generale".

Lazio: 635mila € ai Comuni, per il reinserimento dei detenuti

 

Adnkronos, 8 ottobre 2008

 

"La possibilità di risocializzazione dipende anche dalla qualità della detenzione. Il carcere rischia di diventare un contenitore di disagi che portano al suicidio invece che rappresentare l’occasione di un tempo di riscatto". Lo ha dichiarato Anna Coppotelli, assessore alle politiche sociali della regione Lazio, in relazione all’assegnazione di un milione e 635 mila euro per il triennio 2008-2010 ai comuni sede di istituti di prevenzione e pena: un contributo all’attuazione di interventi volti alla risocializzazione dei detenuti e degli ex detenuti "che non può prescindere dalla qualità della detenzione".

"La detenzione - ha precisato l’assessore - non può essere la semplice custodia del detenuto, ma deve rappresentare l’occasione di un tempo di riscatto, di un tempo di riappropriazione della comprensione di sé e della propria responsabilità sociale". "L’aumento delle morti all’interno delle 15 carceri del Lazio, come ha denunciato Angiolo Marroni, il garante regionale dei diritti dei detenuti, è un dato allarmate - ha sottolineato Anna Coppotelli - che deve far riflettere sul carico di malessere delle persone che ci vivono e ci lavorano".

L’assessore è convinto che la possibilità di risocializzazione dipenda anche dalla qualità della detenzione, in quanto "le privazioni che si vivono in carcere, possono produrre anche danni psichici e relazionali che possono portare al suicidio oppure rendere alla società soggetti con forti squilibri e disadattamenti". L’assessore Coppotelli ritiene che la salute mentale in carcere debba essere considerata "una questione fondamentale per chiunque si occupi, a qualsiasi titolo, di esecuzione della pena e di reinserimento sociale".

"Il disagio psichico - ha aggiunto - spesso non è preesistente alla reclusione e il rischio che si corre è che la frustrazione e la delusione che può derivare dalla mancanza di prospettive per il futuro conduca la persona detenuta a identificarsi in un modello negativo incapace di inserimento legale e sociale". "Dare una speranza di miglioramento ai detenuti in carcere - ha concluso Coppotelli - non significa credere ingenuamente che ognuno di loro possa essere recuperato o anche solo interessato alle opportunità di reinserimento consapevole, ma riconoscere la pari dignità di ciascun essere umano".

Opera: il direttore; più attività non vuol dire meno sicurezza

di Alessandro Litta Modignani

 

L’Opinione, 8 ottobre 2008

 

Giacinto Siciliano, 41 anni, è da un anno alla guida del carcere di Opera, periferia Sud di Milano, considerato "il più grande d’Europa".

 

È proprio così?

Per la precisione, siamo i più grandi in Italia per numero di detenuti con condanna definitiva. Se si considera la capienza in sé, certo Poggioreale e Rebibbia hanno un numero di reclusi superiore. Però si tratta di imputati in attesa di giudizio.

 

Ci presenti Opera in cifre…

Attualmente abbiamo circa 1.300 detenuti, con una capienza massima di 1.500. I comuni sono 600, di cui 100 con un fine pena breve. A questi vanno aggiunti i semi-liberi, che sono 45, in un reparto che ne può ospitare fino a 150. Sul fronte "difficile", invece, i protetti (per reati sessuali o ex collaboratori) sono 150, quelli in alta sicurezza 250, quelli sottoposti al 41bis 60. Poi abbiamo il Centro diagnostico terapeutico, con 90 ricoverati e doppia guardia medica 24 ore su 24. A Opera abbiamo circa 300 detenuti con patologie importanti, provenienti da tutta Italia, di cui 40 sieropositivi. Infine ci sono 5 collaboratori di giustizia.

 

E sul fronte del personale?

Sulla carta abbiamo 750 agenti, ma in realtà sono 600. Gli educatori sono 6, più 6 agenti di rete. Se contiamo tutti gli operatori civili, i volontari e il personale medico, arriviamo a una popolazione di circa 1000 persone, per 1300 detenuti. Una buona proporzione.

 

Proprio nei giorni scorsi avete presentato due nuove attività: a Opera si lavora dunque?

Certo. Avere una popolazione con un fine pena lungo, consente di programmare le attività produttive. Qui abbiamo una serra per fiori e frutta e - da poco - anche una produzione di uova di quaglia e una gelateria, la prima in Italia, dove lavorano reclusi ad alta sicurezza. Poi abbiamo attività teatrali, musicali, scolastiche, di smontaggio e smaltimento di elettrodomestici usati, di assemblaggio di elettrodomestici nuovi. Abbiamo un forno per il pane, attività sportive e di fisioterapia. In totale vi partecipano 650 reclusi, cioè il 60% del totale. Un risultato di tutto rispetto.

 

Nonostante una popolazione carceraria con reati gravi...

Bisogna sfatare il mito "più attività, meno sicurezza": assolutamente non è così. Anche qui si lavora, sia pure con qualche cautela in più. Anzi noi vogliamo sempre più qualificarci, nei prossimi anni, come un carcere in cui si svolgono attività produttive. In tutta tranquillità, ovviamente.

 

Quale è stato l’impatto dell’indulto?

Qui ha inciso meno che altrove, per evidenti ragioni. La popolazione con lunghe condanne era meno toccata dal provvedimento. A molti ha ridotto di tre anni i tempi della pena residua.

 

Ora però la vasca torna inesorabilmente a riempirsi...

Era inevitabile che fosse così, in mancanza di misure strutturali e di lungo periodo. Da noi questo riempimento avviene più lentamente, per la stessa ragione.

 

Come giudica, dal suo punto di osservazione, lo stato della giustizia penale?

Non tengo particolarmente a esprimere giudizi. Noi siamo chiamati ad applicare le norme nel modo migliore, non a discuterle. Posso dire che il carcere, in generale, riflette le lentezze e le inefficienze del sistema. Non risolve i problemi altrui. Dunque non serve costruire dieci nuove carceri, se non si fa nulla per prevenire i reati e le recidive. E in ogni caso occorre organizzare le attività, preparare il reinserimento, reperire il personale. Altrimenti il carcere non serve a nulla.

 

Quali sono le criticità di Opera?

A volte manca l’acqua calda, per cui i reparti devono fare la doccia a turno. È un problema strutturale dell’edificio, che si trascina dalla costruzione e che speriamo di risolvere a breve. Non dimentichiamo che questo complesso era stato concepito per 700 reclusi. Per il resto, ce la caviamo con le nostre forze. Abbiamo imbiancato senza chiedere un euro, grazie alla generosità di alcuni sponsor.

 

Come sono i rapporti con il neo-sindaco leghista di Opera, Ettore Fusco?

Buoni. Ci ha aiutato per i progetti che riguardano gli agenti, l’apertura del centro estivo ai loro familiari, la vendita dei nostri prodotti. Qui abbiamo un ottimo volontariato, perché lo spazio esterno non manca e il privato sociale può operare adeguatamente. Semmai manca lo spazio interno, che per alcune tipologie di detenuti non è un problema da poco.

 

Prima di venire qui, quali sono state le sue esperienze?

Sono stato a Monza, a Trani e infine a Sulmona, dal 2003 all’anno scorso.

 

Quest’ultimo è diventato tristemente famoso come il carcere dei suicidi...

Guardi, i primi due anni sono stati i peggiori della mia vita, ma non mi va di parlarne.

 

Ci provi, la prego…

I mezzi di comunicazione hanno avuto responsabilità enormi. Il suicidio del direttore prima e del sindaco di Roccaraso poi, hanno contribuito a creare un’immagine assolutamente distorta. A Teramo, non lontano, c’erano gli stessi suicidi che a Sulmona, però non facevano notizia. Una volta un detenuto ha tentato di impiccarsi due ore dopo l’arrivo. Lo abbiamo salvato e ci ha confessato che aveva chiesto il trasferimento lì, perché così il suo suicidio... avrebbe fatto scalpore, mentre altrove non se lo filava nessuno. Sono stato a Sulmona quattro anni e mi conforta di avere lasciato una situazione stabilizzata. Ma il biennio 2003-2005 per me è stato un vero incubo.

Verona: il direttore; in cella più gli emarginati che i delinquenti

di Chiara Bazzanella

 

Dnews, 8 ottobre 2008

 

Delle circa 785 persone rinchiuse nel carcere di Verona, 245, secondo dati di fine settembre, devono scontare residui di pena che non superano i due anni e potrebbero quindi usufruire di misure alternative alla detenzione.

Spiega il direttore del carcere Salvatore Erminio: "Le misure alternative vanno date a chi le merita e non solo per decongestionare il carcere. Bisognerebbe piuttosto pensare a delle pene diverse da quella detentiva. Il carcere non può diventare la discarica della società, dove ci sono sempre più emarginati che delinquenti. Tutti i detenuti ci chiedono lavoro, ma noi non siamo un’agenzia interinale. Alcuni arrivano in condizioni pessime e si fatica a capire come possano essere dalla parte dei colpevoli e molti quando arrivano non hanno altro di quello che indossano. Accade persino che qualcuno, al momento della scarcerazione, chieda di non uscire perché non sa come cavarsela fuori".

A questo proposito il comandante della polizia penitenziaria, Paolo Presti, racconta di un detenuto straniero che aveva chiesto udienza per un lavoro in carcere, nonostante sarebbe uscito di lì a due mesi: "La sua richiesta - spiega - era dovuta al fatto che non aveva neanche un euro per quando sarebbe stato fuori". Conclude il direttore: "Noi continueremo a detenere chi la legge stabilisce debba essere detenuto. Finché ci sarà possibile, dato che prevediamo che Montorio toccherà il tetto massimo di tollerabilità entro la fine dell’anno".

Dei giorni scorsi la notizia che le procedure per il centro d’ascolto all’esterno del carcere, atteso da molti anni, dovrebbero essere finalmente in via di accelerazione. La partenza forse già nei primi mesi del 2009. La Casa Circondariale è stata progettata per contenere 564 persone, anche se la capienza tollerabile si aggira sulle 876 unità. Al momento in 180 sono dentro per condanne inferiori o pari a due anni e all’incirca il 30 per cento per periodi brevissimi, senza che poi venga applicata la misura cautelare da parte del giudice.

Un dato che non può essere preciso, per il continuo turnover di detenuti cui si assiste a Montorio, ma che si allinea sulla media comunicata di recente dal Dap, secondo cui "dei circa 90 mila ingressi dalla libertà avvenuti nel 2007 in tutta Italia, ben 29 mila (32 per cento) sono stati seguiti da scarcerazione entro tre giorni, attivando una macchina organizzativa enorme e costosa".

Conclude Paolo Presti: "Quando si parla di certezza della pena, bisogna avere chiaro che la pena è certa se viene applicata immediatamente. Maggiore rapidità nel sistema giudiziario garantirebbe una maggiore applicazione della legge".

Napoli: consigliere An in carcere riceve visita membri partito

di Conchita Sannino

 

La Repubblica, 8 ottobre 2008

 

Missione Secondigliano. Discreta, quasi imbarazzata: eppure di gruppo. Il quartier generale di Alleanza Nazionale bussa intorno alle 10, al carcere della periferia nord, dove da 48 ore è rinchiuso Marco Nonno. Lui, il consigliere comunale di An, 40 anni, già figlio scapestrato di una nota famiglia dell’allora Msi del Mezzogiorno d’Italia (un fratello responsabile dell’omicidio di Claudio Miccoli), è in cella con l’accusa di devastazione, ed è ritenuto il "regista sul campo" di scontri, violenze e disordini che infiammarono la periferia nord, nel cupo gennaio napoletano del 2008.

Vanno a fargli visita il deputato Marcello Taglialatela, il capogruppo di An in Regione Enzo Rivellini, i consiglieri comunali Carlo Lamura e Luciano Schifone, e il vicepresidente del consiglio regionale, nonché ex esponente di An, Salvatore Ronghi. Stringono la mano a un vecchio compagno, personaggio al centro di infinite diatribe interne al partito. Nonno è stato protagonista di una lunga e velenosa battaglia che, ancora oggi, lo oppone al suo (un tempo, amico) Pietro Diodato, consigliere regionale di An. Una guerra politico-elettorale tutta combattuta su Pianura, a colpi di denunce, querele, controquerele. Ma stavolta è la giustizia, non un vertice di partito, ad accusarlo di "gravi condotte". E tuttavia, quello che saluta e fa ciao ai suoi amici onorevoli, dalla cella, apparentemente sicuro e sfrontato, è un Nonno che dice poche parole. Decise. "Tranquilli. Io da qui esco presto. E l’altro, l’assessore Nugnes, non sta già ai domiciliari? Comunque va bene. Sapete, qui dentro ho tanto tempo da riempire. Lo uso per pensare".

In cinque, lo rassicurano, umana vicinanza. Una missione quasi impossibile, la loro: da un lato portare solidarietà al "camerata" affezionato al saluto fascista nonché portatore assiduo di voti sul territorio; dall’altro eseguire le indicazioni del partito da Roma che invitano a liquidare la difesa a oltranza di "chi soffia sul malcontento delle discariche, peraltro con metodi violenti, ostacolando il lavoro del sottosegretario Bertolaso"; e, infine, resistere all’onda di disagio che monta dal cuore del centrodestra di governo. Proprio sull’uscio di quel penitenziario, prima che cominci la visita a Nonno e agli altri detenuti, un commento fotografa con lucidità la stangata che il blitz sui disordini di Pianura ha inferto anche al Pdl campano. "Ormai siamo tutti commissariati nei confini della regione: centrosinistra, ma anche centrodestra. Da Roma? Ci schivano".

Il gruppo di politici sfila lungo il padiglione "Adriatico". Li accompagnano almeno sette agenti della penitenziaria e il direttore Liberato Guerriero. Singolare l’altro siparietto con Nonno. Il detenuto riconosce tutti tranne il direttore: "E lei chi è, si qualifichi". Guerriero: "Veramente sarei il direttore". Nonno: "Ah, scusi. Comunque lo gestite benino". In cella con lui, un pregiudicato per furto. Rivellini prende appunti dopo lo scambio con una dozzina di detenuti. "Non siamo venuti solo per Marco, la situazione di Secondigliano è di quasi saturazione, ce ne siamo spesso occupati", rivendica il capogruppo. E aggiunge: "Ci sono tagli ai fondi del pronto soccorso interno, i posti per 1200 detenuti sono tutti occupati ormai, chiedono garanzie e diritti anche gli operatori del sociale, i formatori. Senza contare che su 12 corsi interni inizialmente previsti, la Regione ne finanzia solo 2".

Salvatore Ronghi, vicepresidente del Consiglio regionale, prima nelle fila di An, oggi con Mpa, va dritto al caso Nonno: "Ho visto crescere nella mia ex comunità politica che, per me, resta comunità umana, Marco Nonno e ho voluto dirgli che può contare su di me. Non volto le spalle a un amico in difficoltà. Sulla vicenda giudiziaria, l’ho trovato sereno e fiducioso nella magistratura. Certo: va condannata ogni azione di violenza, ma nessuno può negare la forte esasperazione della gente rispetto al problema rifiuti e alla mancanza di punti di riferimento nelle istituzioni locali. Non a caso fui tra coloro che condannarono le devastazioni, ma giustificai le proteste sociali dei cittadini che, ancora oggi, aspettano giustizia, chiedono chiarezza sui veleni sversati, sulla mancata bonifica". Attenuata, la visione del consigliere Lamura. "Siamo stati a visitare il sistema carcerario Secondigliano. E, ovvio, abbiamo incrociato il collega Marco Nonno: mi è sembrato piuttosto provato ma altrettanto tranquillo". Alle 13 sono fuori, missione quasi riuscita.

Bologna: la Franzoni non può avere la detenzione domiciliare

 

Ansa, 8 ottobre 2008

 

Resta in carcere Annamaria Franzoni, condannata per l’uccisione il 30 gennaio del 2002 del figlio di tre anni, Samuele. Il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna ha detto no alla sua richiesta di detenzione domiciliare per crescere i bambini.

Non ci sono i presupposti, ha deciso il giudice Francesco Maisto, perché possano essere accolte le richieste della mamma di Cogne di una detenzione domiciliare speciale o del differimento pena. Le istanze della Franzoni, infatti, rientrano nei limiti ostativi dell’articolo (4 bis) dell’ordinamento penitenziario che prevede il divieto di concessione dei benefici ai condannati per taluni delitti.

Anna Maria Franzoni sta scontando nel carcere della Dozza di Bologna la condanna a 16 anni, ridotti a 13 per effetto dell’indulto. Rischia dunque di non produrre effetti l’indagine avviata dal giudice del tribunale di sorveglianza Riccardo Rossi per valutare l’accoglimento delle richieste avanzate dai legali della Franzoni. Rossi aveva disposto una perizia iniziata il 10 settembre scorso quando Annamaria Franzoni aveva incontrato in carcere i periti incaricati: lo psichiatra Renato Ariatti e il neuropsichiatra infantile Giovanni Battista Camerini. All’incontro aveva partecipato anche il neuropsichiatra Lodovico Perulli di Venezia, perito di parte nominato dalla Franzoni. Si era trattato però solo di un incontro per fissare un calendario degli appuntamenti futuri.

I due esperti, secondo quanto era stato deciso, avrebbero dovuto incontrare di nuovo la donna e anche i bambini per stabilire le condizioni psicologiche e la capacità genitoriale della Franzoni e la situazione psicologica dei bimbi che il 21 maggio hanno dovuto separarsi dalla madre, rinchiusa in carcere dopo la definitiva condanna della Cassazione. Il giudice aveva assegnato 60 giorni ai consulenti per depositare le loro conclusioni. È controverso, a questo punto, se la dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi presentati dalla Franzoni fermi tutto, oppure no.

Secondo l’avvocato Paola Savio, difensore della donna, il provvedimento di inammissibilità riguarda le misure alternative alla detenzione; per quanto invece riguarda gli istituti di competenza del carcere e del magistrato di sorveglianza, come ad esempio i permessi o la possibilità di vedere i figli, questi risultano tuttora pendenti. Non si spengono dunque i riflettori sulla mamma di Cogne che dall’inizio della sua tragica vicenda è stata sempre al centro di polemiche. Ultime in ordine di tempo le, secondo alcuni, frequenti visite concesse ai suoi familiari dopo il suo ingresso in carcere il 21 maggio scorso. Ad autorizzarle lo stesso giudice Rossi che aveva disposto la perizia psicologica sulla detenuta e in passato è stato ammonito dal Csm per violazione del dovere professionale nella concessione di benefici ai detenuti.

È sempre di oggi la notizia dei motivi per cui il giudice condannò il 12 marzo scorso Annamaria Franzoni a tre mesi di carcere per diffamazione del procuratore di Aosta Maria Del Savio. Il fatto è stato giudicato grave dal tribunale per il contesto prescelto dalla Franzoni per l’esternazione, la trasmissione Porta a Porta, novembre 2004, "avente massima potenzialità diffusiva".

Napoli: Servizio Accoglienza per Minori a rischio di chiusura

 

Vita, 8 ottobre 2008

 

Drammatico appello della Federazione Sam - Servizio Accoglienza Minori: sospenderemo i servizi per i minori a partire dal 10 ottobre. Signori, si chiude. È questo il drammatico, ennesimo appello lanciato dalla federazione Sam di Napoli, coordinamento di un settore che conta in Campania 330 strutture di accoglienza residenziale per minori e accoglie ogni anno circa 1.500 minori, di cui 500 provenienti dal Comune di Napoli, su disposizione dell’Autorità Giudiziaria e che conta circa 3.000 addetti.

Motivo della grave decisione - sospensione dei servizi per i minori a partire dal 10 ottobre - "la gravissima situazione in cui versa il settore", che costringe gli operatori a non poter "provvedere alle quotidiane necessità dei minori accolti: mancanza di tutela del lavoro svolto, mancanza di convenzioni con gli enti affidatari dei minori, rette inadeguate ai reali costi sostenuti, insolvenza cronica da parte degli enti clienti, nessuna regolarità contributiva, scarsi sistemi creditizi, nessuna programmazione credibile delle politiche sociali".

"Questi sono i tempi dell’indifferenza e dell’egoismo", scrive la Federazione, "in cui la classe politica è incapace di risolvere e di programmare e soprattutto di tenere fede agli impegni! Ci piacerebbe credere che questa martoriata regione e i suoi territori possano raggiungere una qualità di vita e una dignità sociale almeno pari a quelle di altre regioni italiane, ma purtroppo siamo consapevoli che deve cambiare l’etica politica per potere cambiare in meglio questa società.

Noi continuiamo a credere che si possa cambiare e non tolleriamo chi pensa che l’attuale stato di cose sia ineluttabile, ancora di più se a pensarlo sono gli amministratori di questa città e di questa regione. Alla luce delle premesse fatte e coerenti con ciò in cui crediamo, stanchi di essere trattati come qualcosa di fastidioso, stanchi di vedere continuamente calpestata la nostra dignità, stanchi dei tanti tradimenti alle promesse fatte e alle parole date, stanchi di elemosinare da anni quello che ci spetta di diritto, stanchi delle offese alla dignità e alla tutela dei tanti bambini e giovani ospiti delle nostre strutture, stanchi di assistere al deterioramento progressivo delle politiche sociali, stanchi della precarietà e dell’indifferenza, siamo costretti, ancora una volta, ad annunciare la sospensione dei servizi erogati dalle strutture residenziali, al Comune di Napoli e a tutti i comuni insolventi della regione, a partire dal 10.10.2008 e a chiedere ai Servizi competenti di provvedere, entro il 15.11.2008, al collocamento dei minori presso altre strutture".

La Federazione Sam ha inoltre promosso le seguenti iniziative: messa in mora dei comuni insolventi e azione di decreto ingiuntivo; azioni di accertamento delle responsabilità civili, amministrative e penali; interrogazione sull’utilizzo dei fondi 2007 e 2008 a essa destinati; invito all’amministrazione comunale napoletana, "che a distanza di un anno perpetra gli stessi errori con la stessa strafottenza facendo ripiombare le comunità nel baratro della chiusura, a dimettersi!".

"Continueremo a sperare che in questo lasso di tempo possa cambiare qualcosa", conclude la Sam, "affinché non si arrivi alla sospensione dei servizi, soluzione che non vorremmo mai adottare, e che si trovino le soluzioni che garantiscano: puntualità dei pagamenti; saldo degli insoluti; convenzioni; adeguamento delle rette ai reali costi. Speriamo che, una volta e per sempre, si comprenda che il settore dell’accoglienza residenziale dei minori non può e non deve cessare la propria funzione, altrimenti si perderebbe una concreta risorsa professionale e culturale, che in questi anni ha svolto un ruolo di supplenza delle istituzioni, contribuendo in modo reale alla crescita complessiva delle politiche sociali della nostra città e della nostra regione. Se ciò avvenisse, scivoleremmo in un’epoca buia e di nuova barbarie".

 

La Federazione Sam invita il Sindaco di Napoli e la sua giunta a dimettersi!

 

Veniamo da lontano, dall’impegno sociale e dalle battaglie per i diritti, dai tentativi volenterosi e dai percorsi di eccellenza. Rappresentiamo un settore che in Campania conta 330 strutture di accoglienza residenziale per minori, servizi complementari a una strategia generale di accompagnamento alle famiglie; che accoglie ogni anno circa 1.500 minori, di cui 500 provenienti dal Comune di Napoli, su disposizione dell’Autorità Giudiziaria; che conta circa 3.000 addetti.

Abbiamo profuso impegno e professionalità nell’accoglienza di minori maltrattati, abusati, abbandonati, sottratti alla criminalità, in situazioni di grave difficoltà e a rischio di devianza. Abbiamo creato percorsi di prevenzione, di sicurezza e di legalità.

Abbiamo fatto della solidarietà la nostra bandiera, credendo che una società evoluta debba mettere al centro della propria crescita non il capitale economico bensì il capitale sociale, che è frutto della solidarietà intesa come solidum e non come assistenzialismo.

Abbiamo creato e gestito servizi indispensabili in questa regione; abbiamo dato una speranza a chi non ne aveva più; abbiamo costruito percorsi alla dignità, all’autostima, al reinserimento sociale, alla formazione e al lavoro di migliaia di giovani ospiti delle nostre comunità. Abbiamo visto la riuscita dei nostri progetti e quelli di tanti minori ma anche le brucianti sconfitte; siamo andati avanti con impegno e sacrificio e con la passione che ci contraddistingue.

Abbiamo creato imprese e posti di lavoro, competenze e professionalità. Abbiamo ridotto la spesa sociale perché i nostri costi sono almeno il 50% di quelli pubblici. Abbiamo creduto nelle istituzioni e con queste abbiamo collaborato nel tentativo di migliorare le politiche sociali del territorio e la qualità dell’accoglienza, di combattere le difficoltà, la sfortuna e l’ingiusta condizione in cui tanti bambini e bambine si sono trovati a vivere.

Ci siamo impegnati credendo che fosse giusto così; che i sevizi sociali andavano migliorati e le sofferenze alleviate; che la politica dovesse essere soprattutto al servizio degli emarginati, degli abbandonati, di chi viveva sulla propria pelle il peso di una società e di una condizione discriminante. Ma questi sono i tempi dell’indifferenza e dell’egoismo, in cui la classe politica è incapace di risolvere e di programmare e soprattutto di tenere fede agli impegni!

Ci piacerebbe credere che questa martoriata regione e i suoi territori possano raggiungere una qualità di vita e una dignità sociale almeno pari a quelle di altre regioni italiane, ma purtroppo siamo consapevoli che deve cambiare l’etica politica per potere cambiare in meglio questa società.

Noi continuiamo a credere che si possa cambiare e non tolleriamo chi pensa che l’attuale stato di cose sia ineluttabile, ancora di più se a pensarlo sono gli amministratori di questa città e di questa regione. Alla luce delle premesse fatte e coerenti con ciò in cui crediamo, stanchi di essere trattati come qualcosa di fastidioso, stanchi di vedere continuamente calpestata la nostra dignità, stanchi dei tanti tradimenti alle promesse fatte e alle parole date, stanchi di elemosinare da anni quello che ci spetta di diritto, stanchi delle offese alla dignità e alla tutela dei tanti bambini e giovani ospiti delle nostre strutture, stanchi di assistere al deterioramento progressivo delle politiche sociali, stanchi della precarietà e dell’indifferenza, siamo costretti, ancora una volta, ad annunciare la sospensione dei servizi erogati dalle strutture residenziali, al Comune di Napoli e a tutti i comuni insolventi della regione, a partire dal 10.10.2008 e a chiedere ai Servizi competenti di provvedere, entro il 15.11.2008, al collocamento dei minori presso altre strutture.

Tale decisione è maturata in seguito alla gravissima situazione in cui versa il settore, che ci costringe all’impossibilità di provvedere alle quotidiane necessità dei minori accolti: mancanza di tutela del lavoro svolto, mancanza di convenzioni con gli enti affidatari dei minori, rette inadeguate ai reali costi sostenuti, insolvenza cronica da parte degli enti clienti, nessuna regolarità contributiva, scarsi sistemi creditizi, nessuna programmazione credibile delle politiche sociali.

La Federazione Sam ha inoltre promosso le seguenti iniziative:

1) Messa in mora dei comuni insolventi e azione di decreto ingiuntivo;

2) Azioni di accertamento delle responsabilità civili, amministrative e penali;

3) Interrogazione sull’utilizzo dei fondi 2007 e 2008 a noi destinati.

4) Invito all’amministrazione comunale napoletana, che a distanza di un anno perpetra gli stessi errori con la stessa strafottenza facendo ripiombare le comunità nel baratro della chiusura, a dimettersi!

Continueremo a sperare che in questo lasso di tempo possa cambiare qualcosa, affinché non si arrivi alla sospensione dei servizi, soluzione che non vorremmo mai adottare, e che si trovino le soluzioni che garantiscano: 1) puntualità dei pagamenti; 2) saldo degli insoluti; 3) convenzioni; 4) adeguamento delle rette ai reali costi.

Speriamo che, una volta e per sempre, si comprenda che il settore dell’accoglienza residenziale dei minori non può e non deve cessare la propria funzione, altrimenti si perderebbe una concreta risorsa professionale e culturale, che in questi anni ha svolto un ruolo di supplenza delle istituzioni, contribuendo in modo reale alla crescita complessiva delle politiche sociali della nostra città e della nostra regione. Se ciò avvenisse, scivoleremmo in un’epoca buia e di nuova barbarie.

Palermo: il Comune non paga, Centro antiviolenza senza fondi

 

Redattore Sociale - Dire, 8 ottobre 2008

 

Dall’inizio dell’anno il comune non eroga i finanziamenti al Centro "Le Onde" che da 16 anni accoglie e assiste donne e minori vittime di violenza. Nulla è cambiato dal primo appello. 15 gli operatori senza stipendio.

Il centro antiviolenza "Le Onde" di Palermo sospende i ricoveri di donne e minorenni vittime di violenza e riduce le giornate di apertura per mancanza di fondi. Il centro, attivo da 16 anni, solo l’anno scorso ha accolto e ospitato 243 donne con i loro figli. "Da gennaio di quest’anno - spiegano i responsabili - il comune non ha erogato il pagamento delle rette determinando una sovraesposizione economica che non è più possibile sostenere".

"Proprio per superare le difficoltà di bilancio - riferisce l’assessore alle Attività sociali Giampiero Cannella - abbiamo inserito il finanziamento nel Piano di zona ma tale piano ha una procedura di approvazione complessa, comprende il sì dei singoli comuni che ne fanno parte e l’approvazione dell’assessorato regionale alla Famiglia". Intanto sono quindici gli operatori rimasti senza stipendio. Attualmente i due "rifugi" ospitano due donne e quattro bambini nella sede "Maia" e cinque donne e cinque bambini alle "Moire". Si tratta di appartamenti dal recapito segreto dove le donne insieme ai loro figli ricevono cure e assistenza, psicologica e legale.

A distanza di otto mesi da quando era stato già lanciato il primo appello non è cambiato niente. "Non intendiamo chiudere un centro che svolge un importante servizio a tutta la cittadinanza anche se non abbiamo ricevuto finora risposte dall’assessore - riferiva Mara Cortimiglia, responsabile dell’Attività di accoglienza del centro nel febbraio di quest’anno - . Ci sembra grave che possa venir meno un servizio così importante che viene svolto nei confronti di quelle donne che aiutiamo a ricostruire la loro vita. Rimaniamo in attesa che qualcosa si muova. La nostra proposta è che ci sia una programmazione seria rispetto a servizi che vengono offerti in questo settore".

Il centro di ascolto e accoglienza è nato nel ‘92 e dal 1997 l’associazione gestisce "La Casa delle Moire", un appartamento a indirizzo segreto per l’accoglienza di donne e bambini costrette ad allontanarsi da casa per problemi di sicurezza. Il servizio di assistenza e di accoglienza temporanea è esteso anche alle donne immigrate. All’interno del centro lavorano 15 operatrici, 6 volontari e tre tirocinanti. Dal 1992 ad oggi sono state seguite più di 4.000 donne, con un percorso che parte dall’accoglienza telefonica della domanda, si sviluppa nei colloqui, si arricchisce delle consulenze psicologiche e legali e si struttura in progetti individuali di vita, definiti in rete con i servizi sociali del territorio.

Benevento: corso sul volontariato e la giustizia penale minorile

 

Asca, 8 ottobre 2008

 

L’iniziativa è del Centro Servizi per il Volontariato Cantieri di Gratuità e si svolgerà dal 16 ottobre all’8 novembre in collaborazione con l’Istituto Penale per minorenni di Airola.

Il Centro Servizi per il Volontariato "Cantieri di Gratuità" promuove un percorso formativo sulla rieducazione penale minorile, dal titolo "Marginalità sociale e detenzione: il ruolo del volontariato". L’iniziativa formativa, che si svolgerà dal 16 ottobre all’8 novembre presso la sala formazione del Cesvob al Viale Mellusi n° 68 di Benevento, è realizzata in collaborazione con l’Istituto Penale per minorenni di Airola.

Il percorso è rivolto a volontari che intendono impegnarsi in questo ambito d’intervento e a cittadini interessati a svolgere attività di volontariato dentro e fuori la struttura penale per minori.

Tra gli obiettivi dell’attività proposta si segnalano: promuovere sul territorio un coinvolgimento attivo dei volontari nei confronti della realtà carceraria; fornire ai volontari gli strumenti conoscitivi ed operativi, le competenze e le metodologie utili a progettare, sviluppare e gestire interventi di sostegno ed integrazione dei minori detenuti.

Molto prestigiosi i relatori previsti per i vari moduli. Tra gli altri, interverranno: il dott. Francesco Nicola Santoro, Questore di Benevento; la dott.ssa Mariangela Cirigliano, Direttore dell’istituto penale per minorenni di Airola; la prof.ssa Patrizia Patrizi, docente di Psicologia Sociale dell’Università di Sassari; don Ettore Cannavera, pedagogista e cappellano dell’Istituto penale minorile di Quartucciu (Cagliari).

Il percorso è a numero chiuso (max 30 partecipanti). La domanda di partecipazione deve essere redatta su apposito modello da ritirare al Cesvob o scaricabile dal sito internet www.cesvob.it. Se le domande di iscrizione supereranno il numero massimo di 30, si procederà ad una selezione sulla base dei curriculum vitae e dell’impegno nel volontariato. L’esito della selezione sarà comunicato attraverso il sito del Cesvob.

Le domande di partecipazione dovranno pervenire al Cesvob entro e non oltre le ore 12.00 del 16 ottobre 2008. Per informazioni sul seminario formativo è possibile consultare il sito del Cesvob www.cesvob.it o telefonare al numero 0824.310092 - fax 0824.359795.

Empoli: è uscito il nuovo numero della rivista "Ragazze Fuori"

 

Comunicato stampa, 8 ottobre 2008

 

È uscito proprio in questi giorni il nuovo numero, il primo come testata autonoma dopo dieci anni, della rivista "Ragazze Fuori", prodotto dalle donne detenute della Casa Circondariale femminile a custodia attenuta di Empoli, progetto del Comune di Empoli, gestito dall’associazione di promozione culturale Arci Empolese Valdelsa.

Un cuore rosso spezzato, in copertina, a testimonianza di quanto l’affettività in carcere, maschile o femminile, si spezzi, si frantumi nel lungo corso di una carcerazione. Questo nuovo numero affronta il tema dei rapporti non solo di amore adulto ma con i propri figli; giovani madri allontanate e lontane dai loro piccoli, costrette non solo alla privazione della propria libertà ma anche alla cura del proprio bimbo.

"Sentimenti soffocati" come scrive Giusi, una delle due operatrici esterne della redazione di questo giornale; la "Gioia di una telefonata" di Mary; la voglia di "Accarezzare i capelli di mio figlio" di Veronica. La storia di un "bocciolo di rosa sfiorito, rinato in un giardino di spine" come racconta Patrizia e l’amore per suo figlio.

Un argomento quello dell’affettività sempre ricorrente, in luoghi chiusi come le carceri, dove ancora molto deve esser fatto, per riuscire ad abbattere quelle "barriere architettoniche" che non permettono, per esempio, ad un genitore di tenere in collo il proprio bambino di pochi mesi!. E sono le barriere anche della sensibilità umana.

Addentrandosi sempre di più nella lettura di queste pagine i lettori potranno leggere anche l’esperienza di Renata Massaria, volontaria da venticinque anni nel carcere femminile della Giudecca a Venezia, che ha una peculiarità unica in Italia: è insieme giudiziario, penale, casa-lavoro e ha un nido. Significativa la lettera delle donne madri detenute della sezione Alta sicurezza del carcere di Rebibbia, dove descrivono in parole semplici il trauma dei colloqui, la disparità di trattamento, quando alla fine la legge dovrebbe essere uguali per tutti.

Ed il giornale chiude con un a poesia di Bertolt Brecht, "Un giorno vennero a prendere anche me…", che vale la pena di leggere. Il giornale ‘Ragazze Fuorì è esposto all’ufficio relazioni con il pubblico del Comune di Empoli oppure on-line sul sito Internet www.comune.empoli.fi.it; sul sito del garante dei detenuti del Comune di Firenze; sul blog "Dentro e fuori"; sul sito della redazione di Ristretti e Orizzonti, di Espressioni.info. e a breve anche sul sito di Altro diritto.

Genova: i mediatori culturali per un aiuto ai detenuti stranieri

 

Secolo XIX, 8 ottobre 2008

 

Un "ponte" per superare le barriere linguistico-culturali che in carcere rendono ancora più difficile e fragile la situazione dei detenuti stranieri, oltre il cinquanta per cento dei reclusi negli istituti penitenziari genovesi. Lo lancia - con un progetto promosso dall’assessorato alle carceri per portare i mediatori culturali nella Casa Circondariale di Pontedecimo - la Provincia di Genova che, d’intesa con le istituzioni penitenziarie, ha già sostenuto numerosi interventi nelle carceri del territorio per favorire il reinserimento sociale e occupazionale dei detenuti, compreso il servizio, interno alle case circondariali, per l’orientamento al lavoro e l’occupabilità (vi si sono già rivolte 108 persone, 24 straniere) utilizzando voucher individuali, riserve di posti nei corsi di formazione a catalogo, tirocini e anche incentivi, finanziati dall’ente con i fondi di specifici progetti nazionali, per le aziende che assumono ex detenuti.

"Con i mediatori culturali - dice l’assessora Milò Bertolotto - vogliamo mantenere e consolidare i canali di comunicazione e dialogo con i detenuti stranieri, raccogliendone i bisogni dal punto di vista dell’assistenza legale, linguistica, formativa o lavorativa per dar loro nuove opportunità di reinserimento sociale a fine pena, o per assisterli nel caso intendano ritornare nel proprio paese".

Nel carcere di Pontedecimo, dove la Provincia ha avviato anche progetti di sostegno al difficilissimo ruolo di genitori in carcere, i mediatori culturali in lingua araba svolgeranno, oltre a colloqui di orientamento pratico e incontri tematici sulla legislazione italiana in materia di lavoro, permessi di soggiorno e ricongiungimento familiare, anche attività dedicate alla cultura e alla religione islamica.

Nuoro: i detenuti di Mamone ripuliscono la pineta di Budoni

 

La Nuova Sardegna, 8 ottobre 2008

 

L’intento ambientalista si è intrecciato con quello dell’integrazione nella "Giornata ecologica" che si è svolta sabato scorso per iniziativa delle associazioni Auser e Caritas, un unico appuntamento dalla duplice finalità sociale che ha avuto come protagonisti undici detenuti della colonia penale di Mamone, in gran parte extracomunitari, accompagnati da un’educatrice e da due rappresentanti dell’associazione Icaro che opera all’interno del carcere.

Un’esperienza che si è rinnovata per il terzo anno, consentendo ai detenuti di trascorrere una giornata all’insegna del reinserimento sociale e di partecipare attivamente a un’iniziativa di sensibilizzazione ambientale. La giornata ecologica sostenuta dall’amministrazione comunale si è aperta proprio con l’incontro nell’aula consiliare tra la giunta e la schiera di volontari, una cinquantina in tutto quelli impegnati nella pulizia della spiaggia e della pineta di Sant’Anna.

Il sindaco Pietro Brundu ha ringraziato la direzione carceraria per la partecipazione all’iniziativa "che oltre a sensibilizzare le coscienze al rispetto dell’ambiente - ha detto - ha anche lo scopo di stimolare il reinserimento sociale dei detenuti. Anche questa volta come negli anni passati, al termine dell’ incontro, il Comune ha dato loro la possibilità di poter telefonare ai propri familiari. Poi, tutti al lavoro, con sacchi e guanti al seguito, pronti a tirare a lucido l’arenile. Lo stuolo di ambientalisti ha raccolto ogni sorta di rifiuto abbandonato, dai contenitori di plastica alle bottiglie, una pulizia che ha fruttato una quindicina di sacchi di immondizia.

"Essendo fine stagione pensavamo di trovare molti più rifiuti", ammette il presidente dell’Auser, Giuseppe Porcu, promotore anche della Giornata ecologica che si era svolta a settembre: in quell’occasione era stata ripulito il versante opposto, quello che va dalla Capannizza verso Ottiolu. Al termine dei lavori, la fatica è stata ripagata con un pranzo ospitato nel salone parrocchiale di Tanaunella, un altro importante momento di aggregazione. "Un esperienza che - commenta il presidente dell’Auser - oltre a sensibilizzare al rispetto dell’ambiente, è stata anche una risposta a certi fenomeni di intolleranza che si stanno purtroppo verificando in Italia".

Sassari: apprendimento-lavoro, per una vita fuori dal carcere

 

La Nuova Sardegna, 8 ottobre 2008

 

Si è concluso ieri mattina a Marritza, con la consegna degli attestati di partecipazione nella sede dell’associazione di volontari "Giovani in cammino", in località Le Tonnare, il terzo ciclo dello "sportello tirocini per l’inserimento al lavoro di giovani in cerca di occupazione e di categorie svantaggiate", progetto di orientamento al lavoro organizzato dalla Camera di Commercio di Sassari con la stessa associazione. Una iniziativa che ha come filosofia di base quella di utilizzare l’avviamento al lavoro come occasione di reinserimento sociale.

Un percorso di sei mesi che si è tradotto per dieci detenuti ed ex detenuti, molti dei quali extracomunitari, in un corso, gestito dal maestro Giuseppe Serra, con lezioni teorico-pratiche di falegnameria e restauro, conoscenza delle attrezzature, qualità e tipologie dei materiali, lavorazione artigianale e artistica del legno. Al suo interno, nel laboratorio allestito all’interno della sede dell’associazione con il contributo economico della Camera di Commercio, sono stati sperimentati i processi di recupero e restauro di oggetti d’epoca, con tecniche e strumenti utilizzati secondo la tradizione artigianale. Sono state inoltre inserite anche delle lezioni di informatica e degli incontri mirati di orientamento al lavoro.

"La cosa più interessante - ha commentato il presidente della Camera di Commercio Gavino Sini durante la semplice ma partecipata cerimonia - è che già parecchi dei partecipanti, come peraltro era già successo negli anni scorsi, hanno già trovato un’occupazione. Qualcuno lo ha definito un miracolo, ma i miracoli avvengono attraverso gli uomini, per cui possiamo parlare invece di uno strumento utilizzato molto bene. È davvero bello vedere come delle persone che hanno avuto delle difficoltà, imparando a restaurare un mobile hanno anche capito come sistemare la loro vita. Ma non bisogna fermarsi ai risultati raggiunti, perché si può fare sempre qualche cosa di più. Dobbiamo anzitutto dire a suor Maddalena, responsabile dell’associazione, che non è sola, e che i suoi problemi devono diventare anche i nostri, per provare a risolverli tutti insieme".

"Io non posso che ringraziare tutti della disponibilità - ha aggiunto una emozionata Suor Maddalena Fois, che è anche la garante cittadina dei detenuti - è importante che questi ragazzi imparino un mestiere uscendo dalle carceri, dove sappiamo bene come si vive, e che abbiamo una possibilità concreta di reinserimento sociale. La cosa più grande che possiamo fare è proprio dare delle risposte concrete alle loro necessità". Il progetto puntava appunto a creare i presupposti per l’inserimento al lavoro attraverso l’attivazione di tirocini formativi e di orientamento in azienda, ed il laboratorio, completo di macchinari, ha permesso di sviluppare l’attività di formazione in una struttura che potesse simulare una vera realtà produttiva artigianale.

Immigrazione: il razzismo sta dilagando? …è meglio negare!

di Luigi Manconi

 

L’Unità, 8 ottobre 2008

 

Anch’io come Massimo Bordin, direttore di "Radio Radicale", non capisco perché si debba "scrivere una palla in prima pagina per poi smentirla già a pagina due". In effetti, sulla prima de il Giornale di lunedì 6 ottobre si legge che "Nella gang che picchiò il cinese la metà sono figli di immigrati"; poi, si va alla pagina seguente e nel relativo articolo si trovano quelle che il cronista definisce "strane verità": ovvero che uno dei presunti aggressori è un adolescente "arabo" e che un altro, italiano, ha una fidanzatina dalla "pelle scura" (sua madre è eritrea, il papà italiano). E così si può titolare che "metà" degli aggressori di Tong Hong Shen sono "figli di immigrati" (ma non erano sette i membri della gang?).

Ricorrendo a questa micidiale logica aristotelica, se tra gli aggressori vi fosse l’amico di un egiziano il cui permesso di soggiorno turistico fosse scaduto o anche il conoscente del figlio di una badante non ancora regolarizzata, il quadro sarebbe perfetto e il Giornale potrebbe tranquillamente titolare: "cinese aggredito da una banda di clandestini". Ma non c’è solo un vertiginoso deficit di senso del ridicolo, dietro una simile lettura giornalistica: c’è qualcosa di estremamente interessante che va considerato con cura. Nessuno, ovviamente, ha mai detto o scritto che "l’Italia è un Paese razzista". E chi mai potrebbe pensare una simile scemenza? Si è detto e scritto, piuttosto, che il numero crescente di "atti di razzismo" deve suscitare allarme e venire adeguatamente contrastato. Ma perché, allora, la destra, i suoi dirigenti politici, i suoi intellettuali e i suoi mezzi di comunicazione si affannano a negare un dato inesistente (l’Italia è un Paese razzista) e a ignorare quello reale (aumentano gli atti di razzismo)? Perché tanta agitazione scomposta e sudaticcia per "neutralizzare" episodi incontestabili e incontestati di violenza a base etnica e per banalizzarne altri? La destra avrebbe potuto tranquillamente dire: gli episodi di razzismo si verificano, tendono ad aumentare e sono il risultato della politica irresponsabile della sinistra. E avrebbe potuto, con qualche argomento, provare a motivare la sua tesi. Non lo ha fatto e non lo fa. La ragione è una: la destra intuisce che il razzismo, qualunque sia la sua dimensione e qualunque sia la sua possibilità di espansione, ci parla di noi. Sia chiaro: anche della sinistra (e perché mai la sinistra dovrebbe essere immune da pregiudizi etnici e da volontà di discriminazione?), ma in particolare parla della destra perché essa non ha saputo e voluto fare i conti con le proprie radici oscure, le proprie pulsioni profonde, i propri umori indicibili.

Dunque, il problema non è semplicemente che nel centrodestra si trovino (a loro perfetto agio) Borghezio e Prosperini, Calderoli e Santanchè: il vero problema è piuttosto che le loro dinamiche mentali e le loro parole pubbliche incrociano sentimenti diffusi nella popolazione, li incentivano e ne sono incentivati, li blandiscono e ne sono confortati e - ecco il punto - sono fatti della stessa sostanza, rimandano a medesime concezioni del mondo e a interpretazioni della realtà affini. Non mi riferisco, pertanto, solo ad interessi politico-elettorali, seppure non possa essere sottovalutato il fatto che Silvio Berlusconi, in un quindicennio di attività pubblica, non ha espresso mai, dico mai, una condanna inequivocabile del fascismo e del razzismo.

E tuttavia la questione di fondo è un’altra: è che il primo tratto culturale e il principale connotato politico, il fondamentale bisogno e la più potente proiezione dell’identità della destra si esprimono, nonostante tutte le trasformazioni possibili e immaginabili, in una domanda di conservazione. Quella domanda, tanto più nell’epoca della globalizzazione, corrisponde sul piano sociale alla difesa del proprio territorio e del proprio sistema di rapporti e di scambi, del proprio stile di vita e della propria mentalità. Lo straniero, rispetto a quella domanda di conservazione e di conformità, è il portatore della molteplicità: ne consegue la paura per ciò che essa produce. Appunto, una società multi-etnica, multi-culturale, multi-religiosa.

È qui, esattamente qui, che la destra politica è strutturalmente portata a rappresentare le tendenze alla chiusura e all’autodifesa, all’autoreferenzialità e all’autosufficienza delle comunità (locali e nazionali) che si percepiscono come assediate; e ad assecondare, se non decide di contrastarle, tutte le possibili degenerazioni, dalle pulsioni più regressive fino alle inclinazioni più esplicitamente intolleranti. Non è fatale: la politica, qui quella di destra, può operare una mediazione, funzionare da filtro, portare a razionalità ciò che si propone come mero istinto.

L’oggetto del contendere è proprio questo: se l’attuale destra italiana stia realizzando politiche e stia inviando messaggi tali da mediare intelligentemente o incentivare irresponsabilmente le tensioni attuali e possibili tra italiani e stranieri. Siamo in molti a credere che le misure di legge finora approvate e il discorso pubblico quotidianamente reiterato vadano nella direzione di esaltare le ansie collettive e, in qualche caso, di organizzarle politicamente.

Le campagne contro gli zingari e contro i romeni non cadono dal cielo: sono gestite in prima persona da settori del governo e da pubblici amministratori, che a quelle ansie collettive offrono legittimazione istituzionale, canali di espressione, bersagli da colpire. Per questa ragione appare del tutto fuori luogo la domanda di Fiamma Nirenstein sul il Giornale di domenica scorsa: "È razzista quella ragazza che ha paura?" quando "tornando a casa in un quartiere popolare di notte" si allarma "se incontra giovani stranieri che parlano un’altra lingua, hanno un altro modo di approcciare?". Ma è ovvio che non lo è, e a quella ragazza vanno garantite sicurezza e libertà di movimento. Se nasce un problema politico è perché c’è chi, su quella paura (comprensibile e parzialmente motivata), effettua un investimento politico e ottiene un rendimento politico. Resta il fatto che la destra italiana rimuove tutto ciò: il suo inconscio le suggerisce di non guardarlo, per non dovervi fare i conti.

Ma la discussione non finisce qui. In un editoriale de Il Corriere della Sera di ieri, Giuseppe De Rita descrive bene le forme del "modello italiano" di integrazione, segnalando i processi positivi di inserimento degli stranieri all’interno della nostra vita sociale ("nelle fabbriche, nelle famiglie, nelle realtà locali") e due aree di maggiore crisi: quella "delle grandi città e delle loro periferie" dove "si intrecciano la devianza degli immigrati e l’aggressività dei bulli e teppisti indigeni"; e quella "delle zone di forte criminalità organizzata dove la vulnerabilità sociale è più alta e dove possono intrecciarsi devianze di diversa origine e potenza".

E sono due questioni, come nota opportunamente De Rita, che "andrebbero affrontate anche se non ci vivesse neppure un immigrato". Dopo di che De Rita critica la tendenza a enfatizzare il razzismo "come nuova grande malattia italiana". Per De Rita, questa è una "tentazione doverosa per chi deve ricordare grandi principi di civiltà collettiva" (si riferisce, immagino, al Pontefice e al capo dello Stato) ma "ci allontana dalla realtà, dai processi e dai percorsi su cui senza clamori si fa integrazione sociale di immigrati". Non ne sono convinto: e proprio perché l’immigrazione si presenta e come grande questione sociale, che ha nei processi di integrazione la prova più delicata e insieme più remunerativa; e come grande questione culturale, e, direi, morale: essa richiama, infatti, i temi cruciali dell’eguaglianza e dei diritti universali della persona.

Temi che non vanno evocati retoricamente né declinati in chiave sentimentale e solidaristica, ma vanno calati concretamente dentro il sistema di cittadinanza e dentro i nuovi statuti dei rapporti internazionali. (Oltre che, beninteso, attraverso politiche pubbliche e strategie amministrative razionali e intelligenti, non demagogiche e non velleitarie. Che richiedono notevoli risorse).

Per capirci: non penso affatto che ci sia quella "generale deriva razzistica", e tuttavia segnalo due fatti. Il primo: la caduta nel discorso pubblico di quel tabù che impediva di urlare in una sede politica "i romeni sono stupratori"; il secondo: l’aggravante di clandestinità per gli immigrati irregolari che commettano reato; aggravante non dipendente dall’illegalità dell’azione, bensì dalla mera condizione amministrativa (e in qualche modo esistenziale). Se le dinamiche culturali e giuridiche derivate da questi due fatti non vengono adeguatamente contrastate, i processi di integrazione - ecco il punto - subiranno contraccolpi, ritardi, deterioramenti. Più in generale i fondamenti di valore del sistema democratico e dello Stato di diritto ne risulteranno intaccati.

È questo che, a mio avviso, dovrebbe indurre la sinistra a fare della questione dell’immigrazione uno dei tratti essenziali della propria identità culturale programmatica. E non in nome di una "società multiculturale" che, come direbbe Giovanni Trapattoni "non è una passeggiata, ma un’ardua fatica": e non è, certo, quel surrogato del socialismo che molti hanno creduto (o lo è nel suo senso peggiore); e nemmeno in nome della solidarietà, che è virtù preziosa ma propria della sfera privata e delle opzioni personali, e non può essere imposta per legge o raccomandata fraternamente a chi non ha occhi per piangere.

Bensì, in nome dei diritti e delle garanzie e di un "calcolo razionale". È interesse mio e dei miei figli realizzare una società nella quale la convivenza sia la più pacifica possibile e l’integrazione riduca tensioni e conflitti che pure saranno inevitabili, ed è interesse mio e dei miei figli che gli standard di diritti e garanzie non siano a geometria variabile: la compressione di quelli dei soggetti meno tutelati, come gli immigrati, non innalza il livello dei nostri. Li deprime tutti.

Immigrazione: Lega: "mano dura". Pd: "scherzano col fuoco"

di Liana Milella

 

La Repubblica, 8 ottobre 2008

 

Non bastava l’aggravante di pena per i reati commessi dai clandestini (già in vigore, anche se bocciata dalla Ue), né tantomeno il reato d’immigrazione (ancora da approvare). Adesso la Lega s’inventa pure il permesso di soggiorno "a punti", che si perdono qualora si violi la legge, quasi si trattasse della patente. E pure una stretta per i matrimoni misti, al punto che, se il principio dovesse passare, diventerebbe praticamente impossibile celebrarli qualora un extracomunitario non abbia ancora ottenuto il pieno diritto di risiedere in Italia. Restrizioni anche per accedere ai servizi sociali e all’assistenza sanitaria. E non basta ancora: il Carroccio chiede di rendere ancora più pesanti le pene per chi, provenendo da un altro paese, commette in Italia un delitto contro il domicilio, come un furto o una rapina.

Il provvedimento sulla sicurezza che, nonostante le reiterate promesse del ministro dell’Interno Roberto Maroni, non ce l’ha fatta a diventare legge prima di agosto, adesso è ancora al Senato per il primo passaggio parlamentare. Mentre il decreto è stato convertito in tempo il 23 luglio. Ieri era previsto che, nelle commissioni Giustizia e Affari costituzionali, fossero presentati gli emendamenti. Il governo ne ha fatti una decina, tra cui quello che prevede il passaggio dalle questure ai Comuni della concessione dei permessi di soggiorno. Una soluzione che la polizia chiedeva da tempo per "alleggerire" il loro lavoro. La Lega invece, con tanto di conferenza stampa, ne ha depositati sei. E tutti vanno nella direzione di rendere sempre più difficile la vita degli immigrati in Italia.

Nelle stesse ore, al Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, Maroni ripete che "non c’è in Italia un allarme razzismo", che non esiste una xenofobia diffusa, ma le aggressioni agli immigranti, le tante che si sono verificate negli ultimi mesi da Milano a Napoli, sono solo episodi isolati, frutto del degrado urbano soprattutto delle periferia. Ma per certo, come dice l’ex ministro del Pd Livia Turco, "la Lega sta scherzando col fuoco e le sue proposte, che sono impraticabili, servono solo per aumentare la paura". O, come sostiene Rosa Calipari, "per fare ammuina", per "accendere gli animi e creare forme di xenofobia". O, come dichiara ancora il vice capogruppo dei senatori democratici Luigi Zanda, si tratta "dell’ennesima idea bizzarra e scriteriata" che sortisce l’unico risultato di "inasprire le tensioni tra culture diverse". L’indignazione del Pd si chiude con il consiglio di Roberto Zaccaria, vicepresidente della commissione Affari costituzionali, che chiede al governo di adottare al più presto una sanatoria per badanti e domestiche rimaste fuori dal famoso click-day.

Ma i leghisti, il capogruppo al Senato Federico Bricolo e la vicepresidente di palazzo Madama Rosy Mauro, non si lasciano attraversare dai dubbi. Secca la Mauro, che Umberto Bossi avrebbe voluto ministro: "Abbiamo il diritto di vivere sicuri in casa nostra e oggi non si è sicuri neppure di giorno. Quando chiudo la porta alle mie spalle, la sera, qualche volta mi chiedo se il giorno dopo potrò ancora svegliarmi". Tutta colpa degli immigrati che delinquono? E se non è allarmismo, questo cos’è? Ma, mentre a Lampedusa continuano ad arrivare le barche della speranza, Bricolo ipotizza il fondo per la prevenzione dei flussi migratori, da localizzare alla Farnesina, per finanziare progetti di cooperazione e prevenire l’immigrazione stessa. L’animus leghista non cambia. Sta nelle parole di Bricolo: "In Italia non c’è, né può esserci posto per chi vive nell’illegalità. Arrivare a espulsioni certe sarà un successo". Sì, ma se il problema sta in chi delinque, perché è necessario ostacolare pure i matrimoni misti?

Droghe: Zaia; il "tasso zero" di alcool... per chi vorrà guidare

 

Ansa, 8 ottobre 2008

 

"Tasso zero per chi guida". No, non è l’ennesima proposta di pagamento rateale a interessi zero, bensì la severa proposta fatta dal Ministro delle Politiche agricole Luca Zaia di azzerare la quantità d’alcol tollerata nel sangue di chi guida per combattere la piaga dell’alcol fra gli automobilisti. "Il tasso alcolemico dello 0,5 o 0,4 rischia infatti di diventare un gioco pericoloso" secondo Zaia, che ha lanciato questa proposta durante una manifestazione promozionale della grappa a Conegliano (ironia della sorte?), in provincia di Treviso. "Ovviamente - ha poi proseguito Zaia - è necessario il consumo responsabile dell’alcol in generale. Chi guida l’auto deve aver bevuto solo analcolici. Chi vuole ubriacarsi, si sieda al suo fianco o dietro. È inutile che continuiamo con lo 0,5, lo 0,2 o lo 0,4. Io ribadisco: tasso zero per chi guida, tutti gli altri facciano quello che vogliono". Un provvedimento giusto? Diteci la vostra.

Giordania: Human Rights Watch; nelle carceri tortura diffusa

 

Associated Press, 8 ottobre 2008

 

Le prigioni giordane finiscono ancora una volta nel mirino dei difensori dei diritti umani: nonostante due anni fa il re Abdullah II abbia promesso di riformare il sistema carcerario impedendo che venissero compiute violenze sui prigionieri, l’organizzazione Human Rights Watch (Hrw) accusa i servizi di sicurezza in Giordania di ricorrere regolarmente alla tortura nei confronti dei detenuti. Già un anno fa il relatore delle Nazioni Unite sulle torture, Manfred Nowak, aveva detto di aver riscontrato prove di abusi sistematici in almeno due carceri giordane, ma allora non si immaginava che il fenomeno fosse invece diffuso a livello nazionale come evidenziato dal rapporto di Hrw.

Il ministro dell’Informazione giordano Nasser Judeh ha respinto le accuse affermando che la Giordania "sta lavorando per trovare un meccanismo per reprimere le proteste ricorrendo a sistemi correzionali adeguati". Dallo studio di Human Rights Watch emerge invece che in cinque prigioni tra le sette monitorate, partecipano alle torture perfino i direttori degli istituti.

Le denunce di torture provengono da 66 dei 110 prigionieri intervistati nelle sette carceri tra il 2007 e il 2008. La forma di tortura più diffusa consiste nel picchiare i detenuti con dei cavi e legarli per i polsi a grate di ferro per ore. Il gruppo per la difesa dei diritti umani ha ammesso che dopo la riforma carceraria del 2006 sono migliorati i servizi medici e le prigioni sono meno sovraffollate, ma "l’impunità per gli abusi fisici rimane la norma".

Guantanamo: un giudice ordina il rilascio di 17 detenuti iuguri

di Rico Guillermo (si ringrazia Claudio Giusti)

 

www.osservatoriosullalegalita.org, 8 ottobre 2008

 

17 cinesi musulmani detenuti a Guantanamo Bay dovranno essere rilasciati venerdì dal carcere militare che gli Stati Uniti controllano a Cuba per ordine di un giudice federale che ha concordato con la tesi dei difensori che in base alla Costituzione americana gli uomini non possano essere detenuti indefinitamente senza una motivazione.

È la prima volta che un tribunale statunitense ordina il rilascio di un detenuto di Guantanamo. Il giudice distrettuale degli Stati Uniti Ricardo M. Urbina ha emesso la sentenza riguardo al caso di un piccolo gruppo di prigionieri noti come Iuguri, che sono stati detenuti a Guantanamo per quasi sette anni e non sono più considerati nemici combattenti dal governo degli Stati Uniti.

Nel corso dell’audizione di alcuni Iuguri che vivono nella zona di Washington, Urbina ha respinto gli argomenti del governo che egli non aveva alcuna autorità di ordinare la liberazione degli uomini. Egli ha detto che aveva tale potere perché gli uomini sono stati detenuti indefinitamente e si trattava dell’unico rimedio disponibile.

Il giudice ha sottolineato che gli uomini non sono più da ritenersi pericolosi per lo Stato. Egli ha citato anche la separazione dei poteri ed ha negato che il governo possa sfidare il divieto di detenzione di persone senza processo all’infinito. È comunque probabile un appello da parte dell’amministrazione Bush.

Nel corso degli anni, hanno lasciato Guantanamo oltre 500 detenuti, fra cui circa 127 uomini inviati in Afghanistan, 90 rimpatriati in Arabia Saudita e 59 restituiti al Pakistan. Le possibilità di liberazione degli altri detenuti sono cambiate dopo che a giugno scorso la Corte Suprema ha stabilito che essi hanno il diritto di far esaminare i loro casi esaminati da giudici federali in base alla dottrina giuridica dell’habeas corpus.

Questo caso si differenzia però da quelli di altri prigionieri, in quanto i 17 uomini non possono essere rinviati nel loro paese di origine perché il governo cinese li considera terroristi e li potrebbe torturare. Le autorità statunitensi rilasciarono nel 2006 altri cinque detenuti accolti in Albania, ma nessun altro paese vuole rischiare di offendere la Cina, accettando gli altri.

Pertanto il giudice Urbina ha previsto un’audizione per stabilire come essi possano essere controllati nell’area di Washington ed ha detto che gli Iuguri sarebbe sotto la custodia di 17 famiglie Iugure. La sentenza è stata accolta entusiasticamente dalla comunità cinese musulmana di Washington.

 

 

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