Rassegna stampa 10 ottobre

 

Giustizia: 2 ddl Lega; stop alle misure alternative per i recidivi

di Matteo Pandini

 

Libero, 10 ottobre 2008

 

Maroni l’aveva detto dopo la strage di Castel Volturno, a Caserta. Era il 18 settembre. Un commando di almeno sette persone spara all’impazzata e uccide sei extracomunitari. Scoppia la rivolta degli africani. Cortei, tensioni, accuse di razzismo. Le forze dell’ordine indagano e beccano i presunti killer. Tra loro c’è un tizio che al momento del massacro doveva essere ai domiciliari. Secondo gli inquirenti avrebbe lasciato l’abitazione per partecipare al raid. Il ministro dell’Interno sbotta: quello era da rinchiudere subito, altro che casa. Bossi annuisce: le norme vanno cambiate. E chiede ai suoi di mettersi al lavoro.

A poche settimane da quell’episodio, la Lega ha messo a punto due proposte di legge sulla custodia cautelare e sulle misure alternative alla detenzione. In sostanza, il Carroccio vuole garantire la certezza della pena e limitare la discrezionalità della magistratura.

 

I mal di pancia del Pdl

 

Chissà come la prenderanno gli alleati, che negli ultimi giorni (in Senato) hanno accusato qualche mal di pancia per gli emendamenti padani sulla sicurezza. Il Pdl non si è infastidito solo per il merito delle proposte (tra cui l’introduzione di un sistema a punti - che funziona come quello della patente - per giudicare il comportamento degli immigrati) ma anche per il metodo. Dalle parti di Forza Italia e An non gradiscono quelle che giudicano vere e proprie fughe in avanti degli uomini di Bossi. Ma loro tirano dritti. Ecco l’ultima idea delle camicie verdi. Oggi, se ci sono pesanti indizi a suo carico, un indagato può essere messo in carcere o ai domiciliari. I lumbard propongono una correzione, inserendo un comma all’articolo 275 del codice di procedura penale. Cosa cambierebbe?

 

La proposta leghista

 

Mettiamo che Tizio sia stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per reati gravi come l’associazione a delinquere di stampo mafioso, l’omicidio, la riduzione in schiavitù e la tratta delle persone, il sequestro di persona a scopo di estorsione, lo sfruttamento della prostituzione minorile, la pornografia minorile, la violenza sessuale aggravata e la rapina a mano armata. Ecco, se si sospetta che Tizio ci sia ricascato, non può finire ai domiciliari.

Per lui si deve spalancare il cancello del carcere. È ovvio: il giudice deve ritenere sussistano esigenze di custodia cautelare. In altre parole, ci devono essere pesanti indizi a carico dell’indagato. In questo caso, però, secondo gli uomini di Bossi è necessario il massimo rigore.

La seconda proposta targata Lega vuol dare una "sistemata" alla legge Gozzini, quella che prevede un sistema premiale per i detenuti. E che in sintesi permette misure alternative al carcere e sconti di pena. Il Carroccio-pensiero recita così: se Tizio viene condannato due volte per reati gravi (sempre con sentenze passate in giudicato) non può ambire ad alcun beneficio. Cioè a riduzioni del periodo di detenzione o ad altre soluzioni come la libertà vigilata, l’affidamento ai servizi sociali e via elencando.

Questi galeotti resterebbero senza speranze? Non proprio, perché potrebbero confidare in qualche sconticino grazie alla buona condotta. A dire il vero i leghisti avevano pensato di cancellare pure quella, ma poi hanno preferito desistere per non incagliarsi in obiezioni costituzionali.

 

Il ruolo di Cota

 

Le proposte della Lega sono state messe a punto dal suo leader a Montecitorio Roberto Cota. Il passo successivo sarà recarsi alla conferenza dei capigruppo e chiedere di discuterle al più presto. Il Carroccio resta vigile: se in Aula approdasse un provvedimento su giustizia o sicurezza, potrebbe cogliere la palla al balzo e inserire subito le sue proposte. Gli uomini di Bossi non vogliono cedere di un millimetro. L’altro giorno, in Transatlantico, Roberto Maroni ha incontrato l’esponente del Pd Livia Turco. Supplica dell’onorevole: "Fai qualcosa per i poveri immigrati...". Risposta del ministro: "Voi vi occupate dei poveri immigrati, noi dei poveri italiani...".

 

La posizione del Viminale

 

E ieri il titolare del Viminale è tornato a parlare di immigrazione e sicurezza alla Camera, spiegando che il "rigore" messo in atto dal governo è figlio del "comportamento lassista" del centrosinistra ai tempi dell’esecutivo Prodi. "Attribuire l’insorgere di una presunta deriva razzista alle politiche in materia di sicurezza di questo governo è veramente irresponsabile" ha tuonato Maroni tra i fischi dei parlamentari del Pd.

"Noi - ha giurato - combattiamo e combatteremo la criminalità con ogni mezzo, affermando il rispetto della legge con tutto il rigore necessario e senza mai guardare in faccia a nessuno. Un rigore che è necessario e preteso a gran voce dai cittadini". Poi il ministro degli Interni ha sciorinato le cifre che riguardano l’immigrazione nel nostro Paese. "L’Italia è il paese che accoglie di più e meglio chi viene da scenari di guerra o le cosiddette "persone vulnerabili", donne, anziani e bambini". Maroni ha spiegato poi che "tra i paesi europei la Germania ha una percentuale di accoglimento delle richieste presentate del 36%, l’Inghilterra del 48%, la Francia del 22%, la Spagna dell’8,5%, la Grecia dello 0,8%, l’Italia del 59%: essere accolti è un loro diritto e noi - ha concluso - lo riconosciamo molto più degli altri Paesi europei".

 

La proposta

 

La proposta di legge della Lega Nord si articola su due punti. Il primo prevede la modifica dell’articolo 257 del codice di procedura penale. Con questa modifica chi è stato già condannato per i reati gravi non beneficerà più degli arresti domiciliari, ma finirà in carcere. Per restarci. Il secondo punto riguarda un’interpretazione molto più rigida della Legge Gozzini, quella che codifica il sistema premiale per i detenuti. La proposta di legge della Lega mira anche a limitare la discrezionalità dei magistrati, ritenuti troppo "buonisti" con chi delinque.

 

I reati da punire

 

Ma quali sono i reati gravi per i quali la Lega vuole il carcere senza se e senza ma? Eccoli: l’associazione a delinquere di stampo mafioso, l’omicidio, la riduzione in schiavitù e la tratta delle persone, il sequestro di persona a scopo di estorsione, lo sfruttamento della prostituzione minorile, la pornografia minorile, la violenza sessuale aggravata e la rapina a mano armata.

 

Il cammino della legge

 

La proposta di legge è stata messa a punto dal capogruppo alla Camera, Roberto Cota. Il primo passo ufficiale sarà la presentazione della stessa nella conferenza dei capigruppo, chiedendo di portarla in Aula il prima possibile. Magari approfittando di qualche provvedimento sulla giustizia che approdi in Aula, per infilare anche questa proposta é cominciare l’iter.

 

L’ideatore

 

Roberto Cota, insistete ancora con la sicurezza...

"Assolutamente sì. La gente vuole sicurezza e chi ha responsabilità legislative deve garantire questo bene primario. Non dobbiamo perdere di vista la realtà: in questo Paese succede che troppi delinquenti restino fuori dalla galera. Così non va. Chi commette reati gravi deve stare in cella".

 

Cavalcate la paura dei cittadini?

"Noi non cavalchiamo nulla. Vogliamo dare risposte concrete, e speriamo che le nostre proposte siano condivise. Chi fa della strumentalizzazione non capisce che su certi temi non c’è da scherzare".

 

Volete limitare la discrezionalità delle toghe?

"Se la discrezionalità ha prodotto risultati come quelli visti ultimamente direi che una riflessione va fatta".

 

No ai domiciliari, sì alla galera. Così le celle si intaseranno ancora di più...

"Se un soggetto è pericoloso non può restare fuori dal carcere solo perché c’è sovraffollamento. Non possiamo scaricare il problema sui cittadini".

 

Magari vi accuseranno di fare del giustizialismo come Di Pietro…

"Noi non siamo giustizialisti e abbiamo una linea coerente. Di Pietro dice sempre che i giudici non sono mai responsabili. Però a Castel Volturno uno che doveva essere ai domiciliari è accusato di aver sparato agli extracomunitari. Vedremo se Di Pietro cambierà opinione".

Giustizia: con meno misure alternative ci sarà meno sicurezza

di Nicola Boscoletto (Presidente della Cooperativa Sociale "Giotto")

 

www.ilsussidiario.net, 10 ottobre 2008

 

Il disegno di legge Berselli-Balboni, sul quale in questi giorni prosegue la discussione alla Commissione Giustizia del Senato, affronta il problema della certezza e dell’effettività della pena proponendo alcune modifiche alla vecchia legge Gozzini che riteniamo rovinose per i percorsi di rieducazione dei condannati, distruttive della persona umana in quanto tale e destinate ad aumentare l’insicurezza sociale anziché diminuirla.

Ribadiamo quanto stiamo sostenendo da anni, non certo per una presunzione di bravura o capacità particolari, ma solo come contributo frutto della nostra esperienza ultradecennale in percorsi di recupero dei carcerati. Non esiste sicurezza senza rieducazione, secondo il principio della "filiera della sicurezza", in base alla quale per chi delinque devono essere garantiti: 1. rapidità e certezza del giudizio; 2. certezza ed effettività della pena; 3. certezza del recupero.

Senza la certezza del recupero le prime due azioni sono vanificate, poiché, come sappiamo, chi esce dal carcere senza prospettive torna a delinquere più e peggio di prima; i dati sulla recidiva sono in questo senso a dir poco allarmanti. Vanno favoriti in tutti i modi i percorsi di recupero e reinserimento sociale dei detenuti, in particolare attraverso l’incentivazione del lavoro che rimane l’unica misura efficace, fondamentale "elemento del trattamento", come previsto dallo stesso Ordinamento Penitenziario (art. 15 legge 354/1975). Il Ddl in questione rende molto più restrittive le possibilità di accesso ai benefici introdotti dalla legge Gozzini, in base alla presunzione che un condannato, tra permessi e sconti di pena, finisca per non scontare la propria colpa.

Invece la legge n. 663 del 1986 ha riformato l’ordinamento penitenziario cercando di renderlo più aderente all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, dove si dice che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. L’obiettivo è chiaro: restituire alla società, al termine della pena, uomini migliori di quelli che sono entrati in carcere per aver commesso un crimine.

Per questo deve essere favorito il recupero del condannato e non la sua cancellazione dalla società civile. D’altra parte, come diceva lo stesso Mario Gozzini: "Non ci si può limitare a chiedere che i rei siano posti in condizione di non nuocere più: ci si deve innanzitutto interrogare se del reato commesso non esista una responsabilità collettiva, sia pure indiretta, in quanto non abbiamo saputo intervenire in tempo per risolvere un disagio e prevenirne le conseguenze criminose".

È dimostrato che nella quasi totalità dei casi un condannato recuperato e reinserito pienamente e produttivamente nel tessuto sociale non delinque più e torna a una vita normale, cessando di costituire un pericolo per la sicurezza e un costo da sopportare per la collettività (circa 100.000 euro l’anno, 300 euro al giorno, oltre 1 miliardo di euro l’anno ogni 10.000 detenuti!) Da questo punto di vista il recupero è in funzione, e non in alternativa, alla sicurezza, con cui anzi coincide pienamente.

Perciò le misure alternative e i permessi, se correttamente applicati, costituiscono una possibilità concreta di rieducazione e reinserimento, essendo peraltro in alcuni casi più punitivi della stessa pena detentiva poiché contengono in alcuni casi aspetti anche umilianti (il ritorno in carcere tutti i giorni, le ispezioni notturne delle forze dell’ordine, le firme in questura ecc.). Forte delle crescenti spinte giustizialiste, il Ddl in questione punta invece sulla repressione e sull’inasprimento delle pene, rendendo molto più difficile la possibilità per un detenuto di avvalersi delle misure alternative o dei permessi e addirittura eliminando del tutto alcuni benefici (uno su tutti: la semilibertà per gli ergastolani dopo vent’anni di reclusione), senza alcun interesse ad agevolare i percorsi di rieducazione.

Questa è la strada per togliere ai condannati la speranza di una prospettiva di vita, demotivandoli e azzerandone l’interesse a mantenere una buona condotta, perché se la possibilità di riscatto è molto lontana nel tempo o addirittura inesistente non rimarrà che l’istinto di sopravvivenza. Le carceri torneranno a sovraffollarsi in breve tempo e da luoghi di rieducazione diventeranno luoghi di degrado, dove vincerà la legge della giungla e saranno all’ordine del giorno violenze, soprusi, pestaggi e ritorsioni anche nei confronti degli agenti penitenziari, senza contare i casi già oggi molto frequenti di suicidio e autolesionismo. A proposito del lavoro, i numeri parlano chiaro: se oggi, nell’ambito di una popolazione carceraria di 55.000 detenuti, la possibilità del lavoro remunerato e in regola è offerta solo al 3,5% (727 semiliberi, 307 articoli 21, 700 lavoranti all’interno), per tutti gli altri è automatico che il carcere diventi l’università del crimine, poiché chi entra per un reato esce sapendone commettere molti di più e quindi, in un certo senso, è più "formato". A chi serve tutto questo? Alla società no di sicuro.

È ampiamente dimostrato che nei Paesi in cui è prevalsa l’idea della pena come punizione da espiare fino in fondo senza sconti (Stati Uniti ad esempio) la delinquenza non è affatto diminuita e alla società sono stati restituiti uomini peggiori di prima. Invece, come detto, elemento inscindibile dalla sicurezza rimane il recupero dei condannati, innanzitutto attraverso lo strumento principale di rieducazione costituito dal lavoro.

Ricordiamo che come stabilito dall’art. 20, comma 2, della legge 354/1975 (Ordinamento Penitenziario) il lavoro penitenziario "non ha carattere afflittivo ed è remunerato e l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera, al fine di far acquisire ai detenuti una preparazione professionale adeguata, per agevolarne l’inserimento sociale". Il detenuto deve essere avviato al lavoro non tanto per essere sottratto all’ozio avvilente, quanto perché il lavoro è un dovere sociale, è un diritto costituzionale nonché un essenziale strumento di rieducazione e di reinserimento, con notevoli vantaggi anche di ordine psicologico e sociale, oltre che economico. Per porre rimedio alla carenza di opportunità di lavoro, l’Amministrazione Penitenziaria è chiamata ad agevolare con sempre maggior impegno le iniziative che provengono dalla società libera, nello spirito del principio di sussidiarietà oggi sancito dalla Costituzione, attivando strategie più adeguate e più proficui collegamenti con l’esterno, direttamente con il mondo del lavoro e con le istituzioni.

Diversamente, continuerà a gravare sul carcere e sulla post-detenzione il circolo vizioso che ha posto e pone detenuti ed ex detenuti ai margini dell’attività produttiva e della società, con forte rischio di reiterazione dei reati commessi. Purtroppo da oltre un ventennio poco o niente è stato fatto in questo senso, ma anzi grazie alla disinformazione sistematica oggi è tutto molto più difficile, il sistema è "incancrenito" e non sarà facile trovare una soluzione a breve termine. Risalta su tutto l’immobilismo dell’amministrazione penitenziaria rispetto all’evoluzione dell’economia e del mercato del lavoro.

Innanzitutto va ripensata la funzione del Dap, che oggi si avvale di collaboratori abbandonati a se stessi che frenano lo sviluppo delle attività e non colgono il senso e il valore del loro lavoro; ci riferiamo soprattutto agli oltre 50.000 dipendenti dell’Amm. Penitenziaria, di cui poco meno di 43.000 sono gli agenti di polizia penitenziaria. Molti si pongono l’interrogativo dell’affollamento del personale impiegato al Dap di Roma (poco meno di 2000 persone) come pure della cattiva distribuzione degli educatori (10 per 300 detenuti in alcune realtà, 2 per 700 detenuti in altre!).

Per non parlare della figura del Magistrato di Sorveglianza, ruolo di ardua complessità e di estrema delicatezza (lo consideriamo il Magistrato dei Magistrati), che la legge ha istituito con il compito di recuperare persone che hanno sbagliato e per il quale il cuore di qualsiasi persona che si dica tale desidera che riesca nello scopo nella maniera più efficace.

Riteniamo perciò che per un corretto approccio al problema della sicurezza, che esiste ed è urgente, un moderno Stato di diritto non possa prescindere dall’affrontare in modo sistematico il tema del recupero dei detenuti attraverso lo strumento del lavoro, sia all’interno che all’esterno del carcere. Per far questo è necessario aprire la strada alle iniziative dei cittadini e delle loro formazioni sociali (soprattutto cooperative sociali e loro consorzi), attraverso la progettazione e lo sviluppo di percorsi organici dove le complessità e le problematiche del mondo carcerario, derivate dall’ordinamento penitenziario, sono a carico di un soggetto specifico che possiede il know how professionale e sociale idoneo a operare in maniera efficace.

Concludiamo con alcuni dati. La popolazione carceraria oggi conta 56.000 detenuti ed è di nuovo in una situazione di sovraffollamento: immaginiamoci a fine anno quando sarà di 60.000, o fra due anni (80.000), e così via. Nei cosiddetti lavori domestici alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria sono impegnati poco più di 11.700 detenuti. Se si considera che la maggior parte hanno un contratto part-time o che lavorano ad intermittenza (un mese sì e due no), in termini di posti equivalenti essi sono poco più di 3.000.

Questo tipo di lavoro costituisce una specie di sussidio che tocca a turno un po’ a tutti, con il risultato di essere slegato dal una reale progettazione e quindi diseducativo al massimo. Sono invece solo 700 su 55.000 i detenuti che lavorano con un regolare contratto di assunzione, in prevalenza alle dipendenze di cooperative sociali (278 solo in Lombardia e prevalentemente a cottimo fiduciario, 170 in Veneto, 44 in Piemonte, 28 in Lazio, 38 in Calabria, 35 in Toscana 15 in Emilia Romagna, ecc.). Sono impegnati nel lavoro all’esterno, per lo più con un regolare contratto di lavoro, 651 semiliberi e 311 che beneficiano del lavoro all’esterno in base all’art 21 Ord. Pen.

La recidiva o, diciamo meglio, la percentuale di coloro che - pur dopo aver scontato la pena - danno prova di non essersi redenti e tornano dunque a delinquere, si attesta sul 90%. Un’indagine ufficiale del Ministero della Giustizia, svolta in collaborazione con l’Università, ha rilevato una recidiva del 68% di ex detenuti arrestati nuovamente entro 5 anni, mentre lo stesso studio registra una recidiva del 19% tra chi ha usufruito di misure alternative (articolo 21, semilibertà, ecc.). Noi aggiungiamo, con riferimento ai 700 che lavorano all’interno, che, per chi inizia il percorso lavorativo dall’interno per poi passare alle misure alternative fino ad arrivare al fine pena, la recidiva scende sotto il 5%, con punte dell’1%.

Oggi i consorzi e le cooperative sociali in Italia hanno provato in maniera sussidiaria la strada del recupero e della rieducazione attraverso il lavoro, nel rispetto delle leggi, ottenendo risultati straordinari (1-5% di recidiva contro il 90%).

Non è il momento né il caso di confondere la sicurezza sociale con la certezza della pena e la funzione del carcere. Purtroppo solo perché in questi decenni nessuna istituzione ha saputo affrontare il problema in modo efficace, allora si scarica tutto sul sistema carcerario.

È ovvio per tutti che chi sbaglia deve pagare. Lo diceva tanti anni fa un certo Agostino: "lasciare impunito il colpevole è una crudeltà, perché toglie a chi ha sbagliato la possibilità di correggersi; analogamente favorire un reo perché è povero non è un vero atto di misericordia, in quanto l’impunità lascia il povero prigioniero della sua iniquità".

Ma, proseguiva Sant’Agostino, "la pena non deve avere il carattere di una vendetta, né di un’incontrollata scarica emotiva, ma di un atto di ragione commisurato al duplice fine: della conservazione della società e della correzione del colpevole. Nella proporzionalità sta la giustizia della pena […] si devono perseguire i peccati e non i peccatori, la condanna deve estirpare il peccato e non annientare il peccatore".

Giustizia: Vizzini; più durezza contro la mafia e le baby-gang

 

Apcom, 10 ottobre 2008

 

Il senatore Carlo Vizzini, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato ha presentato un articolato corpus di proposte emendative al ddl sicurezza, firmate anche dal correlatore Filippo Berselli, presidente della Commissione Giustizia. Nello specifico, le modifiche proposte al ddl sicurezza varato dal governo prima dell’estate mirano a “rendere ancora più efficaci” gli strumenti per la lotta alla mafia, a combattere il fenomeno delle babygang e a colpire la criminalità organizzata nei patrimoni e nelle attività economiche.

Con un primo gruppo di emendamenti, infatti, si interviene ancora una volta sulla normativa vigente in materia di lotta alla criminalità organizzata. Un primo emendamento, firmato anche dal capogruppo Pdl senatore Gasparri, modifica l’articolo 41-bis: da una parte, si rende ancor più difficile ai detenuti - in particolare ai condannati per il reato di associazione mafiosa - la possibilità di mantenere collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza; dall’altra, attraverso la previsione di una competenza funzionale in capo al tribunale di sorveglianza di Roma in materia di reclami dei detenuti, si evita l’eccessiva eterogeneità di orientamenti giurisprudenziali da parte dei diversi tribunali.

Un secondo emendamento attribuisce ai prefetti il potere di trasferire al patrimonio di comuni, province e regioni i beni confiscati alla criminalità organizzata. Un terzo emendamento, estende l’obbligo di custodia in carcere a tutti i delitti di criminalità organizzata e di natura terroristica, nonché all’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, alla tratta di persone, alla riduzione in schiavitù, al favoreggiamento a fini di lucro dell’immigrazione clandestina.

Vizzini ha inoltre presentato un secondo gruppo di emendamenti che inaspriscono ulteriormente la normativa in materia di lotta alle operazioni di riciclaggio, incrementando altresì poteri e compiti delle autorità preposte al controllo e alla repressione del gravissimo fenomeno. Infine, un terzo e più cospicuo insieme di proposte emendative interviene sul codice penale e su altre leggi speciali.

Nel merito, vengono introdotte nuove aggravanti per reati che destano un notevolissimo allarme sociale, quali l’estorsione, la rapina, la truffa: l’inasprimento di pena è previsto nel caso in cui gli illeciti siano compiuti in alcuni luoghi particolarmente frequentati dai cittadini, ovvero abusando delle condizioni di debolezza della persona offesa. Inoltre, al fine di tutelare i minori negli spazi che essi frequentano, il senatore Vizzini ha presentato emendamenti che aggravano il fatto commesso a danno di minori all’interno o nelle immediate vicinanze di asili e scuole, in particolare per i reati di violenza sessuale, atti osceni e porto d’armi illegale.

Il senatore Vizzini, accogliendo un pensiero pubblicamente espresso di recente dal Presidente del Senato Renato Schifani, ha infine presentato un emendamento che prevede una nuova aggravante per i reati di lesione personale e omicidio preterintenzionale, nell’ipotesi in cui il fatto sia commesso con armi o con sostanze corrosive o da persone travisate o da più persone riunite, anche al fine di combattere il grave fenomeno di gang criminali, spesso purtroppo costituite da minorenni.

Giustizia: con il lavoro in carcere vantaggi per detenuti e società

di Desi Bruno (Garante per i diritti dei detenuti di Bologna)

 

Il Domani, 10 ottobre 2008

 

Il lavoro è per tutti momento di conformazione dell’identità, il lavoro non è solo una risposta ad un bisogno, una fonte di reddito, ma svolge anche una funzione di promozione della persona. Queste implicazioni sono valide per le persone libere, e a maggior ragione lo sono per quelle che sono detenute, per le quali la responsabilizzazione - rieducazione passa anche attraverso la tappa fondamentale del lavoro, che, nell’ambito dell’Ordinamento penitenziario, è tratto fondante e elemento centrale del trattamento.

La questione del lavoro è un passaggio determinante per il percorso di un detenuto, non semplicemente in termini di occupazione e retribuzione ad esso legati, ma proprio in termini di assunzione di responsabilità e di valore nella ricostruzione di una persona. Il sistema carcere, anche al fine di dare attuazione al dettato costituzionale sulla funzione della pena, deve avere capacità di accompagnamento al lavoro e di reinserimento nel tessuto sociale e produttivo. Apprendere capacità lavorative è una forma di educazione alla legalità e avere una professionalità da spendere sul mercato del lavoro, una volta fuori dal carcere, sarà la prima forma di protezione dal pericolo di recidiva e quindi fonte di sicurezza collettiva.

E il lavoro è ciò che chiede e di cui ha bisogno la grande maggioranza della popolazione detenuta, che per estrazione sociale è poverissima. Di recente, alla Dozza, a causa della carenza di risorse a disposizione dell’Amministrazione penitenziaria, è intervenuto un drastico taglio del 50% alle attività lavorative all’interno del carcere, che, per quanto impegnassero sporadicamente i reclusi, assegnati ai cosiddetti lavori domestici secondo un calendario di turnazione, erano una fonte di guadagno sulla quale poter contare.

Le esperienze di lavoro carcerario svolto all’interno dell’istituto di pena alle dipendenze di terzi e di lavoro extramurario sono da considerarsi elitarie sebbene esista uno strumento legislativo, sottoutilizzato, che prevede benefici per l’inserimento lavorativo dei detenuti, Legge 22 giugno 2000, cd. Legge Smuraglia.

In essa sono previste possibilità di applicare sgravi fiscali e contributivi, quale forma di incentivo all’utilizzo di manodopera detenuta, per quei soggetti pubblici o privati (imprese o cooperative sociali) che assumono lavoratori che si trovano nella condizione di detenuti in esecuzione di pena.

Recependo le indicazioni di ampi settori del privato sociale la normativa ricomprende nella definizione di persone svantaggiate anche le persone detenute e internate negli istituti penitenziari. Sgravi fiscali devono essere concessi alle imprese (pubbliche o private) o cooperative sociali che assumono lavoratori detenuti per un periodo di tempo non inferiore ai trenta giorni o che svolgono attività formative, tali agevolazioni si applicano anche nei sei mesi successivi alla cessazione dello stato di detenzione (lascia perplessi il carattere puramente temporaneo delle agevolazioni in questione).

Per quanto riguarda gli sgravi contributivi, le aliquote complessive della contribuzione per rassicurazione obbligatoria previdenziale ed assistenziale per le cooperative sociali che assumono persone detenute o internate negli istituti penitenziari ammesse al lavoro all’esterno sono ridotte dell’80% e sono ridotte a zero per gli ammessi alle misure alternative che svolgono attività lavorative all’esterno dell’istituto di pena.

Per le aziende pubbliche o private il taglio contributivo del quale possono beneficiare è dell’80% per i detenuti ed internati purché organizzino attività produttive o di servizi all’interno degli istituti di pena. Una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 2002 ha definito la Legge Smuraglia come l’unico strumento idoneo a rilanciare l’attività lavorativa all’interno delle carceri.

Certo è che non sono irrilevanti le difficoltà del cittadino comune a fidarsi di chi ha sbagliato. Una cornice legislativa di tal fatta, comunque, anche con le sue vantaggiose previsioni, dovrebbe incentivare l’impresa a recuperare una sua valenza etica e ad indirizzare e coordinare, secondo il dettato costituzionale, l’attività economica a fini sociali.

Giustizia: nelle carceri italiane 14 "poli universitari penitenziari"

 

Ventiquattro - Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2008

 

In quattordici istituti di pena italiani ai detenuti più meritevoli è data la possibilità di frequentare un corso universitario e laurearsi. I docenti contribuiscono su base volontaria. Un’esperienza che non ha pari in Europa.

Il posto giusto per Aristotele è una cella del carcere di Padova. "E non solo Aristotele: mi sono trovato bene con tutti i classici greci. E incredibile come abbiano detto cose basilari in ogni possibile campo del sapere; studiarli è stato entusiasmante".

Alessandro, 29 anni, è iscritto al terzo anno di Filosofia alla storica università di Padova. Nonostante sia prossimo alla laurea, non ha però mai messo piede a Palazzo Bo, quattrocentesca sede dell’ateneo. La sua aula di studio è una cella. Porta e sbarre dipinte con un luccicante smalto rosso; libreria alla parete e computer a disposizione.

Alessandro è uno dei 22 studenti universitari del carcere di Padova. Nelle malandate prigioni italiane, segnate da sovraffollamento e mancanza cronica di mezzi e personale, ha preso piede negli ultimi anni un’esperienza che non ha pari in Europa: quella dei cosiddetti "Poli universitari carcerari".

In 14 istituti di pena italiani, infatti, da Torino a Sassari, da Brescia a Catanzaro, l’Amministrazione penitenziaria ha stretto convenzioni con i senati accademici, per permettere ai detenuti più meritevoli di completare gli studi universitari in apposite sezioni. Ogni anno, così, decine di professori varcano la soglia blindata delle nostre prigioni per esami e colloqui; e chi nella vita aveva concepito solo progetti criminali, si mette a sognare Aristotele.

Il primo Polo nasce a Torino nel 1998, con un protocollo d’intesa tra il carcere e le facoltà di Scienze politiche e Giurisprudenza. Da allora, nelle 22 celle singole del padiglione B del carcere "Le Vallette" riservate agli studenti, sono passati settanta detenuti e 13 hanno raggiunto la laurea. A Torino, unico caso in Italia, i professori - che accettano l’incarico su base volontaria - oltre a dare esami entrano anche per tenere un regolare corso di lezioni, come si fa per gli studenti "liberi".

In Toscana la realtà è più strutturata: l’insegnamento in carcere è un compito istituzionale dei docenti e tutte le università della regione sono coinvolte; i detenuti lo scorso anno accademico hanno raggiunto quota 111 e sono distribuiti nelle carceri di Prato, Sollicciano, Porto Azzurro, San Gimignano e Pisa. In otto anni di vita del Polo toscano sono stati sostenuti più di mille esami; fino al 2007 vi sono stati ben 14 laureati.

"Lo studio universitario libera la mente". Lorenzo Contri, 86 anni, emerito professore di Scienza delle costruzioni della facoltà di Ingegneria di Padova, è il precursore dell’insegnamento agli studenti reclusi. "Alla fine degli anni Sessanta - racconta Contri - si manifestò un problema insolito: un gruppetto di detenuti del carcere di Alessandria, diplomati geometri, espresse il desiderio di laurearsi in Ingegneria.

Spostati a Padova, divennero matricole alla facoltà di Ingegneria civile e io ebbi il compito di seguirli. Ho in mente uno di loro, dentro per un brutto reato: si dedicava allo studio della matematica quasi con fanatismo. E questo gli permise di sgombrare la mente dai pensieri ossessivi a cui l’inattività in carcere porta. Oggi è fuori, si è sposato e vive una vita normale".

Gli studenti-detenuti di Padova confermano: "Mi rendo conto che oggi, con due anni di università alle spalle, faccio ragionamenti che prima non avrei mai fatto", si stupisce Alessandro, il filosofo. "Lo studio, più del lavoro, ti permette anche di stare fuori da un certo ambiente e da brutte tentazioni - osserva Francesco, 54 anni, al secondo anno di Scienze politiche".

Dei 22 detenuti-studenti di Padova, solo 8 vivono nelle celle riservate al Polo universitario; gli altri, per mancanza di spazio, risiedono assieme agli altri detenuti. Al Polo le celle sono aperte dalle 8 alle 20, i detenuti ricevono visite di volontari e professori. Sotto lo sguardo di un agente di polizia penitenziaria, possono anche accedere a Internet per cercare testi di studio o scrivere ai docenti.

Nelle sezioni normali invece la vita per gli studenti richiede una dose ulteriore di tenacia: le celle comuni non sono silenziose aule di studio e, a volte, per riuscire a prendere in mano un libro, si deve aspettare il silenzio della notte. "L’esperienza del Polo universitario produce nel detenuto un cambiamento radicale - afferma con soddisfazione Salvatore Pirruccio, direttore della casa circondariale di Padova -.

Notiamo un distacco completo dalle idee della vita pregressa. Gli studenti non discutono più tra loro solo di detenzione e avvocati; parlano invece della vita quotidiana, come le persone libere. C’è una revisione critica del passato, e la recidiva crolla fino a percentuali irrilevanti. Io vado a tutte le lauree dei miei detenuti: la prossima sarà a ottobre, con una tesi di storia del cinema". Sono quattro gli agenti al lavoro nel Polo universitario padovano. "La nostra esperienza è positiva - conferma Carlo Torres, Commissario di Polizia Penitenziaria -. Avere un detenuto impegnato in attività come questa ci facilita senza dubbio il lavoro".

Rosanna Tosi, fino al 2005 docente di Diritto costituzionale all’università di Padova, da quando è in pensione entra in carcere una volta alla settimana. Segue i detenuti-studenti nella preparazione degli esami di materie giuridiche. "Ma si rende conto - dice compiaciuta - che qualche giorno fa, a pranzo, i detenuti del Polo si sono messi a discutere sul concetto di "sorriso disincantato"? Questo gusto di interrogarsi su questioni astratte è frutto dello studio universitario: sono abituati ad affrontare problemi complessi con la ragione. Hanno una grande capacità di controllo, acquisiscono pacatezza e razionalità. È questa la loro grande conquista, al di là della laurea".

"Anche per gli insegnanti è un’opportunità significativa - racconta Maria Teresa Picchetto, docente di Storia delle dottrine politiche e delegata dell’università di Torino per il Polo universitario -: alcuni colleghi mi hanno confessato che insegnare in carcere è stata l’esperienza didattica più interessante che abbiano mai fatto. Tra i detenuti ci sono studenti di altissimo livello. Per loro l’università è una rivincita, un modo per riscattarsi agli occhi dei parenti".

Al di là del valore morale e formativo, la sfida non ancora vinta dei Poli carcerari rimane quella di un reale inserimento nel mondo del lavoro. "Oggi lo studente universitario medio, dopo la laurea rimane a lungo precario - ricorda Giuseppe Mosconi, professore di Sociologia del diritto e delegato al Polo universitario per l’università di Padova -. Mi chiedo che possibilità di trovare lavoro abbia uno studente laureato in stato di detenzione". E i pregiudizi sono un ostacolo in più da superare. "Anche con una laurea, per un detenuto non è facile trovare occupazione - mette in guardia Nedo Baracani, delegato per il Polo carcerario dell’università di Firenze -. Lo scorso anno, un nostro laureato in scienze infermieristiche è uscito dal carcere ed è tornato al suo paese. Ci ha chiesto il certificato di laurea per lavorare, ma non credo sia stato accolto a braccia aperte...".

Giustizia: Italia e Romania; accordo sul rimpatrio dei detenuti

 

Apcom, 10 ottobre 2008

 

Sicurezza ed energia sono stati i dossier caldi del primo vertice intergovernativo tra Italia e Romania, presieduto ieri a Villa Madama dal premier Silvio Berlusconi e il collega Calin Popescu Tariceanu. Resta in cantiere - ma solo per una "messa a punto", ha assicurato Berlusconi - il cruciale accordo bilaterale per il rimpatrio dei "cittadini che vengano giudicati colpevoli di reati". Mentre i due governi lavorano per una presenza più massiccia in Romania di giganti come Enel, Pirelli e Ansaldo.

Alla riunione romana hanno partecipato, con i loro corrispettivi romeni, i ministri Franco Frattini (Esteri), Roberto Maroni (Interno), Angelino Alfano (Giustizia), Mariastella Gelmini (Istruzione), Claudio Scajola (Sviluppo Economico) e Sandro Bondi (Cultura). C’è "una collaborazione notevole che non può essere scalfita da fatti singoli e isolati che si sono verificati", ha tenuto a sottolineare Berlusconi, a proposito delle tensioni scatenate dall’omicidio a Roma di Giovanna Reggiani - il 30 ottobre 2007 - per cui è sotto processo il romeno Romulus Nicolae Mailat.

"Noi applicando una norma che è già vigente nel Consiglio europeo abbiamo la possibilità di trasferire da un Paese all’altro i cittadini che sono stati condannati - ha fatto notare il Cavaliere - oggi la regola è che ci deve essere la adesione del singolo. Ma stipulando un accordo bilaterale tra i due Paesi - ha osservato - non ci sarà più bisogno di questa adesione". "Una volta che ci sarà questa norma, credo che finirà completamente la possibilità che ci siano interpretazioni esagerate dei singoli accadimenti" ha insistito Berlusconi, sottolineando che il provvedimento sarà applicato anche agli italiani che commettono reati in Romania.

"Non esiste il rischio che le persone condannate in Italia possano essere rilasciate in Romania, ma dovranno scontare la propria pena" ha garantito, dal canto suo, Tariceanu. Che ha anche evidenziato una progressiva diminuzione dei reati commessi da romeni, "per cui anche le richieste di rimpatrio seguiranno lo stesso andamento".

Sui detenuti, fra la Romania e l’Italia esiste già un accordo che è stato "firmato nel 2003 ed entrato un vigore nel 2006": è questa, ha spiegato il premier romeno, "la base di discussione". I ministri degli Interni e della Giustizia dei due paesi "stanno lavorando - ha assicurato Berlusconi - diamo loro il tempo per mettere a punto tutte le condizioni...".

Per il resto, nella dichiarazione firmata dai capi delle diplomazie Frattini e Lazar Comanescu i due esecutivi hanno messo nero su bianco che "le competenti autorità italiane e romene intensificheranno gli sforzi comuni per combattere la criminalità e assumere misure appropriate contro chi commette reati".

"L’effettiva e completa attuazione del quadro giuridico esistente - si legge nel testo - sia sul piano bilaterale che multilaterale, riguardo la cooperazione giudiziaria e di polizia nelle materie penali continuerà a rappresentare un’importante priorità per entrambe le parti".

Giustizia: salva-manager; il governo cancella l’emendamento

di Liana Milella

 

La Repubblica, 10 ottobre 2008

 

Figlia di nessuno, ripudiata, cancellata. Ovviamente fraintesa. Nella storia delle leggi e leggine ad personam, quella che Di Pietro battezza subito "lodo Geronzi", meriterà il trofeo della norma che l’opposizione non ha specificamente contrastato, ma che, una volta scoperta, la maggioranza non ha per nulla difeso. Al punto che a scaricarla è il ministro dell’Economia in persona, Tremonti. Che prima, alla Camera, batte platealmente le mani al leader dell’Udc Casini, il primo a pigliare le distanze dalle dieci righe salva-manager (non finisce sotto processo chi ha l’azienda commissariata e non in fallimento perché lo stato d’insolvenza non è più equiparato al crac). Poi, al Senato, Tremonti pone l’altolà "o via l’emendamento, o via il ministro dell’Economia". E aggiunge, affinché non vi siano dubbi: "Chi s’immagina che la linea del governo sia quella prevista da un emendamento che riduce la soglia penale per alcune attività di amministratori, si sbaglia".

Poco prima Casini, guardandolo dritto, aveva messo sul piatto la contraddizione tra l’augurio che "fosse morta la stagione della finanza creativa" e quello "di non trovare in qualche decreto dei reati societari non più perseguibili se non in caso di fallimento". Una contraddizione inaccettabile. E, all’applauso di Tremonti, s’era fermato per invitare gli stenografi "a metterlo agli atti". Il malessere di Casini rimbalza sul partito di Fini.

Ed ecco due luogotenenti, la Bongiorno e Bocchino, che dettano alle agenzie dichiarazioni pesantissime. "Erronea giuridicamente, e comunque inaccettabile, qualsiasi previsione capace di cancellare, in maniera retroattiva, gravi fatti di bancarotta" tuona la presidente della commissione Giustizia della Camera. E Bocchino, vicepresidente del Pdl, rimarca la distanza, visto che "non c’è disponibilità politica a convertire un decreto che contenga tale norma". Il Pdl si spacca, di qua Forza Italia, di là An. La Lega tace ostinatamente per tutto il giorno.

Dirà Berlusconi quando ormai è sera (18 e 50, a essere esatti): "Io non ne ero assolutamente a conoscenza, non l’ho vista, è una cosa che non esiste, Tremonti m’ha assicurato di averla tolta". In effetti, il ministro per i rapporti con Parlamento Vito, tre minuti dopo, annuncia che il governo ha depositato il contro-emendamento. L’articolo 7bis che avrebbe dovuto salvare vecchi e nuovi cattivi manager non esiste più. Gli hanno cantato il funerale anche i ministri Sacconi ("Ha ragione Tremonti"), Fitto ("È assolutamente sbagliato, non ne sapevo nulla, non è fatto per me"), Scajola ("Solo un equivoco"). "Meglio tardi che mai" dirà Di Pietro che vanta di aver presentato una pregiudiziale di costituzionalità che ieri, se il governo anziché rinviare l’avesse votata, avrebbe visto la singolare convergenza di maggioranza e opposizione.

Reietto, emarginato, escluso. Il "lodo Geronzi", che avrebbe potuto (dovuto?) salvare il presidente di Mediobanca ed ex boss di Capitalia, imputato di bancarotta in concorso con Tanzi e Cragnotti, nei crac Parmalat e Cirio, viene ridimensionato perfino da chi, direttamente in aula, lo presentò il 29 settembre al Senato. I due relatori Cicolani e Paravia, tutti e due Pdl, si giustificano, adducono il passo indietro della Cai per l’Alitalia, "leggono" la norma limitatamente alla compagnia di bandiera e ai suoi amministratori. Sanno di non avere coperture, visto che, appena l’anticipazione di Repubblica con la notizia si diffonde, tra Berlusconi, Tremonti, Bonaiuti, il presidente della commissione Difesa del Senato ed ex banchiere Cantoni, corre un allarme che ha un solo risultato, negare che la norma sia d’ispirazione governativa, e poi killerarla.

L’opposizione plaude. Rivendica una battaglia contro "un’amnistia mascherata" (Finocchiaro, Zanda, Casson) che, in realtà, ha riguardato il decreto Alitalia in generale, ma non l’articolo 7bis. Righe che passano in aula per alzata di mano, senza che venga neppure chiesto il voto elettronico. Senza un intervento o un cenno di dissenso. Alla chetichella. E senza che, nei giorni seguenti, a testo ormai pubblico, qualcuno s’accorga che non della sola Alitalia si tratta, ma di ben altri crac. Ma oggi Veltroni plaude comunque allo scampato pericolo.

Giustizia: carcere per chi getta rifiuti in strada, il decreto legge

di Fulvio Milone

 

La Stampa, 10 ottobre 2008

 

Il premier Silvio Berlusconi l’aveva detto solo pochi giorni fa: "Vorrei che sporcare le strade fosse un reato". E l’appello evidentemente è stato raccolto, visto che oggi il governo deciderà per un giro di vite senza precedenti sullo smaltimento illegale dei rifiuti. Lo farà con un decreto legge da approvare nel Consiglio dei ministri che non a caso si terrà a Napoli, l’epicentro dell’emergenza-spazzatura.

Pene severe, severissime, sono previste anche per chi sporcherà le strade con rifiuti ingombranti o pericolosi: insomma, niente più vecchi televisori e frigoriferi, divani, poltrone e sedie sfondate, lasciati in bella vista agli angoli delle piazze. Per chi viola la legge non sono più previste sanzioni amministrative, ma il carcere da uno a tre anni. E la "stretta", naturalmente, avrà valore su tutto il territorio nazionale, anche "in ragione - è scritto nella relazione che accompagna il decreto - della generalità del fenomeno".

La bozza in discussione in Consiglio dei ministri è composta da otto articoli. L’obiettivo principale è inchiodare gli enti locali che si distingueranno per una cattiva gestione del ciclo dei rifiuti, ma anche punire in modo più incisivo tutti coloro, singoli cittadini o imprese private, che non rispetteranno le regole su un corretto smaltimento dell’immondizia "e le più elementari norme dell’educazione civica".

Si comincia con i Comuni e le Province inadempienti: il decreto prevede che nei loro confronti il sottosegretario ai rifiuti, Guido Bertolaso, emetta una diffida "ad adottare, nel termine stabilito, gli occorrenti provvedimenti". Se ciò non bastasse, "il ministro dell’Interno propone al Consiglio dei ministri la rimozione del sindaco o del presidente della Provincia". Il provvedimento comporterà la decadenza della giunta e lo scioglimento del consiglio con l’insediamento di un Commissario nominato dal Prefetto.

C’è poi il capitolo dell’inasprimento delle pene. Guai seri sono in vista per chiunque non rispetti la legge. Il governo vuole "implementare il contrasto all’abbandono occasionale dei rifiuti, siano essi urbani pericolosi e non pericolosi, e speciali". D’ora in poi "tutte le condotte contrarie alle norme" saranno punite non più con una sanzione amministrativa, bensì con la reclusione". Ed ecco, quindi, che "chiunque abbandona o deposita ovvero immette nelle acque superficiali o sotterranee rifiuti pericolosi o ingombranti ovvero speciali, è punito con la reclusione da uno a tre anni".

Le pene aumentano anche per chi effettua attività di "raccolta, smaltimento, recupero, trasporto commercio e intermediazione dei rifiuti senza autorizzazione". In questo caso il rischio è il carcere per sei mesi nei casi meno gravi, per tre anni in quelli più seri. Resterà, invece, in cella fino a quattro anni e pagherà da 20 mila a 100 mila euro di multa chi aprirà una delle famigerate discariche abusive.

Con l’introduzione del reato penale non saranno soltanto i vigili urbani a far sì che la legge venga rispettata. D’ora in poi potranno scendere in campo anche la polizia e i carabinieri. Il decreto, infine, prevede anche l’assunzione di 100 nuovi vigili del fuoco per potenziare la lotta agli incendi dei rifiuti.

Giustizia: le ordinanze dei sindaci comunicate prima ai prefetti

di Luigi Olivieri

 

Italia Oggi, 10 ottobre 2008

 

La comunicazione preventiva al prefetto delle ordinanze sindacali in tema di Sicurezza urbana è condizione di legittimità ed efficacia delle ordinanze stesse.

Il nuovo testo dell’articolo 54, comma 4, del dlgs n. 267/2000 prevede che "il sindaco, quale ufficiale del governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana. I provvedimenti di cui al presente comma sono preventivamente comunicati al prefetto anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione".

Sulla portata della previsione si muovono due linee interpretativa. Secondo una tesi tendente a salvaguardare l’autonomia dei sindaci, la comunicazione avrebbe l’unico scopo di rendere noto alle forze di polizia la sussistenza del provvedimento sindacale, ai fini del coordinamento delle azioni di salvaguardia della sicurezza pubblica. Sicché, l’ordinanza rimarrebbe comunque valida, anche laddove non fosse stata previamente comunicata, in assenza di una disposizione che preveda espressamente l’illegittimità o l’inefficacia come conseguenza dell’inadempimento alla previsione normativa.

La tesi, tuttavia, non appare convincente. Si osserva, in primo luogo, che la comunicazione preventiva ha funzioni certamente diverse dalla semplice evidenziazione a scopi di coordinamento, perseguibile anche con una comunicazione solo successiva. In effetti, si tratta di un obbligo procedurale cogente, tale che la sua violazione comporterebbe l’illegittimità del procedimento per violazione di legge, ai sensi dell’articolo 21-octies, comma 1, della legge n. 241/1990.

Né sarebbe applicabile il comma 2 del medesimo articolo, ai sensi del quale "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato". Infatti, le ordinanze sindacali in tema di sicurezza non hanno mai, per loro natura, natura vincolata, essendo invece l’archetipo degli atti integralmente discrezionali.

La comunicazione preventiva ha, al contrario, lo scopo di informare il prefetto della pronta attivazione del sindaco, allo scopo di eliminare le. cause incidenti sull’ordine e la sicurezza pubblica, in modo che il prefetto non intervenga in prima persona, nell’esercizio dei poteri surrogatoli previsti dal comma 11 dell’articolo 54 novellato del dlgs n. 267/2000, in caso di inerzia del sindaco.

Non solo. Il prefetto può e deve anche esercitare un vero e proprio controllo di legittimità, particolarmente necessario in una materia nella quale il cattivo uso del potere di ordinanza può determinare invasioni di campo nel diritto penale, con pregiudizio dei principi generali in materia. Insomma, le ordinanze dei sindaci possono incidere fortemente sulle libertà personali dei cittadini, sicché un controllo preventivo dell’autorità statale appare corretto e necessario.

Si deve ritenere, dunque, che il prefetto possa attivare il ministro dell’interno per dare l’eventuale avvio al procedimento di annullamento di ufficio le ordinanze sindacali affette da illegittimità, in applicazione dell’articolo 138 del dlgs n. 267/2000. Disposizione, quest’ultima, da considerare non incompatibile con l’ampliamento dell’autonomia locale derivante dalla legge costituzionale n. 3/2001.

Infatti, l’articolo 138 appare del tutto coerente con la previsione dell’articolo 120, comma 2, della Costituzione, ai sensi del quale il governo può sostituirsi a organi delle regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria.

Giustizia: "ripartire dai poveri", le ricette di Caritas e F. Zancan

 

Redattore Sociale - Dire, 10 ottobre 2008

 

Per l’Istat sono 7,5 milioni i poveri in Italia, e la loro situazione si aggrava: la condizione è strutturale. A lanciare l’allarme l’XIII Rapporto Caritas-Zancan, anticipato da Italia Caritas: urge un piano organico di contrasto alla povertà.

I poveri non diminuiscono e si aggrava la condizione di precarietà che caratterizza la vita di molte persone. E la cosa peggiore è che non si tratta di un fenomeno momentaneo e congiunturale, bensì di una situazione strutturale, radicata nell’incapacità di dare risposte adeguate al problema. Si intitola "Ripartire dai poveri" l’ottavo rapporto su povertà e esclusione sociale in Italia curato da Caritas e Fondazione Zancan, che verrà presentato il prossimo 15 ottobre (vedi il programma) in occasione della Giornata mondiale della povertà. Il Rapporto - i cui contenuti principali sono anticipati nel numero di ottobre del mensile "Italia Caritas" - intende ripartire proprio da qui: dai bisogni e dalle esigenze di tutte quelle persone che vivono sotto la soglia di povertà. Queste persone, che nel 2007 per l’Istat erano 7 milioni e 500mila, in realtà sono molte di più, se si considera che lo stesso Istituto nazionale di statistica avvertiva che almeno 900mila famiglie non erano state computate tra quelle povere solo perché il loro reddito superava la soglia che definisce la povertà relativa per una somma oscillante tra i 10 e i 50 euro.

La proposta del Rapporto Caritas-Zancan 2008 è dunque quella di dare vita a un piano organico di lotta alla povertà, che preveda azioni di sistema e parta dalla consapevolezza che la povertà è una realtà compless1a, determinata non solo dal basso reddito ma anche da altri fattori, come i problemi di salute, la poca istruzione, le carenze abitative e il vuoto di relazioni umane. In particolare, in Rapporto presenta due strade per il contrasto alla povertà. La prima è quella di riorientare e riqualificare le relativamente poche risorse che l’Italia dedica alla spesa per l’assistenza sociale. La seconda è quella di puntare su scelte meno settoriali che partano dai territori, dove nascono e si manifestano i bisogni.

Prato: suicida un detenuto di 31 anni, aveva problemi psichici

di Paolo Nencioni

 

Il Tirreno, 10 ottobre 2008

 

Non era certo un delinquente incallito Gabriele Franchi. Era un giovane con molti problemi, soprattutto di rapporti coi familiari, problemi aggravati dall’abuso di alcol. Eppure è finito alla Dogaia insieme ai delinquenti comuni e lì non ha retto al primo impatto col carcere. Martedì sera l’hanno trovato morto nella sua cella.

Ha approfittato della momentanea assenza dei due compagni per impiccarsi alle sbarre e quando sono arrivati i soccorsi ormai non c’era più nulla da fare. Gabriele Franchi aveva 31 anni, abitava in viale Piave e alla Dogaia era arrivato solo da pochi giorni. Sono andati a prenderlo giovedì della scorsa settimana nella casa signorile accanto al Caffè 21 per notificargli un ordine di carcerazione firmato dal giudice di sorveglianza.

Lui probabilmente non se lo aspettava. Aveva alle spalle una vecchia condanna con l’affidamento ai servizi sociali, ma evidentemente il giudice ha ritenuto che Gabriele non avesse rispettato gli obblighi e ha ordinato la traduzione in carcere. Alla base del provvedimento ci sono fondati motivi di carattere giuridico che affondano nella storia recente di Gabriele Franchi.

Più volte la polizia e i carabinieri sono stati costretti a intervenire nella casa di viale Piave per riportare alla calma il giovane dopo violente liti coi familiari. Spesso gli interventi si sono tradotti in denunce alla Procura e la giustizia ha fatto il suo corso. Ora però i familiari più stretti del giovane si chiedono se fosse proprio il caso di mandarlo in carcere, anziché sistemarlo in un’altra struttura, magari una comunità di recupero specializzata nella trattazione di casi simili, con un minore impatto sulla personalità del detenuto. Sembra che Franchi fosse appunto in attesa di essere trasferito in una di queste comunità, ma non ha resistito ai primi giorni di carcere. L’ordine di carcerazione fa seguito all’ultimo episodio di cui Franchi era stato protagonista nel pomeriggio del 10 settembre.

Prima aveva litigato con un gruppo di ragazzi in via Papa Giovanni XXIII, nei pressi del Ponte Petrino, poi aveva avuto una violenta discussione col fratello per l’uso della macchina. Quando la polizia arrivò a risolvere la situazione, Gabriele fu trovato perso nei fumi dell’alcol e scattò una denuncia a piede libero con le accuse di percosse e danneggiamento aggravato. È stata l’ultima volta che le forze dell’ordine si sono dovute occupare del suo difficile caso.

Il passo successivo è stata la traduzione alla Dogaia e la tragedia di martedì sera. Sembra che i due compagni di cella di Franchi fossero impegnati in un momento di socialità con altri detenuti e il giovane ne ha approfittato per mettere in atto il suo proposito. Dell’accaduto è stato informato il sostituto procuratore Benedetta Foti, che ha ordinato il trasferimento della salma all’Istituto di anatomia patologica dell’ospedale, dove verrà compiuto l’esame medico (i funerali forse domani a cura della Misericordia).

Gabriele Franchi era l’ultimo rampollo di una famiglia che fino agli anni Ottanta possedeva una delle più grandi aziende tessili di Prato, l’omonima manifattura di viale Montegrappa che dava lavoro a centinaia di operai. Orfano del padre quando era ancora bambino, Gabriele ha continuato a vivere con la madre, il fratello e la sorella, ma i suoi problemi sono diventati via via più gravi senza che i familiari potessero far molto per risolverli.

Milano: 25enne muore in Questura... è il terzo caso in un anno

 

Liberazione, 10 ottobre 2008

 

Un georgiano di 25 anni è stato trovato morto nelle celle di sicurezza della Questura di Milano. Il ragazzo, Georgi Bacrationi, senza fissa dimora, era stato arrestato la sera di mercoledì insieme ad altri due connazionali con l’accusa di furto pluriaggravato. I tre erano stati sorpresi all’interno della Feltrinelli di Corso Buenos Aires mentre rubavano lettori mp3, pare, dagli scaffali.

Ad arrestarli gli uomini dell’unità operativa criminalità diffusa della Squadra Mobile. All’arrivo in questura, intorno alle ore 20, i tre sono stati rinchiusi in tre celle separate poco dopo il fatto e ieri mattina sarebbero dovuti andare al processo per direttissima. Quando gli agenti sono entrati nella cella del venticinquenne, intorno alle 8, per svegliarlo, non ha dato segni di vita. Sul posto sono intervenuti i medici del 118 che ne hanno constatato il decesso. Il medico legale ha effettuato un primo sopralluogo.

Sarà l’autopsia ad accertare le cause del decesso. Stando alle agenzie, la vittima non avrebbe alcun segno di violenza sul corpo e il malore resta la causa più probabile del decesso. A causare la morte sarebbe stato un collasso. Il malore avrebbe impedito al ragazzo, che avrebbe compiuto 25 anni tra dieci giorni, di chiedere aiuto.

Le notizie sul caso arriveranno col contagocce nell’arco della giornata. Gli unici particolari a disposizione dei cronisti sembrano essere i dettagli del tentativo di furto nella rivendita di Feltrinelli per cui sono stati arrestati i tre ragazzi. Ma intanto le statistiche registrano altri due casi nel giro di un anno di decessi nelle camere di sicurezza della questura di Milano.

Il 4 settembre 2007, Antonio D’Apote, 49 anni, muore nella camera di sicurezza dove era stato rinchiuso subito dopo l’arresto: viene ritrovato già cianotico dagli agenti, che sono andati a controllare perché non avevano sentito risposta all’appello e spira prima dell’arrivo dei soccorsi.

È il secondo caso nel giro di due mesi: il 10 luglio era toccato a Mohammed Darid, 32 anni, marocchino, arrestato la sera prima dagli agenti della Polfer in stazione Centrale per spaccio di stupefacenti e trovato senza vita dentro la cella di sicurezza alle 9 del mattino.

Non c’erano segni di violenza sul suo corpo, avrebbe stabilito il medico legale. Arresto cardiocircolatorio, sancì l’autopsia. La stessa scena si è ripetuta con D’Apote, sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno in casa, una fedina penale zeppa di precedenti per spaccio, furto e rapina, problemi di tossicodipendenza, era stato pizzicato per strada alle 3.30 da due agenti delle Volanti, mentre chiacchierava con una ragazza.

Aveva provato a reagire, prima e dopo le manette, probabilmente sotto l’effetto di stupefacenti, e aveva continuato ad andare in escandescenze anche dopo l’arrivo in via Fatebenefratelli e l’ingresso in cella di sicurezza. Visto anche prendere a testate il muro da alcuni testimoni, D’Apote si era poi disteso pancia a terra. Intorno alle 6.15, secondo la versione fornita dalla Questura, gli agenti di sorveglianza lo hanno chiamato una prima volta, pensando che dormisse, per andare a firmare il verbale d’arresto. Poi una seconda, non sentendo risposta. Alla terza sono entrati ma l’uomo già non respirava più. La chiamata al 118 è partita alle 6.35: quando i soccorritori sono arrivati, però, D’Apote era, già morto.

Trieste: morì durante arresto, quattro poliziotti sotto processo

 

L’Unità, 10 ottobre 2008

 

Riccardo aveva 34 anni quando morì ammanettato mani e piedi nella sua abitazione alla periferia di Trieste. Intorno a lui almeno quattro poliziotti che adesso rischiano di finire sotto processo per omicidio colposo: Francesca Gatti, Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi. Per loro, infatti il pubblico ministero Pietro Montrone ha presentato tre giorni fa la richiesta di rinvio a giudizio al gip Enzo Trucellito.

Una vicenda terribile che approda finalmente in un’aula di Tribunale dopo quasi tre anni di una battaglia legale condotta in ostinata solitudine da una famiglia ferita e offesa. Dallo Stato. Una battaglia iniziata il 27 ottobre del 2006, quando su Borgo San Sergio era già sceso il buio. Al quarto piano di una palazzina Ater c’è Riccardo Rasman: ha 34 anni e da diverso tempo è in cura al Centro Igiene Mentale di Domio.

Ha una pensione da invalido per problemi psichici iniziati molti anni prima, dopo lunghi mesi di sevizie e atti di nonnismo a cui era stato costretto, spesso con la violenza, durante il servizio militare. Riccardo è felice perché forse ha trovato un lavoro e nel monolocale che aveva avuto in affitto, pur vivendo ancora coi genitori, festeggia a modo suo. La musica di una radiolina, qualche petardo lanciato fuori dalla finestra e una goffa danza, nudo alla finestra. I vicini si lamentano e chiamano la Polizia, che interviene con una volante. Gli agenti bussano alla porta ma Riccardo si rifiuta di aprire. E spaventato, grida e li minaccia.

Qualcuno dei vicini avverte gli agenti, spiega loro chi è Riccardo e racconta che di lui si sono presi cura i medici del Cim. Eppure la polizia decide di intervenire lo stesso. Arrivano altri due mezzi e i Vigili del Fuoco sfondano la porta. Ne nasce una violentissima colluttazione, Riccardo viene ferito e perde sangue. Prima di essere immobilizzato da almeno quattro agenti si difende, ma prende pugni in faccia e colpi sul resto del corpo.

Forse anche, ipotizza la procura, con il piede di porco che era stato usato per sfondare la porta. Lo ammanettano, le braccia piegate dietro la schiena, le caviglie bloccate con un fil di ferro. Riccardo respira affannato, si lamenta. Perde conoscenza e muore in pochi minuti, la faccia gonfia per le botte, livida per quel respiro strozzato in gola e sporca di sangue. Come il muro contro cui gli agenti lo hanno spinto, le lenzuola del letto e le piastrelle bianche del pavimento.

I poliziotti, ricostruisce il pm, nell’atto di chiusura delle indagini, "dopo essere riusciti a spingerlo a terra in posizione prona, al fine di immobilizzarlo e ammanettarlo, esercitavano sul tronco del Rasman, sia salendogli insieme o alternativamente sulla schiena che premendo con le ginocchia, un’eccessiva pressione che ne riduceva gravemente le capacità respiratorie". In questo modo, si conclude la ricostruzione del pubblico ministero, "procuravano al Rasman una asfissia "da posizione" che lo conduceva alla morte".

Ed è per questo motivo che sui quattro agenti pende adesso una richiesta di rinvio a giudizio per omicidio colposo: perché "eccedendo colposamente i limiti stabiliti dalla legge, ovvero imposti dalla necessità, per illecito adempimento di un dovere e per l’esercizio di una legittima difesa, cagionavano per colpa la morte di Riccardo Rasman". Ossia di quel ragazzo che prima dell’irruzione degli agenti aveva lasciato sul tavolo della cucina un biglietto poi ritrovato dalla famiglia: "Mi sono calmato, per favore non fatemi del male".

Tredici mesi prima, su una strada di Ravenna era morto Federico Aldrovandi. Anche lui picchiato a sangue da quattro agenti della Polizia ora sotto processo per omicidio colposo. Anche lui, secondo la procura, ucciso da una asfissia posturale. Un legame rosso sangue che unisce due destini e che ha spinto la famiglia Rasman ad affidarsi alle cure dell’avvocato Fabio Anselmo (che collabora Giovanni Di Lullo), lo stesso legale che da anni combatte al fianco di Patrizia Aldrovandi la sua battaglia per la giustizia. Contro lo Stato.

Roma: il prefetto Mosca; la lotta più difficile è contro la droga

di Rinaldo Frignadi

 

Corriere della Sera, 10 ottobre 2008

 

"Siamo riusciti a fai abbassare il numero delle rapine e dei furti, ma contro la droga combattiamo una lotta molto più dura e difficile", ammette il prefetto Carlo Mosca. Un dossier di Palazzo Valentin] svela un panorama inquietante: aumentano i minorenni consumatori di stupefacenti convocati per i colloqui obbligatori con gli assistenti sociali e c’è un’impennata dell’uso di cocaina. Ogni giorno in via Ostiense vengono ascoltate 60 persone segnalate dalle forze dell’ordine dopo essere state sorprese con dosi di droga. Fra loro ci sono non solo minori, ma anche professionisti e commercianti. Un "esercito" di consumatori: quattromila circa nel 2006 e nel 2007, ma se ne attendono almeno mille in più per la fine dell’anno.

Diciassette arresti, sei denunce, 25. segnalazioni in Prefettura per consumo di stupefacenti: il bilancio della giornata di ieri, scandita a ritmo incalzante da operazioni anti-droga di polizia e carabinieri da un angolo all’altro della città, conferma che il fenomeno, nonostante i frequenti sequestri, non accenna a placarsi, anzi è in aumento.

Con il suo corollario di storie e vicende umane spesso drammatiche, e di aneddoti: un’intera famiglia della Romania sorpresa a gettare cocaina nel water per sfuggire alla polizia; un minorenne bloccato a scuola con mille euro in tasca guadagnati con la vendita di droga; sei pusher fermati a Ponte Sisto (c’era anche un marocchino che aveva chiesto asilo politico e che cercava di vendere hashish a una poliziotta), e altri 11 spacciatori intercettati dai carabinieri fra il centro e Monterotondo.

"Siamo riusciti a far abbassare il numero delle rapine e dei furti, ma contro la droga combattiamo una lotta molto più dura e difficile", ammette il prefetto Carlo Mosca, che aggiunge: "Ai ragazzi servono modelli, positivi, sia a casa, sia a scuola, altrimenti la sola repressione non è sufficiente. Basti pensare che nei primi mesi di quest’anno soltanto i carabinieri hanno sequestrato un quantitativo di droga pari a quello trovato in tutto il 2007".

Si rischia il punto di non ritorno. E anche la Prefettura è scesa in campo. Ogni giorno i dieci assistenti sociali del Not, il Nucleo Operativo Tossicodipendenze, incontrano nelle salette riservate di via Ostiense circa 60 persone segnalate dalle forze dell’ordine come consu-matrici di droghe. I colloqui sono obbligatori dopo essere stati fermati con un quantitativo, anche limitato, di sostanze stupefacenti.

"Sono persone di tutti i tipi e di tutte le estrazioni sociali - spiega la dirigente del nucleo, il viceprefetto Paola Parisi - molti minorenni, alcuni liberi professionisti, compresi medici, avvocati, commercianti". I dati sono significativi: 4.060 segnalati nel 2006, 4.142 nel 2007.

Quest’anno, fino a oggi, sono già quasi tremila, ma se ne attende un migliaio in più prima della fine dell’anno. "Dalla statistica sono escluse infatti le posizioni che, archiviate dal giudice perché il principio attivo non era sufficiente per un procedimento penale, tornano di competenza del prefetto per il seguito amministrativo. E poi c’è chi viene sorpreso alla guida di un’auto sotto effetto di droga", precisa il viceprefetto.

L’analisi del monitoraggio svolto da Palazzo Valentini rivela poi che le segnalazioni per cocaina sono passate dal 10,22 al 13,5 per cento e che i minorenni, sopra i 16 anni, sfiorano il 10 per cento del totale (6,8 nel 2006; 7,8 nel 2007).

"Dai colloqui - dice ancora il funzionario - emerge soprattutto che i segnalati, in media fra i 16 e 40 anni, con una bassa percentuale femminile (sopra i 25 anni), non sanno che detenere droga è un reato e che assumerla può arrecare gravi danni alla salute. Senza contare le sanzioni previste in questi casi, come la sospensione della patente o del passaporto da uno a 12 mesi. In generale considerano l’uso personale un fatto consentito, lecito. Ci troviamo di fronte a una diffusione della droga che tocca qualsiasi strato sociale. E intanto cala l’età del minori che si presentano ai colloqui accompagnati dai genitori: il più piccolo, poco tempo fa, aveva solo 13 anni".

Ma cosa dicono i "segnalati in Prefettura"? "Tolti i casi collegati a un profondo disagio familiare e sociale, che coinvolgono anche i minorenni - conclude il viceprefetto Parisi - la maggior parte delle persone convocate peri colloqui considera il consumo di droghe un fatto ludico, un passatempo, e anche un momento di evasione Lo stupefacente ha ormai soppiantato il classico "bicchiere di vino". Promettono che non lo faranno più, ma poi alcuni tornano qui dopo che li hanno fermati di nuovo".

Torino: 600 ore di "lezioni di legalità" con Associazione Libera

 

Redattore Sociale - Dire, 10 ottobre 2008

 

Caratterizzata da un incrocio di ringraziamenti tra Victor Crotta e don Luigi Ciotti la presentazione della quinta edizione di "Testimone ai testimoni", avvenuta ieri nella sala "Cornelio Liore" della sede di Via dei Capuccini della Aeg. "L’incontro con don Ciotti - ha ricordato Crotta - è stato un incontro importante nella mia vita, perché mi ha permesso di fare delle riflessioni. In una vita passata correndo dietro le palline, pestando i campi di terra rossa e campi in erba, l’incontro con don Luigi mi ha svegliato e fatto pensare ad altri aspetti della vita. Ci siamo conosciuti una quindicina di anni fa e don Luigi parlava di sport, di ragazzi, io raccontai delle mie esperienze di oratorio, un recinto positivo, che permetteva ai ragazzi di fare sport. Da questo chicchierata è nata l’idea di una sorta di oratorio laico, che è quello che ha, in sostanza, aperto il Tennis Club di Ivrea".

Quando è venuto il turno di don Ciotti di parlare, questi non ha esitato a ringraziare Crotta, non per le sue parole, quanto per il suo lavoro.

"Sono io che ringrazio Crotta - ha detto don Ciotti -. Ho incontrato un campione dello sport, un uomo di grande valore, e ho trovato nelle sue parole quella profondità di saper mettere la persona al centro (... e non solo le palline), e che ha voluto fare qualcosa per i ragazzi più piccoli. Ha voluto dare una mano e creare dei punti di riferimento per i giovani, perché potessero conoscere una pratica sportiva riempita di valori e di contenuti".

La principale novità di questa edizione della manifestazione è che esce dai confini canavesani e viene instaurata una collaborazione con una scuola di Grugliasco. E intanto i ragazzi coinvolti a vario titolo dal progetto sono circa 11mila. Confermata, invece, l’intelaiatura generale della manifestazione, che continua a presentarsi come un percorso educativo e sportivo per la legalità, con circa 600 ore gratuite di attività motorie realizzate nelle scuole, incontri con sportivi e personaggi del sociale, un concorso multimediale e la "Staffetta dei diritti, della legalità e della pace", da tenersi l’ultimo giorno di scuola.

Il percorso di questa edizione verrà declinato in tre filoni: legalità, sport e dipendenze. Il filone "legalità" prevede sei appuntamenti. Il prossimo 21 novembre don Ciotti incontrerà gli studenti e chiunque sia interessato al teatro Giacosa. Il 28 gennaio si terrà l’incontro con Giorgio Vitari, procuratore capo della Repubblica di Vercelli.

In date ancora da definire vi sarà un incontro con Piercamillo Davigo, consigliere della Corte di Cassazione, una visita al nucleo elicotteristi e al nucleo cinofilo dei carabinieri a Volpiano e una visita alla caserma dei vigili del fuoco di Ivrea.

Saranno, invece, quattro gli incontri con Davide Mattiello, responsabile di Libera Piemonte. L’11 novembre a Ivrea, il 18 a Castellamonte e poi a Banchette e, infine, il 25 nuovamente a Ivrea. Il filone "sport" prevede tre appuntamenti. Due con date ancora da definire. Il tennista Paolo Bertolucci incontrerà i detenuti della Casa Circondariale di Ivrea. Verrà quindi a Ivrea Alessandro Del Piero per parlare con gli studenti. Definita invece la data, 31 marzo, per l’incontro con Candido Cannavò e Simona Atzori, ballerina priva di braccia fin dalla nascita, che sarà a Ivrea per uno spettacolo al Giacosa. L’ultimo filone è quello delle "dipendenze", che vedrà incontri il 15 gennaio con Michele Gagliardo del Gruppo Abele, e il 6 e 13 novembre e il 5 febbraio con Mauro Maggi, sempre del Gruppo Abele.

Tema di quest’anno del concorso multimediale è "Differenze ed eguaglianze: così lontani, così vicini". Le scuole dell’infanzia e quelle primarie potranno presentare elaborati in qualunque forma. I ragazzi delle medie dovranno realizzare dei prodotti multimediali con una presentazione cartacea. Gli studenti delle superiori dovranno scrivere degli articoli giornalistici.

Immigrazione: 3,5milioni stranieri; i romeni sono i più numerosi

 

La Repubblica, 10 ottobre 2008

 

"Siamo grati ai romeni". Nel giorno dello storico sorpasso sugli albanesi, Silvio Berlusconi ringrazia la prima comunità straniera in Italia. Il boom è fotografato dall’Istat: gli immigrati sono oggi 3.432.651, 493.729 in più dell’anno precedente (+16,8%): "Si tratta - sottolineano i ricercatori - dell’incremento più elevato mai registrato nella storia dell’immigrazione nel nostro Paese". La causa? L’"invasione" dei romeni: 283.078 in più nell’ultimo anno (+82,7%).

Dal primo gennaio 2008 gli immigrati costituiscono il 5,8% della popolazione italiana. Chi sono? Innanzitutto romeni (passati dai 342.200 ai 625.278); quindi albanesi (cresciuti dai 375.947 ai 401.949 residenti); marocchini (con 365.908 presenze); cinesi e ucraini. Circa 457mila stranieri sono nati in Italia, 64.049 nel solo 2007 (nel censimento 2001, erano solo 160 mila). Si tratta di cittadini italiani a tutti gli effetti. Non per la legge, però: rimangono infatti stranieri fino al 18esimo anno d’età, per il solo fatto di essere figli di genitori immigrati. Aumentano poi le concessioni di cittadinanza italiana, 45.485 nel 2007 (+29,0%), per lo più grazie ai matrimoni misti. In tal modo, il saldo naturale della popolazione straniera (+60.379 persone) compensa quasi per intero il saldo naturale negativo di quella italiana (-67.247). Ma dove vivono gli immigrati? Il 62,5% al Nord, il 25% al Centro, il 12,5% al Sud. A livello regionale, il record spetta all’Emilia-Romagna (8,6% degli abitanti), seguita da Lombardia (8,5%) e Veneto (8,4%). In alcune province, su 100 residenti almeno 10 sono stranieri; è il caso di Prato, Brescia, Reggio Emilia, Mantova, Treviso e Piacenza.

Alla prima comunità straniera in Italia si è rivolto ieri Berlusconi incontrando il presidente romeno, Calin Popescu Tariceanu, a Villa Madama: "I romeni sono persone serissime - ha affermato il premier - che si sono inserite benissimo nel nostro sistema economico e hanno dato un grande contributo alla nostra economia: a loro sono grato". In tal modo, Berlusconi ha cercato di appianare i contrasti con Bucarest sorti dopo l’approvazione del pacchetto sicurezza: "Ci sono italiani che hanno commesso reati in Romania e romeni che hanno commesso reati in Italia; le norme emanate dal Consiglio europeo permettono di trasferire i cittadini condannati quando c’è l’adesione del singolo, ma, con l’accordo bilaterale che stiamo stipulando, non ce ne sarà più bisogno". Sulla stessa linea il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, secondo il quale "quello romeno è un popolo fratello, sia perché europeo sia per le comuni radici".

Di immigrazione è tornato a parlare ieri alla Camera anche il ministro dell’Interno. Secondo Roberto Maroni il nostro "non è oggi un Paese razzista" e gli ultimi episodi di violenza nei confronti degli immigrati sarebbero solo "episodi marginali e socialmente rifiutati". Il responsabile del Viminale prevede che nel 2008 arriveranno circa 30mila immigrati clandestini. Una stima confermata dall’incessante crescita degli sbarchi: nelle ultime ore sono infatti arrivati sulle coste di Lampedusa 423 immigrati; circa 150 eritrei sono invece sbarcati ieri mattina a Bova Marina, nel reggino; mentre altri 33 giovani nordafricani sono stati intercettati davanti alle coste sarde. Tanto che Marco Minniti, ministro ombra del Pd, afferma: "Oggi gli sbarchi sono raddoppiati rispetto allo scorso anno e la sequenza, nonostante le roboanti dichiarazioni, appare del tutto inarrestabile".

Francia: nel carcere di Metz, quattro suicidi in soli cinque mesi

 

Liberazione, 10 ottobre 2008

 

Quattro suicidi in appena cinque mesi nella prigione di Metz, nel nord est della Francia (Lorena). E dire che il ministero della Giustizia stesso aveva definito quel penitenziario addirittura come carcere "modello". Evidentemente non è così, perché il carcere resta sempre il carcere.

L’ ultimo suicidio riguarda un ragazzo di 16 anni: martedì scorso si è impiccato nella sua cella. Gli altri detenuti che si sono tolti la vita dal 21 maggio scorso avevano invece 46, 27 e 20 anni. Per non parlare dei tentativi di suicidio, almeno tre negli ultimi dieci giorni: tutti e tre sotto i 18 anni. Avevano provato a impiccarsi anche loro ma per fortuna sono stati salvati all’ ultimo momento dai secondini.

Una situazione allarmante, tanto più che i sindacati hanno denunciato una mancanza di mezzi e di uomini. Il ministro della giustizia Rachida Dati, che ieri stesso ha fatto visita al carcere di Metz, ha annunciato di aver predisposto un decreto con misure che puntano alla prevenzione dei suicidi nelle prigioni transalpine. Fra l’altro - ha spiegato il ministro - "ogni minorenne condannato e sul punto di essere richiuso dovrà essere prima presentato a un magistrato che gli dovrà spiegare le ragioni per le quali entra in carcere". Inoltre, al loro arrivo in carcere, saranno esaminati da medici per una "valutazione del rischio suicidio".

Francia: magistratura "congela" la chiusura degli anni di piombo

di Paolo Persichetti

 

Liberazione, 10 ottobre 2008

 

La sintesi di una intervista anticipata mercoledì 1 ottobre sul sito internet del settimanale L’Express è costata la sospensione della semilibertà a Jean-Marc Rouillan, cofondatore di Action Directe, il gruppo armato dell’estrema sinistra francese attivo negli anni 80. La misura sospensiva emessa dal magistrato di sorveglianza è intervenuta su richiesta della procura generale di Parigi, titolare in materia di antiterrorismo, che ha domandato la revoca della misura prim’ancora che il testo integrale dell’intervista apparisse nelle edicole.

Dal 2 ottobre Rouillan è di nuovo rinchiuso nel carcere marsigliese delle Baumettes, da dove usciva ogni mattina per raggiungere il suo posto di lavoro presso la casa editrice Agone , in attesa che il prossimo 16 ottobre il tribunale di sorveglianza si pronunci sulla legittimità della richiesta di revoca. All’ex militante di Action Directe, la cui domanda di liberazione condizionale doveva essere esaminata il prossimo dicembre, la procura contesta alcune frasi contenute nell’intervista uscita in contemporanea anche sulle pagine di Libération il 2 ottobre. L’anticipazione dell’ Express ha bruciato sui tempi il quotidiano parigino che non ha mancato di sollevare una piccola polemica rilevando il carattere "un po’ delinquenziale" di chi dietro la frenetica caccia allo scoop ha innescato un artificioso caso mediatico sulla pelle di un ergastolano. Ed in effetti l’intera vicenda puzza di strumentalizzazione costruita ad arte.

Secondo la procura, Rouillan avrebbe "infranto l’obbligo di astenersi da qualsiasi tipo d’intervento pubblico relativo alle infrazioni per le quali è stato condannato". Condizione che gli era stata imposta al momento della concessione della semilibertà nel dicembre 2007, dopo aver trascorso 20 anni di reclusione tra isolamento e carceri speciali. Il suo avvocato, Jean-Louis Chalanset, contesta però questa interpretazione che considera "infondata giuridicamente". E non ha tutti i torti perché gran parte delle risposte fornite dall’ex esponente di Ad riguardano, in realtà, la sua adesione al processo costituente del Nuovo partito anticapitalista che sta raccogliendo attorno a se la galassia della sinistra sociale e antagonista francese. Ingresso di cui aveva parlato la stampa la scorsa estate dopo un incontro avuto con Olivier Besancenot, il porta parola della Lcr che da mesi svetta nei sondaggi ed ha promosso questo processo d’unificazione.

"Dopo 22 anni di carcere - dichiara l’ex membro di Ad - ho bisogno di parlare, di apprendere di nuovo dalle persone che hanno continuato a lottare in tutti questi anni (…) la mia adesione è una scelta individuale". Che lo scandalo suscitato dalle sue parole sia il prodotto di una manipolazione emerge chiaramente dal raffronto dei due diversi resoconti realizzati dai giornalisti che l’hanno incontrato, Michel Henry di Libération e Gilles Rof dell’Express. Nel testo apparso su Libération vengono riportate delle affermazioni estremamente posate. Rouillan spiega come s’immagini "semplice militante di base. L’epoca dei capi è finita. Sono entrato nell’Npa per imparare dagli altri.

Vorrei che dimenticassero chi sono". Ben 11 delle 20 domande riportate sull’Express insistono sulle ragioni di quest’adesione, dunque sul presente, non sul passato. Rouillan non si sottrae però a domande più difficili e spiega a Libération che seppur "assumo pienamente la responsabilità del mio percorso, non incito però alla violenza (…) se lanciassi un appello alla lotta armata commetterei un grave errore".

Quando viene incalzato precisa che "il processo della lotta armata per come si è manifestato dopo il 68, nel corso di un formidabile slancio di emancipazione, non esiste più". E di fronte alle ulteriori, e a questo punto tendenziose insistenze del giornalista dell’ Express , puntualizza che "quando ci si dice guevarista [il riferimento è a un’auto definizione di Besancenot, Ndr] si può rispondere che la lotta armata è necessaria in determinati momenti storici. Si può avere un discorso teorico senza per questo fare della propaganda all’omicidio".

Nel resto dell’intervista descrive sommariamente la sua concezione conflittuale della lotta politica e il senso di smarrimento di fronte ai disastrosi mutamenti della società scoperti dopo l’uscita dal carcere. Ricorda infine che degli ultimi 4 prigionieri di Ad, una di loro è morta e due sono gravemente malati, risultato dei durissimi anni di detenzione subiti.

Insomma nonostante lo sforzo di fargli dire dell’altro, Rouillan è chiaro. Tuttavia la procura e subito dietro i commentatori della stampa di destra come di sinistra, la presidente di Sos-attentats , un’associazione di vittime del terrorismo, hanno duramente stigmatizzato le sue parole denunciando l’assenza di rimorsi, la mancanza di una richiesta di perdono, intimando a Besancenot di liberarsi di una presenza ingombrante, equivoca, "ripugnante".

Eppure se ci si sofferma qualche istante sull’intervista, ci si accorge che Rouillan non ha fatto altro che attenersi alle prescrizioni del magistrato: "Non ho il diritto di esprimermi sull’argomento - dice - ma il fatto che non mi esprima è già una risposta. È evidente che se mi pentissi del passato potrei esprimermi liberamente. Ma attraverso quest’obbligo al silenzio s’impedisce alla nostra esperienza di tirare un vero bilancio critico".

Il direttore della redazione dell’ Express, Christophe Barbier, alla notizia dell’intervento della procura ha reagito spiegando che se il bilancio di Action directe è "indifendibile", Rouillan è comunque "un cittadino che continua a pagare il suo debito con la società" e ha "diritto alla libertà di espressione".

Gilles Rof, il giornalista freelance che ha ceduto il suo pezzo all’ Express , si è detto "scioccato" dalla reazione della magistratura e dal cortocircuito mediatico che ha deformato le affermazioni di Rouillan, rivelando che questi per ben due volte in passato aveva rifiutato l’intervista per alla fine accettare a condizione di rileggerne il testo prima della pubblicazione. "Non ha mai detto che non esprimeva rimorso per l’uccisione di Georges Besse [il presidente-direttore generale della Renault ucciso nel 1986, Ndr].

Anzi ha riscritto con cura la risposta per dire che non aveva il "diritto di esprimersi" non che non poteva esprimersi". Benché non avesse concordato domande sui fatti oggetto della condanna, Rof sostiene che evitare l’argomento avrebbe posto una questione di credibilità all’intervista.

Niente di quanto abbia fatto Rouillan durante la semilibertà, o detto nell’intervista, risulta reprensibile. Tra i requisiti previsti dalla legge francese non vi è alcun obbligo di regret , ovvero d’esprimere ravvedimento. Le condizioni poste riguardano invece la verifica della cessata pericolosità sociale e gli obblighi civili di risarcimento. In realtà Rouillan quando sottolinea che il silenzio imposto sui fatti sanzionati dalla legge impedisce la possibilità di una vera rielaborazione critica e pubblica del proprio percorso, mette il dito nella piaga. Sono gli ostacoli frapposti al lavoro di storicizzazione, che presuppone un dibattito pubblico senza esclusioni e preclusioni, che impediscono il processo di oltrepassamento relegando un periodo storico negli antri angusti dei tabù sacralizzati, dell’indicibile se non nella forma dell’esorcismo che ha solo due forme espressive: l’anatema o il pentimento.

Qualcosa di simile sta accadendo anche in Italia, dove il paradigma del complotto che ha imperversato per due decenni è stato soppiantato dalla demonizzazione pura e semplice. Così oggi Rouillan rischia di essere ricacciato negli inferi del fine pena mai sulla base di una mancata abiura. Delitto teologico che già ha fatto parlare alcuni di "reato d’opinione reinventato" (Daniel Schneiderman su Libération del 6 ottobre).

Questo intervento della magistratura sembra dare voce al dissenso di una parte degli apparati, e probabilmente di una parte dello stesso ministero della Giustizia, verso la politica messa in campo nei confronti dei residui penali dei conflitti politico-sociali degli anni 70-80. Infatti, dopo una iniziale politica di segno opposto, Nicolas Sarkozy è sembrato rendersi conto - forse anche sulla scia della vicenda Petrella - dell’utilità che poteva rappresentare la chiusura degli "anni di piombo".

Sono altre le emergenze che preoccupano il presidente francese. Le nuove politiche sicuritarie si indirizzano altrove: migranti, banlieues, integralismo islamico. I residui penali del novecento rappresentano una zavorra anche per la visibilità sociale dei vecchi militanti incarcerati, sostenuti da una parte della società civile che ne chiede da tempo la scarcerazione. Così il 17 luglio scorso è stata concessa la liberazione condizionale a Nathalie Ménigon, anche lei membro di Action Directe e con diversi ergastoli, in semilibertà da un anno. Prima di lei, Joëlle Aubrun, arrestata nel 1987 con Rouillan, Ménigon e Georges Cipriani, aveva ottenuto negli ultimi mesi di vita la sospensione della pena a causa delle gravi condizioni di salute.

Nel quadro delle prescrizioni indicate dalla nuova legge sulla "detenzione di sicurezza", Georges Ibrahim Abdallah, Régis Schleicher, Georges Cipriani, Max Frérot, Emile Ballandras, tutti prigionieri politici con oltre 20 anni di carcere sulle spalle, sono stati concentrati nell’istituto penitenziario di Fresnes, nella periferia sud di Parigi, dove è presente il centro d’osservazione nazionale incaricato di valutare la pericolosità sociale dei detenuti prima che questi vengano ammessi al regime in prova della semilibertà e successivamente in libertà condizionale.

A questo punto la decisione che dovrà prendere la magistratura di sorveglianza il prossimo 16 ottobre non investe solo la sorte di Rouillan, ma il destino dell’intera "soluzione politica". Intanto oggi e domani si tiene a Parigi un convegno di studi organizzato da uno degli istituti universitari più prestigiosi, la grande école di science, sostenuto dall’istituto culturale italiano, il comune di Parigi, dedicato a "L’Italia degli anni di piombo: il terrorismo tra storia e memoria". Che sia utile a far riflettere i giudici?

Pena di morte: Amnesty vuole la moratoria per i Paesi asiatici

 

Liberazione, 10 ottobre 2008

 

Nella regione asiatica sono messe a morte ogni anno più persone che in ogni altra parte del mondo. Alla vigilia della Giornata mondiale contro la pena capitale, Amnesty International chiede a Corea del sud, India e Taiwan di adeguarsi alla tendenza mondiale e di adottare immediatamente una moratoria sulla pena di morte. Le condanne a morte eseguite in Cina, Iran, Arabia Saudita, Pakistan e Usa rappresentano l’88 per cento delle 1252 esecuzioni che l’organizzazione ha documentato nel 2007.

Nell’area Asia/Pacifico, 14 Paesi ancora eseguono condanne a morte, mentre 27 hanno abolito la massima pena per legge o nella pratica. "In Asia c’è terreno per la speranza ed esiste la concreta possibilità di un cambiamento", ha dichiarato Irene Khan, segretaria generale della organizzazione per la tutela dei diritti umani, "Amnesty oggi sollecita India, Corea del Sud e Taiwan ad adeguarsi alla tendenza mondiale verso la fine delle esecuzioni e a dare il buon esempio al resto del mondo".

In Corea del Sud le ultime esecuzioni risalgono al dicembre del 1997, quando 23 persone furono messe a morte. Dieci anni dopo, il 31 dicembre 2007, il presidente ha commutato in ergastolo le sentenze capitali di sei detenuti. Tuttavia, ci sono ancora 58 persone rinchiuse nel braccio della morte. L’India non esegue condanne dal 2004, anche se continuano a essere comminate sentenze capitali, almeno 100 nel 2007, spesso in seguito a processi nei quali gli imputati più poveri non ricevono un’adeguata rappresentanza legale. Taiwan non esegue condanne a morte dal dicembre 2005.

Quest’anno due persone sono state condannate alla pena capitale, portando così a 30 il numero dei prigionieri nel braccio della morte. "In numerosi Paesi dell’Asia la pena capitale continua a essere inflitta per una vasta serie di reati", ha aggiunto Irene Khan. In Giappone quest’anno vi sono state già 13 esecuzioni, rispetto alle nove del 2007. Sono almeno 100 le persone nei bracci della morte; in Pakistan ci sono circa 7.500 condannati, inclusi diversi minorenni al momento del reato.

Spagna: è allarme il 25% dei detenuti soffre di malattie mentali

 

Notiziario Aduc, 10 ottobre 2008

 

La segretaria generale delle Istituzioni Penitenziarie, Mercedes Gallizo, denuncia che almeno il 25% della popolazione reclusa soffre di “malattie mentali” ed è noto che la prigione non è esattamente “il luogo più adeguato” perché le persone guariscano.

“Molte volte il giudice non sa dove mandarli e li invia più facilmente in carcere”. Secondo lei, molti di questi detenuti, se avessero avuto un trattamento adeguato non avrebbero commesso alcun reato. La conclusione è che la politica preventiva in materia di sanità è carente, così come l’assistenza domiciliare per “persone con patologie importanti”.

 

 

 

 

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