Rassegna stampa 10 novembre

 

Giustizia: l’80% di malati, nel carcere una "bomba sanitaria"

di Margherita De Bac

 

Corriere della Sera, 10 novembre 2008

 

Carceri malate. Non solo perché piene come un uovo e in gran parte strutturalmente vecchie e disumane. Ma soprattutto perché ospitano decine di migliaia di persone minacciate da un carico di patologie in certi casi doppio rispetto a quello dei liberi.

Appena il 20% circa dei detenuti sono sani. Il resto si trovano in "condizioni mediocri, 38%, scadenti, 37%, o gravi, 4%, con alto indice di co-morbosità", vale a dire più criticità e handicap in uno stesso paziente. È il più completo rapporto sulla sanità penitenziaria quello predisposto dalla Commissione Giustizia del Senato, su richiesta del presidente, Filippo Berselli.

"Per capire la drammaticità del mondo dietro le sbarre bisogna visitarle le carceri. Io lo sto facendo. Ho scoperto realtà sorprendenti. Come nella Casa Circondariale di Bolzano, oggetto di una mia interrogazione parlamentare al ministro Alfano. Dodici uomini stipati in un’unica cella. Ho domandato se ci fosse il bagno. Certo, mi hanno risposto, indicando una tendina in fondo alla stanza. L’ho scostata, nascondeva lavandino e water.

Il cortile è un piccolo spazio che viene trasformato in campo di calcio durante l’ora d’aria. La porta è disegnata sul muro. Una sola. Per l’altra non c’è abbastanza spazio. E poi ci meravigliamo se la salute per questa gente sia un concetto astratto. Se le infezioni si trasmettono più rapidamente, se c’è chi va fuori di testa. Mi sorprenderebbe il contrario".

Il rapporto verrà discusso dalla Commissione Giustizia e costituirà la base di un pacchetto di proposte. I dati raccolti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria riguardano l’analisi di schede e singole indagini condotte a più riprese. Nella premessa viene osservato che "la domanda di salute in carcere è in costante crescita. Si è passati da oltre 25.500 detenuti del 1990 ai 55.000 del giugno 2008 (tra cui 2.410 donne, il 4,4%).

Ma se si considera il turnover degli arrestati e dei dimessi è evidente come l’offerta dei servizi sanitari coinvolga numeri vicini al doppio di quelli citati". Per ogni "nuovo giunto" viene compilata una cartella di ammissione. Un archivio estremamente dettagliato, come non si trova neppure in ospedale. Il 21% dei detenuti sono tossicodipendenti, il 15% hanno problemi di masticazione, altrettanti soffrono di depressione e altri disturbi psichiatrici, il 13% di malattie osteo-articolari, il 10% malattie del fegato, per limitarsi alle cinque patologie maggiormente diffuse.

La tossicodipendenza è spesso associata a Aids, epatite C e disturbi mentali. "Si deve osservare - sottolinea il rapporto - che le psicopatie, certe malattie infettive e quelle dell’apparato gastroenterico sono presenti con percentuali notevolmente superiori a quelle osservate in libertà". Le persone con Hiv sono 1008, il 2,07% della popolazione carceraria complessiva. Ma l’infezione è molto più diffusa di quanto rivelino le cartelle cliniche. Solo il 30-40% dei detenuti accettano di sottoporsi al test.

"È vero, la maggior parte lo rifiutano", evidenzia il problema Giampaolo Carosi, infettivologo a Brescia, componente della Commissione nazionale Aids. Due le ragioni. Grazie alle nuove terapie, oggi la sieropositività, anche se coincide con uno stato di avanzato indebolimento del sistema immunitario, non costituisce più uno scivolo automatico verso la scarcerazione. Non solo, ma chi viene trovato positivo al virus dell’Hiv va incontro ad emarginazione, stigma da parte dei compagni. "Sono decadute le ragioni per cui il detenuto aveva interesse a far scoprire l’infezione - continua Carosi -. Credo che però il test andrebbe offerto meglio, non solo al momento dell’ingresso".

Quindici istituti di pena dispongono di propri centri per diagnosi e terapia. Si contano sulle dita di una mano gli ospedali con reparti speciali per il ricovero dei reclusi. Due, sulla carta le sale operatorie "interne", a Pisa e al Regina Coeli. Ma la struttura romana è chiusa da prima dell’estate perché ha bisogno di manutenzione. I ritardi dell’intervento tecnico sono dovuti al passaggio di competenze. Dal 1° ottobre la medicina penitenziaria è stata trasferita dal ministero della Giustizia alle Asl.

Una rivoluzione che dovrebbe portare dei benefici ai carcerati. Riceveranno la stessa assistenza che spetta a un cittadino libero. Quindi uguali diritti soprattutto dal punto di vista della erogazione di farmaci. Prima non c’era sufficiente chiarezza su chi dovesse sostenere la spesa, se l’istituto di pena o la Asl, timorosa di vedersi negare i rimborsi da parte del ministero di Giustizia. Ambedue cercavano di risparmiare, specie se si trattava di prodotti costosi. Ed è uno dei problemi denunciati dal rapporto.

La riorganizzazione richiederà tempo. I soldi stanziati per il servizio sanitario penitenziario (84 milioni nel 2008) devono essere trasferiti al Fondo sanitario nazionale. Poi, la ripartizione tra le Regioni e da qui alle Asl che hanno competenza territoriale sugli istituti.

Ma non è l’unico ostacolo: "Non sono stati definiti ancora modelli operativi adeguati all’assistenza in carcere, le Regioni non si sono attrezzate a fornire servizi medici nei penitenziari, ambigua la gestione dei contratti di lavoro e dei ruoli professionali".

Un ampio capitolo del dossier è dedicato agli ospedali psichiatrici: 1.173 detenuti (195 soggetti a misure di contenzione fisica) distribuiti tra le sei strutture di Castiglione, Montelupo, Napoli, Reggio Emilia, Barcellona, Aversa, nate per destinazioni diverse. Diagnosi più frequente il disturbo paranoide schizofrenico e disturbi della personalità. In generale "il numero degli ammessi è sempre superiore al numero dei dimessi. Il rapporto tra il primo e il secondo gruppo è decisamente più sfavorevole a Barcellona".

L’organico dei sanitari è ridotto all’osso. Quindici medici, 183 infermieri, 5 assistenti sociali, per la metà part-time. Pesante la denuncia della Commissione interministeriale Giustizia-Salute incaricata di fotografare la situazione e formulare proposte: "Concentrazione degli internati, commistione più varia di condizioni cliniche e percorsi giuridici, inadeguatezza numerica del personale sanitario, assenza di formazione specifica in un settore così delicato".

Giustizia: Osapp; nelle carceri gravi violazioni diritti dell’uomo

 

Il Velino, 10 novembre 2008

 

"Il rapporto sulla Sanità penitenziaria predisposto dalla commissione Giustizia del Senato ci consegna un quadro che definire solo drammatico è quanto mai offensivo per la dignità dell’uomo recluso, più di quanto non lo sia lo stare dentro a scontare la pena".

A dichiararlo è Leo Beneduci, segretario generale dell’organizzazione sindacale autonoma Polizia penitenziaria (Osapp), commentando la situazione venuta a galla e che ha evidenziato una relazione di due detenuti sani su dieci. "Ci sarebbero tutti i presupposti - continua Beneduci - per una denuncia al tribunale di Strasburgo per gravi violazioni dei diritti dell’uomo".

La nostra non vuole essere un’accusa generica al sistema, non cadiamo nel facile tranello dell’indignazione generale, ma è l’analisi fredda che vuole segnalare come ci sia un intento mirato a che le carceri restino come sono: sono 20 anni che assistiamo alla stessa solfa. Una responsabilità che si perde risalendo certamente ai precedenti governi, culminata con l’ultima disastrosa gestione di un esecutivo, quello di Prodi, che con l’indulto proposto e appoggiato ha pensato bene di scaricare il problema riducendolo ad una mera questione di numeri.

Se immaginiamo solo dove sia ora il presidente Ferrara, ex capo del Dap di allora, non dobbiamo certamente pensare che sia stato dequalificato o punito per le gravi condizioni lasciate. Ma questa è l’Italia che vuole qualcuno, carceri comprese. Venendo ai giorni nostri, la responsabilità è aggravata da un’amministrazione a dir poco silente - ha spiegato - sembra quasi che al ministro della Giustizia Alfano non interessi proprio del mondo penitenziario che ha il dovere di gestire, e il presidente Ionta, capo attuale del Dap, sembra come perso in altre questioni di interesse nazionale".

"Non parlando delle altre organizzazioni di categoria - ha aggiunto - che attente ora nella raccolta di tessere sindacali non hanno convenienza a scoprirsi troppo. A questo punto ci chiediamo quale sia la logica perversa, Di Pietro, di raccogliere un milione di firme per un Lodo che lei e i suoi amici definite Incostituzionale e Immorale e che coinvolge quattro persone - chiede il segretario generale rivolto al presidente dell’Italia dei Valori -, quando in questo preciso momento ci sono più di 57 mila persone che giacciono in condizioni altrettanto immorali e incostituzionali.

Detenuti che avranno pur commesso crimini contro la società ma che sono ammassati in celle di quattro metri per quattro, il più delle volte costretti a dormire su un materasso per terra. Come si vede non servono le lusinghe di un ministro della Giustizia, esperto appunto in lodi, che gratifica un corpo di polizia nelle occasioni ufficiali (come è successo l’altro giorno in Sicilia) e che intanto non fa nulla per alleviare una situazione da terzo mondo: non abbiamo visto ancora uno straccio di provvedimento, né siamo stati mai convocati per discutere dell’emergenza. Siamo oramai giunti a numeri da pre-indulto, con condizioni che non esitiamo a definire da paese sudamericano, ben peggiori di due anni fa.

Tra un po’ dovremo utilizzare i container per ospitare i reclusi - spiega provocatoriamente Beneduci - e saremo costretti a chiamare l’esercito per sedare le risse. La nostra accusa è a 360 gradi e ha nomi e cognomi ben individuati, anche verso chi dell’opposizione si sente detentore della verità assoluta, o è altrettanto dormiente, come capita troppo spesso a Veltroni. Un’opposizione che può essere roboante, o felpata, che magari non ha mai fatto visita in un carcere e si sente di poter dar in ogni caso la patente del più candido, mentre ci sono più di 44 mila poliziotti penitenziari che sono tenuti a testimoniare il dramma di una vita, che considerare umana dovrebbe essere quantomeno di sfregio alla Costituzione italiana. Il nostro contributo è necessario - conclude - affinché il rapporto della commissione non rimanga solo un dossier isolato facile a coprire un momento mediatico particolare, se ci saranno le esigenze solleciteremo noi stessi l’alta Corte dei diritti dell’uomo.

Giustizia: Alfano; abbiamo le leggi per vera azione antimafia

di Virgilio Fagone

 

La Sicilia, 10 novembre 2008

 

"È arrivato il momento dell’antimafia delle leggi, dei fatti e dei risultati. Credo che le oltre 20 norme, alcune già in vigore e altre in fase di approvazione al Senato, rappresentano sul piano temporale la più grande, intensa e concentrata azione legislativa di contrasto alla mafia dai tempi di Falcone al ministero della Giustizia". A Ragusa, nel giorno della festa della Polizia Penitenziaria, il Guardasigilli Angelino Alfano fa il punto sulle azioni del governo sul fronte della lotta a Cosa nostra, dedicando un passaggio del suo intervento alla guardie carcerarie "alla cui opera silenziosa si deve se molti mafiosi sono diventati collaboratori di giustizia".

 

Ministro Alfano, è finita la stagione che alcuni malignamente definivano dell’antimafia parolaia"?

"Intendo dire che arrivano delle leggi e arrivano i frutti. Possiamo consentirci, proprio per questo, degli esempi concreti. Tre giorni fa i carabinieri hanno sequestrato beni per 100 milioni di euro agli eredi di un imprenditore defunto. Il sequestro non sarebbe stato possibile se non fosse intervenuta una norma del decreto sicurezza che stabilisce che le misure patrimoniali possono essere disposte anche in caso di morte del soggetto proposto per la loro applicazione. E poi la revoca del gratuito patrocinio a un boss della ‘ndrangheta e il primo arresto a Napoli, conseguente al decreto rifiuti, di un cittadino trovato mentre trasformava un luogo pubblico in discarica abusiva. La morale della favola è che abbiamo fatto una decreto il 23 maggio del 2008, convertito in legge il 24 luglio, e già arrivano i risultati. L’immediata applicazione è la prova che queste leggi servivano. Per non parlare del 41 bis".

 

Il 41 bis è uno strumento indispensabile per impedire ai boss di comunicare con l’esterno e di continuare a comandare dal carcere. Molte inchieste hanno dimostrato che in qualche modo, alcuni capomafia sono riusciti, con vari stratagemmi, ad eludere il regime del carcere duro. Cosa avete previsto concretamente per eliminare questi rischi?

"È stato rilevato dal momento del mio insediamento che vi erano troppe revoche operate in sede di giudizio dei tribunali di sorveglianza e siamo intervenuti in modo radicale operando una stretta sulla durata, sui presupposti, sulle competenze e sulle responsabilità del ministro della giustizia. Sulla durata: adesso si può partire da tre anni prorogabili per periodi successivi ciascuno pari a due anni. Sui presupposti della proroga: sarà sufficiente che la capacità di mantenere collegamenti con la criminalità mafiosa non sia venuta meno. Sulle competenze: il giudizio sul reclamo sarà accentrato in capo al Tribunale di Sorveglianza di Roma. Le responsabilità del ministro: il Tribunale non potrà operare un sindacato sulla congruità del contenuto del provvedimento ministeriale ma dovrà limitarsi a verificare la sussistenza o meno dei presupposti per l’adozione del provvedimento, lasciando, dunque, alla valutazione del ministro la concreta individuazione delle misure adottabili. Si è prevista inoltre la possibilità che all’udienza di fronte al Tribunale di Sorveglianza il procuratore generale presso la Corte d’appello possa essere affiancato dai magistrati della Dda e della Dna che conoscono la storia del detenuto. Agli stessi è consentito di proporre ricorso in Cassazione. L’approvazione all’unanimità di questa norma in commissione al Senato ci lascia ben sperare sul buon esito del voto parlamentare".

 

In Sicilia nelle ultime settimane cinque magistrati impegnati sul fronte della lotta a Cosa nostra hanno subito intimidazioni. Cosa sta avvenendo, la mafia è tornata ad alzare il tiro contro i giudici?

"Anche qui è un problema di fatti: si tratta di giudici e magistrati che con i fatti e con gli atti hanno combattuto la mafia. La quale, come purtroppo è noto, non dimentica e non perdona. Ecco perché con queste norme già approvate e con quelle in via di approvazione al Senato crediamo di avere dato la migliore prova di vicinanza a chi quotidianamente di batte per lo Stato contro la mafia".

Giustizia: il 41-bis può applicarsi anche ai complici della mafia

 

Ansa, 10 novembre 2008

 

Si allarga l’ambito dei soggetti ai quali potrà applicarsi il carcere duro: oltre ai mafiosi e ai terroristi i rigori del 41-bis potranno essere estesi a chi delinque avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso; aumenta poi la durata della prima applicazione della misura, passata da un massimo di due anni a tre anni con proroghe di due anni ciascuna. A fare il punto sul il giro di vite sul 41-bis è il ministro della Giustizia Angelino Alfano, a Ragusa per partecipare alla Festa della polizia penitenziaria, che ha sostenuto con forza l’inasprimento del carcere duro attraverso una serie di norme che costituiscono una vera e propria "rivoluzione" nell’applicazione del 41-bis.

"È arrivato il tempo dell’antimafia delle leggi, dei fatti e dei risultati" ha commentato il Guardasigilli. Diverse le novità contenute in un emendamento bipartisan al ddl sulla sicurezza approvato l’altro giorno in Commissione Giustizia e Affari Costituzionali del Senato.

Tra gli aspetti più rilevanti della normativa i criteri per l’adozione delle proroghe del provvedimento, adottabili "quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con la criminalità mafiosa, terroristica o eversiva non è venuta meno, tenendo conto anche del profilo criminale e della posizione dal soggetto rivestita in seno all’associazione, dell’operatività del sodalizio criminale, della sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, degli esiti del trattamento carcerario, del tenore di vita dei familiari del sottoposto".

Novità anche sui ruoli dei tribunali di sorveglianza che non potranno più sindacare la congruità del contenuto del provvedimento ministeriale, ma dovranno limitarsi a verificare la sussistenza dei presupposti per la sua adozione, lasciando al ministero l’individuazione delle modalità concrete di attuazione della misura. Svolta nella competenza sui reclami contro il carcere duro inflitto dal Guardasigilli, da ora fissata in via esclusiva in capo al tribunale di sorveglianza di Roma: ciò per evitare orientamenti giurisprudenziali diversi a seconda dei distretti di corte d’appello interpellati. All’udienza in cui si discute sulla adottabilità del carcere duro, poi, il procuratore generale presso la corte d’appello potrà essere affiancato da magistrati della Dda e della Dna, che conoscono più approfonditamente la storia criminale del detenuto.

A loro è assegnata poi la possibilità di fare ricorso per Cassazione. Norme più rigorose anche per chi consente di aggirare i vincoli del 41-bis: nel codice penale viene previsto il reato di "agevolazione ai detenuti e internati sottoposti a particolari restrizioni delle regole di trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario".

Il delitto è punito da uno a quattro anni ed è aggravato se commesso da pubblici ufficiali o avvocati. Attualmente i detenuti in 41 bis sono 585 (579 uomini e 6 donne), di cui la maggior parte camorristi (204), seguiti da reclusi appartenenti a Cosa Nostra (180), ‘ndrangheta (105), Sacra Corona Unita (25), e anche per terrorismo (3).

Giustizia: le celle di Riina e Francesco Schiavone "Sandokan"

di Paolo Berizzi

 

La Repubblica, 10 novembre 2008

 

Milano, due tunnel super blindati separano le vite in carcere del mafioso e del camorrista. Il primo rassegnato, "detenuto modello". Il secondo rabbioso, urla e protesta.

"Tiriamo la vita avanti", dice Totò Riina. Il vecchio boss malato ma sereno, che con filosofia si rassegna al fluire del tempo, che riempie pagine di lettere, chino sullo scrittoio. "Perché mi hanno tolto la televisione?, che ho fatto?" chiede, stizzito, Francesco Schiavone. Il nuovo boss che ringhia, che allude. La barba grigia e incolta del Capo dei Capi. Quella scura, lunga e curata di Sandokan. Il padrino di Cosa Nostra di qua, il re dei Casalesi di là. Area riservata 41 bis, carcere di Opera.

Due tunnel super blindati - una cinquantina di passi - separano le vite in gabbia di Totò Riina e di Francesco Schiavone. Sono le due facce di chi ha ucciso e fatto uccidere e ora, nella pancia di questo cubo di cemento, il più sorvegliato d’Italia, si presentano con espressioni diverse. Una, quella di Riina, sembra quietata; l’altra per niente. Settantotto anni e dodici ergastoli uno, 54 anni e una recente condanna (processo Spartacus) al carcere a vita l’altro. Carriere criminali costruite in due piccoli paesi - Corleone e Casal di Principe - che con loro sono entrati nell’empireo di mafia e camorra, assurgendo - da semplici toponimi - a spietate organizzazioni criminali (i corleonesi, i casalesi).

Riina e Schiavone sono in carcere dal ‘93 e dal ‘98. Sottoposti al regime più duro, le aree riservate del 41 bis, quelle delle telecamere in cella, della socialità limitata (due ore) e con un solo "vicino", dei colloqui con il vetro. Una "bolla" invisibile al mondo. Perché nessuno, a parte i parlamentari, può entrare in queste aree. Il deputato radicale Maurizio Turco, l’altro giorno, è piombato a Opera chiedendo di potere visitare i detenuti-fantasma ("Il governo dovrebbe consentire ai giornalisti di vedere e fare vedere come vivono questi detenuti, servirebbe come spot anti-mafia per i giovani che, vedendo solo il lato vincente del potere e non quello della sconfitta, del abbrutimento, del carcere a vita, continuano a farsi affascinare dai clan criminali").

"Le fiere in gabbia" come li chiamano gli agenti penitenziari e come, al contrario - lo ha detto esplicitamente il 16 giugno in video-conferenza dal carcere de L’Aquila dove era detenuto prima - non vuole essere considerato "Sandokan" Schiavone.

Sono sei, nel penitenziario milanese, i detenuti del 41 bis. Turco ha trascorso un’ora e mezza nel girone dei dannati, faccia a faccia con alcuni dei boss di maggiore spessore criminale del Paese. I primi a ricevere la sua visita sono stati proprio Riina e Schiavone.

Barba incolta, dimagrito, camicia scura, l’uomo che ordinò le stragi dei magistrati Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e le bombe di Roma, Firenze e Milano nel 1993, è seduto davanti al tavolino sistemato sul lato destro della cella due metri per tre. Nella sua "casa" ci sono un armadio aperto con dentro i vestiti, un muretto altro un metro e cinquanta che separa il bagno, il letto.

Il ministro Alfano ha deciso di inasprire il regime di 41 bis e di ampliarne l’applicazione, con un emendamento bipartisan al ddl sulla sicurezza approvato l’altro giorno in commissione giustizia al Senato. "L’unica cosa che voglio che si sappia è che Totò Riina è un detenuto modello", dice il vecchio boss. Lo ripete come un mantra. Tre volte. "Sono un detenuto modello". Quattro anni fa - sempre a Turco - consegnò questa frase sibillina: "Dica a Roma che non parlo".

La Capitale, dunque il governo, dunque lo Stato al quale lanciò una sfida sanguinaria, fu anche al centro delle confidenze che Riina fece nel 2001 a Salvatore Savarese, un detenuto selezionato dal Dap per pranzare e parlare con il boss nel carcere di Ascoli Piceno: "Io sono il parafulmine d’Italia - si fece scappare - ma io, meschino, ho sempre travagliato, la vera mafia sta a Roma...".

Quando Turco gli domanda come sta (ha tre by pass e ha subito due infarti), il capo dei corleonesi stringe le spalle. Il volto è sereno, da vecchio capo ora rassegnato. Risponde: "Tiriamo la vita avanti". E la vita di Riina in carcere scorre tra le due ore di socialità al mattino (ha chiesto una cyclette per tenersi in forma), la lettura dei giornali (immancabile La Gazzetta dello Sport), le lettere che scrive continuamente alla moglie Ninetta Bagarella e ai quattro figli, e la televisione dove segue le imprese di Valentino Rossi e le partite di calcio. Sul piccolo schermo nei mesi scorsi non si perse nemmeno una puntata de "Il Capo dei Capi", la fiction sulla sua vita. Il commento sulla serie televisiva suonò tutto sommato benevolo: "Capirei se fossi morto, ma non lo sono ancora. Potevano aspettare un pò per questo film, no?".

La televisione, in carcere, specie quando non c’è, può diventare anche fonte di angoscia. A cinquanta metri dalla cella di Riina c’è quella che ospita Francesco Schiavone. Tono grave, sguardo rabbioso: "Perché dal 9 agosto me l’hanno tolta?", chiede il boss che ha trasformato i Casalesi nel clan più violento e temuto d’Italia? Come se Sandokan volesse ignorare tutto quello che da agosto a oggi è successo. Le minacce a Roberto Saviano (fatte arrivare anche dall’aula di un tribunale attraverso la lettura di un testo da parte del suo avvocato), la strategia sanguinaria messa in atto dalla camorra casertana contro pentiti, rivali e extracomunitari.

"Sono in 41 bis da 10 anni - racconta Schiavone - e da 5 in isolamento totale. Se voglio fumare devo chiedere l’accendino alle guardie. E il 9 agosto - non so perché - mi hanno tolto la televisione (misura prevista dal 14 bis, un ulteriore restringimento delle condizioni di detenzione). Che cosa ho fatto? Perché?". La vecchia mafia di Riina e la nuova camorra di Schiavone si specchiano nel "cubo" di Opera. Tutti e due mandano un messaggio allo Stato al quale hanno fatto la guerra. Uno pensa a campare, l’altro abbaia.

Giustizia: la vicenda di Niki... "suicidato" in carcere a 26 anni

 

Ansa, 10 novembre 2008

 

Con un video di Beppe Grillo esplode letteralmente sul web in questi giorni la protesta di madre coraggio, Ornella Gemini, mamma di Niki Aprile Gatti morto, "suicidato" , a 26 anni, il 24 giugno, nel carcere di Sollicciano a Firenze, dove era detenuto con l’accusa di una partecipazione ad una truffa coi numeri speciali della rete telefonica. La Procura italiana ha archiviato il caso e la signora Gemini si rivolge alla Repubblica di San Marino.

"Niki lavorava, ed era socio di minoranza, in due società sammarinesi. Perché non mi hanno contattato? I soci di mio figlio non vogliono scoprire, con me, la verità?". Ed ancora: "venti giorni dopo la morte di mio figlio, mio marito e mio cognato sono venuti a San Marino per recuperare gli oggetti personali di Niki dall’abitazione dove viveva da più di un anno e mezzo. Ma quando sono entrati, accompagnati dal proprietario, la casa era completamente vuota. Era sparito tutto, dagli arredi, agli effetti personali, anche i cinque computers, nemmeno un paio di calze. Chi è stato? Se fosse stato un suicidio normale, avremmo trovato l’appartamento così come Niki lo aveva lasciato".

Giustizia: Idv; già un milione di firme, contro il "lodo Alfano"

di Giovanna Casadio

 

La Repubblica, 10 novembre 2008

 

Abbiamo raccolto un milione di firme contro il "lodo Alfano" ma io voglio arrivare a due milioni". Antonio Di Pietro promette di andare avanti fino al 7 gennaio con i banchetti per il referendum abrogativo della norma che garantisce l’immunità alle quattro più alte cariche dello Stato. Le firme del resto devono essere depositate in Cassazione l’8 gennaio. E la risposta della gente è superiore a qualsiasi aspettativa, ha esultato l’ex pm ieri a Palermo: "Vengono a firmare anche persone di destra che non condividono quello che il governo sta facendo sulla scuola, ad esempio. Insomma la raccolta di firme anti "lodo Alfano" ha la funzione di catalizzatore della protesta, per un’opposizione partecipata".

Peccato che il Pd non l’abbia capito, anche se "il popolo dei Democratici firma, eccome, insieme con gli amministratori locali". E ci sono pure gli ulivisti di Arturo Parisi, uno spezzone di Pd in giro per l’Italia con i banchetti. Un successo, una manifestazione non di un solo giorno, per Di Pietro.

Il leader di Idv non torna sulle ruggini con Veltroni, piuttosto attacca alzo zero il Pdl, i cui dirigenti "si scoprono stuoino del padrone: si vedono segnali di divisioni interne, come sulla questione della bicamerale. Il centrodestra deflagherà, non riuscirà ad andare avanti per tutta la legislatura", è la previsione. Durissimo Di Pietro contro il Guardasigilli, Angelino Alfano: "Non può fare come Penelope che a un certo momento della giornata tesse la tela e poi la sfila. Non può fare una norma per rafforzare il 41 bis contro i mafiosi e poi il "lodo Alfano", il "lodo Consolo" per l’immunità ai ministri, le norme sulla riduzione delle intercettazioni.... anzi, la lotta alla criminalità organizzata si fa con le intercettazioni". Ottimista l’ex pm: "Fermeremo una legge incostituzionale e immorale che rende impuniti e impunibili quattro cittadini italiani", in realtà creata apposta per Silvio Berlusconi che è "l’unico a beneficiarne". Il primo giorno, ricorda, "avevamo raccolto ben 500 mila firme".

In giro per l’Italia, ieri a Palermo, il giorno prima a Torino (dove nella notte hanno dato fuoco ai banchetti di Idv), Di Pietro si dice sicuro di avere imboccato la strada giusta. Né intende cedere sulla presidenza della commissione parlamentare di Vigilanza Rai. Qui, il percorso è sempre più ripido. "Noi andiamo avanti a piè fermo su Leoluca Orlando", ribadisce dalla Sicilia, dove Orlando l’ha accompagnato. Oggi per la verità dovrebbe essere una giornata di incontri e riunioni tra Pd e Idv, di contatti anche con la maggioranza, in vista della convocazione della Vigilanza, domani.

Il centrodestra fa circolare la voce che potrebbe tentare un blitz: eleggere cioè un esponente dell’opposizione come il radicale Marco Beltrandi. Lo stesso presidente della Camera, Gianfranco Fini nei giorni scorsi aveva avvertito del rischio il capogruppo di Idv, Massimo Donadi. Replica Di Pietro: "Che il Pdl proceda a forza di ricatti e prepotenze rientra nel suo stile. Non accettano Orlando perché vogliono umiliare l’Idv.

Nessun parlamentare cada nella tentazione di pensare al proprio ruolo particolare, nessuno si venda l’anima o svenda la propria dignità per trenta denari". Messaggio a Beltrandi. Di certo, oggi si dovrebbero vedere le carte che le forze politiche intendono giocare per superare una impasse record: 41 fumate nere e il cda Rai bloccato. La partita infatti è doppia.

Giustizia: al processo sul G8 di Genova, prove false ed omertà

di Massimo Calandri

 

La Repubblica, 10 novembre 2008

 

Alla vigilia della sentenza la procura del capoluogo ligure ha svelato un altro "mistero". Un’altra vergogna, per dirla con le parole dei magistrati. Il mistero dell’agente Coda di Cavallo, picchiatore impunito: riconosciuto solo dopo sette lunghissimi anni, nonostante l’omertà di colleghi e superiori. Non è purtroppo l’ultimo degli enigmi di questa scomoda storia, ma ormai non c’è più tempo per fare chiarezza.

La prima sezione del tribunale di Genova, presieduta da Gabrio Barone, entrerà in camera di consiglio giovedì mattina. Qualche ora dopo sapremo. Per i protagonisti della sciagurata irruzione nella scuola Diaz, durante il G8 del luglio 2001, i pubblici ministeri hanno chiesto 109 anni e 9 mesi complessivi di reclusione. Gli imputati sono 29, tra agenti e super-poliziotti. Responsabili a diverso titolo del massacro ingiustificato e ingiustificabile di 93 no-global, arrestati illegalmente con un verbale farcito di prove false.

Sotto accusa ci sono anche e soprattutto i vertici del ministero dell’Interno. Prima complici "di una della pagine più nere nella storia della Polizia di Stato". Poi, sempre secondo i pm Francesco Cardona Albini ed Enrico Zucca, ispiratori e registi della "sistematica corruzione per una nobile causa". Menzogne e versioni concordate, che tra l’altro sono costate un procedimento parallelo a Gianni De Gennaro, ex capo della polizia accusato di aver istigato a mentire il vecchio questore di Genova, Francesco Colucci.

Si chiude un processo inquieto ed inquietante che l’altro giorno stava finendo in rissa, in un paradossale ribaltamento dei ruoli: con gli avvocati difensori - le cui parcelle, in caso di assoluzione, ammonteranno in tutto a circa dieci milioni di euro: pagherà il ministero - ad aggredire verbalmente i pm, accusandoli di aver violato sistematicamente il codice.

E quelli a denunciare le "minacce" subìte. Si chiude un processo che ha sfiancato la procura, costretta a fare i conti con il catenaccio degli imputati. Nel corso del dibattimento quasi nessuno degli accusati si è presentato in aula per spiegare, chiarire. Nessuno dei Grandi Accusati. Non Francesco Gratteri, ora ai vertici dell’Antiterrorismo. Non Gilberto Cadarozzi, protagonista della cattura di Bernardo Provenzano. Chi ha scelto di parlare lo ha fatto solo per offrire "dichiarazioni spontanee", senza contraddittorio.

Come Giovanni Luperi, attuale direttore dell’Aisi, l’ex Sisde. Che davanti ai giudici ha ammesso: "La Diaz è stata una pagina orribile", ma incalzato dai pm ha detto che quella notte era stanco, che non partecipò attivamente all’organizzazione dell’intervento perché più che altro pensava a dove portare a cena i colleghi. Se l’era presa con "quel vigliacco che ha portato le bottiglie incendiarie nella scuola", e ricordava di aver passato il sacchetto con le molotov - quando ancora erano nel cortile - ad una funzionaria.

Che a sua volta le aveva passate ad un misterioso ispettore della Digos di Napoli. Che le aveva portate nell’istituto. E che naturalmente è scomparso. Una versione tra Ionesco e De Filippo, come ha ironizzato Alfredo Biondi, avvocato di Pietro Troiani, il vice-questore bollato come l’ "uomo delle molotov". Il fotogramma-simbolo di questa storia è stato estrapolato da un filmato depositato nel corso del dibattimento il mese scorso. In lontananza, sulla sinistra, si vede il fantomatico ispettore che entra dalla porta laterale della scuola, con il sacchetto azzurro in mano. La regina delle prove false.

Falsa come la successiva collaborazione nelle indagini da parte della stessa polizia, sostiene la procura. Che cita l’ultimo emblematico caso. Coda di Cavallo, appunto. È un agente in borghese, viene filmato mentre ai piani superiori della Diaz prende a manganellate alcuni ragazzi inermi. Il volto è inquadrato in primo piano, e poi ci sono i capelli, raccolti in quella inconfondibile coda di cavallo. I magistrati chiedono ai poliziotti di dare un nome al loro collega. L’immagine per sette anni e mezzo fa il giro di tutte le questure d’Italia. Nessuno risponde. E però, nei giorni scorsi arriva il colpo di scena. Sono gli stessi magistrati a dargli un nome, perché l’agente Coda di Cavallo, con i capelli debitamente tagliati, ha l’arroganza di prendere posto tra il pubblico nel corso di alcune udienze. Di chi si tratta? Di un sottufficiale della Digos di Genova.

L’ufficio incaricato di identificare i protagonisti della sciagurata irruzione. A proposito: la maggior parte di loro, oltre duecento, resta senza nome. Come senza nome sono i poliziotti che all’esterno dell’istituto sfondarono a calci i polmoni ad un giornalista inglese, Mark Cowell, uno dei 93 che poi risultò "ufficialmente" essere stato catturato nella scuola. Il fascicolo per tentato omicidio nei suoi confronti resta a carico di ignoti.

Ed ignota è ancora la quattordicesima firma nel verbale d’arresto dei 93 no-global: un documento pieno di bugie che è costato il processo a 13 dei 29, ma non a quello che vigliaccamente - non essendo possibile decifrare la sua scrittura - ha preferito rimanere nel buio, un altro mistero di una notte vergognosa. La notte più buia della polizia che i pm riassumono amaramente: "Pensavano di fare il loro dovere. Ma hanno agito secondo una logica perversa. Fiduciosi che la loro illegalità sarebbe comunque stata tollerata, in tutte le sedi istituzionali".

Giustizia: in quindici carceri italiane si produce l'energia solare

 

Redattore Sociale - Dire, 10 novembre 2008

 

Quindici carceri italiane sprigionano energia pulita grazie al programma di solarizzazione promosso dai ministeri dell’Ambiente e della Giustizia in collaborazione con il Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Gli istituti coinvolti sono quelli di Rebibbia (Roma), Terni, Caltagirone, Laureana (Rc), Velletri (Rm), Viterbo, Torino, Firenze, Napoli, Benevento, Perugia, Spoleto, Lecce, Catania e Taranto. Gli obiettivi del programma sono energetici, ma anche sociali e di promozione tecnologica: riduzione delle emissioni inquinanti, riduzione dei costi operativi riconducibili alla produzione di calore, riabilitazione dei detenuti. Il coinvolgimento dei reclusi, sia nella fase dell’installazione che in quella della manutenzione, è uno degli elementi qualificanti del progetto. Prima di realizzare l’impianto i detenuti partecipano a un corso di formazione che rilascia un attestato di operatore di impianti solari termici, che permette di trovare facilmente lavoro una volta usciti dal carcere.

Liguria: An; interrogazione a Ministro su emergenza carceraria

 

Secolo XIX, 10 novembre 2008

 

Il capogruppo An Regione Liguria Gianni Plinio ha presentato una mozione urgente per discutere sulla situazione carceraria ligure con particolare riferimento alla necessità di sanare le gravi carenze di personale di Polizia Penitenziaria al fine di garantire un servizio adeguato e sicuro.

Il sen. Giorgio Bornacin (Pdl) ha, a sua volta, indirizzato una interrogazione al Ministro della Giustizia Angelino Alfano per chiedere sia l’adeguamento degli organici che di non distogliere dalle carceri liguri personale da impiegarsi altrove. "È necessario affrontare l’emergenza carceraria ligure sia in Regione che in Parlamento -hanno detto Plinio e Bornacin. Con queste iniziative intendiamo corrispondere alle sollecitazioni degli agenti di custodia ed in particolare del Sappe.

Stiamo assistendo, infatti, ad un progressivo depauperamento degli organici della Polizia Penitenziaria nei sette istituti di pena della Liguria. La situazione numerica del personale risulta essere, in oggi, di 791 uomini e 93 donne con una carenza di ben 373 uomini e 7 donne. Tutto ciò a fronte di una popolazione carceraria ligure di 1400 unità rispetto ad una capienza di 1140 posti letto disponibili.

Dal punto di vista sanitario risulta che il 40% dei detenuti liguri abbia l’epatite C e che più della metà siano tossicodipendenti oltre a quelli con problemi psichiatrici. Con questi numeri e con queste tipologie non soltanto si abbassano i livelli di sicurezza ed aumentano i carichi di lavoro per gli agenti di custodia ma si riducono anche le condizioni di vivibilità all’interno delle carceri.

Facciamo presente che nell’ultimo anno si sono verificati numerosi eventi critici che vanno dalle aggressioni al personale, alle risse e fino alle tentate evasioni. Ad essere particolarmente grave è la situazione delle poliziotte cui spettano incombenze di servizio particolari: emblematico è il caso del carcere femminile di Pontedecimo ove operano soltanto 39 agenti rispetto ai 70 previsti e con una unica poliziotta che deve sorvegliare tre piani detentivi".

Sicilia: "Detenuto per un minuto", una cella virtuale in piazza

 

Comunicato stampa, 10 novembre 2008

 

"Detenuto per un minuto": una cella virtuale sarà collocata nelle piazze di Enna, Palermo e Catania (rispettivamente il 14, il 21 e il 28 di novembre 2008 dalle ore 10 alle 17) per far vivere ai cittadini le vicissitudini cui soggiacciono i soggetti fermati e poi trasferiti negli istituti di pena.

Il Garante Sen. Fleres: scopo della manifestazione è quello di far conoscere, sia pure per un minuto, soprattutto ai giovani qual è la realtà carceraria e come si vivono i momenti riferiti al "fermo" e al "trasferimento" in una cella. "Detenuto per un minuto" è un progetto di educazione alla legalità e si inserisce nel più vasto programma di tutela e conoscenza dei diritti umani.

Prenderà il via nei prossimi giorni la manifestazione "Detenuto per un minuto". In pratica attraverso l’allestimento di una struttura prefabbricata ( che comprende una cella e gli uffici di polizia giudiziaria e penitenziaria) che sarà collocata in un luogo pubblico, si intende far conoscere ai cittadini e soprattutto ai giovani, mediante un percorso virtuale, quali sono le vicissitudini cui soggiace una persona quando viene fermata e poi trasferita in un carcere. Con richiami visivi e sonori si determinerà anche, nei confronti dei visitatori, la convinzione di trovarsi davvero davanti agli operatori del carcere e dentro una cella di una qualsiasi prigione siciliana arredata secondo i regolamenti penitenziari vigenti.

"Detenuto per un minuto" sarà rappresentato a Enna il 14 novembre (cittadella Universitaria - Facoltà Scienze Politiche - Rettorato); a Palermo il 21 di novembre sotto i portici di via Ruggero Settimo altezza Rinascente; a Catania il 28 di novembre in piazza Università.

L’orario di accesso al pubblico è previsto dalle ore 10 alle ore 17. Ai cittadini che visiteranno la cella virtuale verrà consegnato il manuale "L’ora d’aria", edito dal Garante dei diritti fondamentali dei detenuti per la Regione Siciliana ed un attestato relativo alla loro partecipazione. Prima di ogni inizio di manifestazione il Garante Sen. Salvo Fleres e il dirigente dell’Ufficio avv. Lino Buscemi, terranno una conferenza stampa per illustrare i contenuti dell’iniziativa.

 

Il Garante dei detenuti della Sicilia

Livorno: detenuto di 31 anni muore dopo aver inalato del gas

 

Ansa, 10 novembre 2008

 

Si chiamava Alessandro Mascaro, 31 anni, originario di Salerno, il detenuto del carcere di Livorno che ieri pomeriggio è deceduto in cella. Aveva aspirato gas da un fornellino da campeggio per cercare un’ebbrezza simile a quella degli stupefacenti. Il giovane si trovava in compagnia si altri detenuti, quando si è sentito male nel bagno della sua cella.

È stato immediatamente soccorso, ma nemmeno i tentativi di rianimazione sono serviti a salvargli la vita. Mascaro, in carcere per una serie di reati contro il patrimonio e per spaccio di stupefacenti, era solito aspirare i gas di un fornellino da campeggio, che è normalmente in uso nelle celle delle carceri, per cadere in uno stato di ebbrezza. Più volte i sorveglianti delle Sugheraie, il carcere di Livorno, gli avevano sottratto il fornellino per impedirgli questa pericolosa pratica. Ieri pomeriggio, intorno alle 16.30, Mascaro si è fatto prestare un fornellino da un compagno e ha ripreso ad aspirare il gas.

Poco dopo si è recato in bagno. I suoi compagni hanno sentito un tonfo ed hanno pensato immediatamente al peggio, l’anno soccorso e chiesto aiuto alle guardie. Ma per il giovane non c’è stato nulla da fare. In un primo momento si era pensato che il detenuto si fosse suicidato, ma le testimonianze dei compagni di cella hanno consentito di ricostruire l’episodio. Probabilmente per acuire l’effetto del gas, si è coperto la testa con un telo di plastica, poi si è sentito male poco dopo. I suoi compagni di cella hanno spiegato che il giovane era euforico, rideva e scherzava con tutti e non aveva mai mostrato alcun segno di squilibrio o atteggiamenti che potessero far pensare ad un potenziale suicida.

Genova: 3.000 detenuti "transitati" in un anno, 50% stranieri

 

Secolo XIX, 10 novembre 2008

 

Tremila detenuti in un anno transitati a Marassi, oltre 4.500 nelle carceri in tutta la Regione. La metà dei quali è straniera. I dati emergono dalla celebrazione della festa della polizia penitenziaria che si è svolta oggi a Palazzo Ducale di Genova con gli interventi del direttore del carcere genovese di Marassi, Salvatore Mazzeo, ed il provveditore regionale Giovanni Salamone. I riconoscimenti assegnati ad agenti e graduati della Polizia Penitenziaria riguardano interventi compiuti durante il servizio, nella maggior parte sequestri di droga e di armi tra i detenuti, ma anche molti salvataggi di carcerati che stavano per attuare tentativi di suicidio.

Oltre il 50% dei detenuti rinchiusi nel carcere genovese di Marassi sono cittadini stranieri, in maggioranza di origine maghrebina o albanese; il 5% sono ecuadoriani e l’11% romeni, le due comunità estere maggiormente presenti in città. Lo ha spiegato il direttore della casa circondariale, Salvatore Mazzeo. "Si registra - ha spiegato - un incremento progressivo della popolazione carceraria che annulla di fatto gli effetti dell’indulto.

Dimostrazione che questi strumenti legislativi di carattere eccezionale non possono essere una soluzione per i problemi delle carceri italiane. Inoltre la forte incidenza di stranieri pone problematiche nuove e di vario tipo". Il reato più comune tra i detenuti di Marassi è lo spaccio di sostanze stupefacenti (il 62% tra gli stranieri), seguito dai furti e rapine. Tra gli ecuadoriani ed i romeni prevalgono invece reati violenti, come l’omicidio o a sfondo sessuale. "Di fronte a questa situazione - ha concluso Mazzeo - è necessario incrementare i processi di integrazione, diffondere cultura in carcere, fornire professionalità che possano essere spendibili anche all’esterno. E su questo stiamo lavorando". Per quanto riguarda l’attività della Polizia penitenziaria sul territorio provinciale nell’anno sono state compiute 1.520 traduzioni di detenuti da parte dello speciale Nucleo di Genova e di Chiavari, con un impiego di 6.415 unità; 70 sono state le notifiche di reato, 20 i sequestri di droga, 110 gli atti delegati, 30 gli atti di polizia giudiziaria ed un arresto.

Complessivamente nel carcere di Marassi sono entrati 3.000 detenuti e 2.400 ne sono usciti; a Pontedecimo 300 entrati e 410 usciti, a Chiavari 300 entrati e 280 usciti. Sovraffollamento, azzeramento degli effetti dell’indulto, alta incidenza di detenuti stranieri, necessità di interventi sul piano organizzativo e metodologico. È questo il quadro della situazione delle carceri in Liguria emerso dall’annuale festa della Polizia Penitenziaria che si è svolta stamani al Palazzo Ducale di Genova.

"Il sovraffollamento - ha spiegato il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Salamone - è ormai un dato accertato, comparabile al 31 luglio 2006, ed il trend è in crescita. Inoltre c’è una forte presenza di immigrati, il 57% dell’intera popolazione carceraria ligure, con tutte le complicazioni che questo comporta, anche sotto l’aspetto della comunicazione". I problemi delle carceri sono, secondo Salamone, "legati alla quantità ma anche alla qualità dei detenuti".

"Abbiamo - ha spiegato - una grande mole di detenuti anche portatori di disagi di natura psicologica che impegnano ancora di più sotto l’aspetto qualitativo l’attività del poliziotto penitenziario di oggi". Le soluzioni che da più parti vengono prospettate, ad esempio il braccialetto elettronico, vengono giudicate da Salamone "non a portata di mano".

"Bisogna trovare soluzioni - ha concluso il provveditore ligure - sotto l’aspetto della riorganizzazione e del metodo e nel cambiamento tra Stato custode e persona custodita. Tendenzialmente siamo abituati a vivere la persona custodita come una persona minore che dobbiamo accudire, invece deve essere sempre più responsabile e responsabilizzata e dobbiamo fare un lavoro diverso, modulato in tempi diversi per garantire la sicurezza ma anche un clima sempre più costruttivo e coinvolgente".

Milano: Uil; San Vittore punta iceberg, sfollamento è inefficace

 

Agi, 10 novembre 2008

 

"Credo di poter affermare senza tema di smentita che oggi San Vittore rappresenti la punta avanzata dell’emergenza che investe complessivamente il sistema carcere in Italia. La visita del Ministro Alfano ha certamente contribuito ad attualizzare una situazione ben nota, almeno agli addetti ai lavori. Ciò, però, non significa che l’Amministrazione Penitenziaria abbia i mezzi e le capacità per superare le criticità".

Ad affermarlo è Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari, che ha inviato due lettere ai vertici del Dap per sollecitare l’adeguamento dei sistemi di allarme e uno sfollamento reale della struttura penitenziaria meneghina. Solo alcuni giorni fa il personale ha sventato un tentativo di evasione posto in essere con il più classico dei metodi (buco, lenzuola e scala) "La buona sorte e il tempestivo, qualificato, intervento del personale questa volta hanno determinato l’esito positivo della vicenda.

In caso contrario l’Amministrazione e il Corpo di Polizia Penitenziaria avrebbero subito l’ennesimo smacco - scrive Sarno a Ionta - dovuto a condizioni strutturali e di sicurezza deficienti e inadeguate che da tempo, invano, denunciamo. Non c’è dubbio sul fatto che uno degli emblemi del sistema penitenziario (S. Vittore) e il luogo della sicurezza per antonomasia nell’immaginario collettivo (il carcere) non può e non deve avere livelli di sicurezza così blandi e inefficaci. I sistemi di allarme sono praticamente inesistenti.

Non è possibile assicurare idoneo contingente alla sorveglianza esterna, causa la nota e cronica carenza di personale. La struttura (nonostante recenti interventi di ristrutturazione e le ingenti risorse economiche investite) non è confacente allo scopo, basti pensare che sono state impiantate le grate antiseghetto ma le mura si sbriciolano al semplice affondamento di un cucchiaio".

Per quanto riguarda poi il disposto sfollamento di 270 detenuti da S. Vittore ad altri penitenziari, il Segretario della Uil Penitenziari, pur condividendo la necessità del provvedimento, ne critica le modalità di esecuzione: "un provvedimento, immaginiamo, volto a recuperare spazi, civiltà e vivibilità in uno dei penitenziari più sovraffollati della penisola.

Però all’opportunità e alla necessità di tale provvedimento - scrive ancora Sarno al Capo del Dap - si contrappone il mancato raggiungimento degli obiettivi per il quale è stato emanato. Questa mattina a S. Vittore sono presenti ben 1.462 detenuti. Dov’è l’effetto sfollamento?". Secondo la Uil, per recuperare effettivamente spazi e posti letto occorre predisporre un servizio straordinario per sfollare contemporaneamente i detenuti: un "T-day" utile al raggiungimento degli effetti sperati.

Sassari: processo su maxi-pestaggio; il racconto della direttrice

di Daniela Scano

 

La Nuova Sardegna, 10 novembre 2008

 

Era presente solo perché le era stato ordinato, nel corso delle operazioni non sentì urla di dolore o invocazioni di aiuto, in sua presenza non ci furono pestaggi. Non cambia dopo otto anni la verità di Maria Cristina di Marzio, nel 2000 direttrice della Casa Circondariale di San Sebastiano. Ieri la funzionaria ha testimoniato al processo di primo grado a nove, tra ispettori e agenti, accusati di avere partecipato a quella che secondo una sentenza definitiva (che condannò anche Di Marzio a una pena lieve) fu una memorabile punizione collettiva di detenuti che avevano messo in imbarazzo i vertici dell’amministrazione.

"Verità ostinatamente negata - scrisse il giudice Giovanni Antonio Tabasso, estensore delle motivazioni della sentenza d’appello - ma che una serie di gravi elementi conclama". Maria Cristina Di Marzio si è presentata puntuale all’appuntamento con i giudici (presidente Massimo Zaniboni, a latere Spanu e Lupinu) che stanno processando i poliziotti penitenziari Mario Casu, Pietro Casu, Paolo Lai, Mario Loriga, Alessio Lupinu, Pietro Mura, Antonio Muzzolu, Giuseppe Renda e Renato Sardu.

La ex direttrice era stata citata dall’avvocato Antonella Cuccureddu, difensore di due imputati. Il processo ordinario di primo grado è alle battute conclusive. La sentenza arriverà due anni dopo il passaggio in giudicato della condanna dei principali protagonisti: l’ex provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Giuseppe Della Vecchia; la direttrice Di Marzio ed Ettore Tomassi, comandante della casa circondariale sassarese. Contrariamente all’unica verità processuale, secondo cui il pestaggio nel carcere di "abuso di autorità contro detenuti", la direttrice ha descritto una "normale" maxi perquisizione dell’istituto. Una operazione, sfociata nel trasferimento di una ventina di detenuti, alla quale Maria Cristina Di Marzio sostiene di avere assistito come testimone.

Un trasferimento in massa deciso da Giuseppe Della Vecchia, al quale la ex collaboratrice ha attribuito il ruolo di organizzatore e di coordinatore. "Il provveditore Della Vecchia era seccato per le condizioni in cui aveva trovato l’istituto durante la visita di alcuni parlamentari, ma era anche preoccupato per le voci di una nuova imminente protesta - ha detto Di Marzio -. Fu lui a decidere la perquisizione, a contattare gli agenti (una ottantina ndc) degli altri istituti e a coordinare le operazioni.

Il 3 aprile 2000 Della Vecchia mi annunciò il suo arrivo dicendo tu non fare niente, aspetta che arrivi io". Fu in quella occasione che Di Marzio conobbe Ettore Tomassi, l’ispettore arrivato da Benevento per sostituire il comandante Capula, indotto dal provveditore Della Vecchia ad anticipare il congedo. Raccontando della famosa riunione nella rotonda del carcere, che precedette lo sfollamento (e durante la quale secondo il pm Gianni Caria sarebbe stato messo a punto il pestaggio), Maria Cristina di Marzio ha detto di ricordare una folla indistinta di più di cento agenti.

"Parlò solo il provveditore che presentò Tomassi come il nuovo comandante - ha detto ancora la direttrice -. Della Vecchia invitò gli agenti arrivati da fuori a seguire gli ispettori sassaresi. In quel momento tutti si misero in movimento". La funzionaria ha detto di non sapere se gli agenti obbedirono a ordini prestabiliti e, comunque, ha negato di avere assistito a pestaggi e altre violenze. "Tutti i detenuti erano vestiti e camminavano con le loro gambe - ha raccontato -. Erano circondati da agenti e accompagnati con una certa energia e rapidità". A precise domande dell’avvocato Cuccureddu, Di Marzio ha negato di avere visto feriti e di avere sentito invocazioni o urla di dolore. Questa, del resto, è sempre stata la linea difensiva della direttrice. Il processo prosegue.

Nuoro: nove detenute in una sola cella? la direttrice smentisce

 

La Nuova Sardegna, 10 novembre 2008

 

Nel carcere di Badu ‘e Carros ci sono 18 donne recluse, ma per nove di loro la detenzione assume contorni ancora più problematici. In nove, infatti, condividono la stessa cella, pensata per ospitare soltanto cinque persone. Queste donne, di diversa nazionalità e provenienza, condividono quello spazio minimo, e tutto ciò che ne consegue.

Come si siano ricavati nove letti, non è chiaro; ma il servizio a disposizione di tutte è rimasto uno solo, non si poteva certo chiedere un miracolo di ingegneria carceraria in un penitenziario che, ironia della sorte, per la prima volta ha al suo vertice una donna, Patrizia Incollu. La direttrice ha assunto stabilmente l’incarico appena qualche settimana fa. Sulla presenza di nove donne in un’unica cella, notizia fornita da una fonte interna al carcere, smentisce con decisione.

"Non mi risulta, ho lasciato una situazione normale". Ma non stupisce che su una circostanza del genere i vertici dell’istituto penitenziario non diano conferme. Impossibile negare invece i numeri forniti dallo stesso provveditore penitenziario regionale Francesco Massidda, una settimana fa, nel corso della festa del Corpo di Polizia Penitenziaria. La massima capienza prevista nel braccio femminile è di 13 detenute, il che significa che il numero complessivo di 18 presenti è oltre il tollerabile. Anche a far finta che non siano in nove tutte assieme, da qualche parte la coperta è troppo corta. È una questione di numeri.

Nonostante il carcere sia l’istituzione chiusa per antonomasia, le notizie filtrano. Poche settimane fa si è appreso che un detenuto è stato salvato in extremis da un infarto in corso. Dei tre tentativi di suicidio registrati lo scorso anno nulla era trapelato, e così del tentativo di evasione, sempre l’anno scorso. E a diffondere questi dati non sono agitatori o millantatori: la fonte è la relazione esposta dal comandante delle guardie nel corso della festa del Corpo.

E ora, anche sulla condizione di queste donne, forse si pensava nulla potesse venire fuori. C’è di più: sembra siano previsti altri arrivi. E non che sul fronte del personale la situazione sia migliore. Per restare alla sezione femminile, le guardie impegnate sono sette, un numero insufficiente. Complessivamente, il penitenziario ospita circa 300 detenuti, a fronte di un numero definito regolamentare di 274, e tollerabile di 350. La situazione è più grave del periodo pre-indulto.

Mentre la specialità dell’istituto, che in passato ha ospitato buona parte del vertice di Cosa Nostra, dell’eversione di destra e di sinistra, sembra marciare spedita verso questa connotazione. Sono avviati i lavori per la riapertura di una nuova sezione che potrà ospitare altri 80 detenuti. Manco a dirlo, piovono smentite sul fatto che si dovrebbe trattare di reclusi ad alta pericolosità, e sottoposti al 41-bis. Ma la strada sembra tracciata. Unica consolazione, non ci sono bambini in cella. Dei 58 piccoli ospiti con le loro mamme nei penitenziari italiani, nessuno staziona negli istituti isolani. L’ultimo ha lasciato Buoncammino in estate.

Alghero: protesta agenti, turni massacranti e in sezione piove!

 

La Nuova Sardegna, 10 novembre 2008

 

Stato di agitazione del personale e una serie di manifestazioni di protesta presso il Provveditorato regionale. Lo annuncia il segretario locale del Sappe, il sindacato degli agenti di Polizia penitenziaria, Mauro Chessa, riferendo che a tale determinazione si giunge in seguito a una serie di vistosissime carenze che riguarda la casa di reclusione di Alghero.

Il Sappe evidenzia che gli agenti sono costretti a turni massacranti: debbono fare rientri con straordinario per attività trattamentali e i colloqui visivi dei detenuti e il personale in servizio negli uffici è obbligato a fare traduzioni ogni giorno per accompagnare a visite mediche o alle udienze i reclusi. Il sindacato evidenzia poi che gli agenti stanno saltando i riposi settimanali e hanno le ferie da fruire dal 2007.

Ma ora giungeranno nuovi detenuti dal continente per le festività natalizie e quindi il personale, afferma il Sappe, "passerà le feste in galera". Il rapporto tra detenuti e agenti è di 190 reclusi e ottanta addetti della polizia penitenziaria. Inevitabile per queste ragioni la proclamazione dello stato di agitazione. Ma il sindacato contesta anche l’affermazione che la casa di reclusione di Alghero sia un carcere modello. "Ma quale carcere modello - sostiene infatti il Sappe - se in numerose sezioni ci piove dentro, si stacca l’intonaco dalle volte, entra acqua nelle plafoniere e si allagano i locali superiori?".

Belluno: 6 detenuti in 9 mq, carcere peggiore di Guantanamo

di Giovanni Cagnassi

 

Il Corriere delle Alpi, 10 novembre 2008

 

"Carceri italiane: peggio che a Guantanamo". Chi parla è un detenuto in attesa di giudizio molto conosciuto nel Veneziano, che alza la voce per una battaglia sociale a nome di tutti i detenuti italiani. Silvano Maritan ha preso in mano carta e penna e dal carcere di Belluno, dove è rinchiuso da nove mesi a seguito di una vasta operazione antidroga che lo aveva incastrato a causa delle intercettazioni telefoniche, denuncia "le condizioni disumane" del carcere.

Torna a far parlare di sé, il boss di San Donà di Piave, noto per i suoi trascorsi nella mala locale e i legami con Felice Maniero e la mala del Brenta, accusato di ogni genere di reato e attorniato dalla sua reputazione di duro e spietato, ma anche dal fascino del boss. La sua è però questa volta una battaglia sociale. Ha scritto al segretario della Commissione europea dei Diritti dell’Uomo, al Ministro della Giustizia Alfano fino al presidente del tribunale di sorveglianza di Venezia.

"Sono rinchiuso in una struttura del 1932 - racconta in modo appassionato il boss, un tempo braccio destro di Maniero, il duro del Basso Piave che finora ha sempre pagato con il carcere - decadente e fatiscente, istituto praticante inagibile, con celle di 3 metri per 3 che devono ospitare 6 detenuti. E i servizi igienici sono quelli del 1932. Le finestre sono collocate in prossimità del soffitto e in queste condizioni devono vivere 100 detenuti che dispongono di un passaggio comune di 40 metri per 20, dove è impossibile camminare tutti assieme.

Ci sono due sezioni in questo penitenziario, quella comune e una destinata ai detenuti transessuali che dispongono invece di servizi igienici sicuramente più adeguati e celle restaurate grazie all’interessamento di un parlamentare della scorsa legislatura, anche lui transessuale. Mentre nel resto del Paese la spesa che l’amministrazione penitenziaria ha destinato per ogni detenuto è di 250-300 euro pro capite per l’alimentazione a noi sono destinati 1,20 al giorno".

Maritan descrive per filo e per segno le condizioni di vita in carcere e offre uno spaccato di come si vive oggi da detenuti in strutture ormai vecchie e insufficienti a contenere tutti i condannati nelle varie Case Circondariali. Sovraffollamento, scarse condizioni igieniche, muri divisori per parlare con i familiari e telefonate di 10 minuti la settimana.

"Anche gli spioncini delle porte blindate del carcere sono chiusi - continua - con una chiusura ermetica che ci fa pesare ancora di più la detenzione, rendendo l’aria irrespirabile, unico caso in Italia. L’amministrazione penitenziaria italiana ha studiato poi un sistema di tortura inosservato: speciali manette saldate tra di loro che impediscono ogni movimento, pena dolori atroci e tagli ai polsi, quando il regolamento dice che le traduzioni dovrebbero avvenire senza manette. E tutto questo può durare ore".

E poi la conclusione ad effetto di Maritan che si sfoga: "Per i detenuti italiani, Guantanamo è un hotel a cinque stelle". Maritan termina il suo scritto con una chiosa ai parlamentari europei che non affrontano questi problemi mentre si concentrano sulle questioni riguardanti gli extracomunitari.

Reggio Emilia: dall’Iraq per imparare a "riabilitare" i detenuti

 

La Nuova Ferrara, 10 novembre 2008

 

"Siamo qui per conoscere e portare nel nostro Paese la vostra esperienza, che si basa su una visione non punitiva ma riabilitativa del detenuto". Con queste parole ha salutato Jasim Mutar Alwan, capo della delegazione irachena ricevuta ieri nella Sala Tricolore del Comune. La delegazione - 15 magistrati e funzionari - è in visita a Reggio per il corso di formazione "I tribunali internazionali e i diritti umani".

All’incontro c’erano il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Nello Cesari, il direttore della Casa circondariale di Reggio Gianluca Candiano, la coordinatrice della missione del Consiglio d’Europa Eujust lex Tunde Gere e Alberto Melloni, docente di Storia contemporanea dell’Università di Modena e Reggio che è intervenuto su "Il dinamismo dei diritti umani", sul quale Reggio opera da anni con azioni di sensibilizzazione contro la pena di morte.

In sala anche il presidente del consiglio comunale Nando Rinaldi, la direttrice dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio, Rosa Alba Casella, e 120 studenti delle superiori. "In Iraq, il terrorismo è penetrato su vasta scala - ha detto il capo delegazione irachena - ma la società lo rifiuta perché i terroristi uccidono degli innocenti. Per questo siamo grati a chi ci aiuta ad uscire dalla crisi nella quale si trova il Paese".

Salerno: progetto su "educazione a legalità e giustizia sociale"

 

La Città di Salerno, 10 novembre 2008

 

Al via il progetto "Educazione alla legalità, sicurezza e giustizia sociale". L’iniziativa è stata presentata ieri presso l’auditorium della scuola media "Gino Rossi Vairo". Patrocinato dall’amministrazione comunale, su proposta dell’assessore all’identità culturale Francesco Crispino, è rivolto a tutti gli studenti delle scuole medie inferiori e superiori di Agropoli. Prevede quattro incontri, coordinati da Sante Massimo Lamonaca esperto in criminologia e giudice onorario presso il tribunale di sorveglianza di Salerno e coordinatore del progetto.

Nel corso degli incontri docenti universitari, magistrati, operatori delle forze di polizia approfondiranno tematiche legate alla prevenzione delle devianze giovanili ed al rispetto della legalità. Sono programmate anche quattro visite guidate presso l’Istituto carcerario a custodia attenuta di Eboli nel corso delle quali gli studenti, accompagnati dai docenti, avranno modo di confrontarsi con i detenuti.

"Scopo del progetto - spiega l’assessore Crispino - è quello di sostenere la cultura della legalità, diffondere i valori di cittadinanza e democrazia, sviluppare il rispetto della storia al fine di conoscere la realtà attuale. Il possesso di valori come quello di solidarietà, onestà e non violenza, è fondamento indispensabile per la conquista della libertà del singolo e della società. La lotta contro ogni illegalità inizia dalla scuola, - spiega l’ideatore del progetto - dal rispetto dell’altro e dalle regole per una convivenza civile".

L’educazione alla legalità sarà attuata coinvolgendo tutte le componenti della scuola, in modo che gli studenti possano essere impregnati nella pratica quotidiana della legalità. "La scuola è chiamata al difficile compito - conclude Crispino - di offrire ai giovani l’opportunità di riflettere su temi importanti, per crescere come uomini liberi, nell’orgoglio di essere diventati ragazzi della città della comunicazione, dei sogni e dell’amicizia".

Empoli: trans in carcere, il Sindaco contro il provveditorato Dap

 

Il Tirreno, 10 novembre 2008

 

Luciana Cappelli non ci sta. La "corsa in avanti" della provveditrice Giuffrida sui transessuali al Pozzale non riesce a buttarla giù. Difficile dare torto al primo cittadino: la destinazione del carcere di Empoli, proprio perché "di Empoli", è qualcosa da discutere anche con il Comune. Visto che l’Amministrazione ci ha investito soldi ed energie, credendo in un progetto, quello del recupero di donne che avevano piccoli conti con la giustizia, che ha dato buoni frutti. Certo una ristrutturazione è necessaria, perché adesso è sottoutilizzato, ma con un progetto che sia ad ampio respiro e, soprattutto, a lunga scadenza.

"Ho chiamato la Provveditrice - dice Luciana Cappelli - la vedrò nei prossimi giorni qui a Empoli. Le dirò che siamo aperti a qualsiasi tipo di progetto, purché a lunga scadenza. Anche se non vorremmo perdere l’esperienza della custodia attenuata che ha dato ottimi risultati in questi anni. Insomma, facciano pure delle modifiche ma, prima di darle per certe, ne parlino con gli altri "attori" che hanno voce in capitolo, cioè noi e la Regione".

E infatti è stato anche convocato per martedì 25 novembre un tavolo regionale per esaminare attentamente la situazione degli istituti penitenziari toscani. A farlo è stato l’assessore regionale alle politiche sociali Gianni Salvadori e la provveditrice Maria Pia Giuffrida ha aderito. Due giorni fa, infatti, la Giuffrida aveva annunciato una soluzione in tempi brevi per il carcere femminile di Pozzale destinandolo all’accoglienza dei detenuti transessuali di Sollicciano. "Dopo la decisione annunciata dal Provveditore - ha spiegato Salvadori - mi è sembrato corretto sottolineare l’opportunità di discuterne con tutti gli attori coinvolti, soprattutto con il territorio. Saranno esaminate le situazioni di tutte le strutture penitenziarie toscane, non soltanto quella di Empoli".

Napoli: dopo il dl primi arresti per abbandono rifiuti in strada

di Dario Del Porto

 

La Repubblica, 10 novembre 2008

 

Il primo arresto è scattato nella notte a Pianura, il quartiere della rivolta anti-discarica che a gennaio fece il giro del mondo. Due ore dopo l’entrata in vigore del decreto che punisce con il carcere chi abbandona rifiuti speciali o ingombranti nelle strade della Campania, un uomo di 32 anni è stato fermato dai carabinieri e portato in cella: stava scaricando mobili da cucina, bombole di gas e altro materiale.

La detenzione di Vitale Varchetta, venditore ambulante, attualmente sotto processo per gli incidenti avvenuti allo stadio di Avellino il 20 settembre 2003, è durata solo mezza giornata, perché ieri la Procura ha scelto di non chiedere la misura cautelare e di procedere con rito ordinario invece che con giudizio direttissimo.

Ma ormai la strada della tolleranza zero era stata imboccata, così nel giro di poche ore i carabinieri hanno arrestato altre cinque persone, sorprese nel corso di due diverse operazioni, una nel quartiere San Giovanni a Teduccio, l’altra nella zona di Poggioreale. Tutte e cinque (sulla loro sorte il gip si pronuncerà domani) si stavano liberando di rifiuti speciali in violazione delle norme contenute nel decreto, contestato perché limita le sanzioni al territorio campano. Per questa ragione il difensore di Varchetta, l’avvocato Massimo Bruno, annuncia l’intenzione di proporre la questione di illegittimità.

Di tutt’altro avviso il sottosegretario Guido Bertolaso, che promuove il ricorso alla linea dura ed esprime "l’auspicio che l’esecuzione degli arresti rappresenti un valido deterrente nei confronti di ulteriori possibili sversamenti illegali e la conferma del continuo e costante impegno da parte delle strutture dello Stato volte al rafforzamento della capacità di controllo del territorio.

Tutti i fermati, il cui arresto è stato convalidato dalla magistratura - aggiunge Bertolaso - sono stati colti in flagranza di reato mentre sversavano illecitamente su aree pubbliche rifiuti ingombranti, urbani, speciali e solidi. Tra i materiali illecitamente abbandonati - evidenzia il sottosegretario - è stato individuato materiale di risulta proveniente da lavorazioni industriali o da lavori edili, ma anche immobili da cucina, bombole di gas, materiale ferroso".

Il procuratore capo Giandomenico Lepore non si pronuncia sui dubbi di incostituzionalità ("Si vedrà nel corso dei giudizi", afferma) e riassume così la linea dell’ufficio inquirente: "Nel caso di Pianura l’arresto è stato ritenuto legittimo.

Visto che il materiale scaricato non era pericoloso e tenuto conto della possibilità che l’indagato potesse usufruire, a processo concluso, della sospensione condizionale, non abbiamo chiesto la misura cautelare. Questo però non vuol dire che resterà impunito: sarà giudicato e, se il Tribunale lo riterrà colpevole, verrà condannato. Gli altri episodi saranno valutati singolarmente, il processo giudica le persone, non i fenomeni. Piuttosto - ragiona il procuratore - fa riflettere che si debba ricorrere al processo penale per convincere la gente a non abbandonare i rifiuti in strada. E pensare che oggi, con le nuove norme, ci si può liberare del materiale ingombrante senza spendere un euro".

Con i magistrati polemizza invece il presidente provinciale di An, ed ex sostituto della Procura di Napoli, Luigi Bobbio: "Quando ho sentito che il primo arrestato era uscito dopo neanche dodici ore, ho pensato che non ha senso emanare norme severe se poi si lasciano al magistrato spazi troppo ampi di discrezionalità. A mio avviso ci sarebbero stati tutti i presupposti per usare il pugno duro anche in quella circostanza. Fortuna che i carabinieri non si sono scoraggiati e sono andati avanti".

Napoli: protesta giuristi e magistrati, decreto è incostituzionale

di Angelo Carotenuto

 

La Repubblica, 10 novembre 2008

 

Gli arresti no. Il sindaco si ribella. "Sono comportamenti da condannare, d’accordo. Ma non accetto che siano reati penali a Napoli e altrove no. Se abbandonare qui un materasso in strada non comporta la stessa pena che a Roma, non mi pare che siamo dentro i confini della Costituzione. La repressione va bene. Ma è cosa diversa dal reato. Tra una multa e la prigione c’è una bella differenza". Rosa Russo Iervolino è il primo sindaco di una città in cui scatta l’arresto per un mobile lasciato in strada. "In decenni trascorsi al Parlamento nella commissione Affari istituzionali, non avevo mai visto niente del genere".

Nel primo giorno in cui i rifiuti portano al carcere, la Iervolino spende la sua mattinata tra i bambini del quartiere Sanità. Dove la sua speranza di normalità si spegne in fretta. Colpa delle notizie da Pianura, San Giovanni, Poggioreale. Quanti sono, domanda. Vuol conoscere i dettagli, il sindaco di quei napoletani arrestati per aver abbandonato cartone e plastica lungo i marciapiedi. "Appena letto il decreto, con tutte le prudenze del caso, m’era già parso incostituzionale. Capisco appelli e sanzioni, ma gli arresti mi sembrano sproporzionati". Il punto, per i giuristi, sta nella specifica applicazione territoriale. Antonio Baldassarre, presidente emerito della Corte Costituzionale, dice che "non ci vuole molto per ravvisarne la illegittimità. Limitare l’arresto a una sola regione è una violazione dell’articolo 3 della Costituzione".

Se fosse esteso a tutta l’Italia, questo il ragionamento di Baldassarre, nulla da eccepire. "Faccio jogging ed è scandaloso trovare frigo e tv abbandonati al verde. Resta da vedere se i 3 anni e 6 mesi previsti vengono veramente scontati: da noi la punizione è teorica. Le leggi in Italia sono da Stato incivile; se la pena non viene effettivamente irrogata è un incentivo alla delinquenza". Valerio Onida, pure lui in passato massimo rappresentante della Consulta, aggiunge: "La limitazione territoriale è un problema. L’abbandono di un frigo o di un mobile arreca lo stesso pregiudizio all’ambiente in qualsiasi regione. Il fatto che in Campania ci sia un’emergenza rifiuti, mi sembra una considerazione debole. Se in una località ci fossero più furti che altrove, sarebbero giustificate pene più severe?".

Sono argomenti che ora riprendono le forti riserve già espresse dalla giunta nazionale dell’Anm. "È la prima volta nella storia d’Italia che viene prevista una norma di questo genere - le parole del segretario nazionale, Giuseppe Cascini - decideranno i tribunali se vi sono profili di incostituzionalità, ma i dubbi di conformità esistono". E Luca Palamara: "Le leggi devono rispondere a criteri di generalità e astrattezza, e devono valere per tutti". Giuseppe Narducci, pm della Procura di Napoli che ha indagato su Calciopoli, usa la formula "federalismo penale". "È la strada che si rischia di imboccare, se 5 milioni di persone si ritrovano davanti alla legge in condizioni diverse rispetto a quelle dei loro connazionali. Una china preoccupante".

La soddisfazione arriva dai quartieri. Fabio Tirelli è il presidente Pd della municipalità Pianura, dove s’è registrato il primo arresto e dove a gennaio ci fu la rivolta che vede sotto accusa pure un assessore e un consigliere comunale. "È un segnale forte di ripristino della legalità sul territorio dopo quei fatti". A Pianura, come in altre periferie cittadine e nell’hinterland, abbandonare rifiuti ingombranti in strada rimane un’abitudine. "Gli arresti danno la speranza di poter vivere finalmente in un ambiente più sano, senza discariche a cielo aperto. Proseguiamo". Una linea che il Pdl locale benedice. Fabio Chiosi è il solo presidente di municipalità su 10 del centrodestra in città (a Posillipo). "Nulla di eccessivo, la situazione è emergenziale. Finalmente gli incivili capiranno. Le istituzioni collaborino col governo". E il capogruppo di Forza Italia in Comune, Ambrosino, dice di avere incorniciato il decreto dietro la sua scrivania.

Immigrazione: e la parola "clandestino" scompare dai notiziari

 

Redattore Sociale - Dire, 10 novembre 2008

 

Evitata anche la parola "extracomunitario", tranne quando sia essenziale per chiarire aspetti tecnici. I direttori, Trasatti e Pace: "Scelta di rispetto della dignità delle persone straniere. Ogni giornalista faccia la sua parte".

Da oggi i lanci pubblicati quotidianamente nel notiziario Dires - frutto della collaborazione tra l’agenzia Dire (Canale Welfare) e l’agenzia Redattore Sociale - non contengono più la parola "clandestino" riferita a persone immigrate. Faranno eccezione solo le eventuali dichiarazioni contenute in comunicati stampa e riportate tra virgolette. Anche nella trascrizione delle interviste e delle dichiarazioni raccolte la parola "clandestino" è evitata, a meno che essa non sia ritenuta indispensabile-opportuna per chiarire il pensiero dell’intervistato o per riprodurre fedelmente il linguaggio dello stesso.

Al posto di "clandestino" verranno usati di volta in volta i termini più adeguati al contesto delle singole notizie, come irregolare, migrante, immigrato, rifugiato, richiedente asilo, persona, cittadino, lavoratore, giovane, donna, uomo, ecc. Viene inoltre evitata la parola "extracomunitario", tranne in quei rari casi in cui sia essenziale per chiarire aspetti tecnico-giuridici.

L’annuncio viene dato dalle due agenzie stampa a poco più di un anno da quel 25 ottobre 2007 in cui la loro inedita partnership diede vita al notiziario quotidiano nazionale più completo sui temi del welfare e del disagio sociale, sulle attività del non profit, sul mondo della scuola, del lavoro, della sanità. L’iniziativa del notiziario DiReS è maturata anche in seguito all’appello lanciato alcune settimane fa dal gruppo "Giornalisti contro il razzismo".

"Oltre a essere impropria, la parola "clandestino" ha sempre più assunto nell’immaginario collettivo un’accezione offensiva e spesso criminalizzante, che rischia di estendersi a tutta la popolazione immigrata" - afferma il direttore di Redattore Sociale, Stefano Trasatti -. Eliminare questa parola dal nostro notiziario ci sembra una scelta doverosa e di rispetto della dignità delle persone straniere. Sia di coloro che, pur vivendo in Italia da tempo, per qualche motivo non sono in regola con il permesso di soggiorno, sia soprattutto di tutti quelli che, provenienti da storie di estrema povertà, hanno affrontato viaggi drammatici per arrivare nel nostro paese".

"L’uso di un linguaggio corretto - aggiunge il direttore di Dire, Giuseppe Pace - è sempre importante per un’agenzia di stampa, ma lo è ancora di più quando si trattano fenomeni, come l’immigrazione, su cui è facile alimentare paura, xenofobia e razzismo. Ogni giornalista in questo dovrebbe fare la propria parte".

Immigrazione: 108 migranti morti nel Mediterraneo ad ottobre

 

Redattore Sociale - Dire, 10 novembre 2008

 

Vittime in Marocco, Spagna, Grecia, Turchia, Albania, Malta, Egitto e Francia. Già 1.146 morti dall’inizio dell’anno. E gli sbarchi in Sicilia aumentano: da gennaio sono arrivate 30.000 persone.

Sono almeno 108 i migranti e rifugiati morti a ottobre lungo le frontiere europee in Marocco (49), Spagna (9), Grecia (20), Turchia (18), Albania (5), Egitto (3), Malta (2) e Francia (2). Dal 1988 le vittime sono almeno 13.239. E dall’inizio dell’anno sono già morte 1.146 persone nel Mediterraneo. Il dato è stato diffuso dal bollettino mensile dell’osservatorio sulle vittime dell’immigrazione Fortress Europe, che questo mese dedica uno speciale alle rivolte del bacino minerario di Redeyef, in Tunisia, una delle principali zone di origine dei migranti tunisini che sbarcano a Lampedusa.

I dati sulle morti alla frontiera sono basati sulle notizie censite sulla stampa internazionale. In Marocco un barca con 50 migranti ha fatto naufragio lo scorso 9 ottobre, nelle acque di Kenitra, sulla rotta per la Spagna, lasciando un solo superstite. Cinque persone sono state invece ritrovate senza vita sui cayucos giunti alle Canarie, mentre altri due cadaveri sono stati ripescati a Malaga. Nel mar Egeo, tra la Turchia e la Grecia, le vittime in un mese sono almeno 20. A cui vanno aggiunti i 18 migranti rimasti uccisi nell’incidente stradale del camion su cui viaggiavano nascosti, al confine tra Turchia e Grecia. E viaggiando nascosti nei camion sono morte altre due persone, in Spagna. Mentre un uomo è annegato a Calais mentre tentava di imbarcarsi su una nave per l’Inghilterra. Con lui è annegato anche l’uomo che si era tuffato per salvarlo. In Egitto si continua a sparare sulla frontiera con Israele: altri tre morti in un mese. Al bollettino delle vittime si aggiungono poi i cinque annegati in un lago alla frontiera tra Albania e Grecia e i due corpi ritrovati al largo di Malta, nel Canale di Sicilia, vittime dell’ennesimo naufragio fantasma.

Nei primi dieci mesi dell’anno sono circa 60.000 le persone che hanno attraversato il Mediterraneo, verso la Grecia, l’Italia, Malta e la Spagna. Meno di un terzo dei 170.000 lavoratori stranieri appena richiesti soltanto dal governo italiano. Ma il dato è in aumento rispetto allo scorso anno, soprattutto per il Canale di Sicilia. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) sono già più di 30.000 i migranti e i rifugiati sbarcati sulle coste italiane nei primi dieci mesi del 2008, contro i 20.000 dell’intero 2007. Cifre in aumento anche a Malta e in Grecia. Gli arrivi nei primi 9 mesi dell’anno a Malta sono stati 2.600 mentre erano stati 1.800 nell’intero 2007. Per la Grecia le stime disponibili riguardano solo i primi sette mesi del 2008, ma il trend è lo stesso dell’Italia e di Malta. Circa 15.000 persone hanno raggiunto le isole greche dell’Egeo tra gennaio e luglio contro le 19.900 di tutto il 2007. Per quanto riguarda la Spagna e le isole Canarie, fino alla fine di ottobre erano arrivate 10.700 persone, 1.600 in più dello stesso periodo nel 2007, ma ben meno degli oltre 30.000 dell’intero 2006.

L’Acnur ricorda che una persona su tre di chi sbarca in Italia ha fatto richiesta d’asilo nel 2007. E a circa la metà di loro viene riconosciuto lo status di rifugiati o una qualche altra forma di protezione internazionale. A Malta invece ben l’80% delle persone arrivate via mare fa richiesta d’asilo e il 60% in media, ha diritto alla protezione internazionale. In Spagna invece i flussi sono diversi, e soltanto il 3% di chi sbarca sulle coste chiede l’asilo.

Droghe: Rapporto Emcdda; i giornalisti fanno il solito pasticcio

di Luca Borello (ricercatore e documentalista su sostanze e dipendenze)

 

Notiziario Aduc, 10 novembre 2008

 

Scoprirete o avete già scoperto sui giornali (e sentito nei Tg), che è disponibile l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Europeo sulle Droghe e le Tossicodipendenze (Emcdda), il quale, a sentire i mezzi di informazione, lancia (l’ennesimo) "allarme cocaina"; infatti, secondo i giornalisti, sarebbero 4 milioni gli europei che fanno uso di cocaina. Cifre da capogiro? In realtà si tratta dell’1,2% della popolazione europea, ed è il risultato di una media, dato che da Paese a Paese i dati oscillano moltissimo (solo 4 Paesi hanno una prevalenza superiore all’1%, tra questi l’Italia). Basta prendersi la briga di confrontare i dati 2008 con quelli 2007 per rendersi conto che il consumo di cocaina nell’ultimo anno è diminuito: nel 2007 la percentuale media era infatti dell’1,3%.

Gli stessi redattori del Rapporto indicano che il consumo di sostanze stupefacenti illecite in Europa è "stabilizzato" (non si assiste a una crescita maggiore rispetto agli anni scorsi) e che la vera questione oggi in dibattito riguarda gli aspetti economici, cioè la spesa pubblica in materia di droghe: non si sa bene quanto denaro venga speso, come e perché.

Ma ai giornalisti questo interessa relativamente: molto meglio lanciare l’ennesimo allarme.

La cifra di 4 milioni si riferisce al numero (medio) di persone che nell’arco dell’ultimo anno hanno consumato almeno una volta cocaina: non che sono cocainomani o che la usano cronicamente. Non "che fanno uso", ma che "hanno provato". È come indagare quanti maschi italiani hanno fatto cilecca a letto almeno una volta nell’ultimo anno e poi proclamare che la percentuale risultante corrisponde agli impotenti italiani. Da notare che si tratta comunque di un passo avanti, per i giornalisti: fino all’altro anno consideravano "tossicodipendenti" tutti coloro che almeno una volta nella vita avevano provato una determinata sostanza. Adesso almeno si basano sull’ultimo anno.

Il dato realmente utile ad indicare la problematicità del consumo di sostanze è quello riferito all’ultimo mese (meglio ancora all’ultima settimana): sono 2 milioni gli europei che hanno consumato cocaina negli ultimi 30 giorni. Questi consumatori possono essere considerati "problematici" più a buon diritto, anche se bisognerebbe incrociare questo dato con la prevalenza annuale e nell’arco della vita, per essere ragionevolmente sicuri che chi ha usato cocaina nell’ultimo mese non fosse anche alla prima esperienza.

Bisogna fare attenzione a come si interpretano e trasmettono i dati statistici: messa come la mettono i mezzi di informazione, sembra che usare cocaina sia una cosa normalissima. Sebbene si proceda effettivamente verso la "normalizzazione" dei consumi di cocaina e stimolanti in genere (che è simbolica, più che reale: il suo uso è considerato sempre più spesso "coerente" anche da chi se ne astiene), questi restano attestati a percentuali molto basse: se l’1,2% usa cocaina, significa che il 98,8% non lo fa. Come ha affermato anche Gregor Burkhart, responsabile dell’area prevenzione dell’Emcdda, se si va in giro a proclamare che tutti i giovani sono cocainomani, l’effetto che si rischia di ottenere è che i giovani che non consumano si sentano "anormali". Meglio affermare, sostiene Burkhart, che la maggior parte degli europei non consuma cocaina: che è la verità, fa sentire "normali" anche i ragazzi che non "sniffano", e non sminuisce per nulla la questione.

Ci si domanda, inoltre, perché quell’1,2%, media che comprende la popolazione dai 15 ai 64 anni, dovrebbe preoccupare di più del fatto che la media di consumo di alcol procapite in Europa si attesta a 15 litri l’anno (dati 2006; sono 26 mila in media le morti alcol-correlate all’anno in Italia), o del fatto che il 90% dei giovani di 15-16 anni ha bevuto alcol almeno una volta nella vita (dati 2006), ma non è considerata, per fortuna, alcolista. Per non parlare poi del tabacco: il consumo viene scoraggiato sempre più insistentemente a livello europeo, ma contemporaneamente la sua coltivazione viene sovvenzionata con i soldi dei contribuenti.

È comprensibile l’allarme per l’aumento dei consumi di droghe, l’allarmismo no. Allarmismo più incoerenza sono una miscela micidiale: si vede chiaramente, basta aprire gli occhi.

L’ultimo elemento evidenziato dai giornali (indico la Repubblica come riferimento, ma tutti travisano allo stesso modo, dato che la prima travisatrice è l’Ansa stessa), in bilico tra l’assurdo e il ridicolo, ma in realtà drammaticamente coerente con la visione pubblicamente condivisa della questione, è l’idea che l’aumento dei consumi sia sostanzialmente dovuto da un lato alla (presunta) maggior disponibilità di "droga", e dall’altro alle "strategie di marketing" messe in atto dal narcotraffico globale. Imputare la responsabilità di tutto questo alla criminalità organizzata può apparire ovvio e scontato: sono loro che vendono la droga. Ma è anche un modo semplice ed efficace per eludere il fatto che la responsabilità dell’aumento dei consumi risiede nel nostro stile di vita, non nelle velleità dei criminali, i quali, da bravi e schifosi avvoltoi, abituati a occupare i vuoti lasciati dalle istituzioni, non fanno che intercettare (e soddisfare) un bisogno inculcatoci dal nostro stesso sistema di sviluppo: il bisogno della prestazione a tutti i costi, del primato, del superamento dei limiti.

Droghe: su prevenzione, inutilità degli spot… e utilità dei limiti

di Luca Borello (ricercatore e documentalista su sostanze e dipendenze)

 

Notiziario Aduc, 10 novembre 2008

 

Fatico a stabilire quale sia l’aspetto più ridicolo del nuovo spot antidroga ideato dagli ottusi Crociati capitanati dal povero Giovanardi, illuminato nella sua missione dalla "scientificità" di Serpelloni (il medico - scrittore - compositore - pittore) e dall’utopia senza uscita di San Patrignano (che non necessita di presentazioni).

Forse è che si riferisce ad un astratto concetto di "droga", evidentemente poco chiaro agli ideatori stessi, senza considerare che la causa più frequente di devastazione cerebrale è l’abuso del legalissimo alcol.

O forse è il fatto che la retorica del "cervello bucato" non solo è tanto antica quanto inefficace (qualcuno forse ha ancora dei dubbi sul fatto che "la droga fa male"?. Il consumo di droga è forse per questo diminuito?), ma anche imprecisa. Perché le droghe sono tante, e tra le varie e gravi controindicazioni causate all’abuso (abuso: non uso), non necessariamente compare il danno cerebrale (presente invece in diversi e legalissimi psicofarmaci); l’idea del "cervello bucato" ha avuto una certa fortuna associato ai danni dell’ecstasy, ma è stata accantonata nel momento in cui ci si è resi conto che non è necessariamente vero, e soprattutto che la tecnologia dello "scanning cerebrale", usata per dimostrarla, è nuova e controversa: quelle macchie colorate che Serpelloni indica come "buchi nel cervello" (ogni macchia corrisponderebbe al 5% in meno di sostanza cerebrale!) in realtà non si sa bene cosa siano, e la maggior parte dei milioni di persone che hanno usato regolarmente ecstasy durante il boom degli anni ‘90 sono vive, vegete e capaci di intendere e di volere. Ad oggi, l’ecstasy è considerata una sostanza meno pericolosa dell’alcol.

Ma forse, a ben vedere, l’aspetto più ridicolo è un’altro. Ammettiamo anche che tutto quello che sottintende e afferma lo spot sia vero: la droga, qualunque droga (tranne l’alcol, di cui Giovanardi è appassionato consumatore), anche se usata una sola volta, distrugge, ammazza, avvelena.

 

Anche i più ottusi proibizionisti non possono evitare di ammettere che se la droga viene usata, una ragione ci sarà. Anche i più feroci sostenitori della Guerra alla Droga sanno che oggi le sostanze si consumano (prevalentemente) per raggiungere migliori prestazioni sia in ambito ricreativo che lavorativo: non ci vuole molto ad arrivarci, dato che, tolta la polivalente cannabis, a farla da padrone sono proprio gli stimolanti e le sostanze prestazionali in genere.

Allora, che senso ha fare uno spot così, quando quello in onda appena prima invita a rincorrere la forma fisica perfetta ammuccandosi pastiglie "naturali", quello seguente indica come indispensabile il superfluo, e quello ancora seguente ti dice che se ti ingolli quella pastiglia il mal di testa ti passa in un momento e la vita ti sorride?

Chi usa droghe oggi non lo fa perché è stupido, autolesionista, ignorante, pazzo. Chi usa droghe (mica solo i ragazzini in discoteca) lo fa perché le trova utili a vari scopi, pratici o ricreativi, anche se sa che possono fare male. Non è poi così diverso dal guidare ai 200 allora in autostrada perché si è in ritardo: è pericoloso, molto pericoloso, ma è visto (da chi lo fa) come utile allo scopo.

Chi usa le droghe lo fa perché è immerso in una società altamente medicalizzata: sa che c’è una pastiglia per ogni problema, dalla diarrea all’infelicità; lo fa perché per stare al passo con i ritmi del lavoro e del divertimento ha bisogno (qualche volta) di un sostegno, perché lo stress (alle volte) è troppo da sopportare senza l’aiuto di un bel cannone di marijuana. Aggiungiamoci poi la retorica del "no limits" e del "primato a tutti i costi" che domina l’immaginario collettivo e guida il sistema produttivo, e capiamo da cosa possa derivare l’abuso: il doping non è mica solo nello sport, anche se fa comodo pensarla così. Una campagna coerente ed efficace contro le droghe dovrebbe essere una campagna contro l’abuso di droghe.

Per l’alcol, la nostra "droga culturalmente controllata", che uccide più che tutte le droghe illegali messe assieme (25.000 morti all’anno solo in Italia) si invita alla moderazione, al "bere responsabile": si sa che tanto la gente beve comunque. Dato che si sa anche che la gente si droga comunque, perché non fare lo stesso per le sostanze? Chi ci ha provato, è stato accusato di incitare al consumo.

Paradossalmente, la prevenzione efficace contro le "droghe" forse non avrebbe nemmeno bisogno di parlare di droghe. Basterebbe parlare di limiti. Educare al riconoscimento e al rispetto dei limiti umani: fisici e psichici, individuali e collettivi. Educare al rifiuto dell’idea dominante del "tutto e subito". Educare alla moderazione. Inquinamento, crisi economica ed energetica, disturbi come bulimia o anoressia, consumo di droghe e dipendenze: è tutto intrecciato, sono sintomi diversi di una stessa malattia etica.

I limiti dovrebbero essere considerati sacri, non un impedimento al raggiungimento di chissà quale scopo nel minor tempo possibile. Siamo una società rovinata e che sta rovinando il pianeta a causa della brama del primato a tutti i costi. Un recordista sportivo che afferma "neanche io supero mai i miei limiti" mi parrebbe un messaggio molto più potente delle lampadine che si spengono nel cervello.

Indonesia: giustiziati gli attentatori di Bali, fecero 202 vittime

 

Ansa, 10 novembre 2008

 

Sono stati giustiziati in Indonesia i tre militanti islamici giudicati colpevoli degli attentati di Bali del duemiladue. La sentenza è stata eseguita per fucilazione nell’isola di Nusakambangan dove i tre erano detenuti. Ali Ghufron, 48 anni, suo fratello Amrozi, 47, e Iman Samudra, 38, erano stati condannati a morte nel 2003. Sono stati riconosciuti colpevoli di aver organizzato e partecipato agli attentati. Per evitare eventuali rappresaglie, il governo indonesiano in questi giorni ha rafforzato le misure di sicurezza intorno a luoghi ritenuti a rischio.

Furono 202 le vittime delle autobombe che il dodici ottobre 2002 fecero saltare in aria un caffè e un locale notturno. Moltissimi erano turisti. Gli attentati sono stati attribuiti alla Jemaah Islamyah, la maggiore organizzazione terroristica del sud-est asiatico.

Stati Uniti: l'ex detenuto hacker entra nel database del carcere

 

Ansa, 10 novembre 2008

 

Un ex detenuto è stato arrestato per aver violato la rete di computer di un penitenziario, rubando l’identità di un impiegato del carcere per avere accesso ad informazioni personali relative al personale di servizio, informazioni passate in seguito agli altri detenuti.

L’episodio è avvenuto tra ottobre del 2006 e febbraio 2007 nell’istituto della contea di Plymouth in Massachusetts. Stando a quanto dichiarato dagli inquirenti, il 42enne Francis G. Janosko è stato in grado di accedere a un database contenente nomi, indirizzi, date di nascita, numeri di telefono e di social security relativi al personale dipendente, sfruttando un bug da lui inserito nel software di ricerca giuridica messo a disposizione dei detenuti.

Una volta ottenute tali informazioni, il detenuto le ha quindi divulgate ad altri detenuti. Ma non solo: grazie al bug, Janosko avrebbe anche ottenuto username e password per accedere ad un programma di management del penitenziario e, nonostante il sistema vietasse l’utilizzo del web, vi ha avuto accesso per scaricare video e foto di dipendenti, detenuti, nonché foto aeree della prigione stessa.

"Tutto ciò è stato possibile sebbene il computer messo a disposizione dei detenuti per le ricerche fosse connesso ad internet tramite la rete del penitenziario soltanto per accedere agli update del sistema: il server per la ricerca era comunque configurato per impedire il libero accesso ad internet" si legge in una nota del Distretto della Corte Usa di Boston.

Sull’uomo, già arrestato tre volte per detenzione di materiale pedopornografico sul proprio cellulare e indicato come soggetto ad alto rischio nella gogna online statunitense, pesano ora le accuse di furto di identità aggravato e di danno intenzionale ad un computer protetto. Se condannato, Janosko rischia una pena massima di 12 anni in carcere e una multa che può arrivare anche a 250mila dollari, più una possibile condanna a pagare una somma come indennizzo non ancora quantificata.

 

 

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