Rassegna stampa 7 marzo

 

Giustizia: dare più carcere non significa avere più sicurezza

di Desi Bruno (Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Bologna)

 

Il Domani, 7 marzo 2008

 

Certamente uno tra i temi più presenti all’attenzione dell’opinione pubblica, perché legato alla vita quotidiana dei cittadini, è quello relativo alle politiche della giustizia e dell’esecuzione della pena. Diffusa è la sensazione che le sanzioni penali siano così modificate da non renderne effettiva l’espiazione. È forte la richiesta di sanzioni sempre più severe, come pure del ricorso alla sola pena detentiva, quasi che rappresenti l’unica via per garantire la sicurezza della comunità.

Spesso si prospetta la necessità di intervenire sull’ordinamento penitenziario, riducendo il novero e i casi di accesso alle misure alternative, intervento già in parte operato con la nuova disciplina della recidiva introdotta dalla legge ex-Cirielli. Eppure l’aumento costante ed inarrestabile della popolazione carceraria, composta all’80% da immigrati irregolari, tossicodipendenti, marginali sociali, nonostante il recente provvedimento di indulto, sembra indicare che l’equazione più carcere più sicurezza serve a dare una risposta non confortata da risultati concreti.

Le statistiche ministeriali relative alle misure alternative al carcere affermano senza incertezza che ipotesi diverse dalla detenzione diminuiscono la recidiva e, che il reinserimento sociale degli autori di reato ha tante più possibilità di successo se la pena, certa nel momento in cui viene comminata, si adatta, nel corso dell’esecuzione, ai cambiamenti del condannato, se non si risolve nella sola privazione della libertà, ma offre formazione, lavoro, percorsi di riflessione e intervento sul vissuto della persona.

Le possibilità, già introdotte, di utilizzare in alcune situazioni, pene rivolte alla collettività, come i lavori di pubblica utilità, non vengono praticati, manca ancora una cultura di una diversa, e più efficace, risposta al reato. Eppure dal 1991 ad oggi quattro autorevoli commissioni governative (presiedute da Pagliaro, Grosso, Nordio e da ultimo Pisapia) sono state incaricate di riformare l’ormai desueto codice penale, introducendo, tra le altre innovazioni, una tipologia diversa di sanzioni, più efficaci e al contempo idonee a ridurre la sanzione detentiva a estrema ratio, da utilizzarsi solo di fronte alla lesione di beni di primaria importanza.

L’ultimo progetto di riforma, varato dalla commissione presieduta da Giuliano Pisapia, consegnata al governo in tempi rapidi, prevede pene pecuniarie, interdittive, prescrittive, la detenzione domiciliare e la permanenza in casa, e solo da ultimo quella carceraria, valorizzando la possibilità di definizione dei procedimenti in caso di risarcimento del danno, introducendo i lavori socialmente utili e consentendo al giudice del processo di affidare al servizio sociale o di consentire la messa alla prova della persona condannata, laddove sia prevedibile un esito positivo della stessa, immettendo nell’ordinamento un istituto applicato sino ad oggi ai minori con buoni risultati.

Importante ancora è il superamento delle misure di sicurezza e l’esperienza degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, sostituiti da misure di cura e di controllo. Le politiche della pena di questi anni ci hanno consegnato un sistema della detenzione al limite del collasso per il sovraffollamento intollerabile degli istituti penitenziari, dovuto anche al massiccio ricorso alla custodia cautelare, e per la povertà delle risorse messa a disposizione dentro e fuori il carcere. La riforma vorrebbe incidere anche sui tempi dei processi, che vanno definiti rapidamente, attraverso una diversa disciplina della prescrizione, che imponga il rispetto di termini a favore sia della persona sottoposta a processo sia per chi dal processo attende forme risarcitone del danno subito.

La ricerca, voluta da tutte le commissioni che si sono succedute, di un diritto penale "mite", non significa affatto affermazione di un diritto penale lassista, ma più razionale, diversificato, capace di commisurare la sanzione alla gravità del fatto e di incidere davvero sulla recidiva. Anche questa volta, caduto il governo in carica, l’occasione sembra perduta, ma l’esigenza, è sotto gli occhi di tutti, cresce di giorno in giorno. L’auspicio è che la riforma del codice penale venga considerata, dalla prossima compagine governativa, una priorità e si metta a frutto il lavoro di studio e di ricerca ormai di decenni.

Giustizia: la gente finisce in carcere, ma le prove dove sono?

di Maurizio Belpietro

 

Panorama, 7 marzo 2008

 

Mandiamo a scuola i Pm! Gravina, il caso più clamoroso. Ma anche gli omicidi di Garlasco e Perugia. Una proposta per una giustizia più giusta.

Un tempo la cultura giuridica imponeva di considerare innocente l’imputato fino a che non ne fosse dimostrata la colpevolezza, ossia dopo una sentenza definitiva di condanna. Ma il lento deterioramento della giustizia ha ormai ribaltato questo principio e da presunto colpevole l’indagato è ormai diventato un presunto innocente.

In molti casi non è il Pm a dover dimostrare, senza ombra di dubbio, che la persona ha commesso il reato di cui è accusata, ma è la difesa a dover date prova d’innocenza dell’indagato. L’esempio più clamoroso di questo rovesciamento dei ruoli è il parere con cui la procura di Bari si è opposta alla scarcerazione del padre dei due fratellini di Gravina.

Nel caso Pappalardi già appariva abnorme l’applicazione della custodia cautelare a un anno dalla scomparsa di Ciccio e Tore (arresti dettati da un improbabile pericolo di fuga), ma la motivazione con cui si richiede al giudice di tenere in carcere il papà dei due ragazzini è ancora più aberrante. Secondo i magistrati, il ritrovamento dei due cadaveri in fondo al pozzo "non aiuta ad affermare che la condotta di Pappalardi non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla tragica precipitazione". In un linguaggio burocratico - giudiziario, i Pm dicono che la difesa non ha dimostrato che l’uomo non ha nulla a che fare con la tragica fine dei propri figli. Invece di riconoscere d’aver sbagliato a ipotizzare che i corpi dei due bimbi fossero sepolti in un anfratto della Murgia, quando invece erano in fondo a un pozzo a poche centinaia di metri dal luogo della loro scomparsa, la procura chiede alla difesa di "rimuovere l’impostazione accusatoria".

Oltre al rovesciamento dell’onere della prova, in questa terribile vicenda appare evidente anche il fallimento del sistema investigativo. Se per quasi due anni nulla si è saputo della fine di Ciccio e Tore è perché le indagini hanno seguito da subito la pista familiare, mai quella dell’incidente. Si è cercato in Piemonte e in Romania, non nel pozzo di Gravina.

Il deficit investigativo non riguarda solo il caso Pappalardi. L’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco e quello di Meredith Kercher a Perugia sono legati dallo stesso comun denominatore: in entrambi i casi sono stati individuati dei presunti colpevoli, ma non ci sono prove per dimostrarne la responsabilità.

Nelle mani dei Pm ci sono indizi a volte anche importanti, ma non sufficienti per un processo. Gravina, Garlasco e Perugia non sono eccezioni: molti dei delitti che negli ultimi dieci anni hanno riempito le pagine dei giornali sono ancora senza castigo e domandarsi se qualcosa non funzioni nel nostro sistema di repressione del crimine è d’obbligo.

La sensazione è che le indagini spesso viaggino a senso unico, limitando le piste investigative e affidandosi con fiducia cieca alle intercettazioni e ai rilievi della scientifica. Senza una confessione dell’assassino (diretta o indiretta) e senza una sua impronta sul luogo del delitto è difficile individuare il responsabile.

Capisco che questo è un terreno minato e che chi vi si avventura rischia grosso. Ma forse è giunto il tempo di riconoscere che i Pubblici Ministeri, cui compete la responsabilità dell’inchiesta, spesso di investigazioni sanno poco o nulla, talvolta anche meno del personale che dovrebbero guidare. Mi azzardo dunque a fare una proposta: vadano a scuola.

Basterebbe un bel corso di polizia che insegni loro a non sposare un’unica tesi e a ben condurre gli interrogatori. Non so se così risolveremo i casi insoluti. Di certo avremo meno colpevoli senza un’ombra di prova.

Giustizia: Marroni; garantire il diritto al voto dei detenuti

 

Comunicato stampa, 7 marzo 2008

 

"A circa un mese dalla elezioni politiche e amministrative che si terranno il 13 e 14 aprile ritengo opportuno che le autorità si adoperino per garantire il diritto al voto ai detenuti nelle carceri del Lazio". È quanto chiede il Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio Angiolo Marroni secondo il quale " nelle carceri ci sono centinaia di detenuti, in esecuzione pena e in custodia cautelare, che hanno mantenuto il loro diritto di voto".

Per garantire il diritto al voto Marroni ha proposto che le autorità competenti, ognuna per la parte che gli compete, predispongano con tempestività "un sistema capillare di comunicazione per i detenuti, con le informazioni e le operazioni indispensabili all’esercizio del diritto di voto".

In base agli articoli 8 e 9 della legge 23 aprile 1976, i detenuti possono esercitare il diritto di voto all’interno delle carceri con la costituzione di un seggio elettorale speciale. L’esercizio del diritto di voto è, però, subordinato ad alcuni adempimenti, "che richiedono tempo e che non possono essere utilmente espletati se non attraverso una anticipata conoscenza degli stessi".

In sostanza il detenuto deve far pervenire al Sindaco del comune nelle cui liste elettorali è iscritto, una dichiarazione della propria volontà di votare nel luogo in cui si trova, con l’attestazione del Direttore dell’Istituto comprovante la sua detenzione; questo per consentire al Sindaco l’iscrizione del richiedente in un apposito elenco ed essere munito della propria tessera elettorale. La richiesta può pervenire al Sindaco non oltre il terzo giorno antecedente il voto, ma è opportuno informare i detenuti della necessità di questi adempimenti.

"Come Garante dei detenuti - ha detto Marroni - ho ritenuto opportuno sollecitare le autorità su questo problema, attraverso un percorso di collaborazione che coinvolga i soggetti interessati, ognuno nell’ambito delle proprie responsabilità. Già in occasione delle passate elezioni del 2006 sollevai la questione dei detenuti votanti. Ora spero che, grazie alla collaborazione tra istituzioni, si possa arrivare a consentire ai detenuti di esercitare un loro legittimo diritto facendoli sentire parte integrante di questo Paese".

Giustizia: il voto? darlo a chi crede in recupero della persona

di Carmelo Musumeci (detenuto nel carcere di Spoleto)

 

www.informacarcere.com, 7 marzo 2008

 

Oggi pensavo che pur stando in prigione un’intera vita mi sono sempre sentito libero di mettermi nei guai e sentendo alla televisione un famoso politico affermare di volere ripristinare i lavori forzati per i detenuti ho scritto un documento che diffonderò per le carceri.

"Pochi di noi detenuti possono votare, ma possono farlo per noi i nostri cari. Indirizziamo i voti dei nostri familiari per quel partito e schieramento che ha messo nei primi posti della sua attenzione il problema del carcere, che si impegni per la legalità in carcere, per l’applicazione dei diritti in ogni sede, per l’uscita del nuovo codice e per l’abolizione del regime di tortura del 41 bis. Facciamo votare i partiti che si interessano alle condizioni inumane e intollerabili del carcere. Facciamo votare i partiti che sono favorevoli all’abolizione dell’ergastolo, all’emanazione del codice penale e a una pena rieducativa. Facciamo votare i partiti i cui propri parlamentari visitano spesso le prigioni. Molti di noi sono in carcere da 15-20 anni e fra pochi anni sarà troppo tardi per inserirci nella società: votiamo quei partiti che credono al recupero della persona. Passa parola fra i detenuti, parenti, amici e conoscenti".

Giustizia: Corleone; Presidente, dia la grazia a Adriano Sofri

di Franco Corleone (Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze)

 

Il Manifesto, 7 marzo 2008

 

Caro Presidente Napolitano, è passato un tempo assai lungo dalla risposta che il Consigliere Loris D’Ambrosio mi inviò il 3 novembre 2006 in relazione alla lettera che le avevo inviato il 26 settembre dello stesso anno, nella quale le chiedevo di assumere in prima persona l’iniziativa autonoma per una scelta ormai matura della grazia a Adriano Sofri.

Il Consigliere D’Ambrosio riaffermava giustamente che la sentenza n° 200 del 2006 della Corte Costituzionale aveva fatto definitiva chiarezza sul potere esclusivo del Presidente della Repubblica sulla titolarità e esercizio del potere di clemenza individuale; e aggiungeva che in ordine alla pratica di grazia di Adriano Sofri "l’esistenza di situazioni nuove - connesse allo stato di salute e all’applicazione della legge sull’indulto - imponeva aggiornamenti istruttori indispensabili al Capo dello Stato per l’ulteriore corso della relativa procedura".

Immediatamente risposi ringraziando per gli apprezzamenti ai contributi di studio da me offerti in questi anni per la più corretta interpretazione costituzionale dell’istituto della grazia. Offrii anche il quadro della posizione giuridica di Sofri: calcolando la concessione dell’indulto e i giorni di liberazione anticipata, il periodo di detenzione avrebbe avuto ancora una durata di ben sette anni. Al tempo Adriano Sofri era in regime di sospensione della pena per la gravissima malattia che l’aveva colpito durante la reclusione nel carcere di Pisa: poco dopo la sospensione è stata trasformata in detenzione domiciliare sulla base di una decisione autonoma del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, che scadrà il prossimo giugno. A oggi il residuo pena da espiare di Adriano Sofri supera i cinque anni.

Concludevo la mia lettera del settembre 2006, esprimendo fiducia nella rapida conclusione degli aggiornamenti istruttori e nell’emanazione del decreto in tempi ravvicinati. Così non è stato, nel frattempo altre tragedie sono accadute nella vita di Adriano Sofri a rendere la situazione più insostenibile. Per ragioni di rispetto istituzionale e aderendo alle sollecitazioni di chi mi invitava a rispettare un silenzio certamente riflessivo e operoso, ho atteso fiducioso una sua iniziativa, insieme alle migliaia di uomini e donne che per oltre 1.500 giorni parteciparono a un digiuno a staffetta per affermare le ragioni di un diritto mite.

A distanza di un anno e sei mesi, mi sono convinto che le ragioni dell’attesa non sussistono più e non desidero attendere inerte il protrarsi di una vicenda iniziata con la mia prima lettera indirizzata al Presidente Ciampi il 27 novembre 2001: con il rischio di un’ipocrita assuefazione allo scandalo di uno stato di detenzione inutile che continua.

Nella risposta, il Consigliere giuridico Salvatore Sechi scrisse allora che "il Presidente Ciampi è consapevole della mutazione teleologica che la pena subisce quando venga irrogata a lunga distanza di tempo dai farti"; ribadendo, sempre a nome del Presidente, l’esigenza di chiudere definitivamente capitoli dolorosi della storia della Repubblica attraverso il formarsi di un largo consenso politico e sociale. Il caso non poté concludersi positivamente per l’ostruzionismo dell’allora ministro della giustizia Roberto Castelli che costrinse il Presidente - già "con la penna in mano" per firmare la grazia, com’ebbe a dichiarare - a sollevare il conflitto di potere, risolto in seguito felicemente dalla Corte Costituzionale.

Viviamo un tempo di imbarbarimento giuridico e di "incattivimento" della società, come dimostra la criminalizzazione di una misura giusta e doverosa come l’indulto. Ciò deve spingere a atti di generosità che possano alimentare uno spirito di riconciliazione di cui l’Italia ha un estremo bisogno.

Caro Presidente, per evitare qualsiasi strumentalizzazione e magari il rinnovellarsi di polemiche insulse, voglio sottolineare che non intendo affatto esercitare una pressione indebita a favore della concessione della grazia a Sofri: il senso del mio messaggio sta in un pressante invito a esercitare le sue prerogative costituzionali, in qualsiasi direzione intenda pronunciarsi. Per quanto mi riguarda, come cittadino impegnato da anni su una delicata questione politica e costituzionale, non posso far finta di nulla e rassegnarmi nell’ignavia al clima del paese. La decisione, assolutamente personale, di riprendere un digiuno, di dialogo e di testimonianza, viene offerta a lei, con fiducia e con la presunzione di aiutarla a decidere, qui e ora.

L’Italia è stata protagonista della battaglia di civiltà per l’affermazione della moratoria della pena di morte in sede Onu e lei, signor Presidente, ha sostenuto e condiviso questa iniziativa. So che lei, custode e garante della Costituzione, apprezza l’articolo 27 sul carattere delle pene, che non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità in vista del reinserimento sociale del condannato e in nome di una convivenza che ripudi l’odio e la vendetta.

I principi vanno inverati e riaffermati proprio quando rischiano di indebolirsi nella coscienza collettiva: il digiuno ha, in questa occasione, con assoluta semplicità solo il significato di dare corpo a un impegno civile. Spero con questo di aiutarla nella riflessione, nel pieno rispetto di quella che il costituzionalista Ernesto Bettinelli chiama la "necessaria e virtuosa solitudine" del Capo dello Stato. Sono sicuro che anche in questa occasione, la Repubblica con i cittadini tutti, uomini e donne, le sarà riconoscente. In attesa di un suo pronunciamento, le invio il mio saluto più cordiale.

Medicina Penitenziaria: lettera Simspe a Forum per la salute

 

Lettera alla Redazione, 7 marzo 2008

 

Come aderenti al Forum la posizione della Simspe sul transito dei servizi è nota. Abbiamo scritto, ne abbiamo parlato in tutte le sedi istituzionali, abbiamo offerto la nostra partecipazione e la nostra esperienza. Perché nella considerazione dell’unitarietà della persona la riforma dell’assistenza in carcere è attualmente fattibile, doverosa, morale. Ma da quello cui abbiamo assistito più relegati nel ruolo di spettatori che di partecipanti, quasi, nonostante il nostro bagaglio tecnico non fossimo considerati direttamente coinvolti, ci sorgono dubbi che suscitano incertezze. Dubbi perché chi osserva da "fuori" può solo interpretare i segnali che pervengono alla sua attenzione.

La progressione di testi preparatori alla riforma che cambiano quotidianamente non parlano purtroppo di un consapevole ed univoco percorso per la realizzazione degli obiettivi stabiliti. I tempi affrettati che la politica solo recentemente ha impresso delineano alla fine un futuro incerto e non chiarito, demandando alle Regioni l’organizzazione degli interventi e l’eventuale assorbimento del personale "compatibilmente con le risorse finanziarie complessivamente disponibili allo scopo". E se in qualche Regione queste risorse non fossero disponibili?

Si tratta prevalentemente di quegli operatori, vorrei precisare, che tutti i giorni, bene o male, ma con gli strumenti che la Giustizia ha fornito e, comunque con infinito impegno hanno continuato ad assicurare l’assistenza sanitaria nelle carceri italiane, ed ai quali questo deve essere riconosciuto! La mancanza di chiarezza genera incertezza, e questo non è il sistema migliore per incentivare la partecipazione. L’incertezza passa sopra le persone detenute, sopra gli operatori del penitenziario sia sanitari che laici, sopra le Regioni e le Ausl.

Non riteniamo, quali esperti del settore, un segnale coerente la mancanza di concertazione e l’assenza di tecnici veri ai tavoli di definizione dei decreti. Quali segnali sono il silenzio della Giustizia e l’atteggiamento quasi noncurante della Salute?

Temiamo quindi che tutto questo rimandi ancora una volta ad un futuro pieno di incertezze le decisioni fondamentali per la salute della popolazione detenuta e l’organizzazione delle attività assistenziali. Noi conosciamo con esattezza la situazione della popolazione detenuta e conosciamo i suoi bisogni di salute, la conoscono i volontari, la conoscono le organizzazioni che operano in carcere…. non la conoscono ancora molte Regioni ed Ausl. Temiamo che il Ssn assuma con il passaggio un carico che non conosce e, probabilmente, sottostima ovvero in alcuni casi nemmeno immagina. È una preoccupazione legittima, dato che inoltre ed in ogni caso il transito dei servizi sanitari penitenziari al Ssn genererà una fase gestionale di grande complessità organizzativa.

E sono anche possibili significative criticità sanitarie in un ambito assistenziale così delicato. Sopra a tutto va tenuto conto che vi sono circa 50.000 detenuti che sperimenteranno le indecisioni e le incertezze: ricordiamoci che non è la nostra salute di cui si discute, ma la loro. La fase successiva vedrà le Regioni come protagoniste. Non ci vogliamo fare scudo della salute dei nostri pazienti o dei possibili disordini che vuoti organizzativi potrebbero creare, ma, a nostro parere il sistema di riforma deve partire con premesse certe e chiare.

Noi speriamo e confidiamo sul fatto che ad evitare criticità non previste vi siano ulteriori momenti e spazi di approfondimento organizzativo nei quali l’assistenza sia costruita consapevolmente ed a misura delle necessità e non indiscriminatamente calata dall’alto. La nostra partecipazione alla costruzione di un nuovo sistema assistenziale in carcere è un elemento indispensabile alla sua buona riuscita.

Rivolgiamo al Forum, quindi, un invito a dissipare queste preoccupazioni ed incertezze, coinvolgendo quanti tra gli operatori sono aderenti al passaggio della assistenza in carcere al Ssn. La Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, attraverso i suoi aderenti, è disponibile ancora una volta al colloquio, alla collaborazione, alla partecipazione.

 

Il Presidente

Andrea Franceschini

Teramo: presentato "libro bianco" su detenzione femminile

 

www.cronacadabruzzo.org, 7 marzo 2008

 

Presentato il "libro bianco" sulla detenzione femminile: il 56,3% proviene da una situazione di povertà e il 30% ha ammesso di aver vissuto in famiglia esperienze legate al carcere. I risultati della ricerca "Detenute = femminile plurale".

Il "libro bianco" sulla detenzione femminile nella provincia di Teramo, in grado di fornire utili informazioni agli operatori, è stato redatto nell’ambito di un progetto sul sistema penitenziario e sulla detenzione femminile organizzato nell’ambito del progetto Equal "Sconfinando" che vede come ente titolare la Provincia di Teramo e come partner del progetto l’associazione On the Road, l’Api (Associazione Piccole e medie Imprese) della Provincia di Teramo, il Centro Servizi per il Volontariato di Teramo, l’Unione Industriali della provincia di Teramo e l’Università di Teramo. Dell’argomento si è parlato ieri a Giulianova nel seminario nazionale "Detenute = femminile plurale".

Entrando nel dettaglio della ricerca sono state intervistate 32 detenute alle quali è stato somministrato un questionario su diversi aspetti della vita sociale e del capitale fisico e umano. Dall’elaborazione dei dati si evidenzia come al momento dell’ingresso nel carcere nessuna donna ha ricevuto informazioni e/o materiale informativo sulle regole interne all’istituto di pena. Inoltre, per quanto riguardo i servizi interni al carcere emerge un giudizio insoddisfacente da parte delle detenute su iniziative culturali (62,5%), biblioteca (35,7%), spazi in comune (84,6%), assistenza medica (52,4%), funzioni religiose (54,5%), palestra (81,8%). Decisamente migliore invece il rapporto con gli operatori giudicato da molte "del tutto buono" con punte del 62,5% in riferimento ai volontari e del 61,5% in riferimento agli educatori.

"Rispetto ad altre indagini sulla detenzione femminile, prevalentemente concentrate sulla vita quotidiana in carcere o sugli aspetti di carattere psicologico dell’esperienza di reclusione, l’obiettivo conoscitivo di questa ricerca spiega Annalia Savini, coordinatrice del progetto Sconfinando - è stato orientato alla dimensione sociale dell’esperienza detentiva femminile. Inoltre un ulteriore aspetto di analisi ha riguardato il confronto con le informazioni e le conoscenze acquisite dalle detenute e delle ex detenute".

"Questo studio sulla detenzione al femminile - rileva Mauro Ettorre, direttore del Centro Servizi per il volontariato di Teramo - non vuole certo avere la presunzione di avere capito appieno il fenomeno nella sua complessità ma vuole portare un contributo alla comprensione di una realtà comunque in divenire". In merito al reinserimento sociale non emergono proposte sistematiche che aiutino le detenute a migliorare il collegamento in-out.

I timori maggiori delle donne nel momento del reinserimento riguardano l’area della ricerca del lavoro e la preoccupazione del giudizio e dell’accettazione dei figli e della famiglia. La seconda parte della ricerca ha invece riguardato 10 racconti di vita di ex detenute di nazionalità italiana, rom e rumena. Infine, un ultimo aspetto di analisi ha esaminato il confronto con le informazioni e le conoscenze acquisite dalle detenute e delle ex detenute, con il parere e l’esperienza degli operatori del settore.

In questo modo è stato possibile verificare in quale misura le visioni del mondo dei due attori sociali coinvolti (donne detenute e operatori) coincidesse e in quale misura, invece, fosse possibile identificare una forbice percettiva tra detenute e operatori. Il confronto tra le dichiarazioni delle detenute attualmente presenti in carcere con quelle che hanno già scontato la pena evidenzia una forte dicotomia, soprattutto in relazione ai giudizi espressi sulle agenti di polizia penitenziaria. Mentre le detenute attualmente presenti non hanno evidenziato particolari criticità, dall’ascolto delle donne all’esterno del carcere emergono una serie di aspetti negativi, soprattutto in riferimento ad alcuni comportamenti di discrezionalità e mancato rispetto dei diritti delle detenute.

A questo riguardo, come già in altri luoghi di detenzione, appare opportuno - è stato detto ieri - intervenire su più versanti: da un lato, alleggerire il carico e la tensione sul posto di lavoro, riducendo orari e favorendo il turn-over. Dall’altro lato, è auspicabile il coinvolgimento degli agenti all’interno di un percorso di formazione e aggiornamento permanente, soprattutto sui temi diritti umani e della qualità della vita relazionale, da avviare in forme comuni e concordate assieme agli altri operatori stabilmente presenti all’interno del carcere. Dal percorso di ricerca realizzato ma soprattutto dall’ascolto della voce delle "protagoniste" sono emerse delle problematicità, delle aree di criticità sia durante che dopo il periodo di detenzione nel delicato momento del reinserimento sociale.

A partire dalle criticità emerse è stato possibile proporre delle idee-progetto sul tema. Tra queste quella di fornire alle donne prive di dimora stabile un domicilio "di emergenza" a cui fare riferimento per la concessione delle misure alternative, promuovere l’accesso delle detenute a corsi di formazione scolastica, da tenere all’interno o all’esterno del carcere, in assenza di una politica nazionale di lotta alla povertà, sviluppare nel territorio delle misure più efficaci di contrasto della povertà economica, migliorare il lavoro di rete tra operatori sociali della Giustizia e gli operatori sociali territoriali, anche al fine di individuare forme di alloggio sociale, a breve-medio termine, migliorare la comunicazione e l’informazione all’ingresso dell’istituto, magari facendo un piano di distribuzione del materiale informativo e, infine, inserire nella sezione femminile di Teramo alcune figure stabili di mediatori culturali, in riferimento alle nazionalità e etnie maggiormente rappresentate all’interno del carcere, in grado di accompagnare la donna all’ingresso in carcere e rendere meno drammatica l’esperienza carceraria.

Teramo: informazione sanitaria per i detenuti e il personale

 

Comunicato stampa, 7 marzo 2008

 

L’Unità Operativa di Medicina Penitenziaria della Asl di Teramo ha promosso un progetto di informazione sanitaria rivolto alla popolazione detenuta e, per l’anno 2008, esteso anche al personale operante in ambito penitenziario.

Lo scopo di tale iniziativa è quello di migliorare la conoscenza delle malattie infettive più diffuse in ambito penitenziario (tubercolosi, epatiti, Hiv) e favorire l’adozione di comportamenti congrui e finalizzati ad evitare il contagio e la diffusione. Le attività formative saranno svolte dal personale medico della UO di Malattie Infettive del Presidio Ospedaliero di Teramo addetti al Servizio di Infettivologia dell’Istituto Penitenziario di Teramo.

 

Dr. Massimo Forlini

Responsabile UO Medicina Penitenziaria

Asl Teramo

Bologna: Uil-Penitenziari; il carcere è in stato di abbandono

 

Il Velino, 7 marzo 2008

 

"La situazione che ho trovato è peggio di quanto immaginassi". Lo ha detto il segretario generale della Uil-Penitenziari, Eugenio Sarno, a conclusione della sua visita all’istituto di pena bolognese. Sarno, accompagnato dal segretario regionale Crescenza e da una folta delegazione di quadri territoriali, si è trattenuto per l’intera mattina all’interno del penitenziario per verificare le condizioni in cui sono costretti a lavorare gli operatori penitenziari. "Anche all’occhio di un profano - ha dichiarato Sarno - risalta lo stato di abbandono ed incuria della struttura Il personale è costretto a prestare la propria opera in condizioni igienico-sanitarie davvero allarmanti.

Credo che sia necessario intervenire con urgenza ed immediatezza, non bastano più le parole è l’ora dei fatti concreti. Ognuno si assuma le proprie responsabilità". Sulle condizioni di sovraffollamento riscontrate, Sarno si è dichiarato d’accordo con il provveditore regionale, Cesari, che ha annunciato di voler trasferire circa duecento detenuti. Allo stesso modo ha rilevato come le deficienze organiche del personale siano insostenibili: " Credo che uno sfollamento sia inevitabile. Voglio augurarmi che il provveditore, oltre a rilasciare interviste che alimentano l’allarme, abbia già provveduto ad inoltrare la relativa richiesta. È triste dover constatare condizioni detentive ai limiti dell’inciviltà".

"D’altro canto - ha continuato Sarno - quando in un istituto costruito per ospitare circa 500 detenuti se ne ospitano più del doppio è inevitabile che accada ciò che oggi succede a Bologna. Quattro educatori (a fronte dei 13 previsti in pianta organica) per più di mille detenuti; poco più di trecento (336) unità di polizia penitenziaria presente (a fronte delle 567 previste) non sono un allarme ma una condizione di totale inagibilità. Credo siano a rischio diritti e sicurezza". Il segretario generale della Uil-Penitenziari ha annunciato una relazione dettagliata della visita che invierà ai vertici del Dap: "Non mancherò - ha detto - di redigere una dettagliata relazione di quanto riscontrato che invierò ai vertici del dipartimento e alla stampa perché si garantisca il dovere d’informazione. Certamente il Dap non potrà rinviare oltre un momento di confronto complessivo sulle difficoltà dell’Emilia". Confronto che le organizzazioni sindacali hanno già chiesto da alcuni mesi, senza esito. "Ma -ha concluso Sarno - stavolta al silenzio opporremo una grande mobilitazione dei lavoratori che sono allo stremo fisico e psicologico".

Agrigento: agente muore d’infarto, ritrovato dopo 2 giorni

 

Agi, 7 marzo 2008

 

Un agente della Polizia Penitenziaria, Francesco Giovanni Ania, 47 anni originario di Favignana (Trapani) e in servizio nel carcere di contrada Petrusa ad Agrigento è stato trovato morto all’interno degli uffici che ospitano il personale. L’uomo, secondo quanto si è appreso, è rimasto per due giorni cadavere nel suo alloggio senza che nessuno si fosse accorto della morte. È stata la famiglia che, non vedendolo rientrare, ha chiesto notizie del congiunto. È bastato un controllo nel suo alloggio presso la struttura penitenziaria agrigentina per fare la macabra scoperta. Ania sarebbe morto per un infarto. La Procura della Repubblica di Agrigento, con il sostituto Santo Fornasier, ha aperto un’inchiesta.

Reggio Emilia: le agenti in rivolta... "non ce la facciamo più"

di Isabella Trovato

 

L’Informazione, 7 marzo 2008

 

È emergenza negli istituti penitenziari italiani. Dopo il suicidio di cinque agenti che non hanno retto all’eccessivo carico di lavoro dovuto alle carenze d’organico in diversi penitenziari d’Italia, anche a Reggio Emilia esplode il malcontento. Ieri in un’assemblea generale gli agenti di via Settembrini hanno dato voce al loro disagio. Manca personale, il carcere della Pulce è di nuovo sovraffollato, si parla di 238 detenuti a fronte dei 150 che si possono ospitare e la sezione femminile non è più in grado di gestire i turni.

Attualmente sono 7 gli agenti donna impegnate con le 17 detenute nel reparto femminile, di cui tre prossime alla pensione. Resterebbero solo in quattro per una turnazione che deve coprire 365 giorni l’anno, sette giorni su sette, 24 ore su 24. "Non ce la facciamo più - racconta l’agente Lara, 32 anni, abruzzese - siamo sempre qui dentro e abbiamo un carico di lavoro davvero pesante. Il nostro contratto prevede turni di sei ore ma ne facciamo sempre otto. Inoltre ci alterniamo su turni che vanno dalla mezzanotte alle 8 del mattino, dalle 16 fino a mezzanotte oppure dalle 8 alle 16: questo significa che facciamo sei se non addirittura sette notturni al mese".

"Io invece sono mamma di due bambini di tre e quattro anni - ci spiega Angela, 40 anni, sposata - quando affronto un notturno non vedo i miei figli per 24 ore. Per gestire i miei figli mi alterno con mio marito, ma è con lui che non mi vedo mai". Sorride, Angela, ma è un sorriso amaro. Dietro la battuta infatti c’è un malcontento di fondo che serpeggia fra le celle e negli uffici. "Gestire 17 detenute non è facile - continua Angela - ma il problema non è il numero delle carcerate, è che siamo da sole nei nostri turni.

Quando arriva un nuovo arresto ad esempio, dobbiamo fare la perquisizione ma allo stesso tempo garantire la sicurezza nel reparto. Durante le perquisizioni bisognerebbe che fosse presente un sottufficiale donna, ma qui non avviene sempre.

A tuonare contro i disagi cui sono costrette gli agenti donna di Reggio è Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria, in visita al carcere La Pulce di Reggio per fare il punto con tutti i sindacalisti dell’Emilia Romagna sul bilancio della gestione carceraria del 2007.

"È una situazione invivibile - afferma Capece - come Sappe abbiamo chiesto al Ministero di Giustizia di incrementare di dieci unità la sezione femminile. Se non saranno adottati immediati provvedimenti chiederemo la chiusura del reparto. Quelle attuali infatti non sono condizioni di lavoro accettabili. I problemi dell’istituto non sono cambiati negli anni, compreso il sovraffollamento. Il carcere si è riempito di nuovo sottolineare il fallimento del provvedimento dell’indulto".

Vigevano: domani la Cgil distribuirà le mimose alle detenute

 

Comunicato stampa, 7 marzo 2008

 

Una iniziativa che si ripete da qualche anno per testimoniare la presenza del Sindacato anche nei luoghi più disumanizzanti, dove, chi ha sbagliato, sconta la propria detenzione.

Nel Carcere di Vigevano sono detenute circa 100 donne, italiane e straniere e con l’aiuto di insegnanti, alcune di esse hanno ripreso a studiare e con la creazione di una cooperativa, a lavorare. Lo studio e il lavoro dei detenuti e delle detenute, è ancora uno strumento "terapeutico", anche se, almeno per il lavoro, la risposta del mercato è ancora troppo distante de quella realtà. Giocano pregiudizi, la convinzione che il lavoro in carcere non sia qualificato e la percezione che il Carcere sia un luogo a parte, staccato dal territorio e dalle sue dinamiche sociali ed economiche. La cooperativa di lavoro, lavoro di tessitura, occupa 6/7 detenute, alcune straniere, che sperano negli ordinativi da parte delle aziende del settore, per poter avviare con successo questa esperienza.

Nonostante la sensibilità del Direttore del Carcere e del suo staff nel sostenere questa"impresa", le imprese del territorio latitano. Eppure l’impresa avrebbe anche una funzione sociale, una funzione di calmiere delle contraddizioni sociali che attraversano il territorio e il lavoro diventa una risposta per i soggetti "deboli", che altrimenti sarebbero ancora di più esposti al rischio di esclusione.

Il carcere dovrebbe essere l’ultima ratio, in particolare per l’area della detenzione sociale, di quella parte della popolazione detenuta, nella cui esperienza di vita è centrale un problema sociale, non affrontato o non affrontato in modo adeguato.

"Occorre pensare a una alternativa alla pena, non solo a pene alternative" (Cardinale Martini, già Vescovo di Milano), per rifuggire dalla logica del carcere come solo pena corporale, deposito di "vuoti a perdere", da sempre oggetto di processi di esclusione: tossicodipendenti, immigrati, senza dimora, giovani delle periferie con bassa scolarizzazione, ecc.

Non si tratta di riscoprire una vena buonista e ingenua nei riguardi dei soggetti più a rischio, ma di non considerare il carcere l’unico rimedio, l’approdo più comodo per le persone difficili o con tare sociali mai risolte.

Per questo la "società dei liberi" non può girare la testa da un ‘altra parte, delegando alla detenzione quello che la società non è stata in grado di fare prima e anche adesso che donne e uomini riempiono le patrie galere. Lo chiediamo alle aziende tessili del territorio, lo chiediamo alle Istituzioni locali, "date lavoro alle detenute del Carcere di Vigevano", è una buona causa, perché favorite la loro presa di coscienza, perché permettete, attraverso il lavoro, la conquista di un reddito lecito.

 

Cgil Pavia

Napoli: avviati i "laboratori di cucina" in 5 carceri campane

 

Comunicato stampa, 7 marzo 2008

 

Il Provveditorato Regionale della Campania del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, l’Associazione Professionale Cuochi Italiani, il Carcere Possibile Onlus e la Camera Penale di Napoli, invitano alla Conferenza Stampa che si terrà il giorno 11 marzo, alle ore 12.00, presso gli Uffici del Provveditorato Regionale della Campania, in Via Nuova Poggioreale, N. 167, nel corso della quale saranno presentati i "Laboratori di Cucina" avviati in 5 Istituti Penitenziari: Pozzuoli, Benevento, S. Maria Capua Vetere, Arienzo e Lauro.

A seguito del Protocollo d’Intesa tra "Il Carcere Possibile Onlus" e "L’Associazione professionale Cuochi Italiani" e della disponibilità organizzativa del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, sono iniziati, in alcuni Istituti Penitenziari della Campania, i corsi di cucina curati da Chef Professionisti, che svolgono la loro attività come volontariato-non retribuito, al fine di offrire alla popolazione detenuta la preparazione necessaria ad ottenere un attestato che possa facilitare il loro reinserimento nella società e nel mondo del lavoro. L’iniziativa sarà presentata dal Provveditore Regionale Dott. Tommaso Contestabile, dal Presidente dell’ "Associazione Professionale Cuochi Italiani" Dott. Ugo D’Orso, dal Presidente del "Il Carcere Possibile Onlus", Avv. Riccardo Polidoro e dagli stessi chef che illustreranno alla stampa metodologia e programma delle lezioni.

 

Il Presidente de "Il Carcere Possibile Onlus"

Avv. Riccardo Polidoro

Roma: conferenza su condizione dei detenuti italiani all’estero

 

Asca, 7 marzo 2008

 

Avrà luogo lunedì 10 marzo, alle ore 11, presso la Sala delle Bandiere della sede del Parlamento Europeo a Roma, Via IV Novembre 149, una Conferenza Stampa promossa da "Prigionieri del Silenzio", Associazione di supporto per gli italiani detenuti all’estero e le loro famiglie.

Alla conferenza stampa interverranno Katia Anedda ed Erika Righi, rispettivamente Presidente e Vicepresidente dell’Associazione "Prigionieri del Silenzio"; Franco Danieli, Viceministro degli Esteri con delega per gli italiani nel mondo; Umberto Guidoni, Parlamentare europeo e primo firmatario dell’appello al Governo italiano e alla Commissione europea per Carlo Parlanti; Angiolo Marroni, Garante regionale dei detenuti; Mauro Cutrufo, Senatore della Repubblica.

Saranno presenti inoltre Ettore Severi, Sindaco di Montecatini, Emanuela Santarelli, avvocato dell’Associazione "Prigionieri del Silenzio", e alcuni deputati e senatori che si sono interessati dei casi di connazionali detenuti all’estero. Nel corso della conferenza verranno illustrate le problematiche che si incontrano nei casi di detenzione fuori dal confine domestico, quali i limiti delle istituzioni nostrane e cosa il mondo politico e istituzionale è disposto e ha margine di effettuare per affrontare questo che è diventato un problema sociale.

"Prigionieri del Silenzio" nasce nel febbraio del 2008, per volontà di Katia Anedda, Erika Righi ed altre sei donne. Nasce per sostenere e guidare le famiglie degli italiani detenuti all’estero, sui quali l’informazione è troppo spesso laconica e insufficiente. Con un direttivo composto di sole donne, l’Associazione si prefigge lo scopo di rendere accessibile la giusta informazione e gli strumenti necessari alla gestione di una situazione di emergenza come quella degli italiani detenuti in terra straniera, con tutte le problematiche che tale situazione comporta. Per maggiori informazioni, scrivete a info@prigionieridelsilenzio.it.

Albania: preso detenuto evaso in Toscana lo scorso agosto

 

In Toscana, 7 marzo 2008

 

L’uomo scappò durante un trasferimento in ambulanza dal carcere di Livorno a quello di Carinola nel casertano. Il pluriomicida albanese è stato fermato durante un inseguimento dalla polizia albanese che è stata costretta a fare uso delle armi dopo che il latitante ha investito con la sua auto, un agente in moto che era riuscito ad avvicinarsi.

Sia Paja che l’agente sono ricoverati in ospedale. Più grave lo stato di salute dell’agente, in prognosi riservata. Dopo l’evasione di agosto del 2007, Paja era ricercato con un mandato d’arresto internazionale. Non si sa ancora quando e come Paja è riuscito a lasciare l’Italia e rientrare in Albania.

Fonti della polizia hanno comunque spiegato che era da parecchio tempo che gli agenti l’avevano rintracciato e stavano seguendo da vicino le sue mosse. Paja, rinviato a giudizio a Milano per l’omicidio di un ecuadoriano, il tentato omicidio di un amico della vittima e per il sequestro e violenza sessuale di una ragazza romena, aveva a suo carico anche le accuse per un omicidio avvenuto a Duisburg, in Germania.

Durante la detenzione a Perugia, in attesa di estradizione verso la Germania, nel giugno del 2006, era evaso dal carcere ed era stato nuovamente arrestato a Milano. A Livorno era detenuto in attesa di giudizio per il procedimento aperto nel capoluogo milanese

Cina: il boia in azione, ieri eseguite dieci condanne a morte

 

Asca, 7 marzo 2008

 

Nel giorno dell’apertura della sessione annuale del Parlamento cinese, ieri, sono state eseguite dieci condanne a morte. A riportarlo è il sito www.rednet.com che aggiunge come la sentenza sia stata emessa martedì da un tribunale di Changsha, nello Hunan. I condannati, tutti tra i 21 e i 38 anni, erano accusati di omicidio, furto o traffico di droga. Intanto, il premier Wen Jiabao, di fronte ai tremila delegati riuniti a Pechino, ha indicato nell’inflazione il pericolo principale per la crescita economica, che prosegue a passo di carica. Nel suo rapporto annuale all’Assemblea, Wen ha anche ricordato la necessità di una maggiore giustizia sociale.

Turchia: Ocalan, in isolamento da 9 anni, rischia la pazzia

 

Aprile on-line, 7 marzo 2008

 

Preoccupano le condizioni mentali dell’ex leader del movimento curdo Pkk, in regime di isolamento carcerario dal febbraio del 1999. È quanto emerge dal rapporto redatto dal Comitato anti-tortura del Consiglio d’Europa dopo la visita effettuata lo scorso maggio nel carcere turco di Imrali. Dovrà cessare l’isolamento dell’ex capo del movimento separatista curdo Pkk, Abdullah Ocalan, detenuto sull’isola di Imrali in Turchia. È la conclusione a cui è giunto, dopo una visita all’isola-prigione, il Comitato antitortura del Consiglio di Europa (Cpt) per preservare la salute mentale del detenuto.

In un rapporto pubblicato oggi a Strasburgo, dopo un visita all’isola-prigione turca di Imrali nel maggio 2007, risulta che Ocalan - contrariamente alle accuse dei sostenitori del leader curdo - non è intossicato e che la concentrazione di metalli pesanti trovati nel corpo del prigioniero "non sono di natura tale da essere ritenuta pericolosa per la salute dell’interessato". I valori di queste sostanze, trovate nei capelli e nei peli del torace di Ocalan, sono sì elevati "ma dipendono probabilmente dalle condizioni ambientali" del prigioniero, che vive in un ambiente marino, e dalle sue abitudini alimentari. Se la salute fisica non preoccupa gli esperti europei, non si può dire lo stesso della salute mentale.

Quest’ultima, si legge nel rapporto, si è "notevolmente deteriorata" dalle precedenti visite del Comitato nel 2001 e nel 2003. La causa sarebbe da rintracciare in "uno stress cronico e in un isolamento sociale ed emotivo prolungato". Il detenuto, infatti vive in strettissimo isolamento dal 16 febbraio 1999.

Il Comitato anti-tortura ingiunge le autorità turche di "rivedere del tutto la situazione di Abdullah Ocalan con l’obiettivo di integrarlo in un ambiente dove saranno possibili contatti con altri prigionieri e con il mondo esterno che gli permetta di avere una più vasta serie di attività come ad esempio guardare la televisione, telefonare ai parenti e ricevere visite più di frequente".

Un’iniziativa che non ha riscosso l’attenzione necessaria da parte delle autorità turche. Tant’è che, sempre nello stesso documento, si legge che quest’ultime non hanno voluto prendere in considerazione l’ipotesi di porre fine all’isolamento di Ocalan ricordando che egli era a capo di un’organizzazione terroristica e sostenendo che una simile iniziativa metterebbe a rischio la sicurezza dello stesso Ocalan e degli altri detenuti.

Arrestato in Kenya dopo aver soggiornato per diversi mesi in Italia, Ocalan, che ora ha 59 anni, era stato condannato a morte per "separatismo", nel giugno del 1999, pena poi tramutata in ergastolo nel 2002.

 

 

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