Rassegna stampa 6 marzo

 

Giustizia: sovraffollamento europeo, di Patrizio Gonnella

 

Italia Oggi, 6 marzo 2007

 

Sono circa 600 mila i detenuti, definitivi o in attesa di giudizio, ristretti nelle carceri dei 25 paesi dell’Unione europea. Di questi, circa 131 mila sono in attesa di giudizio. Ossia meno di un quarto del totale della popolazione ristretta. In Italia la percentuale delle persone presunte innocenti si aggira invece intorno a un preoccupante 60%.

Un dato che sicuramente è frutto dell’indulto, grazie al quale sono usciti dalle carceri principalmente i condannati, ma è anche un segnale di un uso eccessivo della custodia cautelare, che caratterizza da sempre la giustizia italiana e che le Camere Penali altrettanto da sempre denunciano. Questi sono alcuni dei dati emersi durante un incontro organizzato su scala europea dai sindacati dei pubblici servizi aderenti alla Fsesp (per l’Italia la Cgil Funzione Pubblica) che da Bruxelles sino a Roma, passando per Londra, hanno denunciato nei giorni scorsi il grave sovraffollamento carcerario in tutti i paesi europei nonché le difficili condizioni di lavoro del personale penitenziario.

Circa 30 mila sono le donne detenute nei 25 paesi dell’Unione europea. Esse rappresentano più o meno il 5% dell’intera popolazione carceraria. Un dato analogo riscontriamo in Italia. Le donne delinquono molto meno che gli uomini e commettono in media reati meno gravi. Nell’Unione europea negli ultimi anni in 23 stati su 27 è aumentata costantemente la popolazione carceraria.

Quattordici stati su 27 hanno superato il limite della capienza regolamentare. I paesi con maggiori problemi di sovraffollamento (rapporto tra il numero di carcerati e il numero di posti letto regolamentari) sono la Grecia (168%), la Spagna (140%), l’Ungheria (137%) e il Belgio (117.9%). L’Italia si colloca in un non lusinghiero quart’ultimo posto, appena sotto il Belgio con un 117,8%, nonostante l’indulto abbia contribuito ad alleggerire le nostre prigioni. Senza il provvedimento di clemenza oggi saremmo infatti a circa 70 mila detenuti e contenderemmo all’Ungheria il terzo posto, europeo tra i paesi più sovraffollati.

Tra i 14 paesi che non superano il limite della capienza regolamentare il primato positivo spetta alla Slovenia, seguita da Danimarca, Finlandia, Irlanda e Svezia. I tassi di carcerazione (numero di detenuti ogni 100 mila abitanti) sono anch’essi elevatissimi. Il primato negativo spetta all’Estonia (321,6), seguita dalla Lettonia (285,3), Lituania (237,0), Polonia (229,9), Repubblica Ceca (185,6).

L’ingresso nell’Ue dei paesi dell’Est ha provocato un rialzo dei tassi di carcerazione. Nell’Europa occidentale il primato spetta al Lussemburgo (163,6), seguito da Spagna (146,1) e Inghilterra (145,1). In termini assoluti, e non percentuali, la Polonia è lo stato con più detenuti: quasi 90 mila.

Il paese con il minore tasso di carcerazione è la Slovenia (65,0) seguita da Danimarca (69,2), Finlandia (70,6), Manda (74,3) e Svezia (79,0). Malta con i Suoi 343 reclusi è il paese con il minori numero di detenuti in tutta Europa. L’Italia è sotto i 100 detenuti ogni 100 mila abitanti.

Ma negli ultimi mesi la popolazione reclusa cresce di 1.000 unità al mese, per cui ci si può ragionevolmente attendere il superamento della fatidica quota 100 nel giro di poche settimane. In media vi è un poliziotto penitenziario ogni 283 detenuti. Un dato imparagonabilmente più basso di quello nostrano, dove, al contrario, il rapporto è pari quasi a un poliziotto per ogni detenuto. È anche vero che una percentuale significativa di appartenenti al corpo di polizia penitenziaria svolge compiti amministrativi e quindi non è direttamente impegnata in attività istituzionali.

Giustizia: Ucpi; più attenzione per carcere e legge Gozzini

di Oreste Dominioni (Presidente Unione Camere Penali)

 

www.camerepenali.it, 6 marzo 2008

 

La prossima legislatura, a differenza delle precedenti, non può perdere l’occasione di affrontare con coraggio i temi della giustizia, a dispetto della demagogia che trapela nelle prime uscite della politica in campagna elettorale. È indispensabile muoversi nel senso della efficienza del processo attraverso uno stanziamento di risorse adeguate e la gestione delle stesse al di fuori di dinamiche burocratiche. L’avvocatura penale intende confrontarsi sul tema della lunghezza dei processi, chiarendo però che è inaccettabile scendere sul terreno di chi sostiene che i tempi lunghi dipendano dalle "troppe garanzie".

Studi molto seri dimostrano che sono i tempi morti, le disfunzioni organizzative, l’impreparazione gestionale, la carenza di personale a determinare i ritardi. Sono perciò da respingere gravi proposte di marca autoritaria come la pretesa di eliminare il grado di appello avanzata recentemente dal Procuratore antimafia, tra l’altro sull’erroneo presupposto che i sistemi accusatori non lo prevederebbero.

Il codice penale andrà riformato sulla falsariga dei lavori di questa legislatura, e certamente sono auspicabili interventi su quello di procedura (per recuperarne funzionalità in senso accusatorio), ma non certo in favore di quel "processo esemplare" sotteso ai disegni governativi dell’ultima legislatura che qualcuno vuole riciclare.

Carcere e legge Gozzini dovranno essere al centro della attenzione, in entrambi i casi per non sacrificare il principio costituzionale di rieducazione e la extrema ratio della misura carceraria.

Quanto alla certezza della pena sfugge ai più che se le strutture consentissero al processo una durata ragionevole la sanzione raggiungerebbe il proprio effetto deterrente senza necessità di aggravamenti indiscriminati di pene o riduzioni di garanzie.

Quanto agli aspetti ordinamentali, è imprescindibile una seria riforma dell’avvocatura che affronti la sua qualificazione professionale anche in sede d’accesso; che istituisca gli elenchi di specialità; che incanali la preparazione degli avvocati in percorsi rigorosi sottratti a verifiche di mera facciata.

La riforma forense non potrà poi che prevedere una legge autonoma dalle altre professioni intellettuali: non per invocare privilegi ma per accostare allo statuto della magistratura (l’ordinamento giudiziario) quello della avvocatura, unica professione intellettuale richiamata dalla Costituzione in quanto garante della tutela dei diritti dei cittadini.

Imprescindibile, infine, una riforma in senso liberaldemocratico della magistratura. Dovrà essere rivalutata la presenza esclusiva e militante della magistratura all’interno delle compagini ministeriali, che determina un’interferenza ormai non più accettabile del potere giudiziario su quello esecutivo. Non si tratta di un tema polemico ma di una questione di cultura istituzionale.

Quanto alla questione delle carriere, non dovrebbe essere necessario, in un paese di democrazia liberale, ricordare l’anomalia della unicità delle carriere dei magistrati. In sintesi, si tratta di impedire che l’unità organizzativa consenta che un soggetto sia nominato magistrato per esercitare indifferentemente la funzione d’accusa o quella di decisione, come se fossero riconducili a un unico genus.

Per affermare il valore dell’imparzialità della decisione non basta definire il giudice in una posizione di terzietà nel processo: occorre che questa sia protetta da contaminazioni di origine ordinamentale, non essendo seriamente prospettabile che i magi-strati d’accusa e di decisione siano uguali nell’ordinamento e radicalmente diversi nel processo.

Nella impostazione vigente è palese la concezione autoritativa dell’amministrazione della giustizia: la cosiddetta cultura della giurisdizione quale piattaforma che accomuni giudice e pubblico ministero è espressione della volontà che gli organi di decisione e di accusa esercitino una funzione uni-taria, emanazione dello Stato soverchiante i diritti dei singoli e cioè, nel processo, la difesa.

Questa concezione però, e la prassi giudiziaria ne è testimone, trasferisce al giudice la cultura dell’accusa piuttosto che favorire la trasmissione al pubblico ministero della cultura della giurisdizione. Una cosa è, allora, la cultura della giurisdizione, che informa la funzione di decisione, ed altro la "cultura della legalità", base comune di tutti i soggetti del processo, pm e difensore compresi, e delle loro funzioni. Restringere un’identità di cultura ("della giurisdizione") ai soli soggetti pubblici, giudice e pm, significa riproporre visioni statuali-autoritative.

Quanto alla presunta non incidenza della riforma sulla funzionalità del processo è semplice replicare che ogni iniziativa che incida positivamente sulla qualità della giurisdizione migliora l’efficienza del processo, che non è valutabile soltanto sotto l’aspetto statistico.

Giustizia: Gargani (Fi); una nuova riforma della giustizia

Intervista di Traiano Bertollini

 

L’Opinione, 6 marzo 2008

 

Uno dei principali nodi da sciogliere da parte di chi nella prossima legislatura avrà responsabilità di governo è quello dell’ordinamento giudiziario e del suo ammodernamento. Altro argomento correlato è la situazione delle carceri italiane, che nonostante il tanto discusso indulto sono nuovamente sovraffollate. Il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, ha recentemente dichiarato che le carceri di 14 regioni ospitano 7.000 detenuti più dei limiti di tollerabilità previsti.

Partendo da questo dato allarmante, abbiamo chiesto al Presidente della commissione Giuridica del Parlamento europeo, l’azzurro Giuseppe Gargani, di fare il punto della situazione, individuando le possibili soluzioni al problema carcerario e le modalità tramite le quali arrivare all’ammodernamento dell’ordinamento giudiziario italiano.

 

Penitenziari sovraffollati ed un montante senso d’insicurezza diffuso tra i cittadini; onorevole Gargani si può dire che votare l’indulto è stato un errore?

Sicuramente sì. L’indulto non ha apportato nessun significativo miglioramento della situazione delle carceri italiane, nelle quali è ritornato un numero impressionante di detenuti che, rimessi in libertà grazie all’indulto, sono tornati a delinquere e ad essere arrestati. L’errore è stato grave anche perché votare un indulto senza correlarlo all’amnistia non ha permesso di smaltire i procedimenti giudiziari a carico dei beneficiari del provvedimento e siamo in presenza di una situazione ai limiti del paradosso, nella quale magistrati ed avvocati continuano a farsi carico di processi a questo punto inutili.

 

Come si esce da questa situazione?

È necessario costruire nuove carceri ed evitare, ove possibile, la carcerazione preventiva, della quale si sta facendo un uso eccessivo. Attualmente due terzi della popolazione carceraria è in attesa di giudizio; occorre adottare una gestione più razionale di questo strumento.

 

In qualità di presidente della commissione giuridica del Parlamento europeo lei ha avuto modo di verificare le differenze tra gli ordinamenti giudiziari dei nostri partner europei ed il nostro; quali sono le differenze sostanziali?

L’ordinamento italiano è atipico rispetto a quelli delle altre nazioni europee. Le differenze sono notevoli e vertono principalmente sulla mancata distinzione tra magistrati e giudici e sull’autonomia molto marcata del Csm, che nelle altre nazioni non è riscontrabile. Ovviamente l’autonomia del potere giudiziario è basilare, ma nel suo nome non ci si può arroccare ad oltranza, perché poi si incorre nelle anomalie del sistema italiano. Attualmente il Csm ha potere di vita e di morte sui magistrati; è chiamato a decidere e quindi ad indirizzare, carriere, promozioni, trasferimenti, con i problemi immaginabili in termini di effettiva indipendenza di chi è soggetto a questo potere. La Costituzione italiana prevede l’autonomia del Csm, sottolineando l’indipendenza rispetto ad esempio all’Esecutivo, ma nel contempo non indica che il Csm sia il padrone del destino dei magistrati.

Occorre indipendenza dall’esterno, ma anche al proprio interno; inoltre servono delle regole di comportamento ineludibili, evitando i continui contatti dei magistrati con la stampa. A riguardo porto un esempio recente: il magistrato Lepore, chiamato a giudicare l’operato di Antonio Bassolino in merito alla questione dei rifiuti in Campania, al pari di molti altri suoi colleghi ha incontrato la stampa per dare spiegazioni inerenti il procedimento. E questo non lo ritengo giusto perché così si rischia un’eccessiva personalizzazione. In altre nazioni gli organi di stampa si astengono dalla pubblicazione anche dei nomi dei magistrati che si occupano dei processi e sarebbe opportuno che ciò avvenisse anche da noi, sottraendo la magistratura da qualsiasi eventuale forma di condizionamento.

 

Quali correttivi andrebbero apportati per sveltire l’apparato giudiziario ed ammodernarlo al punto da renderlo funzionale alle esigenze di giustizia che uno Stato democratico deve avere come priorità?

Alcuni parlano di abolire uno dei gradi di giudizio, soluzione che non ritengo praticabile, mentre per accorciare i tempi della giustizia per prima cosa bisogna tutelare la fase istruttoria, che deve rimanere riservata e segreta, lasciando lavorare in tranquillità i magistrati. Nel contempo è necessario procedere ad una riorganizzazione dei tribunali, incentrata sull’informatizzazione. All’estero, ed in alcuni casi in Italia, si è riscontrato un sensibile snellimento dei tempi processuali provvedendo all’ammodernamento del lavoro delle cancellerie, che nei nostri tribunali sono intollerabilmente ingolfate di carte ed incapaci di stare al passo con l’esigenza di contribuire a dare un giudizio ai cittadini in tempi accettabili.

Giustizia: Radicali; quando il Garante nazionale dei detenuti?

 

Agenzia Radicale, 6 marzo 2008

 

Oggi la Regione Emilia Romagna ha concluso l’iter per istituire la figura del Garante Regionale dei detenuti; affiancherà i garanti comunali di Bologna e di Ferrara, resterà in carica 5 anni e sarà nominato, entro l’estate, dal consiglio regionale.

In Italia già le Regioni Lazio, Campania, Sicilia, Puglia e Umbria si sono dotate di figure istituzionali come il Garante dei detenuti o Difensore Civico per le persone prive di libertà.

Le Regioni Piemonte, Liguria, Sardegna ed Abruzzo hanno in corso di approvazione proposte di legge simili. La Provincia di Milano, i Comuni di Roma, Bologna, Genova, Torino, Nuoro, Brescia, Reggio Calabria, Pesaro, Biella, San Severo di Foggia hanno, già da anni, figure simili.

L’interruzione anticipata della 15° legislatura, fra le tante leggi purtroppo abortite, ha determinato anche la mancata conclusione dell’iter legislativo del testo di legge unificato concernente "l’istituzione della Commissione nazionale per la promozione e la tutela dei diritti umani e del Garante dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale", approvato in prima lettura dalla Camera 4 aprile 2007.

Bruno Mellano, deputato radicale, ha dichiarato: "Occorre dare atto alla Regione Emilia Romagna di aver voluto affrontare la situazione delle carceri e dei detenuti lontano dall’emergenza! Avevamo lavorato per il Garante Nazionale e la Camera aveva approvato un buon testo. Un mio ordine del giorno, accolto dal Governo, impegnava inoltre a creare una rete di Garanti locali, indicando la traccia di un lavoro indispensabile per far vivere il principio costituzionale della pena come mezzo di recupero e reinserimento sociale e non solo come contenimento e punizione. Tocca ora, ancora di più che in passato, agli enti locali continuare su questa strada, nel momento in cui si registra il riproporsi dello strutturale sovraffollamento nelle carceri italiane. Spero che le regioni Piemonte e Liguria, dove è depositato un testo preparato dai radicali, ma anche Sardegna ed Abruzzo possano a breve aggiungersi all’Emilia Romagna, sulla strada di un difficile ma necessario progetto sociale.

Giustizia: caso Pappalardi, il pericolo dell’errore giudiziario

di Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 6 marzo 2008

 

Gravina di Puglia. 25 febbraio 2008. Ore 18.30. Una ragazzino cade in un pozzo, mentre gioca con degli amici in un edificio abbandonato. La notizia ricorda la triste vicenda di Alfredino, morto in condizioni analoghe a Vermicino. Ma, dopo un’ora, arriva il lieto fine. Il ragazzino è salvo. È fuori dal pozzo. Ha solo qualche frattura.

Ore 19.50. Trovati resti umani nel pozzo di Gravina di Puglia. Sembrano essere i corpi di due bambini. Sul posto accorrono il Sindaco di Gravina, il questore di Bari e il Pm Antonio Lupo, titolare dell’indagine sulla scomparsa di Ciccio e Tore. I due fratellini di Gravina, svaniti nel nulla la sera del 5 giugno del 2006. Svaniti, come se caduti in un pozzo.

Ore 20.57. Il questore di Bari è il primo a confermare quello che ormai temono in molti. "Riteniamo che i corpi ritrovati nel pozzo siano quelli dei fratellini Pappalardi".

Carcere di Velletri. 25 febbraio 2008. Sono passate le 21 nella sezione C del carcere. La sezione dei detenuti "protetti". Quella dei pedofili, degli infami. Quella di chi ha ucciso donne o bambini. La sezione C. Un lungo corridoio e tante celle singole. In una di quelle celle è rinchiuso Filippo Pappalardi. Dentro: la fredda luce al neon. Una branda. Un tavolino. Un piccolo televisore, sempre acceso. Pappalardi, è in misura cautelare dal 27 novembre 2007. L’accusa: ha ucciso i figli Ciccio e Tore. Molti detenuti, nelle celle della sezione C del carcere di Velletri, guardano in Tv il Festival di Sanremo. Non Filippo Pappalardi. Nella sua cella risuona la voce di un giornalista che in televisione ripete: "Sarebbero di Ciccio e Tore i corpi senza vita trovati questa sera in un pozzo di Gravina di Puglia". Così Pappalardi apprende della morte dei figli. Dalla televisione. Dentro una cella. Non piange Pappalardi. Il suo viso è marmoreo. Guarda impietrito la televisione. Immobilizzato tra disperazione e speranza. La disperazione per la notizia della morte dei figli. La speranza, grazie a quella terribile notizia, di poter uscire dal carcere. Di essere scagionato da una gravissima accusa. La disperazione. La speranza. Il caso.

Già perché è stato per caso che un bambino è caduto in un pozzo. Per caso sono stati trovati i corpi di Ciccio e Tore. Solo per caso ora Pappalardi non ha il destino segnato. Una lunga misura cautelare in carcere e, alla fine del processo, una condanna quanto meno a trent’anni di reclusione. Una storia Kafkiana? No. Un’indagine italiana. Un’indagine e una misura cautelare in carcere messe in discussione grazie all’intervento del caso.

Non la corretta applicazione delle regole per l’emissione della misura cautelare. Non l’approfondita valutazione degli elementi di prova. Non la correzione di un provvedimento cautelare in sede di impugnazione. Ma il caso. Il caso fortuito che svela il rischio dell’errore giudiziario in un’inchiesta. L’innocente in carcere.

Che Pappalardi stia in carcere a causa di un errore giudiziario è oggi un pensiero insistente. Che l’errore giudiziario poteva essere evitato applicando al Pappalardi una misura meno gravosa del carcere, è oggi chiaro a molti. Il caso. Non il diritto. Non la giustizia.

Filippo Pappalardi. Padre padrone. Camionista. Ignorante. È colpevole. Ha ucciso i figli per punirli.

È tutto scritto nell’ordinanza di misura cautelare che ha portato Pappalardi in carcere. Un lungo documento, frutto di laboriose indagini. Un volume di 275 pagine, che raccoglie le conclusioni di 16 mesi di lavoro investigativo. Di incessanti ricerche. Ricerche che hanno portato gli investigatori fino in Romania. E persino nel pozzo dove in effetti stavano i corpi di Ciccio e Tore. Corpi sfuggiti alle "attente" ricerche. 3.700, i documenti allegati all’ordinanza. 18, le riprese video. 82, le persone intercettate al telefono. 27, le intercettazioni ambientali eseguite. 411, le persone informate sui fatti ascoltate dagli inquirenti. Quanto basta per dimostrare che Filippo Pappalardi è colpevole. Quanto basta per metterlo in carcere prima del processo.

Né sono convinti i Pubblici ministeri e il Gip. Né è convinto il Tribunale del riesame di Bari che scrive: "Il fatto è gravissimo, inquietante ed è espressione di un indole abituata a risolvere con la violenza i problemi familiari". La gravità dell’accusa, l’uccisione dei due figli. La figura del Pappalardi, persona incline alla violenza. Convincono tutti per la sua colpevolezza.

Una convinzione tanto determinata da far passare in secondo piano la valutazione sulla opportunità di emettere una misura cautelare in carcere dopo un anno e quattro mesi dal fatto reato. Una convinzione di colpevolezza che supera i ragionevoli dubbi sulla sussistenza di quei pericoli, che la legge vuole concreti, per l’applicazione della custodia in carcere.

Che Pappalardi possa fuggire, reiterare il reato o inquinare le prove appare improbabile. Ma non interessa. Pappalardi è colpevole e, come tale, deve stare in carcere.

Bari. 3 marzo 2008. I pm di Bari dicono no alla scarcerazione di Pappalardi. Il ritrovamento dei corpi dei fratellini. La caduta accidentale. Non bastano ad ammettere l’errore giudiziario. Pappalardi deve restare in carcere. Ora si attende la decisione del Gip. Si attende che la Giustizia rimedi all’errore. Si attende che la regola, il buon senso, tolga al "caso" le sorti di un’indagine.

Giustizia: per pedofili il carcere è inutile, serve la comunità

 

Dire, 6 marzo 2008

 

"Stop alle illazioni pseudo risolutive in formato politichese. La pedofilia è un orrendo crimine, originato da un disturbo della sfera sessuale, che la detenzione fine a se stessa non può sconfiggere". Lo dicono insieme il sociologo Antonio Marziale e lo psichiatra Alessandro Meluzzi, rispettivamente presidente e direttore scientifico dell’Osservatorio sui diritti dei minori.

"I condannati per pedofilia - aggiungono - devono scontare la pena detentiva in strutture comunitarie protette, idoneamente adibite a percorsi di riabilitazione psicoterapeutica e perché ciò accada - spiegano Marziale e Meluzzi -, è necessario riformare l’articolo 609nonies del Codice Penale, che allo stato non riconosce al reato di abuso sessuale sui minori l’origine parafilica, cioè l’alterazione psichica di chi perpetra il reato".

Per i due esperti, "se la finalità della pena è quella di garantire alla società, soprattutto ai bambini, che i rei non siano rimessi in circolazione in condizione di nuocere ulteriormente, allora non si può prescindere da un percorso riabilitativo, eventualmente anche su base psicofarmacologica".

E concludono i due dirigenti dell’Osservatorio: "La fenomenologia pedofila, che ha raggiunto livelli emergenziali, non può essere risolta con slogan ad effetto artatamente coniati, ma sulla base di soluzioni scientificamente praticabili".

Giustizia: borse-lavoro per detenuti sono "redditi da tassare"

 

www.fiscoggi.it, 6 marzo 2008

 

Le "borse di lavoro", somme corrisposte a favore di detenuti ed ex detenuti a titolo di sussidio anche giornaliero, ai fini del loro reinserimento nel mondo del lavoro esterno, rientrano tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente e, come tali, sono da assoggettare a ritenuta a titolo d’acconto.

Questo è il chiarimento fornito dall’agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 46/E del 14 febbraio. Secondo la ricostruzione dell’Agenzia, è l’ampia formulazione dell’articolo 50, comma 1, lettera c), del Tuir, che induce a comprendere nel suo ambito di applicazione le somme erogate a titolo di borse di lavoro, collegate ad attività di studio e di addestramento professionale. Chiaramente, ciò a condizione che le stesse attività non diano luogo a un rapporto di lavoro neppure a tempo determinato con il soggetto erogante.

In qualità di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, le somme in questione dovranno essere assoggettate a ritenuta a titolo d’acconto, se corrisposte dai sostituti di imposta indicati dall’articolo 23, primo comma, del Dpr 600/1973, o dalle Amministrazioni individuate dall’articolo 29 del medesimo decreto.

L’agenzia delle Entrate ha "giudicato" imponibili le "borse di lavoro" dopo l’analisi di diverse disposizioni speciali; analisi che ha escluso l’esistenza di una norma di esenzione, anche parziale, delle stesse dall’Irpef, a differenza di quanto espressamente previsto, ad esempio, per alcuni redditi, pur rientranti nella lettera c) del citato articolo 50, comma 1.

Nella risoluzione si ricorda, inoltre, che non sussistono nel caso in esame neppure i presupposti per l’applicazione dell’agevolazione disciplinata dall’articolo 34, terzo comma, del Dpr 601/1973, in base al quale "i sussidi corrisposti dallo Stato e da altri enti pubblici a titolo assistenziale sono esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef) e dall’imposta locale sui redditi (ILOR) nei confronti dei percipienti".

La norma, infatti, trova applicazione in presenza di due requisiti. Uno di carattere soggettivo, consistente nel fatto che l’erogazione deve essere effettuata solo dallo Stato o da altri enti pubblici; l’altro di carattere oggettivo, rappresentato dalla natura assistenziale del sussidio erogato.

In particolare, per "titolo assistenziale" si intende l’erogazione di sussidi corrisposti dallo Stato o da altri enti pubblici, per finalità fondate sulla solidarietà collettiva, a soggetti che versano in stato di bisogno. Si ci riferisce, in via esemplificativa, alle pensioni di invalidità, agli assegni mensili corrisposti ai mutilati e invalidi civili, agli assegni corrisposti ai sordomuti, alle pensioni sociali (circolare ministeriale 19/1985).

Requisiti assenti nel caso in oggetto in cui, invece, le somme di denaro sono erogate a fronte dello svolgimento di una attività lavorativa oltre che formativa. (Vedi la Risoluzione dell'Agenzia delle Entrate - in pdf)

Giustizia: le nuove regole per i "super-agenti" penitenziari

(DM Giustizia 4.6.2007 - GU n° 50 del 28.2.2008 )

 

www.cittadinolex.it, 6 marzo 2008

 

Il Gruppo Operativo Mobile (Gom), con sede a Roma, è un team di "super agenti" della polizia penitenziaria nato nel 1997 per gestire i detenuti appartenenti alla criminalità organizzata. Il Ministero della Giustizia ha ora emanato un decreto, datato 4 giugno 2007 e pubblicato sulla gazzetta Ufficiale del 28 febbraio scorso, che detta nuove regole per questo corpo speciale, il quale opera alle dirette dipendenze del capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

Per far parte del Gom occorre essere già nel corpo di polizia penitenziaria, oppure un ufficiale del ruolo ad esaurimento del disciolto corpo degli agenti di custodia, a meno che non si intenda assolvere compiti amministrativi, nel qual caso occorre essere in forza al comparto ministeri. Inoltre, chi presenta la domanda dovrà avere precisi requisiti di età, salute (assenza di patologie, anche se causate dal servizio) e stato di servizio e dare la più completa disponibilità riguardo alla sede di destinazione.

In quanto all’età, ad esempio, non dovrà avere più di 35 anni, se appartiene al ruolo degli agenti e assistenti, e non più di 40 anni, se invece è un sovrintendente od un ispettore; mentre i rapporti informativi circa lo stato di servizio degli ultimi tre anni non dovranno avere qualifica inferiore a "buono". Dopo avere superato una selezione attitudinale, i prescelti dovranno frequentare per tre mesi un apposito corso di formazione.

In ogni caso l’incarico che si riceverà al Gom sarà di carattere temporaneo ed al suo termine si sarà trasferiti alla sede di provenienza (anche in caso di sovrannumero) od in altra sede in accordo con le rappresentanze sindacali; infatti, il decreto stabilisce una permanenza di quattro anni, prorogabile una sola volta per un tempo massimo di due anni. In caso di comportamenti incompatibili con il servizio svolto, si potrà essere immediatamente allontanati dal Gom stesso.

In ogni modo, per permettere una certa continuità gestionale ed operativa del Gom in questo momento di transizione, è stabilito che, per il personale che vi presta servizio da almeno sei anni, i termini di permanenza sono prorogati di dodici mesi dalla data di entrata in vigore di questo nuovo regolamento. Tra i compiti di questi agenti speciali, il decreto indica le traduzioni ed i piantonamenti di detenuti ed internati ad altissimo indice di pericolosità e con particolare posizione processuale, disponendo che tali operazioni potranno essere svolte, per motivi di sicurezza e riservatezza, anche con modalità operative diverse dalle vigenti disposizioni amministrative in materia.

Gli agenti del Gom sono anche impiegati per il servizio di custodia di detenuti sottoposti al regime speciale del noto articolo 41-bis (legge 354/1975), cioè il carcere "duro" con restrizioni su colloqui ed ore d’aria e censura della corrispondenza, deciso in caso di gravi situazioni di emergenza (ad esempio di rivolte carcerarie, o minaccia e violenza verso gli altri internati), oppure per chi è dentro per reati di criminalità organizzata (ad esempio i mafiosi), terrorismo od eversione.

Il capo dipartimento potrà, poi, decidere di utilizzare il personale del Gom anche per far fronte a gravi situazioni gestionali in ambito penitenziario. Il decreto contiene, infine, in dettaglio le disposizioni circa la creazione ed il funzionamento di eventuali reparti periferici, il servizio amministrativo contabile e le relazioni annuali e periodiche che il direttore del Gom dovrà fare al Capo Dipartimento.

Giustizia: custodia cautelare "infinita" e... processi "infiniti"

di Stefano Pesci (Pm presso il tribunale di Roma)

 

www.radiocarcere.com, 6 marzo 2008

 

Il fatto ha destato clamore: il figlio di Totò Riina è stato scarcerato per scadenza dei termini di custodia cautelare dopo che sei anni di processo non hanno ancora prodotto una sentenza definitiva. Ignoro le dinamiche del procedimento e non ho idea alcuna in ordine alla responsabilità dell’imputato, ma, in chiave di sistema, si tratta di elementi del tutto irrilevanti: quale che siano le effettive responsabilità del figlio di Riina, quali che siano le concrete circonvoluzioni dello specifico procedimento, siamo al cospetto di una vicenda emblematica, che impone a tutti attente riflessioni non per la sua peculiarità, ma per quanto di generale è in grado di esprimere.

Sebbene estremo, il caso di Salvatore Riina jr. non è infatti per nulla anomalo e dimostra nel modo più plastico quanto sia vana, ingiusta ed assurda l’idea di compensare la lunghezza del processo penale con la lunghezza della custodia cautelare.

Le due anomalie si tengono, perché è chiaro che la lunghezza della custodia cautelare è "imposta" dai tempi infiniti dei processi. Ma il dilemma può essere sciolto da un lato solo: arrivare in tempi ragionevoli ad una sentenza definitiva. Il nodo è, pertanto, quello dei tempi del processo penale. Molto si discute sui possibili rimedi e certamente apprezzabili sono le proposte "emergenziali" formulate nel corso dell’ultima legislatura per ridurre le involuzioni barocche dell’attuale procedura (revisione delle nullità, riduzione delle notifiche, e simili) e per eliminare il processo per gli irreperibili.

Vorrei tuttavia affrontare, almeno inizialmente, la questione con un approccio diverso. Vale a dire confrontando i dati italiani con quelli degli altri paesi industrializzati. L’esame dei dati mostra che due sono le anomalie più rilevanti: i tempi necessari ad una sentenza definitiva ed il numero di procedimenti con tre gradi di giudizio "veri".

Non è azzardato ipotizzare che i due fenomeni siano tra loro collegati. Naturalmente in ambito continentale è frequentemente previsto un grado di appello, ma il sistema e la prassi limitano - con varie strategie - il ricorso effettivo ad una seconda fase di merito, facendovi ricorso solo per rimediare a patologie piuttosto gravi del processo di primo grado.

Si tratta di una scelta assai ragionevole e coerente con i dati che emergono dalle analisi più attente anche dei dati italiani: nella stragrande maggioranza dei casi, nel nostro paese gli appelli, quando non confermano la sentenza di primo grado, servono a dichiarare prescrizioni o a "limare" la decisione di prime cure. Assai rari sono i casi in cui la riforma della sentenza di primo grado incide su aspetti centrali della condanna, ed assai spesso la modifica si limita addirittura ad un mero ritocco dell’entità della pena.

La domanda è: possiamo permetterci, in Italia, e praticamente da soli, di assicurare ai protagonisti del processo un secondo grado di merito in termini così estesi? La domanda suona quasi retorica in un sistema che aspiri a riprodurre, pur nel rispetto del contesto italiano, i caratteri principali del processo accusatorio. L’accertamento del "fatto controverso" in un contesto di oralità ed immediatezza è infatti un carattere essenziale di ogni rito accusatorio.

E, coerentemente, i sistemi accusatori realmente esistenti non contemplano un secondo grado di merito celebrato "sulla carta". Se il processo che ha condotto alla prima sentenza era affetto da vizi che ne hanno seriamente compromesso l’esito, occorre celebrare un nuovo dibattimento, parimenti connotato da oralità ed immediatezza. I dati - quelli stranieri e, se letti attentamente, anche quelli italiani - mostrano che le gravi patologie (quelle che richiederebbero un nuovo processo) sono relativamente rare. Negli altri casi la sentenza di primo grado deve rimanere ferma, sia perché giunge in esito ad un accertamento di qualità superiore (connotato appunto da un contraddittorio "vivo" e non "cartaceo"), sia per garantire la tenuta del sistema a costi del tutto accettabili, tanto che vengono ritenuti equi in pressoché tutti i paesi democratici.

Non è questa la sede per discutere le modalità tecniche con cui perseguire l’obiettivo; possono adottarsi diverse strategie e certamente occorre anche accompagnare l’intervento con una estensione dell’udienza preliminare e della collegialità. È però necessario ribadire che questa - unita alla riduzione delle circonvoluzioni "barocche" ed alla eliminazione dei processi agli irreperibili - è la direzione che occorre inevitabilmente imprimere al processo se si vogliono coniugare le garanzie del rito accusatorio a livelli di efficienza comparabili con quelli conseguiti dai sistemi dei paesi industrializzati.

Giustizia: caso Contrada; nuova richiesta di differimento pena

 

Ansa, 6 marzo 2008

 

Una nuova richiesta di scarcerazione per gravi motivi di salute di Bruno Contrada, con la concessione del differimento della pena o degli arresti domiciliari, è stata presentata dai legali dell'ex funzionario del Sisde al giudice di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere.

Nella richiesta, avanzata dalla studio Lipera del foro di Catania, si allega il parere del sostituto procuratore generale Tindari Baglione che ha chiesto di annullare con rinvio per carenza di motivazione la decisione del Tribunale di sorveglianza di Napoli di respingere una precedente domanda di scarcerazione.

Copia della richiesta è stata inviata, "per quanto di competenza", al Consiglio superiore della magistratura e al ministro della Giustizia, Luigi Scotti. Bruno Contrada, 77 anni, è detenuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere dove sta scontando una condanna a 10 anni di reclusione per concorso esterno all´associazione mafiosa, con fine pena previsto per il 1 ottobre del 2014.

Lettere: detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 6 marzo 2008

 

Dino, dal carcere di Brucoli

Caro Riccardo, sto in carcere da 16 anni e me ne mancano più di 13. Insomma una lunga condanna. Il fatto è che io in carcere mi comporto benissimo e mai mi hanno fatto rimproveri. Studio, quando posso lavoro o cerco di rendermi utile. Tuttavia, nonostante la buona condotta il Magistrato di Sorveglianza di Siracusa non mi da neanche un permesso. Un permesso che forse dopo 16 anni di carcere potrei meritare. L’ultimo rigetto per disperazione l’ho dovuto impugnare in Cassazione e che Dio me la mandi buona! Come se non bastasse ho fatto tantissime richieste di per essere trasferito in un carcere lontano dalla Sicilia. Qui si sta male e non ci sono possibilità di lavoro in carcere. Vorrei andare in un carcere come Rebibbia, Orvieto, Bologna o Padova.

Per me che ho tanti anni da scontare essere trasferito in un buon carcere è come ricevere un altro indulto. Si parla, e giustamente, della moratoria sulla pena di morte ma mai si parla di una moratoria contro la pressione psicologica che noi detenuti dobbiamo subire. Riccardo, io so bene che ho sbagliato, uno sbaglio di gioventù allora avevo 20 anni. Ma oggi ne ho 39 e sono una persona migliore. Non voglio sconti di pena ma solo la possibilità di passare qualche ora con i miei figli. Ti abbraccio caro Riccardo e ti ringrazio per tutto quello che fai".

 

F., dal carcere di Novara

Caro Arena, solo per dirti che l’altro giorno un detenuto olandese è morto in cella, qui nel carcere di Novara. Si chiamava Robert e aveva 33 anni. Era in attesa di giudizio. Aspettava di essere processato per traffico di droga. La sera si è sentito male e si è accasciato a terra. Da lì non si è più rialzato. Noi detenuti nelle altre celle abbiamo iniziato a chiedere aiuto. Abbiamo dovuto aspettare più di mezz’ora l’arrivo del medico e dell’autoambulanza. Troppo tardi per salvare la vita di Robert. Lui era già morto. Così, in Italia, si muore per una pena. Mentre ci passava davanti, noi detenuti nelle altre celle guardavamo in silenzio il corpo di Robert sulla barella. Tutti ci siamo chiesti: e se capitava a me?

 

Vincenzo, dal carcere Poggioreale di Napoli

Caro Riccardo, mi trovo in carcere dal novembre del 2007 per scontare una pena relativa a una serie di reati che risalgono al 1989. Dalle carte che ti ho inviato, puoi anche verificare che a dicembre mi hanno riconosciuto il vincolo della continuazione. Morale, sempre in carcere devo stare per un reato vecchissimo, ma almeno ci devo stare qualche mese di meno.

Nel carcere di Poggioreale la vita è un vero inferno, anzi per rimanere di attualità è n’munnezza! Tra le tante cose che non vanno, c’è il problema delle lettere. Devi sapere che tanti detenuti ti scrivono ma tu le lettere non le pubblichi, segno che non ti sono arrivate! Inoltre ci fanno vivere come bestie. Siamo ammucchiati in 8 o 9 detenuti dentro le stesse celle. Chiusi per tutto il giorno.

I colloqui con i familiari sono una mischia dove soffrono tutti e che durano solo 45 minuti.

Le nostre giornate sono tutte terribilmente uguali. Alle otto al sveglia, con la conta dei detenuti. Poi l’ora d’aria in un cortiletto di cemento. E poi di nuovo ammassati in cella. Questo è tutto quello che a Poggioreale possiamo fare. Ci consola leggere il mercoledì la pagina di Radio Carcere, che risveglia il nostro orgoglio, perché parla delle nostre ingiustizie. Ti saluto caro Riccardo, io che sto in carcere per scontare un reato del 1989. Io senza sconti di pena.

 

Oronzo, dal carcere di Sulmona

Ciao caro Arena, ho 42 anni e mi trovo in carcere dal 2001. Il mio fine pena sarà a dicembre del 2009. Ti scrivo dal carcere di Sulmona. Il primo problema che ho è quello della salute. Sono malato di diabete e qui in carcere non riesco ad avere le cure adeguate a questa brutta malattia. A causa del diabete ho anche perso tutti i denti, tanto che per me mangiare un panino è impossibile. Sono anni che chiedo di poter avere una protesi dentale. Ma invano. Prima mi hanno detto che il carcere doveva vedere se aveva i soldi, poi non mi hanno più risposto alle mie domandine.

Infine, ed è questa la cosa peggiore, mi hanno fatto capire che dovevo smetterla di rompere i coglioni con la dentiera e che quello era un problema mio. Capisci Riccardo? Sta di fatto che io diabetico sono costretto a stare in carcere senza denti e basta. Da qualche mese è arrivato un nuovo direttore, ma ancora non sono riuscito a parlarci. Tante sono le difficoltà che dobbiamo incontrare nel carcere di Sulmona, un carcere all’insegna della sicurezza. Ad esempio fare i colloqui con i familiari è un incubo. Dentro una saletta siamo tanti detenuti, costretti a parlare con la moglie attraverso un vetro divisorio vietato dalla legge. Ora ti lascio e scusami per la mia calligrafia. Ti invio un abbraccio colmo di stima dalla Guantanamo di Sulmona.

Piemonte: è emergenza, celle piene e strutture degradate

 

Redattore Sociale, 6 marzo 2008

 

La denuncia del Sappe: carceri sempre più affollate e carenze di personale. Al 31 dicembre scorso presenti oltre 4 mila detenuti e per il sindacato di polizia penitenziaria mancano più di 1300 tra poliziotti e impiegati.

"La mancata adozione di provvedimenti strutturali da parte di Governo e Parlamento per modificare il sistema penitenziario contestualmente all’approvazione dell’indulto ha riportato le tredici carceri piemontesi a livelli di sovraffollamento insostenibili, arrivando oggi ad avere un numero di detenuti pressoché uguale a quello per il quale, poco più di un anno fa, il Parlamento decise di approvare il provvedimento di clemenza".

A denunciarlo è il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, il cui segretario regionale per il Piemonte, Nicola Sette, afferma: "Alla data del 31 luglio 2006, prima dell’approvazione dell’indulto, avevamo negli istituti penitenziari piemontesi 4.783 detenuti a fronte di una capienza regolamentare pari a 3.336 posti. Approvato l’indulto, esattamente un mese dopo, e cioè il 31 agosto 2006, il numero dei detenuti presenti in carcere era drasticamente sceso a 2.817 unità. Gli ultimi dati, riferiti al 31 gennaio 2007, attestano la presenza di 4.053 detenuti presenti (ben oltre la capienza regolamentare pari a 3.424 posti).

E si consideri che in Piemonte i detenuti che materialmente uscirono dal carcere per effetto dell’indulto sono stati 2.349 detenuti (1.170 gli italiani, 1.179 gli stranieri), a cui bisogna aggiungere quelli che ne hanno beneficiato pur non essendo fisicamente in un penitenziario perché fruivano di una misura alternativa alla detenzione".

E sul fronte del personale i dati sono altrettanto allarmanti. "La differenza tra il personale di polizia penitenziaria effettivamente in forza e quello previsto registra una carenza di quasi 900 agenti uomini e 60 agenti donne - denuncia ancora il Sappe -. Le carenze di baschi azzurri più consistenti si registrano nelle carceri di Torino "Lorusso e Cotugno" (circa 300 unità), Alessandria "San Michele" (circa 130 unità), Saluzzo (120 unità), Novara (90), Ivrea e Asti (80). Anche il personale amministrativo e tecnico è fortemente sotto organico di ben 300 unità!".

Per il Sappe, dunque, la situazione penitenziaria del Piemonte è dunque in grave emergenza e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria deve adottare con urgenza provvedimenti concreti di potenziamento degli organici della polizia penitenziaria e di sfollamento di detenuti dai penitenziari. "Alla drammaticità di queste cifre - continua il Sappe - si associano numerose problematiche locali, spesso legati alla fatiscenza delle strutture.

A Torino, ad esempio, i colleghi lavorano in sezioni detentive in cui piove e addirittura devono mangiare nella mensa con l’ombrello aperto! È ora che l’amministrazione penitenziaria mandi nel Piemonte e a Torino in particolare un’ispezione ministeriale finalizzata a controllare l’agibilità di tutti i reparti in cui lavorano poliziotti penitenziari, disponendo nel contempo l’immediata chiusura dei reparti in quelle strutture che si trovano in condizioni decrepite, in modo da sopperire alla paralisi irreversibile che sta sopraggiungendo sugli istituti.

La precarietà dell’attuale situazione è evidente, come dimostra un altro caso. Nella Casa Circondariale di Torino, vi sono presso la sezione Nuovi Giunti 11 detenuti sottoposti a sorveglianza a vista perché hanno degli ovuli con all’interno probabile sostanza stupefacente. Sono però disponibili solo 5 WC chimici. E se più di 5 soggetti contemporaneamente devono espletare i propri bisogni corporali dai quali si potrebbe rilevare la presenza di stupefacenti, il collega preposto a quel servizio come deve comportarsi? Sicuramente si troverà in grossissima difficoltà, con tutti i rischi che ciò comporta.

"Anche se in qualche realtà sono stati avvicendati Direttori e Comandanti di Reparto, come a di Torino, le problematiche non sono diminuite ma anzi enormemente peggiorate. Il Sappe auspica quindi - conclude Sette - che la questione penitenziaria piemontese sia posta tra le priorità d’intervento del ministero della Giustizia, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e delle Autorità politiche regionali e cittadine".

Sardegna: strutture alternative per le detenute con bimbi

 

Adnkronos, 6 marzo 2008

 

"Grazie alla sensibilità del Consiglio Regionale si sono create anche in Sardegna le condizioni per cui i bambini non debbano più varcare i cancelli di un carcere. Saranno infatti messe a disposizione delle detenute donne, nel caso che abbiano con sé al momento dell’arresto un bimbo di meno di tre anni, apposite case evitando così ai neonati di vivere, in attesa della decisione del Magistrato, in una struttura non idonea all’esistenza di creature innocenti".

Lo afferma la consigliera regionale della Sardegna, Maria Grazia Caligaris (Sdi - Partito Socialista) esprimendo soddisfazione perché grazie all’approvazione da parte del Consiglio dell’emendamento da lei proposto le donne arrestate con minori al seguito potranno avere accesso in apposite strutture di accoglienza non appena sarà sottoscritto un accordo con la magistratura inquirente.

"Negli ultimi quattro anni - sottolinea Caligaris, componente della Commissione ‘Diritti Civili’ - abbiamo registrato una presenza piuttosto elevata di bimbi nelle carceri sarde. In uno degli ultimi casi una creatura di 20 giorni, finita in carcere insieme alla giovane madre nomade, era rimasta in una cella di Buoncammino per 55 giorni, subendo una condizione inadeguata alla sua tenera età. Non si tratta di un aspetto secondario per una società che vuole continuare a chiamarsi civile".

"Ora - conclude l’esponente socialista - occorre vigilare affinché al più presto si dia seguito all’impegno sancito con la legge finanziaria che prevede per l’anno 2008, la spesa di euro 1.300.000 per la realizzazione di un programma di interventi finalizzati al recupero, alla ristrutturazione ed al completamento di strutture destinate ad accogliere detenute con figli minori di età inferiore ai tre anni, detenuti soggetti a misure alternative o ex detenuti, persone con disturbo mentale sottoposte a restrizioni di carattere giudiziario. Il programma è approvato dalla Giunta regionale, su proposta dell’Assessore competente in materia sociale".

Basilicata: 8 marzo, la regione al fianco delle donne detenute

 

Asca, 6 marzo 2008

 

L’8 marzo, in coincidenza con la Festa della Donna, si terrà nella Casa Circondariale di Potenza un seminario sulle tematiche relative al diritto alla salute, con riguardo alla prevenzione delle patologie dell’apparato femminile. L’iniziativa è promossa dal Dipartimento regionale alla salute ed è rivolta alle donne in regime di restrizione. Nell’occasione saranno consegnati gli esiti delle indagini diagnostiche (pap test e mammografia) eseguite nei giorni scorsi nell’istituto penitenziario di Potenza nell’ambito del Progetto Basilicata Donna.

Il seminario anticipa di qualche giorno la sottoscrizione di un disciplinare tra Regione Basilicata e Amministrazioni penitenziarie e minorili per regolamentare l’assistenza sanitaria ai detenuti, uniformando i protocolli e le procedure in tutto il territorio regionale.

In questo senso, l’attenzione che il progetto "Basilicata Donna" rivolge alle donne detenute nella Casa circondariale potentina non rimarrà un episodio occasionale ed eccezionale ma rientrerà nelle attività previste dal documento, insieme ad altre forme di screening e di assistenza per patologie acute e croniche.

Al seminario interverrà l’assessore regionale alla Salute, Antonio Potenza, che chiarirà, appunto, gli aspetti e l’importanza del disciplinare tecnico per la sanità penitenziaria in Basilicata. Prenderanno poi la parola inoltre le dottoresse Maria Rosaria Di Novi e Liliana Romano che si preoccuperanno di informare le partecipanti sulle buone regole da mettere in pratica per prevenire le patologie tumorali e su come attuare la prevenzione finalizzata alla riduzione del danno derivante da rapporti sessuali a rischio. È previsto anche l’intervento di un responsabile delle Forze dell’Ordine, che parlerà del diritto alla salute garantito anche alle donne in condizione di disagio.

Milano: cresce l'insicurezza percepita, 30% è vittima di reato

 

Redattore Sociale, 6 marzo 2008

 

Uno su tre ha subito un reato, ma non sempre l’ha denunciato. I risultati di un questionario della Provincia di Milano. Il presidente Penati: "La percezione di insicurezza è maggiore tra donne, anziani, disoccupati e nelle periferie".

Una persona su due ritiene che la criminalità nella provincia di Milano sia aumentata e una su tre ha subito un reato, ma non sempre l’ha denunciato. È quanto emerge dal questionario che quest’estate la Provincia di Milano ha sottoposto ai cittadini che hanno partecipato all’iniziativa Proxpro, che prevedeva una serie di incontri e spettacoli in 15 comuni sul tema della sicurezza.

Su 2.714 persone che hanno scelto di rispondere (quindi non si tratta di un campione rappresentativo; ndr) il 37% ritiene la criminalità il problema sociale principale, seguito da il costo della vita e la casa (27%), la precarietà del lavoro (20%) e la salute (11%).

"La percezione di insicurezza è maggiore tra donne, anziani, disoccupati e nelle periferie - afferma Filippo Penati, presidente della Provincia di Milano -. È un problema che riguarda quindi le fasce più deboli della popolazione, che spesso abitano nelle zone dove si concentrano degrado e marginalità e dove il pericolo è reale e oggettivo". Il senso di insicurezza è alimentato soprattutto dalla microcriminalità: per il 39% degli intervistati sono gli atti vandalici ha incidere di più sulla qualità della vita di un quartiere, seguiti da furti, scippi e truffe (24%) e da droga e prostituzione (18%).

Gli immigrati fanno paura. Quasi un intervistato su due teme la presenza degli stranieri e per il 46% (che sale al 49% fra i giovani) c’è un nesso causale tra clandestini e criminalità. Il presidente della Provincia di Milano propone l’assunzione fra le fila delle forze dell’ordine di immigrati divenuti cittadini italiani. "Si renderebbe più efficace la prevenzione e la repressione dei crimini compiuti da stranieri - sottolinea Filippo Penati - e permetterebbe di meglio far rispettare l’ordinamento del nostro Paese".

La gente chiede più agenti delle forze dell’ordine nelle strade (49% degli intervistati), azioni per ridurre il disagio sociale (23%) e l’installazione di telecamere per la sorveglianza (17%). "Oltre ad incrementare la presenza di polizia e carabinieri bisogna riportare la vita nei quartieri di periferia - sottolinea Filippo Penati -. Dobbiamo portarci attività culturali. Ci sono nelle nostre periferie centinaia di negozi e immobili di enti pubblici che sono sfitti: dobbiamo fare in modo che vengano utilizzati dai giovani artigiani, dal volontariato, da piccole attività commerciali che rivitalizzino quelle strade e piazze".

Forlì: i detenuti dormono per terra... gli agenti senza bagni

 

Comunicato Sappe, 6 marzo 2008

 

Forlì, un carcere in condizioni indecenti, con i detenuti che dormono per terra ed agenti sotto-organico, senza una mensa di servizio ed un bar interno. Un carcere che deve essere chiuso.

È impietoso il giudizio di Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione della Categoria, che questa mattina ha incontrato gli agenti del penitenziario romagnolo.

Mi sono trovato davanti ad una situazione a dir poco allucinante. Agenti che prestano servizio nelle sezioni detentive senza servizi igienici, detenuti che dormono su materassi piazzati sul pavimento, la mensa agenti chiusa e neppur un bar interno dove poter bere un caffè. Altro che salubrità dei luoghi di lavoro: questa carcere, così com’è, è da chiudere! Questa è un’indecenza ed è gravissimo che l’Amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna non abbia preso alcun provvedimento per sanare questa scandalosa situazione.

In una struttura sovraffollata ben oltre la capienza regolamentare, in cui la carenza dei poliziotti penitenziari è particolarmente marcata, mancano le condizioni minime di salvaguardia della dignità di chi ci lavora 24 ore su 24, come le donne e gli uomini del Corpo, ma anche degli stessi detenuti, che in queste situazioni di disagio accentuano l’insofferenza verso la detenzione. Affronterò l’argomento la prossima settimana a Roma con il Capo del Dipartimento centrale Ettore Ferrara, al quale chiederò anche di prendere i dovuti provvedimenti verso il Provveditore regionale dell’Emilia Romagna che, pur consapevole delle criticità di Forlì per le numerose segnalazioni sindacali del Sappe, non ha fatto assolutamente nulla.

Padova: i detenuti stanno sfornando 6mila colombe pasquali

 

Redattore Sociale, 6 marzo 2008

 

Al Due Palazzi otto apprendisti pasticceri e due "maestri" lavorano otto ore al giorno in vista della prossima festività al ritmo di 200 pezzi al giorno. Ricavi destinati a finanziare le attività in carcere. Progetto della cooperativa Giotto.

L’alta pasticceria? In via Due Palazzi a Padova. Proprio lì, dentro al carcere. Otto apprendisti pasticceri e due "maestri" lavorano otto ore al giorno per sfornare la colomba pasquale in vista della prossima festività. Sono gli stessi otto che a Natale hanno realizzato il panettone che ha avuto tanto successo da ottenere ordinazioni perfino da New York e un totale di 13 mila pezzi sfornati.

A Padova il recupero inizia già durante la reclusione, con questo e altri laboratori che insegnano concretamente, giorno dopo giorno, un mestiere caratterizzato da un’elevata professionalità facilmente spendibile all’esterno. La produzione di colombe pasquali in questo periodo è in piena attività: se ne sfornano 200 al giorno con la prospettiva di arrivare a seimila pezzi. Si lavora otto ore al giorno sette giorni su sette, dalle sei del mattino alle 18 della sera con un sistema di turni che lascia a ogni dipendente un giorno libero. Proprio come in una vera azienda, anche con lo stesso contratto.

"Qui non si sfrutta nessuno" tiene a precisare il direttore della Casa di Reclusione, Salvatore Pirruccio. Il laboratorio, a parte la singolare collocazione, non ha nulla da invidiare alle altre pasticcerie: due grandi tavolate da lavoro, carrelli, frigoriferi, forni e tutto il necessario per confezionare i prodotti. La colomba, in particolare, richiede una lavorazione complessiva di 30 ore a partire dalla fase dell’impasto, passando per la lievitazione, l’aggiunta dei canditi, la glassatura e l’infornata. Sono state sviluppate tre proposte di acquisto, da 30, 38 e 44 euro. Le ordinazioni si possono fare via mail all’indirizzo idolcidigiotto@rebus.coop, oppure allo storico Caffè Pedrocchi di Padova o ancora al Ristorante Forcellini, sempre a Padova. Gli introiti saranno investiti per finanziare le attività in carcere.

"Per noi il termine sociale va di pari passo con professionalità e qualità - commenta Nicola Boscoletto, presidente della Cooperativa Giotto che ha avviato questa e numerose altre attività - e proprio per questo motivo ci ha dato un’enorme soddisfazione il fatto che l’anno scorso l’Accademia della Cucina ci abbia premiato con il suo Piatto d’argento.

Un riconoscimento particolarmente significativo perché non proviene dal mondo del sociale, ma premia la qualità del prodotto in sé". Il laboratorio di pasticceria mira soprattutto a formare i detenuti in vista del loro futuro reinserimento in società. "Io sono stato uno dei primi a entrare in questo laboratorio - racconta uno di loro, in carcere per aver ucciso la moglie -.

Sono qui a Padova dal 2004, prima ero a Trento. Prima di essere arrestato sono stato cuoco per 35 anni, tra quaranta giorni uscirò in semilibertà e ho già un contratto con un’azienda. Di sicuro questa esperienza ha aggiunto un altro tassello alle mie competenze, che mi sarà utile nella professione".

"Da due anni sono in questo laboratorio - dice un altro detenuto, proveniente dalla Repubblica di Macedonia e arrestato per trasporto di stupefacenti - e per me è proprio una bella esperienza e sono molto felice. Prima ero agricoltore, ma quando uscirò tra due anni mi piacerebbe fare questo lavoro. In carcere con il laboratorio la giornata passa presto e questo è bellissimo". E lancia un augurio finale: "Auguro a tutti una buona Pasqua. Spero anch’io di poter passare presto questa festa con la mia famiglia".

 

Dal giardinaggio alla pasticceria: i "mestieri" dei detenuti di Padova

 

La collaborazione della cooperativa Giotto con la casa di reclusione Due Palazzi nasce casualmente nel 1991. All’epoca era stato indetto un bando di gara per la pulizia e la manutenzione delle aree verdi interne: è l"area di specializzazione della cooperativa, che decide di partecipare. "In attesa della risposta ci viene un’idea - racconta il presidente Nicola Boscoletto -: in carcere ci sono centinaia di persone inoccupate. Perché non gli insegniamo il lavoro? Diamo quindi il via al primo corso di giardinaggio, che negli anni ha coinvolto oltre 250 detenuti". Nel 1999 viene realizzato il primo Parco didattico in un carcere di massima sicurezza, dove si svolgono le lezioni pratiche.

Un passo dopo l’altro, seguono altre attività: c’è, ad esempio, la produzione di manichini in cartapesta per l’alta moda, attiva dal 2001. "Si tratta di un prodotto di nicchia molto apprezzato - continua Boscoletto -, certificato Iso 9000 e in parte brevettato. Sono più di 25 i detenuti attualmente impiegati". È del 2004 l’avvio del servizio di ristorazione, in larga parte a uso interno, mentre un’altra opportunità lavorativa è quella di operatore cimiteriale.

È attivo poi un call center, diventato una branca del Cup (Centro unico di prenotazione) dell’Ulss 16 di Padova. E non è tutto: due aziende venete conosciute in tutt’Italia, Roncato per le valigie e Morellato per i gioielli, affidano la parte finale di assemblaggio e confezionamento dei loro prodotti ai detenuti del Due Palazzi. È stata poi inaugurata la "linea Giotto" di cartotecnica, che ha ideato e realizzato i gadget in occasione dei 700 anni della Cappella degli Scrovegni. E infine c’è il laboratorio di pasticceria, dal 2004, che tanti consensi sta avendo.

"Alcuni dati sono importanti per far capire cosa ci facciamo qui - commenta Boscoletto -: dal 1991 al 2001, lavorando solo con i detenuti in esecuzione penale esterna, la recidiva è passata dall’80-90% al 15%. Dal 2001 in poi, invece, con le attività all’interno della casa di reclusione, la recidiva è scesa all’1%. Questo avvalora la tesi, sancita dalla Costituzione, che il carcere è un luogo di rieducazione, dove il detenuto deve avere la possibilità di rifarsi una vita". "Il fiore all’occhiello del sistema penitenziario italiano": così Salvatore Pirruccio commenta la situazione della casa di reclusione che dirige. E aggiunge: "Con queste attività siamo in grado di conferire un’alta professionalità alle persone facilmente spendibile una volta usciti".

La selezione dei partecipanti alle attività si svolge proprio come avviene all’esterno, con tanto di colloquio: se si viene presi si firma il contratto nazionale di categoria. "Il lavoro non è di tipo assistenziale - tiene a precisare il direttore -: il detenuto impara a capire che deve seguire determinati ritmi e che deve lavorare con professionalità se vuole che la sua azienda riesca a essere competitiva sul mercato, battendo la concorrenza in tempo di produzione e qualità del lavoro". "Da un punto di vista numerico - aggiunge -, su 600 detenuti circa 100 sono impiegati nei laboratori. Poi ci sono i progetti in carico all’amministrazione penitenziaria e in tutto raggiungiamo circa la metà dei reclusi. Poi ci sono altre attività che ci consentono di coinvolgere - questo è il nostro obiettivo - quasi tutti i detenuti".

Verona: un seminario sui familiari dei detenuti e sulle vittime

 

Comunicato stampa, 6 marzo 2008

 

Quando si parla di carcere, si tende a focalizzare l’attenzione su disagi e problematiche di chi è detenuto, alla ricerca di una tutela dei suoi diritti. Ci sono però altre persone che, nel momento in cui la giustizia si mette in moto, si ritrovano inevitabilmente coinvolte nei suoi meccanismi: coloro che hanno subito il reato e coloro che hanno una relazione di affetto con chi lo ha commesso. A vittime e familiari - alle loro difficoltà e sofferenze - è dedicato il Seminario di studio organizzato dall’associazione di volontariato La Fraternità, in collaborazione con le Facoltà di Scienze della Formazione e di Giurisprudenza dell’Università di Verona. Due gli appuntamenti in programma.

Il primo incontro - dedicato a "Le relazioni familiari e affettive in rapporto alla carcerazione"- si svolgerà venerdì 7 marzo, dalle 9 alle 13, nell’aula 1 della sede Lisss in via Filippini 17. Stessa sede e stessa ora per l’appuntamento successivo - in programma venerdì 11 aprile - destinato alle vittime di reato e alla giustizia riparativa.

Obiettivi del seminario, non solo favorire la conoscenza del vissuto dei familiari e delle vittime e far conoscere il quadro normativo in relazione al tema, ma dare conto di alcune esperienze di intervento in atto. Se nella mattina del 7 marzo Giuseppe Mastropasqua, Magistrato presso il Tribunale di Sorveglianza di Bari, affronterà il tema dei legami affettivi in carcere da un punto di vista normativo e teorico, spetterà alla psicologa Lucia Di Palma fornire dettagli e considerazioni sulla sua concreta esperienza di psicoterapeuta e mediatrice familiare nel progetto della Fraternità di Sostegno all’affettività, alle famiglie e alla genitorialità delle persone in esecuzione penale o prossime alla liberazione. A impreziosire l’incontro con la loro presenza, interverranno Guido Papalia, Procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale penale di Verona e Giovanni Tamburino, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia. Moderatore della giornata il prof. Giuseppe Tacconi, docente all’Università di Verona.

In serata, alle 20.30, il Magistrato Mastropasqua e la dott.ssa Di Palma saranno ospiti nella parrocchia di San Zeno di Colognola ai Colli per un incontro organizzato dal Gruppo di San Zeno di Colognola sul tema: "Esecuzione della pena detentiva e tutela dei rapporti familiari e di convivenza".

 

Associazione "La Fraternità"

Droghe: Milano; distribuzione "test" estesa a tutta la città

 

Notiziario Aduc, 6 marzo 2008

 

Sarà disponibile gratis dal 10 marzo in tutte le farmacie di Milano il kit antidroga proposto dal Comune alle famiglie con figli da 13 a 16 anni, che riceveranno via lettera un coupon anonimo per ritirare il test rivelatore. L’iniziativa - estensione di un esperimento pilota avviato nel 2007 in Zona 6 - è stata annunciata ieri a Palazzo Marino dagli assessori milanesi alla Salute e alla Famiglia, scuola e politiche sociali, Giampaolo Landi di Chiavenna e Mariolina Moioli. La distribuzione dei kit, che attraverso un test delle urine aiuterà i genitori a scoprire se i figli fanno uso di sostanze stupefacenti, rientra in un maxipiano anti-dipendenze. Tra le misure un investimento di 680 mila euro per finanziare progetti di prevenzione rivolti ai giovani in scuole, oratori e altre realtà.

Dall’assessorato alla Salute sono partite a fine febbraio 35 mila lettere con coupon allegato e consigli sugli esperti cui rivolgersi in caso di necessità. Sono state inoltre allertate 360 farmacie private e comunali, invitandole a collaborare.

"Abbiamo deciso di proseguire il progetto del kit antidroga, allargandolo a tutta la città di Milano -spiega Landi di Chiavenna - perché ragazzi e genitori devono capire quali rischi comporti per la salute avere condotte scorrette. I test possono essere un valido strumento di dialogo in famiglia".

La fase pilota in Zona 6 ha coinvolto 3.887 famiglie, che hanno ritirato 249 test su 430. "Quello del Comune di Milano - aggiunge Moioli - vuole essere un approccio di sistema al problema delle dipendenze, che coinvolge sempre più gli adolescenti e i preadolescenti. Per questo riteniamo indispensabile il dialogo con le famiglie e con la scuola, e insieme a loro vogliamo costruire un percorso fatto di stili di vita positivi, per offrire ai giovani strumenti con cui progettare il futuro", dice.

"Finanzieremo una serie di progetti che puntano a promuovere l’uso di linguaggi e di strumenti di comunicazione nuovi. Pensiamo a spettacoli teatrali, concerti, mostre e rassegne cinematografiche, capaci di trasmettere messaggi educativi che propongono storie vere, esperienze di vita. Dalle scuole della città sono già arrivati 79 progetti che saranno valutati da una commissione".

Tali iniziative si aggiungono quindi a test, opuscoli, manifesti in città e Progetto scuola dell’assessorato alla Salute: "Un vero approccio globale al problema - conferma Landi di Chiavenna -. Per far comprendere che assumere droghe, di qualsiasi tipo e anche saltuariamente, è un comportamento dannoso verso se stessi e verso la società. Fare uso di stupefacenti non è la normalità o un fenomeno di costume con cui convivere passivamente", avverte.

Tra le iniziative della strategia milanese c’è anche la linea verde droga 800458854, che nel 2008 sarà ulteriormente potenziata, riferisce una nota. Nel 2007 le telefonate sono state 4.487; il 67% delle persone che si rivolgono al servizio sono uomini, il 54% ha un’età compresa tra i 30 e i 40 anni e il 67% si rivolge al servizio in quanto interessato in prima persona, mentre il 10% è composto da genitori che chiedono aiuto. Oltre alla prevenzione, l’obiettivo di Palazzo Marino è anche quello di garantire un corretto reinserimento delle persone assistite nella società. È lo scopo del Centro di mediazione al lavoro (Celav), un ponte tra persone e imprese che nel 2007 ha aiutato 69 cittadini.

Infine, Milano aderisce all’Ecad, un’associazione che raccoglie l’impegno anti-droga di 250 città in 30 nazioni europee. Da questa esperienza nasce la decisione di finanziare, con 20 borse di studio da 5 mila euro, il primo "Executive Master per esperti in strategia e comunicazione contro la tossicodipendenza", con lo Iulm e l’università Statale di S. Pietroburgo, conclude il Comune.

Droghe: a Crema offerti 250 "test"... ritirati circa la metà

 

Notiziario Aduc, 6 marzo 2008

 

Il pareggio è quasi perfetto: 250 i kit antidroga distribuiti alle farmacie, 120 quelli ritirati. Dopo tre mesi esatti di sperimentazione, Crema tira le somme della sua iniziativa di vigilanza contro il consumo di stupefacenti (la stessa che adesso Milano è in procinto di imitare).

Dire che ci sia stata la corsa a procurarsi il kit da parte delle famiglie è esagerato ma sono stati smentiti quanti paventavano un fallimento assoluto. "Non parlerei di flop - è la valutazione di Maurizio Borghetti, assessore ai servizi sodali del comune di Crema e promotore della campagna - e anzi non era facile per le famiglie vincere l’imbarazzo di varcare la porta della farmacia e ritirare il kit; noi stessi abbiamo consegnato un numero limitato di confezioni, n nostro scopo era sensibilizzare padri e madri su un’emergenza vera e propria, il consumo di droga tra gli adolescenti. E in questo credo l’obiettivo sia stato raggiunto".

L’esperimento della città lombarda, 33mila abitanti, avrebbe dovuto chiudersi il 29 febbraio, ma le confezioni rimaste sugli scaffali delle farmacie non verranno ritirati. "Al contrario contiamo di rilanciare l’iniziativa - precisa Borghetti - coinvolgendo anche i medici di famiglia: sono figure che diventano come dei confessori, quando ci sono di mezzo le ansie dei genitori ". Sull’esito della campagna, il promotore è salomonico: "Nessuno ha ammesso di aver scoperto con il test che il figlio si era fumato una canna. Al contrario sono stato avvicinato da padri che mi hanno detto: grazie al kit mi sono tolto un peso, mio figlio non si droga".

 

 

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