Rassegna stampa 14 marzo

 

Giustizia: Ferrara (Dap); allarmante la crescita dei detenuti

 

Ansa, 14 marzo 2008

 

Cresce sempre più la presenza dei detenuti nelle carceri italiane ed Ettore Ferrara, capo del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) lancia un nuovo allarme durante l’inaugurazione dell’Anno Accademico 2008 dell’Istituto per gli Studi Penitenziari: "sono ormai esauriti gli effetti dell’indulto, siamo ad una situazione drammatica, con 51 mila presenze nelle carceri italiane ed un aumento di ben oltre mille unità al mese".

Si registra un’impennata, secondo i dati riportati da Ettore Ferrara, nella presenza di stranieri che va oltre il 38 per cento, immigrati provenienti da 140 Paesi diversi e con "bisogni e culture diverse da affrontare", ha detto Ferrara. Crescono anche i tossicodipendenti in carcere che sono passati dal 10,27% del 1992 al 25% attuale. "A causa di diverse modifiche nelle procedure penali - ha detto Ferrara - si registra un turn over di circa 90 mila persone all’anno che entrano ed escono dal carcere per periodi brevi.

Attualmente, più del 50% dei detenuti rimane in carcere meno di 11 giorni". Ettore Ferrara durante la cerimonia di inaugurazione ha poi ricordato il compito difficile del Corpo di Polizia Penitenziaria di "equilibrare l’umanità della pena e il compito rieducativo della Polizia". "È vero che si registra una costante crescita di detenuti nelle carceri, ma occorre sottolineare il dato sulle assenze di recidive dopo il provvedimento di indulto".

Lo sottolinea il ministro della Giustizia Luigi Scotti oggi all’inaugurazione dell’Anno Accademico dell’Istituto di Studi della Polizia Penitenziaria. "È un dato molto positivo ma non basta. Auguriamoci per questo che il nuovo parlamento intervenga su alcune norme a favore della collettività e dei soggetti detenuti e sugli aspetti sociali del sistema carcerario. Tra le prime misure da affrontare ci dovrebbe essere una modifica della legge sull’immigrazione che commina la detenzione oltremisura"

Giustizia: da candidati meno slogan e più proposte concrete

 

www.radiocarcere.com, 14 marzo 2008

 

Ai candidati Premier. Il processo penale dovrebbe assicurare la condanna di chi è colpevole e l’assoluzione di chi è innocente. Il processo penale dovrebbe assicurare che chi è condannato sconti la sua pena. Il processo penale dovrebbe assicurare che la pena sia applicata non a distanza di anni, di decenni, dalla commissione del reato.

Il processo penale dovrebbe assicurare il rispetto della Costituzione che stabilisce la presunzione di non colpevolezza, l’eccezionalità della limitazione della libertà personale a fini cautelari, la riservatezza delle comunicazioni e il concreto diritto di difesa.

Il processo penale dovrebbe assicurare la segretezza delle indagini e la non pubblicabilità degli atti di queste. Il processo penale dovrebbe assicurare una corretta esecuzione della pena in luoghi consoni, dove vengono rispettati i diritti del condannato.

Il condizionale è d’obbligo. Il processo penale non sembra assicurare la certezza del diritto e la certezza della pena. Non assicura soprattutto il rispetto della Costituzione. Non assicura una corretta esecuzione della pena, la quale si sconta in ambienti degradati che non rispettano le condizioni minime di vivibilità.

Il condizionale va necessariamente sostituito con l’indicativo. I programmi di tutti gli schieramenti abbozzano delle linee programmatiche finalizzate a ridare efficienza al sistema giudiziario penale. Radio Carcere vorrebbe però che le linee programmatiche siano sostituite con proposte concrete che individuano il problema e la soluzione.

 

Riccardo Arena, direttore di Radio Carcere

Giustizia: Napolitano; mai più otto anni... per una sentenza!

 

Corriere della Sera, 14 marzo 2008

 

Mai più ritardi della giustizia come quello registrato a Gela, dove per una sentenza sono stati necessari 8 anni e un imputato di reato di mafia è stato scarcerato. È questo il monito lanciato del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in una lettera inviata al vicepresidente del Csm Nicola Mancino, nella quale il Capo dello Stato sottolinea "l’opportunità di invitare i Capi degli uffici a esercitare con tempestività e rigore i loro poteri di vigilanza e, nello stesso tempo, di assumere - con la urgenza che la situazione richiede - le determinazioni procedurali e organizzative idonee a evitare il ripetersi di episodi del genere o il loro inaccettabile protrarsi". Episodi che, scrive il capo dello Stato, "minano il prestigio della magistratura e la fiducia che in essa ripone il cittadino".

Le parole di Napolitano si riferiscono alla vicenda che vede il coinvolgimento di Edi Pinatto, all’epoca presidente del collegio del tribunale di Gela: il magistrato per quasi otto anni non ha trovato il tempo di ultimare la scrittura delle motivazioni della sentenza con la quale i giudici hanno condannato gli affiliati alle cosche mafiose nissene. Ora rischia di essere processato a Catania per omissione di atti d’ufficio. Il mancato deposito delle motivazioni ha portato infatti alla scarcerazione degli imputati, tranne i boss detenuti per altri procedimenti. Nei confronti del magistrato è stata pure avviata un’azione disciplinare del Csm, su richiesta del ministro della Giustizia. L’udienza per la sospensione provvisoria dalle funzioni, chiesta a gennaio da Mastella, è fissata per il prossimo 4 aprile.

"I profili deontologici a carico del giudice cui spetta redigere la motivazione - spiega nella sua lettera al Csm Napolitano - sono sottoposti al vaglio della sezione disciplinare del Consiglio Superiore che ha sanzionato per due volte il magistrato e che dovrà prossimamente valutare il persistere della sua condotta omissiva". Ma per il presidente della Repubblica, "l’episodio presenta altri profili di rilievo, meritevoli di attenta riflessione.

Esso non è infatti il primo - scrive Napolitano - nel quale il Consiglio si imbatte. Condotte di simile segno, pur se non sempre accompagnate dallo stesso clamore mediatico, vengono sovente prese in considerazione dal Consiglio, mentre altre impongono, altrettanto spesso, l’intervento dei titolari dell’azione disciplinare o degli organi ispettivi ministeriali per accertare le ragioni dei ritardi nel deposito dei provvedimenti: ritardi che hanno condotto talora a scarcerazioni di imputati condannati per delitti che allarmano l’opinione pubblica".

Giustizia: Bolzaneto, lo Stato della tortura, di Mauro Palma

 

Lettera alla Redazione, 14 marzo 2008

 

"Il maltrattamento inflitto è di tale intensità che può essere considerato come tortura". Questa cauta, diplomatica, ma chiara, affermazione conclude spesso la descrizione di gravissimi episodi di maltrattamento, riportati dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura nei suoi Rapporti. Potrebbe essere posta al termine della requisitoria della pubblica accusa al processo su quanto avvenuto a Bolzaneto.

Perché rispecchia fedelmente non solo la gravità dei fatti descritti e delle responsabilità di chi li ha commessi o coperti o ha adeguatamente vigilato, ma anche il pensiero stesso del pubblico ministero che è dovuto ricorrere all’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, non avendo a disposizione nel codice penale italiano una figura di reato che interpretasse quanto avvenuto e stabilisse un’adeguata pena.

Raramente frasi di questo genere riguardano stati con profonde tradizioni democratiche e altrettanto raramente tali affermazioni giungono con un ritardo tale da avere soltanto la funzione di enunciazione e memoria, piuttosto che quella di sanzionare effettivamente i responsabili. Eppure questo è il quadro che ci si presenta oggi, in Italia, anche se tra molta distrazione di forze politiche e stampa.

Il divieto assoluto di simili trattamenti non è mitigato nelle Convenzioni internazionali da alcuna situazione di eccezione o emergenza: è, nel linguaggio del diritto internazionale, un divieto non derogabile. Ne deriva un obbligo per gli stati in tre direzioni: prevenire, reprimere e compensare le vittime.

Nelle prime due direzioni lo stato italiano ha già fallito perché giunge alla conclusione di un processo dopo che sono stati già inviati due messaggi gravi alla collettività e ai molti onesti operatori delle forze dell’ordine. Il primo è quello di non aver fatto una riflessione su come e perché tutto ciò sia potuto avvenire, non come comportamento di un singolo operatore o pochissimi altri, ma come modalità detentiva all’interno di una struttura predisposta proprio per affrontare i possibili problemi di quei giorni: quali ordini siano stati dati, quali coperture direttamente o indirettamente offerte, quali responsabilità politiche, quantomeno omissive, ci siano state.

Senza tale riflessione non è possibile parlare di prevenzione rispetto alla possibilità che simili fatti si ripetano. Il secondo è quello di non aver inviato un chiaro messaggio di intollerabilità di tali comportamenti, all’interno di forze che hanno responsabilità costituzionalmente definite, attraverso quantomeno il rifiuto di qualsiasi promozione discrezionale di persone imputate. Al contrario, persone responsabili di fatti gravissimi sono state promosse, hanno avuto nuovi incarichi rilevanti; ne risulta un messaggio di impunità, ben più forte di quello che giungerà da una sentenza penale destinata alla prescrizione.

Resta la compensazione delle vittime: quella materiale sarà definita in sede giudiziaria, quella morale è possibile soltanto attraverso una chiara individuazione di tutti i livelli di responsabilità, non solo penale, ma anche politica; un’asserzione che soltanto una commissione d’inchiesta può dare. Questa è l’unica via per non venir meno anche al terzo degli obblighi che pendono sulla responsabilità di ogni stato che ratifica la sua volontà di combattere la tortura e i trattamenti contrari al senso di umanità. Ma, proprio questa è stata la via trascurata dalle assemblee parlamentari che da allora si sono succedute. In ciò rivelando di non aver compiuto alcun passo per prevenire il possibile ripetersi di tali inaccettabili eventi.

 

Mauro Palma

Presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura

Giustizia: Mauro Palma; Bolzaneto, non solo "mele marce"

 

Corriere della Sera, 14 marzo 2008

 

"Alcuni operatori imputati hanno continuato le loro carriere: così si lancia un messaggio di impunità".

"La mancanza di una legge sulla tortura ci pone agli ultimi posti in Europa" dice Mauro Palma, che per lavoro gira e ispeziona le carceri del Vecchio Continente. Fondatore di Antigone (l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale) è stato appena rieletto presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura.

 

Dopo la requisitoria dei pm al processo sul G8 sulle condizioni inumane e degradanti tenute alla caserma di Bolzaneto in Italia si torna a parlare di tortura. Si tratta di un fatto circoscritto o diffuso?

"Tutt’è due. È circoscritto perché si riferisce a una ben determinata situazione, quella di Bolzaneto nel 2001. È però anche diffuso perché non riguarda un singolo operatore che può avere esagerato, e nemmeno di tre o quattro che hanno sbagliato, ma tutta una struttura detentiva in cui si è collettivamente degenerato. La questione non può quindi essere liquidata con il solito paradigma delle mele marce. Dietro c’è una cultura di un certo tipo, un’impreparazione, una carenza formativa, una sottovalutazione del problema, ci sono responsabilità omissive e un’investigazione tardiva anche interna. Mi preoccupa che alcune persone imputate abbiano continuato le loro carriere: questo è un modo per lanciare al singolo operatore un messaggio di impunità".

 

Un malcostume limitato alla caserma di Bolzaneto o diffuso anche altrove?

"Fortunatamente non ho trovato negli anni delle grandi situazioni che confermassero una tendenza culturale ampiamente diffusa. Però cito tre fatti gravi:nel 2000 il pestaggio avvenuto a Sassari nel carcere di san Sebastiano e nel 2001 gli episodi a Napoli a marzo e a Genova a luglio. Tre fatti gravi in due anni con condotte che verranno quasi sicuramente prescritte".

 

Anche perché in Italia la tortura non è reato. L’Italia ha ratificato la convenzione Onu che vieta la tortura oltre vent’anni fa, nel 1987, ma da allora non è ancora stata tradotta in una legge penale. Perché secondo lei?

"All’inizio le autorità italiane sostenevano che non c’era bisogno di una traduzione di uno specifico reato perché le condotte che costituivano quel reato erano perseguite attraverso altre forme (violenza personale, abuso d’ufficio). Questa è una posizione debole: lo vediamo ora con Genova: i tempi di prescrizione per un abuso d’ufficio sono ben diversi che quelli della tortura. Ora tutte le forze politiche almeno in teoria sono favorevoli a una legge sulla tortura. Ma non è stata una priorità di questo Parlamento".

 

Questo buco legislativo come ci colloca in Europa?

"A uno degli ultimi posti per l’attenzione delle forze politiche al problema. Questo vuoto legislativo penso sia più grave delle condotte dei singoli operatori. La ratifica Onu è avvenuta nel 1987, siamo nel 2008 e ancora ci stiamo a interrogare su dove sia il reato. Del resto i magistrati a Genova hanno dovuto ammettere: non abbiamo una norma che ci permetta di perseguire adeguatamente i comportamenti che sono stati messi in atto".

Giustizia: Gonnella; il reato di tortura priorità nuovo governo

 

Ansa, 14 marzo 2008

 

"È necessario che il prossimo Parlamento metta tra le sue priorità l’approvazione del provvedimento che introduce il reato di tortura in Italia". A sottolinearlo è Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone che si batte per i diritti nelle carceri, dopo che i Pm, che indagano sui fatti di Bolzaneto durante il G8 di Genova, hanno spiegato di essere stati costretti a contestare agli indagati solo l’abuso di ufficio mancando in Italia il reato di tortura. "La proposta di legge che introduce il reato - ricorda Gonnella - è stata approvata alla Camera nel dicembre 2006 e licenziata dalla commissione giustizia del Senato nel luglio 2007. Avrebbe dovuto approdare in aula nei giorni della crisi ma e’ stata lasciata morire". "Eppure - aggiunge Gonnella - si tratta di un disegno di legge rapido da approvare perché è la semplice traduzione della definizione di tortura presente nella Convenzione Onu del 1984 che l’Italia ha già ratificato". "Speriamo dunque - conclude - che ciò possa accadere all’inizio della prossima legislatura".

Giustizia: lettera alla Sinistra; avere dimenticato Genova?

 

Liberazione, 14 marzo 2008

 

Alla Sinistra Arcobaleno chiediamo: avete dimenticato Genova. Lettera al candidato premier Fausto Bertinotti dal Comitato Verità e Giustizia per Genova.

Caro presidente Bertinotti, le scriviamo per esprimerle il nostro disappunto, Abbiamo letto il programma sintetico della Sinistra Arcobaleno e non vi abbiamo trovato traccia, in nessuno dei 14 "capitoli", delle proposte politiche a nostro avviso ne-cessarie ad affrontare la grave ferita inferta alla nostra democrazia dalle tragiche giornate del G8 di Genova nel luglio 2001. Solo nel programma più esteso compare un riferimento critico alla mancata approvazione nella scorsa legislatura di una commissione parlamentare d’inchiesta.

In aggiunta si propone di istituire finalmente nel nostro ordinamento il reato di tortura. Crediamo in tutta sincerità che questi riferimenti siano del tutto insufficienti. Continuiamo a considerare il G8 del 2001 un punto di svolta per la storia recente del nostro paese, sia per la straordinaria mobilitazione che vi fu, sia per la brutale violenza istituzionale che caratterizzò quelle giornate. La caduta della legalità costituzionale registrata nel 2001 e la svolta autoritaria vissuta in seguito, continuano a menomare la vita civile e democratica del nostro paese. Il nostro Comitato, con molti altri soggetti, è impegnato fin dall’inizio nel sostegno alle attività dei legali impegnati in tutti i processi seguiti ai fatti del 2001, ma crediamo che la "risposta" a Genova G8 non possa venire solo dall’azione giudiziaria.

L’archiviazione del procedimento per l’uccisione di Carlo Giuliani, le prescrizioni in arrivo per i processi contro agenti delle forze di polizia per gli abusi alla Diaz e a Bolzaneto, le pene spropositate inflitte ai 25 manifestanti rinviati a giudizio per devastazione e saccheggio, il mancato avvio di procedimenti per una serie di altri abusi contro cittadini avvenuti in strade e caserme di Genova, dimostrano quanto sia limitata e insufficiente l’azione giudiziaria, Siamo convinti che occorra una forte azione politica e culturale per contrastare la pericolosa deriva autoritaria cominciata nel 2001.

A nostro avviso serve un’ampia riflessione sui rapporti fra cittadini - forze dell’ordine - istituzioni. Dobbiamo interrogarci sulle conseguenze, per le libertà civili e le garanzie costituzionali, che potranno scaturire dalla copertura e dalla legittimazione sostanzialmente garantite dalle istituzioni a chi fu protagonista, nel luglio 2001, della rottura della legalità costituzionale Le promozioni degli imputati di grado più alto, gli ostacoli frapposti all’azione della magistratura, il no alla commissione d’inchiesta, la carriera "politica" di Gianni De Gennaro sono segnali inquietanti di cui va colta tutta la gravita, che non si limita all’episodio Genova G8.

Caro presidente Bertinotti, siamo sinceramente delusi e sconcertati dalla totale assenza di questi temi dal dibattito politico e dai programmi elettorali della sinistra. Dopo anni di iniziative e discussioni, e dopo tante promesse rimaste disattese, credevamo che fosse arrivato il momento di fare un passo avanti, di investire intelligenze, energie e risorse sulla necessaria rigenerazione della nostra democrazia. La disattenzione della Sinistra Arcobaleno è perciò molto grave. Da parte nostra, proseguiremo il nostro impegno nella società e saremo sempre disponibili a dialogare con le forze politiche democratiche.

 

Comitato Verità e Giustizia per Genova

Giustizia: CNVG su Bolzaneto; più dignità e legalità per tutti

 

Comunicato stampa, 14 marzo 2008

 

Siamo volontari, abbiamo a cuore la dignità delle persone e il rispetto della legalità nelle carceri, ma anche la giustizia e la sicurezza di tutti i cittadini.

La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia è un Organismo di coordinamento delle principali associazioni nazionali che operano nel campo dei diritti e della giustizia: Caritas Italiana, Seac, Arci, Associazione Papa Giovanni XXIII, Fivol, San Vincenzo De Paoli, Antigone, Libera, Telefono Azzurro.

Si avvale inoltre di una rete di 18 Conferenze Regionali, a loro volta espressione di numerosi gruppi e associazioni presenti nei vari territori, oltre 200, rappresentative di buona parte di quegli 8.000 volontari già censiti insieme all’Amministrazione Penitenziaria.

La Cnvg ribadisce la sua stima e la considerazione profonda che ha per il delicato lavoro della Polizia penitenziaria, con la quale del resto il volontariato da anni collabora, nel suo impegno quotidiano con migliaia di ore del proprio tempo libero messe a disposizione gratuitamente per garantire all’interno delle carceri condizioni di vita dignitose e per rendere le carceri stesse luoghi trasparenti, aperti alla società civile e al confronto con il mondo esterno.

Operare perché la vita del carcere avvenga nel rispetto di quel senso di umanità affermato dall’art. 27 della Costituzione, insieme all’esigenza del rieducare, è interesse comune, noi crediamo, dei volontari così come di tutti gli operatori penitenziari. Così come è interesse comune isolare e denunciare anche eventuali episodi di abusi o violenze compiuti da operatori penitenziari istituzionali, e farlo con la chiarezza necessaria, perché questi episodi non fanno paura se si ha il coraggio di affrontarli a viso aperto e di ribadire che, se l’autorità giudiziaria accerterà, per esempio, che a Bolzaneto ci sono state violazioni della legge, chi se ne è reso responsabile è giusto che paghi, ma nessuno per questo può pensare di addossare le responsabilità a una intera categoria di operatori.

La proposta a suo tempo lanciata dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Ettore Ferrara è quella di favorire esperienze di formazione congiunta tra agenti e volontari, proprio perché il Volontariato ritiene che sia assolutamente sbagliato collocarsi su fronti contrapposti, e che sia invece importante ricercare la massima collaborazione, nel rispetto dei reciproci ruoli.

Anche perché vogliamo ribadire che i volontari non sono "quelli che difendono sempre i detenuti", e da molti anni ormai preferiscono operare nell’ambito di associazioni e coordinarsi all’interno della Conferenza proprio perché hanno a cuore complessivamente che all’interno delle carceri sia tutelata la dignità delle persone e il rispetto della legalità, ma non dimenticano mai che le loro attività hanno come obiettivo la giustizia e la sicurezza di tutti i cittadini.

 

La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia

Giustizia: Uil-Penitenziari; la CNVG? non sa di cosa parla...

 

Agi, 14 marzo 2008

 

"In genere non rispondo alle farneticazioni, ma quanto dichiarato dalla sedicente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia (Cnvg) mi impone una deroga" è quanto afferma il Segretario Generale della Uil-Penitenziari, Eugenio Sarno dopo essere stato informato dei contenuti di alcuni lanci di agenzie che rilanciavano i commenti rilasciati dalla Cnvg sulle richieste di condanna per i fatti di Bolzaneto.

"Evidentemente chi ritiene, oggi, di poter parlare di squadrette punitive all’interno degli istituti penitenziari non sa di cosa parla, almeno che non intenda intenzionalmente perseguire una ignobile azione di discredito dei 45mila uomini e donne del Corpo la cui professionalità, per fortuna, è affermata dall’operare quotidiano. In ogni caso se hanno prove vadano in tribunale e si assumano le loro responsabilità.

"Eugenio Sarno, altresì, non usa mezzi termini nel rispedire al mittente le accuse mosse dalla Cnvg nei confronti delle OO.SS. del Corpo ree di coprire le mele marce. "Quando alla disinformazione strumentale si coniuga una ignoranza dei fatti i potenziali danni sono notevoli. Credo che le affermazioni della Cnvg lasciano il tempo che trovano.

Chiedere garanzie non significa certo coprire le malefatte, d’altro canto immagino che loro lo abbiano fatto per i no global imputati. Questa pelosa presunzione di poter giudicare e condannare senza averne i titoli appartiene, evidentemente, ad una mentalità oltranzista ed estremista che è lontana dal pensiero democratico dei poliziotti penitenziari.

"In relazione alla richiesta della Cnvg di essere cooptata durante i corsi di formazione degli agenti penitenziari la Uil giudica "la proposta insensata e irricevibile. Piuttosto siano i volontari a fornire la loro disponibilità ad essere formati sulla legalità, perché noi la collaborazione ai volontari la forniamo ogni giorno. A quelli onesti, si intende!

"Sarno, infine, trova modo per chiarire un concetto "non so a quale titolo e con quale legittimità e competenza la Cnvg si arroghi il diritto di interferire in una trattativa in corso tra Amministrazione e OO.SS. sull’ipotesi di affidare alla Polizia Penitenziaria il controllo dei detenuti in misure alternative, che noi fortemente sollecitiamo. Quanto dichiarato in merito dalla Cnvg alimenta quelle ataviche contrapposizioni figlie di ideologie retrograde che il personale penitenziario rifugge e condanna. Noi perseguiremo, convintamente, quell’obiettivo nella certezza che sia funzionale ad una maggiore sicurezza dell’intera collettività. Forse è proprio ciò che preoccupa la Cnvg!".

Giustizia: Sappe; la polizia non accetta lezioni di moralità

 

Comunicato stampa, 14 marzo 2008

 

"Le sconclusionate affermazioni espresse dalla Conferenza Nazionale di Volontariato Giustizia (Cnvg), che ha messo sotto accusa l’intera Polizia Penitenziaria in relazione alle richieste dei Pm per i fatti del G8 di Genova del 2001, sono semplicemente vergognose.

Il Corpo di Polizia penitenziaria è una Istituzione democratica e sana, composto da decine di migliaia di uomini e donne che, nonostante gravi carenze di organico, deficienze di strutture e di mezzi, rappresentano lo Stato nel difficile contesto delle galere. Siamo le persone che, statisticamente, in ogni istituto penitenziario d’Italia, ogni mese, specie di sera e di notte quando i volontari sono a casa con le loro famiglie, sventiamo circa 10 tentativi di suicidi posti in essere da detenuti. Siamo quelli che stanno a contatto 24 ore su 24, 365 giorni l’anno, con i detenuti, mentre loro - i volontari - li vedono se va bene 5 minuti in tutto il periodo di detenzione e nonostante ciò si arrogano la presunzione di dare ad altri patenti di democrazia e diritto. Non ne abbiamo bisogno, come non abbiamo bisogno di lezioni da parte di chi il carcere lo conosce solo occasionalmente. E non accettiamo lezioni di moralità da loro."

Dura replica di Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione della Categoria, e di Roberto Martinelli, suo vice, alle affermazioni espresse ieri dalla Conferenza nazionale di volontariato giustizia (Cnvg) sui fatti del G8 di Genova del 2001 e, più in generale, sul Corpo di Polizia Penitenziaria.

"Sul G8 di Genova non intendiamo interferire con la magistratura, che rispettiamo sempre e comunque, e confidiamo comunque nella serenità del giudizio. Ribadiamo ancora una volta a chi lo dimentica spesso che il primo comma dell’articolo 27 della Costituzione è molto chiaro: "La responsabilità penale è personale". E ciò vale per tutti: forze di Polizia e manifestanti. Un dato è incontrovertibile: nel corso dell’incontro dei rappresentanti dei Paesi più industrializzati a Genova 2001 la frangia violenta dei no-global ha messo a ferro e fuoco Genova.

Furono distrutti 41 negozi, 34 banche, 9 uffici, 83 automobili, diverse decine di moto. Furono assaltate e gravemente danneggiate ben 6 strutture dello Stato: il carcere di Marassi, le caserme dei carabinieri San Giuliano e San Martino, quella della Guardia di Finanza di via Nizza, quella della Polizia Stradale di piazza Tommaseo e la caserma della Polizia di Stato di Sturla. Sono decine i casi in cui si è tentato il linciaggio fisico di poliziotti e carabinieri. Un mezzo dell’Arma venne addirittura dato alle fiamme all’angolo tra via Invrea e Corso Torino: in quel mezzo c’erano degli essere umani la cui unica colpa era indossare una divisa, uomini che hanno rischiato di essere bruciati vivi solamente perché erano carabinieri."

Il Sappe afferma in conclusione che "i fatti di Sassari citati dalla Conferenza dei volontari, con riferimento a responsabilità di poliziotti penitenziari in una operazione di servizio nel carcere di San Sebastiano, sono stati successivamente notevolmente ridimensionati dalla stessa magistratura sarda che ha assolto decine di colleghi ingiustamente arrestati mentre le presunte "squadrette punitive oggi operanti in alcuni istituti di pena" altro non sono che il frutto di fantasie pruriginose di chi tra Caino e Abele sceglie di vedere il carcere con gli occhi e le parole di Caino e dimentica le violenze subìte da Abele".

Calabria: Cgil denuncia; sperpero di denaro e risorse umane

 

Ansa, 14 marzo 2008

 

Cresce lo stato di tensione all’interno degli istituti penitenziari calabresi. A denunciarlo è la segreteria regionale della Funzione pubblica Cgil in una lettera inviata, tra gli altri, al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Ettore Ferrara e al ministro di Giustizia Luigi Scotti. In particolare, nella lettera, sottoscritta dal segretario territoriale, Franco Bozzo e da quello generale regionale della Fp-Cgil, Luigi Veraldi, si mette in evidenza la situazione venutasi a creare nella Casa Circondariale di Cosenza dove, si riferisce, una delegazione del sindacato ha svolto una visita "allo scopo di verificare - è scritto nella lettera - eventuali ingerenze del Provveditore Regionale Paolo Quattrone sull’attività espletata, attraverso l’invio di una squadra di Polizia Penitenziaria appartenente al Nucleo investigativo regionale della Calabria.

L’attività - prosegue la missiva - è avvenuta a sorpresa e si è diretta essenzialmente contro il nucleo traduzioni e piantonamenti dove presta servizio il nostro coordinatore regionale". Al termine della visita compiuta successivamente dalla delegazione della Cgil, secondo quanto riporta il testo della lettera, "il quadro emerso non è affatto cambiato" e la struttura "é ancora incompleta e insicura, ci sono vari profili di danno erariale, è necessario che gli organi competenti facciano piena luce sui lavori eseguiti dal Provveditorato regionale di Catanzaro e su quelli che restano ancora da compiere".

Nella missiva la Fp-Cgil chiede, inoltre, "se è vero o non é vero che il modello carcerario ideato ed imposto da Quattrone nella regione è fondato solo sull’apparenza, sulle inaugurazioni, sullo sperpero del denaro pubblico e delle risorse umane e economiche dell’Amministrazione, sul trattamento, non dei detenuti, ma degli uomini politici e dei giornalisti. Perché fino ad oggi il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - conclude la lettera - non ha provveduto ad effettuare una più che doverosa ispezione sul Provveditorato Regionale, nonostante le segnalazioni ricevute?".

Roma: Progetto Indulto, finora 120 tirocini e 5 assunzioni

 

Adnkronos, 14 marzo 2008

 

Il programma promosso dai ministeri del Lavoro e Previdenza sociale e della Giustizia, con l’assistenza tecnica dell’agenzia governativa Italia Lavoro.

Non solo trovare un posto di lavoro, ma anche avviare un’attività in proprio. In provincia di Roma, i risultati del progetto ‘Lavoro nell’inclusione sociale dei detenuti beneficiari dell’indultò, promosso dai ministeri del Lavoro e Previdenza sociale e della Giustizia, con l’assistenza tecnica dell’agenzia governativa Italia Lavoro, sono più che positivi.

"L’iniziativa - spiega l’assessore provinciale alle Politiche del lavoro e della Qualità della vita, Gloria Malaspina - destinata a coloro che sono usciti dal carcere per gli effetti dell’indulto ha dato senza dubbio un buon risultato umano e sociale. Ricordiamoci che chi esce dal carcere, magari condannato per reati minori, spesso proviene da situazioni molto problematiche. Aver fornito loro una chance, seppur piccola, di reinserimento sociale è una vittoria delle istituzioni pubbliche che in questo modo hanno teso una mano a chi si trovava in condizioni difficili. Certo, ora sta a chi ha potuto usufruire del Progetto Indulto perseverare e impegnarsi nella strada della legalità".

Dati alla mano, sono state 40 le aziende coinvolte dal Progetto Indulto a Roma e provincia e 120 i soggetti beneficiari inseriti. Gli assunti sono stati 5 e se ne prevedono altri 17 entro il mese di marzo. I settori in cui sono stati impiegati gli ex indultati sono aziende, consorzi di cooperative che si occupano di servizi di pulizia, mense, manutenzione del verde, editoria, ristorazione, call center, vetreria e corniceria artistica, edilizia, gestione spiagge, informatica, impiantistica audio e luci in teatri.

"Visti i risultati raggiunti - sostiene l’assessore Malaspina - è giusto e anche utile replicare un’azione simile, stavolta però destinandola in generale a chi esce dal carcere. Gli utenti vanno intercettati prima della scadenza della pena, ricostruito e vagliato il loro curriculum, comprese le competenze eventualmente maturate durante l’espiazione della pena, e quindi inseriti, tramite i centri per l’impiego, in progetti mirati all’occupazione. Tenere sempre aperte possibilità di recupero sociale attraverso il lavoro -rimarca- va a beneficio dell’intera società, riduce il danno e contribuisce ad aumentare la sicurezza rispetto al crimine".

"I centri per l’impiego - ricorda l’assessore della provincia di Roma - sono stati soggetti attivi nello svolgimento del progetto. Attraverso l’azione dei centri all’interno delle carceri di Roma, di Civitavecchia e Velletri, sono stati individuati i beneficiari del progetto. Gli operatori della provincia hanno incontrato e colloquiato con i detenuti e le detenute, aiutandoli a ricostruire il loro percorso lavorativo e certificando la condizione di disoccupati. Insomma, hanno funzionato a tutto tondo testimoniando così la vicinanza delle istituzioni a chi forse non le ha mai sentite vicine e utili".

Roma: con esperti Asl più dignità ai detenuti di Regina Coeli

 

Adnkronos, 14 marzo 2008

 

L’accordo di programma stipulato tra il carcere capitolino Regina Coeli e l’Asl Roma A per il riordino della medicina penitenziaria "garantirà più dignità ai detenuti". Parola di Carlo Saponetti, direttore generale dell’Asl Roma A, che commenta così l’intesa tra lo storico carcere romano e la propria azienda sanitaria e promette di mettere a disposizione del Regina Coeli tutti i servizi di cui avrà bisogno. "I nostri esperti - sottolinea il direttore generale - visiteranno i detenuti e garantiranno loro una diagnosi più veloce, rispettando il diritto fondamentale alla salute che spetta a tutti gli esseri umani".

Tra gli interventi necessari, Saponetti individua quelli psichiatrici. "Penso ad esempio ai tanti suicidi che avvengono nei primi giorni di prigione -spiega- e credo che l’intervento immediato degli psichiatri possa essere utile. L’accordo -prosegue- dimostra che in Italia si può fare della buona sanità, mentre troppo spesso il nostro servizio sanitario viene ingiustamente screditato". I protocolli d’intesa saranno subito operativi, ma Saponetti preferisce essere cauto. "I servizi dovranno essere trasferiti in tempi brevi, ma il passaggio va studiato per bene e deve essere condiviso. Come direttore generale dell’azienda sanitaria -conclude- prometto di mettere a disposizione del carcere tutte le professionalità e le tecnologie a nostra disposizione".

Lodi: appello ai candidati; "venite a incontrare i detenuti"

 

Il Cittadino, 14 marzo 2008

 

L’Associazione Loscarcere chiede che i candidati premier si confrontino con i detenuti della Casa Circondariale di Lodi. La campagna elettorale per le prossime elezioni politiche del 13 e 14 aprile è appena cominciata; i principali candidati dei diversi schieramenti politici hanno già iniziato a confrontarsi e, come in altre occasione, hanno in programma veri e propri "tour de force" nelle province italiane per cercare di raggiungere e convincere al voto a favore del proprio schieramento il maggior numero di cittadini.

Anche a Lodi, come in altre competizioni politiche, faranno tappa, nelle prossime settimane, i candidati premier. A questo proposito, l’associazione Loscarcere, che raccoglie molti dei volontari che operano all’interno della casa circondariale di Lodi, chiede ai responsabili di partito, chiamati ad organizzare la tappa lodigiana dei propri candidati, di adoperarsi per realizzare un incontro tra i detenuti del carcere di Lodi e il loro candidato premier. Obiettivo: discutere di carcere, realtà troppo spesso trascurata dalle agende politiche, non solo per semplice dimenticanza ma anche per calcolo elettorale.

La positiva esperienza del dibattito sull’indulto che, negli anni scorsi, ha visto confrontarsi, all’interno delle mura di via Cagnola, tutti i parlamentari eletti nel Lodigiano, e una lunga serie di iniziative di confronto e approfondimento che Loscarcere ha contribuito a realizzare nel territorio dimostrano che, anche questa volta, vale la pena riprovarci, dando attenzione e ascolto anche a coloro che, a vario titolo, risultano privati o subiscono forti limitazioni della propria libertà personale. Si tratta di un mondo spesso dimenticato, al quale, troppo spesso, ci si rivolge in modo sporadico o sotto una spinta "emergenziale" che poco contribuisce a metterne a fuoco la drammaticità, le problematiche e le necessità, e a favore del quale non sono ancora state predisposte e attuate politiche strutturali e di lungo periodo che ne risolvano le difficoltà croniche.

Il principale effetto dell’indulto, cioè la riduzione del sovraffollamento dei luoghi di detenzione, è ormai svanito e oggi, anche in Lombardia, la situazione è tornata ai livelli precedenti il luglio 2006. Crediamo che anche su questi temi - giustizia, legalità, sicurezza, condizioni delle carceri, rispetto della dignità umana - sia importante aprire un confronto in campagna elettorale e che un segno di novità possa essere il farlo riconoscendo come interlocutore chi, recluso, non può vedersi ridotto esclusivamente a "problema", "soggetto" dolente da contenere, "destinatario" di interventi indifferenti a un obiettivo di reinserimento sociale che rimane cardine del nostro sistema penale.

 

Associazione Loscarcere

Roma: "Rock In Rebibbia"… lo show in onda su Mtv Italia

 

Roma One, 14 marzo 2008

 

"Rock In Rebibbia", questo il titolo dello show in onda su Mtv Italia tutti i giovedì alle 21.00 a partire dal 27 marzo, è il racconto della nascita e dell’evoluzione di un neogruppo rock all’interno del carcere di Rebibbia per i tre mesi durante i quali ogni giorno, tra entusiasmo, paura ed emozione, i giovani musicisti detenuti hanno seguito le "lezioni" quotidiane di due maestri di musica, hanno scelto e provato i pezzi - uno nuovo ogni settimana - e si sono "allenati" localmente, musicalmente e psicologicamente anche agli incontri con gli artisti italiani Alex Britti, Negramaro, Fabri Fibra, Max Gazzè, Meg, Roy Paci... che sono andati settimanalmente ad incontrarli.

Da Johnny Cash della Folsom Prison a John Lennon di Attic State, da Elvis Presley di Jailhouse Rock a Bob Dylan di Hurricane fino all’indimenticabile jam session messa in piedi dietro le sbarre dai Blues Brothers: sono solo alcuni dei più famosi esempi di rock carcerario, ai quali se ne potrebbero aggiungere molti altri fino ad arrivare a tempi recentissimi, passando anche attraverso le attività socio-culturali e musicali di artisti, anche italiani, che hanno scelto di svolgerle all’interno delle prigioni in modo più discreto, senza dargli eco pubblicitario o commerciale.

Sarà che l’anima sovversiva, libertaria e ribelle del rock, il suo essere dalla parte dei "perdenti" e sensibile alle cause sociali, lo porta in maniera quasi naturale ad essere in sintonia con lo stato d’animo di chi si trova costretto a vivere in un penitenziario. Certo è che il binomio rock e carceri funziona talmente bene che la musica sta diventando sempre di più, nelle carceri italiane, uno strumento "educativo" oltre che ricreativo, con la conseguente nascita di band interne dai nomi evocativi e ironici come "Presi per caso", "Terapia d’urto", "Evasioni in musica".

È proprio partendo da queste premesse e pensando alla grande forza coesiva e, al contempo, liberatoria della musica, che Mtv Italia ha pensato di coinvolgere i detenuti del grande carcere romano di Rebibbia in una inedita avventura musical-televisiva: una serie di incontri-workshop musicali di un gruppo di detenuti con maestri di musica e artisti italiani per la messa a punto di una "scaletta" di cover da realizzare dal vivo in un grande concerto finale nel cortile del carcere, alla presenza degli interni ma anche di pubblico esterno.

Il tutto avviene all’interno di una sala di registrazione, piccola ma tecnicamente attrezzata, allestita appositamente all’interno di uno dei bracci di Rebibbia, il G1. La sala rimarrà a disposizione della prigione, insieme agli strumenti musicali, alle attrezzature e alle good vibes assorbite nei tre mesi di prove, anche a programma televisivo terminato.

La musica, infatti, non è tutto in Rock In Rebibbia, così come la creazione di una band interna non è solo una attività ricreativa, come altre praticate nei penitenziari, ma un vero e proprio progetto finalizzato a un obiettivo preciso. Rock In Rebibbia è il racconto di un’avventura umana e artistica di gruppo, di squadra, in cui i singoli devono mettere la propria personalità, la propria storia e il proprio eventuale talento al servizio di una strategia comune.

Giorno dopo giorno, lezione dopo lezione, la band, grazie al lavoro degli insegnanti, prende coscienza di sé e si costruisce a partire dai caratteri, dalla volontà e dalle ambizioni di ciascuno. I racconti in prima persona dei singoli e delle loro esperienze, dal perché si trovano in carcere alle aspirazioni che hanno, dalle paure ai sogni alla vita che ciascuno di loro vive in reclusione, si intrecciano con i momenti vissuti insieme, con e nella musica. Alla fine, fatiche e soddisfazioni verranno condivise e la libertà e la speranza rianimeranno le mura del carcere grazie alla lingua universale della musica, grazie al grande concerto finale.

 

I protagonisti

 

Nel programma sono coinvolti detenuti giovani adulti, tra i 18 e i 30 anni: una scelta che introduce nello show alcuni elementi dei quali non si poteva non tenere conto. La giovane età dei componenti della band ha influito, infatti, sulla scelta della musica, facendogli privilegiare brani vicini alla loro sensibilità, pezzi e generi fortemente connessi con l’oggi e con il "mondo di fuori", con le proposte delle radio, con le mode e le ultime tendenze.

Gli insegnanti hanno dovuto sondare e far emergere le preferenze musicali dei ragazzi per coinvolgerli maggiormente nel progetto. C’è poi da considerare un dato: nelle carceri minorili italiane oltre il 60% dei detenuti è formato da stranieri. Una percentuale importante che ha condizionato la natura del repertorio della band, oltre che quella del programma stesso.

Anche l’ospite presente in ogni puntata è stata scelto pensando alle caratteristiche dei detenuti, affinché con le varie guest star i musicisti di Rebibbia instaurassero un rapporto diretto e vero, di collaborazione e di scambio, ogni volta diverso e spontaneo. Il risultato è che non ci sono ruoli rigidi, ma questi sono reinventati in base alla sensibilità e alla situazione del momento. Gli artisti che di volta in volta dirigono la band insieme agli insegnanti, affiancano i solisti, suggeriscono la soluzione giusta per interpretare un brano scelto dal proprio repertorio o gli fanno ascoltare la loro personale elaborazione della cover.

Anche le esperienze emotive della guest star a contatto con il mondo carcerario diventano un tema narrativo, diverso a seconda della reazione di ciascuno di loro, e tutto questo mix di elementi fa sì che Rock In Rebibbia sia non solo una sorta di reality sulla musica in carcere, ma una finestra su un mondo che sembra chiudere le porte alla vita, dove i cuori continuano a battere forte mentre le vene pulsano di voglia di riscatto e libertà.

Droghe: Radicali; Milano, chi s'occupa di riduzione del danno?

 

Agenzia Radicale, 14 marzo 2008

 

Dichiarazione di Virginia Fiume, Associazione Enzo Tortora- Radicali Milano: "De Corato gioca sporco; il sondaggio di www.corriere.it sul kit antidroga non ha valenza statistica, è sufficiente che uno organizzi un bel gruppo di persone al computer per ottenere il risultato voluto. Quello che conta sono i precedenti reali: a Crema il kit antidroga è stato un fallimento. E anche in zona 6 solo la metà dei kit antidroga erano stati ritirati.

De Corato si occupi piuttosto di rilanciare una seria politica di riduzione del danno a Milano, partendo dal ripristino degli scambia siringhe. Su questo, dobbiamo parlare chiaro anche alla Sinistra Arcobaleno; non passa giorno in cui non attacchi il Partito Democratico sulla questione droghe. Oltre alle prediche, sarebbe, però, oltremodo gradito che i compagni passassero all’azione, a partire dal territorio.

Noi domani saremo dalle 15.00 alle 18.00 alla Fiera di Sinigallia a raccogliere firme sulla petizione sugli scambia siringhe. La Sinistra Arcobaleno ha intenzione di darci una mano o rimarrà, come ha fatto finora, alla finestra a pontificare?"

GB: prosciutto a detenuti musulmani, le scuse del governo

 

Apcom, 14 marzo 2008

 

Il governo britannico si scusa ufficialmente con 200 detenuti musulmani del carcere di Leeds, ai quali, durante il mese di Ramadan, sono stati serviti in carcere panini col prosciutto. L’Islam non permette ai fedeli di mangiare carne di maiale. Lo riporta il Mail on Sunday. In una lettera il ministro della Giustizia, Jack Straw, si è scusato con i detenuti affermando che si è trattato di "un deplorevole errore amministrativo" e per questo chiede scusa a tutta la comunità islamica. Straw ha chiesto alle amministrazioni carcerarie una maggiore diligenza per evitare nuovi errori di questo tipo.

 

 

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