Rassegna stampa 11 marzo

 

Giustizia: quando il carcere umilia l’uomo e ne calpesta i diritti

di Roberto Loddo (Associazione 5 novembre)

 

www.altravoce.net, 11 marzo 2008

 

La questione dell’esecuzione penale deve essere prima di tutto una questione culturale. Leggendo i dati del Dap degli ultimi venti anni, difficilmente possiamo considerare il carcere come la soluzione alla criminalità. Chiunque legga questi dati, dai numeri alla composizione sociale, rimarrà sorpreso nel notare che è più facile individuare dentro le percentuali migranti, prostitute, tossicodipendenti e meridionali. Uomini e donne che per la loro condizione perdono qualsiasi contatto con la società, o peggio, con la parte più produttiva della società.

Per questi motivi, come Associazione 5 Novembre, Arci e Antigone, insieme ad altri movimenti, stiamo organizzando una conferenza per i diritti dei detenuti. Mai come ora, dopo l’indulto, il carcere è stato così isolato. Ha ragione il direttore di "Diritti Globali", Sergio Segio, quando dice che le carceri sono diventate un sovraffollato deposito di "vite a perdere", in particolare di migranti e tossicodipendenti. Perché chi entra in carcere è un emarginato, ma chi ne esce, in assenza di una politica di inclusione e reinserimento sociale, è emarginato due volte.

Tutto ciò accade mentre i Governi europei, in assenza di garantismo negli interventi sociali, acquisiscono una percezione della realtà sociale distorta, inquinata da un pensiero intollerante, emergenzialista e giustizialista che nasce delle voci che provengono dagli "stomaci" delle società. Strategie di risoluzione che aumentano solo le disuguaglianze e ci portano ad un nuovo Medioevo. Strategie di contenimento sociale, della volontà di escludere, segregare e nascondere i disagi sociali che la nostra società produce e poi scarica verso il Carcere.

A Cagliari, l’aspetto più drammatico del sistema penale è Buoncammino. Chiamato anche carcere della pazzia, della droga e della malattia, attraverso la testimonianza di Santino, ex persona detenuta, che dalle lettere inviate a Radio Carcere scrive: "Rumore. Urla. Depressione e pazzia. Psicofarmaci. Droga. Vino e valium. Bombolette di gas da sniffare. Lamette da barba per tagliarsi. Sporcizia. Puzza. Topi e scarafaggi. Malati mentali. Tossici. Malati fisici. Chi sta sulla sedia a rotelle. Chi ha l’epatite o l’aids. Chi ha la scabbia, la tubercolosi e la meningite. Ogni tanto, in una cella vedi una cinghia attaccata alle sbarre, e lì appeso uno dei tanti che non ce l’hanno fatta".

Se il carcere sembra precipitato in un pozzo senza fondo, se emerge una situazione di vero e proprio sfascio delle legalità, di azzeramento della dignità e rispetto dei diritti umani e civili delle persone detenute, allora come Associazione 5 Novembre, proponiamo una soluzione: l’amnistia. Indulti e indultini da soli non bastano, poiché estinguono solo la pena e non comportano una sentenza di assoluzione. L’amnistia estingue il reato e, se vi è stata condanna, fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie.

L’amnistia in Italia è prevista dall’art. 79 della Costituzione. I decreti del Presidente della Repubblica del 1946 e del 1953 fecero beneficiare dell’amnistia per la prima volta i condannati per reati comuni, politici e militari. Dal 1992 una riforma costituzionale ha attribuito questo potere al Parlamento.

Al mondo della politica chiediamo l’attuazione di questo provvedimento, accompagnato dal diritto di associazione dei cittadini detenuti, dalla decarcerizzazione di malati psichici, tossicodipendenti e sieropositivi, dall’aumento delle concessioni alle misure alternative, dalla riforma del codice penale a partire dall’abolizione dell’ergastolo e dalla depenalizzazione dei reati minori. Vogliamo giustizia consapevole: le prigioni sono un invenzione del medioevo, e l’uomo moderno deve individuarne il superamento.

Giustizia: 2.700 l'anno i minori condannati, 45% sono stranieri

 

Dire, 11 marzo 2008

 

Su poco più di 40.000 minorenni denunciati ogni anno il 29% è di nazionalità straniera. Mentre fra i condannati (circa 2.700, tra italiani e non) la percentuale sale al 45%. Sono i dati che emergono dalle Procure per minorenni raccolti nel volume "Minori stranieri e giustizia minorile in Italia", realizzato dal Dipartimento per la Giustizia Minorile di Via Arenula e dal Centro Europeo di Studi Nisida. Il libro è stato presentato oggi presso il Tribunale dei minori di Roma, alla presenza del ministro della Giustizia, Luigi Scotti, del sottosegretario all’Interno, Marcella Lucidi e del Capo del Dipartimento, Carmela Cavallo.

Secondo l’indagine (i dati sono per lo più riferiti al 2004, fatta eccezione per alcune proiezioni relative al 2006) la percentuale di denunciati stranieri è salita dal 22% del 2001 (8.720 ragazzi) al 29% del 2004 (12.053). Sono aumentati anche i minori non italiani, nei confronti dei quali è iniziata l’azione penale: dai 4.411 del 2001 (il 23% del totale, italiani compresi) ai 6.406 del 2004 (31% del totale). I condannati stranieri tra i minori sono, invece, calati rispetto al 2001, ma aumentati rispetto al 2003 e oggi costituiscono il 45% del totale, Italiani compresi. Tra i denunciati prevalgono romeni e, a seguire, albanesi, minori dell’ex Jugoslavia e marocchini.

Le aree in cui si concentra la criminalità minorile e straniera sono il Centro ed il Nord, in cui si riscontrano le più alte percentuali di denunciati: 45% Nord ovest, 37% Nord est, 45% Centro. A Sud e nelle isole le percentuali scendono al 7 e 4%, ma qui gli stranieri sono anche di meno. Il volume traccia anche la fotografia dei reati più diffusi tra gli stranieri minorenni. Il 65% viene denunciato per quelli contro il patrimonio, il 14% per reati contro la persona, il 10% per quelli contro la fede pubblica (ad esempio attraverso la contraffazione della propria identità). A commettere reati contro il patrimonio sono soprattutto romeni e minori provenienti dalla ex Jugoslavia. Gli albanesi sono denunciati soprattutto per quelli contro la persona. I minori del Maghreb per spaccio e reati contro lo Stato.

"Il volume presentato oggi - sostiene Cavallo - è uno strumento che usa la metodologia del problem solving: i numeri rappresentano persone, oltre la raccolta dei dati c’è anche una analisi qualitativa a sostegno della ricerca di soluzioni". La ricerca, infatti, evidenzia le carenze del sistema: esiste una "mancanza di misure specifiche dirette a minori stranieri presenti nel circuito del sistema penale minorile", il nostro Paese, dunque, conclude, ha "un sistema penale sostanzialmente pensato per i ragazzi italiani".

 

Centri di Prima Accoglienza il 58% degli utenti è straniero

 

Cresce il numero di minori stranieri nei Centri di prima accoglienza, dove i ragazzi vengono condotti a seguito di arresto o fermo. Su un numero complessivo di 3.500 ingressi all’anno, infatti, i giovani di nazionalità estera sono più della metà degli italiani e passano dal 54% del 2001 al 58% del 2006. Le nazionalità più presenti sono, oltre ai rumeni, i marocchini e i minori provenienti dalla ex Jugoslavia.

Sono i dati contenuti nel volume "Minori stranieri e giustizia minorile in Italia", realizzato dal Dipartimento per la Giustizia minorile di Via Arenula e dal Centro Europeo di Studi Nisida, presentato oggi a Roma. Secondo la ricerca, negli ultimi anni (dal 2004) la presenza dei minori stranieri ha superato quella degli italiani anche negli Istituti penali, con percentuali che si attestano attorno al 54%, anche perché i minorenni non italiani sono spesso destinatari di provvedimenti di custodia cautelare in carcere. Anche in questo caso prevalgono rumeni, minori dell’area del Magreb e dell’ex Jugoslavia.

Cresce pure il numero di collocamenti in comunità: tra il 2004 ed il 2005 gli stranieri sono stati il 50% dei minori ospitati. Un dato sceso al 44% nel 2006. Negli Uffici di servizio sociale per i minorenni, poi, gli stranieri sono il 33% dei circa 20.000 soggetti segnalati ogni anno all’autorità giudiziaria e il 24% dei soggetti presi in carico. Cifre cresciute negli ultimi anni, a dimostrazione del fatto che, anche nei confronti dei minori stranieri, si preferiscono provvedimenti alternativi alla detenzione.

 

Scotti: sui minori che delinquono servono dati aggiornati

 

"Quello presentato oggi è un volume importante e spero che questi dati non rimangano ad appannaggio dei soli addetti ai lavori, ma vengano diffusi". Così il ministro della Giustizia, Luigi Scotti, commenta i contenuti del volume "Minori stranieri e giustizia minorile in Italia", presentato oggi a Roma e realizzato dal Dipartimento per la giustizia minorile del ministero e dal Centro europeo di studi Nisida.

"Si tratta di una ricerca - sottolinea Scotti - che connette gli aspetti statistici con quelli della valutazione dei problemi: attraverso un’analisi dettagliata della criminogenesi, si possono individuare i provvedimenti che devono essere adottati". Ma una pecca c’è, e il ministro non manca di sottolinearla. "I dati- rimarca Scotti- sono aggiornati al 2004, e quelli tra il 2004 ed il 2006 sono solo una proiezione. È una colpa che attribuisco anche alla nostra organizzazione. Questo significa che a livello centrale- continua il ministro- il recupero statistico non è stato fatto. Abbiamo bisogno, invece, di numeri aggiornati, perché i dati diventano subito obsoleti. Un deficit di aggiornamento- chiude- implica una mancanza di numeri su cui fare una corretta analisi dei fenomeni".

 

Lucidi: giustizia minorile inadeguata, serve salto di qualità

 

Il sistema della giustizia minorile è "ancora inadeguato". A dirlo è il sottosegretario all’Interno Marcella Lucidi, durante il suo intervento alla presentazione a Roma del volume "Minori stranieri e giustizia minorile in Italia", realizzato dal Dipartimento per la Giustizia minorile di Via Arenula e dal Centro Europeo di Studi Nisida.

"C’è bisogno di un forte salto di qualità- sottolinea Lucidi- bisogna avere dati aggiornati da tutti i ministeri competenti: Interno, Giustizia, Solidarietà sociale. Perché senza il dato si lasciano questi minori nella solitudine". Secondo il sottosegretario "si deve mettere mano al diritto per l’infanzia sia per quanto riguarda i giovani italiani che stranieri". Perché "scommettere anche sull’infanzia straniera è dare anche un aiuto alle famiglie immigrate. Non si smette - chiude Lucidi - di essere minore solo perché si è straniero".

Giustizia: oltre 3.000 gli italiani detenuti in carceri all’estero

 

Dire, 11 marzo 2008

 

Secondo l’ultimo censimento del Dgit (il Dipartimento del ministero degli Affari esteri che si occupa di italiani detenuti all’estero) sono 2.820. Ma, per la neonata associazione "Prigionieri del silenzio", presentata oggi a Roma, i nostri connazionali "ospitati" in carceri straniere sono almeno "il 17% in più, oltre 3.200".

Concentrati soprattutto in Paesi europei, con la Germania in testa (1.140 italiani detenuti) e, a seguire, la Spagna (429), il Belgio e la Francia (238 e 208). Gli istituti di detenzione delle Americhe ne ospitano 424 (152 condannati, 240 attendono giudizio): 134 negli Usa, 48 in Venezuela, 43 in Brasile. In Asia e Oceania sono 51. In tutto in 1.099 sono ancora in attesa di giudizio.

Cifre dietro cui si nascondono storie a cui ora ‘Prigionieri del silenziò (l’associazione è formata da un gruppo di sette donne che hanno fratelli o compagni detenuti fuori dall’Italia) ha deciso di dare voce. Alla presentazione dell’iniziativa hanno partecipato il vice ministro degli Esteri Franco Danieli, l’europarlamentare Umberto Guidoni e il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. L’associazione punta a sostenere le famiglie che, da sole ("lo Stato non ti aiuta"), per proteggere un loro caro detenuto all’estero, devono prendere contatti con un Paese di cui non conoscono la lingua e le leggi e devono sostenere spese legali elevatissime.

"Gli Italiani incarcerati fuori dai confini, infatti - spiega Erika Righi, suo fratello è stato arrestato in Spagna per presunta aggressione a pubblico ufficiale - non possono godere del gratuito patrocinio previsto dall’articolo 24 della Costituzione". Alle difficoltà economiche e linguistiche si assommano quelle di "comunicazione anche con gli istituti consolari italiani e la difficoltà di contattare i propri cari".

Che, spesso, subiscono addirittura maltrattamenti in carcere. È il caso di Carlo Parlanti, manager arrestato il 5 luglio 2004 in Germania e estradato, poi, negli Usa. È accusato di sequestro di persona e maltrattamenti nei confronti dell’ex fidanzata. Durante la detenzione, l’uomo ha contratto l’epatite C e gli è stato diagnosticato un sospetto tumore al polmone, ma non ha potuto fare i necessari accertamenti.

Un diritto negato di fronte al quale la neonata associazione richiama la politica ad assumersi delle responsabilità. "Chiediamo che sia istituita una figura nazionale che si occupi di questi detenuti - sostiene Katia Anedda, un’altra fondatrice -, ambasciate e consolati dovrebbero avere una disponibilità di fondi per assistere i nostri connazionali e il ministero degli Esteri dovrebbe avere un organo di monitoraggio per individuare e sostenere questi cittadini".

In attesa di risposte dalla politica, intanto, l’associazione proverà a mettere in campo da sola i primi strumenti di aiuto. "Faremo informazione - dicono le fondatrici - per far sì che sia tutelato il diritto alla salute e all’equo processo dei nostri connazionali. Aiuteremo le famiglie a gestire i contatti con le autorità, e a reperire aiuti per pagare le spese legali".

 

Marroni: su detenuti all’estero serve un dossier

 

La situazione dei detenuti italiani all’estero è "umanamente grave". A sottolinearlo è il Garante dei diritti dei detenuti per il Lazio, Angiolo Marroni, che, intervenendo alla presentazione dell’associazione "Prigionieri del silenzio", sostiene la necessità di un "dossier da presentare al prossimo governo", che raccolga informazioni su tutti i casi esistenti.

"Non bisogna innamorarsi di un solo caso - sottolinea Marroni - come è avvenuto con la Baraldini, ma portarli alla luce tutti o, comunque, molti. Bisogna allarmare l’opinione pubblica e, con la globalizzazione, - prosegue il Garante - dobbiamo difendere la volontà di avere un’unicità di orientamento per quanto riguarda i diritti umani". Infine, un avvertimento ai viaggiatori. "Ci sono viaggi che si possono anche evitare - dice Marroni - in paesi dove la legge è molto dura e, spesso non si conosce. Comunque, è sempre necessario informarsi prima, se si va verso mete esotiche".

 

Guidoni: rompere l’isolamento dei detenuti italiani all’estero

 

"Bisogna rompere l’isolamento dei detenuti italiani all’estero" perché è un muro che "può fiaccare qualunque volontà", anche quella di difendersi. Così il parlamentare europeo Umberto Guidoni, interviene alla presentazione della neonata associazione "Prigionieri del silenzio", che mira a sostenere le famiglie dei detenuti italiani all’estero.

"A livello europeo - ricorda Guidoni - è stata presentata anche una interrogazione al commissario Frattini che ha ricordato che, per ora, per tutelare questi soggetti, esistono solo gli accordi bilaterali tra Stati. Adesso che l’Europa sta per darsi un nuovo trattato costituzionale - chiude il parlamentare europeo - che recepisce la Carta dei diritti dell’uomo, sarebbe ora che questi trovassero completa applicazione".

 

Danieli: famiglie dei detenuti all’estero? dobbiamo tutelarle

 

"Dobbiamo porre le famiglie in condizione di essere tutelate e vigilare sulle modalità di esercizio delle giurisdizioni e delle detenzioni, ferma restando l’indipendenza di qualunque magistratura". Così il vice ministro del Mae (ministero Affari esteri), Franco Danieli, interviene alla presentazione della neonata associazione "Prigionieri del silenzio", che punta a sostenere le famiglie dei detenuti italiani all’estero.

"Il Mae - ricorda Danieli - svolge la sua attività in favore di questi detenuti attraverso la rete diplomatica e consolare. Il ministero - continua il vice ministro - dialoga con i governi presso cui è accreditato. Ora - chiude Danieli - ci deve essere una determinazione forte a far rispettare i diritti fondamentali dell’essere umano previsti dalle Convenzioni internazionali, e alzare anche la voce quando necessario".

Giustizia: lavoratore detenuto ingiustamente va reintegrato

 

http://lavoro.newsfood.com, 11 marzo 2008

 

L’arresto e la conseguente carcerazione preventiva del lavoratore per fatto estraneo agli obblighi contrattuali, configuravano nella giurisprudenza un’ipotesi di impossibilità parziale ad adempiere ex art. 1464 c.c. e determinavano la sospensione delle obbligazioni corrispettive delle parti, a cui poteva far seguito il recesso del datore di lavoro qualora, per la durata e le conseguenze dell’assenza (in relazione all’importanza delle mansioni e alle esigenze dell’impresa) fosse venuto meno ogni apprezzabile interesse di quest’ultima all’adempimento parziale. L’assenza del lavoratore per tali motivi costituisce un giustificato motivo oggettivo di risoluzione del rapporto di lavoro, e ciò trova riprova in un ulteriore orientamento della Corte di Cassazione consolidatosi (Cass. 29 novembre 1992, n. 6494, Cass. 7 giugno 1985, n. 3407, Cass. 14 ottobre 1986, n. 6016, ecc.).

La sentenza della Cassazione Sezione Lavoro del 12 settembre 2001, n. 11619 ha chiarito che la prevedibile lunga durata della custodia cautelare può costituire giustificato motivo di licenziamento, per ragioni organizzative.

In tale sentenza si riporta il caso di un dipendente colpito da un provvedimento di custodia cautelare, con l’imputazione di un grave reato, e che pertanto era prevedibile una lunga durata della sua detenzione. Il lavoratore sospeso dal lavoro e dalla retribuzione ha impugnato davanti al Pretore il provvedimento che ne aveva disposto la reintegrazione, ma il Tribunale aveva ritenuto provate le esigenze dell’azienda.

La Cassazione adita dal lavoratore ha con la suddetta sentenza sent. n. 11619/2001, ha rigettato il ricorso del lavoratore in quanto ha ritenuto che il Tribunale abbia correttamente motivato la sua decisione tenendo nel debito conto le oggettive esigenze dell’impresa, la natura e la rilevanza delle mansioni svolte dal lavoratore detenuto, il già maturato periodo di sua assenza e la prognosi negativa in ordine ad una prossima ripresa dell’attività lavorativa, considerata la gravità del reato attribuito al dipendente e la circostanza che egli era stato arrestato in flagranza.

In ordine all’ingiusto arresto qui dobbiamo dire che gli orientamenti della Cassazione sono stati modificati dall’art. 24 della L. 8 agosto 1995, n. 332 recante modifiche al codice di procedura penale, che ha introdotto un’innovazione: tale norma inserisce nel codice di procedura penale l’art. 102 bis che è titolato "Reintegrazione nel posto di lavoro perduto per ingiusta detenzione" e che dispone la reintegrazione nel posto di lavoro qualora venga pronunciata sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere o venga disposto provvedimento di archiviazione.

Tale norma che prevede l’obbligo del datore di lavoro di reinserire il lavoratore nel posto di lavoro, senza l’onere di versare retribuzioni e contributi, per il periodo intercorrente la data del licenziamento e quella della reintegrazione, comporta che essa è applicabile a tutti i lavoratori ingiustamente carcerati.

Con sentenza n. 5499 del 2 maggio 2000 la Cassazione Sez. Lavoro, ha rafforzato l’interpretazione della norma affermando che "chi sia stato sottoposto a misura di custodia cautelare in carcere ovvero agli arresti domiciliari e sia stato perciò licenziato dal posto di lavoro che occupava, ha diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro medesimo qualora venga pronunciata in suo favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento, di non luogo a procedere ovvero venga disposto provvedimento di archiviazione".

Giustizia: Gravina; Pappalardi ammesso ad arresti domiciliari

 

La Repubblica, 11 marzo 2008

 

Mutata l’accusa in abbandono di minori seguito da morte. "I ragazzini sfuggirono al padre che li inseguiva in auto".

Arresti domiciliari per Filippo Pappalardi che quindi lascia il carcere di Velletri per tornare nella sua abitazione a Gravina in Puglia. Dopo il rinvio di ieri è questa la decisione del giudice per le indagini preliminari del tribunale di Bari Giulia Romanazzi che ha accettato l’istanza di scarcerazione presentata dalla difesa del papà di Ciccio e Tore, in carcere dal 27 novembre 2007 con l’accusa di aver ucciso i suoi due figli, trovati morti in una cisterna abbandonata a Gravina in Puglia venti mesi dopo la loro misteriosa scomparsa.

Il gip ha mutato l’accusa nei confronti di Pappalardi e ha ordinato il trasferimento ai domiciliari nella sua abitazione a Gravina per il reato di abbandono seguito da morte (articolo 591 comma 3 del codice penale). Il giudice considera cadute le altre due accuse di sequestro di persona e occultamento di cadavere mosse dalla procura. È stato il presidente della sezione gip del tribunale di Bari, Giovanni Leonardi, a comunicare la decisione del giudice Romanazzi che poco prima aveva dichiarato: "Sono serena, non è stata una decisione facile".

La nuova ipotesi di reato, scrive il gip nel provvedimento di 32 pagine, si basa sul fatto che fu Filippo Pappalardi ad avvistare per l’ultima volta Ciccio e Tore in piazza delle Quattro Fontane la sera della loro scomparsa, ma "i bambini, verosimilmente, per sottrarsi alla consueta aggressività paterna e a una prevedibile consequenziale punizione, avrebbero istintivamente preferito la fuga".

Pappalardi, prosegue il giudice, avrebbe inseguito i figli a bordo della sua autovettura, ma li avrebbe "definitivamente persi di vista in zona via Ianora, cioè proprio lungo quella strada che insistentemente, ma tardivamente, il Pappalardi ha invocato, attribuendo l’avvistamento non a se stesso ma ad altre persone". Il padre credeva che la fuga di Ciccio e Tore fosse attribuibile a "una temporanea ragazzata", quindi "è plausibile" che l’uomo abbia cercato i figli "soprattutto nella zona vicina a via Ianora" in cui i ragazzini erano fuggiti dopo averlo visto.

L’articolo 591 del codice penale citato dal gip si occupa di "abbandono di persone minori o incapaci" e riguarda "chiunque abbandona una persona minore di anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere la cura". Al comma 3 dello stesso articolo, il codice penale prevede la pena della reclusione da uno a sei anni "se dal fatto deriva una lesione personale", e da tre a otto anni "se ne deriva la morte". "Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore o dal coniuge, ovvero dall’adottante o dall’adottato".

Interrogato dal gip nei giorni scorsi, Filippo Pappalardi ha ribadito con forza fino alle lacrime la propria innocenza. Ora dovrà restare detenuto nella sua casa, a Gravina in Puglia, che raggiungerà in giornata dopo l’autorizzazione del gip al trasferimento dal carcere di Velletri alla sua abitazione "senza scorta e senza ritardo". Per disposizione del giudice, Pappalardi non potrà allontanarsi da casa senza essere autorizzato, non potrà avere contatti telefonici e visivi con persone che non siano "familiari, conviventi, sanitari e difensori". Per l’esecuzione del provvedimento e i controlli sulla detenzione domiciliare e sui divieti imposti viene delegata "la stazione dei carabinieri territorialmente competente".

Roma: Regina Coeli trasferisce competenze sanitarie alle Asl

 

Comunicato stampa, 11 marzo 2008

 

Conferenza stampa: Mercoledì 12 marzo 2008, ore 11.30, Carcere di Regina Coeli - Sala Conferenze di Via della Lungara, 29 Roma. Conferenza Stampa di presentazione dei Sette Protocolli d’Intesa Operativi attraverso cui il carcere di Regina Coeli - prima struttura penitenziaria del Lazio - da materialmente avvio al trasferimento di competenze, in ambito sanitario, dal Ministero della Giustizia alle Asl.

La Finanziaria 2008, confermando lo spirito del D.lgs 230/99, ha confermato la competenza dei Servizi Sanitari Regionali nell’assicurare l’assistenza sanitaria nei 205 istituti penitenziari italiani disponendo l’immediato trasferimento delle relative funzioni dal Ministero della Giustizia a quello della Salute. Dal 1 Gennaio 2008 il Ministero della Giustizia ha dunque cessato di esercitare le proprie competenze in ambito sanitario per i detenuti, sostituito dal Servizio Sanitario Nazionale. Il carcere di Regina Coeli è la prima struttura del Lazio ad avviare Protocolli Operativi in tal senso.

Alla Conferenze Stampa interverranno: Mauro Mariani, Direttore Casa Circondariale Regina Coeli; Armando D’Alterio, Vice Capo Dap; Angelo Zaccagnino, Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria del Lazio; Angiolo Marroni, Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Lazio; Carlo Saponetti, Direttore Generale Asl Roma A; Andrea Franceschini, Dirigente Sanitario Casa Circondariale Regina Coeli.

 

Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti del Lazio

Verona: progetto "Sorriso", cure dentarie gratis ai detenuti

di Luca Bolognesi

 

L’Arena di Verona, 11 marzo 2008

 

Un sorriso nuovo per i detenuti del carcere di Montorio. È questa l’iniziativa proposta dall’Associazione Onlus "La Libellula" di Villafranca, che con il progetto "Sorriso" vuole realizzare protesi dentarie gratuite per i carcerati.

"Dopo un anno di pianificazione e richiesta di finanziamenti", spiega Giuseppe Amenduni, presidente e fondatore dell’associazione "La libellula", "siamo pronti a partire. Dobbiamo ringraziare Annalisa Perusi, promotrice e coordinatrice del progetto".

Socia dell’associazione villafranchese di volontari, Annalisa Perusi è docente del Centro territoriale permanente "Giosuè Carducci" di Verona, e si è disimpegnata come educatrice all’interno del carcere per cinque anni.

"La mancanza di speranza", commenta Perusi, "è la situazione più tragica per un detenuto. Nonostante gli errori che possono aver commesso, i carcerati sono persone che vanno aiutate". Ed i problemi con i denti dei detenuti sono seri. "Colloquiando con chi si trova in prigione", fa presente Amenduni, "capita spesso di vedere mani davanti alla bocca, perché molti si vergognano di essere senza denti".

Francesco Spangaro, dentista capofila del progetto, ha già provveduto alla miglioria delle condizioni igieniche e strumentali del gabinetto dentistico del carcere di Montorio. Ora i volontari sono pronti per la seconda fase del progetto, che consta il coinvolgimento diretto di alcuni ragazzi dell’istituto odontotecnico "Enrico Fermi" di Verona.

Nella casa circondariale, con la supervisione del medico volontario Mario Zanotti e l’assistenza degli alunni del "Fermi", verranno raccolte le impronte dentali ai detenuti che hanno bisogno dell’intervento. Poi verranno successivamente utilizzate nello studio di Sergio Ruzzenenti, odontotecnico, dove saranno realizzate le protesi.

"Siamo stati contattati dall’Associazione "La libellula", racconta Antonio Ciampini, preside dell’istituto "Enrico Fermi", "e siamo stati felici di collaborare. Crediamo sia un’opportunità importante per sviluppare la cultura della tolleranza e del volontariato, oltre al notevole valore didattico che un’esperienza del genere avrà per i nostri

Padova: gli industriali a confronto su criminalità e carcere

 

www.padovanews.it, 11 marzo 2008

 

"La sicurezza idraulica, sul lavoro, e dalla criminalità" è stato il tema della Convention organizzata dal Gruppo Imprenditori della Zona Industriale di Padova (Gizip) con il Gruppo Imprenditori della Zona Industriale di Limena (Gizil), tenuta a Limena presso la Sala comunale Falcone-Borsellino l’8 marzo 2008.

La Convention è stata organizzata non solo per fare il punto circa l’attività svolta dalle due associazioni sull’importante tema della sicurezza, ma anche per ufficializzare l’unione fra i due sodalizi. Gizil è infatti da ora aggregata a Gizip, e i suoi membri gestiscono, dall’8 marzo, lo sportello Gizip di Limena.

Riguardo la sicurezza dalla criminalità, la dr.ssa Graziella Palazzolo, dirigente dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, Uepe, di Padova e Rovigo, ente del Ministero della Giustizia, ha auspicato l’apertura di un tavolo di lavoro con le imprese per sviluppare assieme strategie di inserimento lavorativo delle persona condannate, illustrandone i vantaggi in termini sociali attraverso la diminuzione della recidiva, e in termini economici attraverso gli incentivi fiscali alle aziende e l’assenteismo praticamente azzerato.

Ornella Favero, direttrice responsabile di "Nonlavorarestanca", giornale realizzato dai detenuti, ha invitato gli imprenditori a coorganizzare una visita alla Casa di Reclusione padovana.

Non solo il dramma dei condannati, ma anche quello di chi, superati i quarant’anni viene rifiutato dal mercato del Lavoro, con danni che riguardano non solo la sfera psichica ma anche quella economica. Ne ha parlato il rappresentante dell’Associazione "Lavoro Over 40" Fausto Lazzaro, chiedendo interlocutori nel mondo delle aziende. L’amministratore delegato di Securgest Carlo Vanotti si è soffermato sulle possibilità, sposate dalla sua azienda, offerte dall’attuale tecnologia internet riguardo la sicurezza dalla criminalità: maggior sicurezza con minori costi.

Busto Arsizio: anche in carcere arriva la raccolta differenziata

 

www.varesenews.it, 11 marzo 2008

 

Qualche tempo fa la direzione del carcere, sollecitata dagli stessi detenuti, aveva preso contatti con l’Amministrazione comunale e con Agesp per verificare la possibilità di introdurre in ogni cella gli appositi contenitori e avviare la raccolta differenziata anche al proprio interno.

Una richiesta che, sottintendendo un’encomiabile attenzione nei confronti per l’ambiente, ha trovato l’immediata disponibilità del Comune e della ex-municipalizzata, che si sono attivati per organizzare la raccolta secondo le esigenze della struttura carceraria. Si comincerà con un mese di prova in venticinque celle (circa settanta detenuti): nelle prossime settimane Agesp consegnerà la fornitura di materiale adeguata a dotare ogni cella di appositi sacchetti per la raccolta della carta, un secchiello areato per l’umido con i relativi sacchetti in mater-B, e sacchi per la plastica in formato ridotto.

Se l’esperimento avrà successo, la raccolta sarà estesa a tutto il carcere (circa 120 celle, 450 detenuti). In ogni sezione saranno predisposti anche bidoni carrellati per le varie raccolte e altri contenitori per le pile e il vetro.

Procede intanto a gonfie vele anche il progetto di estensione della raccolta differenziata nelle scuole materne, elementari e medie della città. Comune e Agesp, in stretto accordo con i vertici delle istituzioni scolastiche, si sono, infatti, posti l’obiettivo di incrementare le percentuali di raccolta, ma soprattutto di sensibilizzare il più possibile i cittadini di domani. E piccoli gesti concreti, come la raccolta della carta e della plastica nelle aule, non possono fare altro che educare al rispetto per l’ambiente e alla cultura del riciclo. Entro Pasqua saranno consegnati agli istituti comprensivi 450 contenitori di cartone riciclabile per la raccolta della carta (uno per ogni aula o ufficio).

Sulle scatole sarà stampato un simpatico messaggio che invita gli alunni a gettare lì la carta, in modo che poi possa essere riciclata, e saranno ben evidenti anche i loghi di Comune, Agesp e Consiglio Comunale dei Ragazzi. L’idea della raccolta della carta era, infatti, stata suggerita all’Amministrazione anche dall’istituzione composta dai giovani eletti nelle scuole cittadine.

Verranno poi forniti 200 bidoni, da posizionare nei cortili degli istituti per raccogliere la carta gettata nelle aule, e circa 250 trespoli per la raccolta della plastica. Ad ogni studente verrà, inoltre, consegnata una brochure in cui si ricorderà l’abc della raccolta differenziata: un vademecum utile anche ai genitori per "ripassare" le modalità della differenziazione dei rifiuti.

Varese: 44 celle per 120 detenuti, il carcere di nuovo al limite

 

www.varesenews.it, 11 marzo 2008

 

Umanità e reinserimento. Chi lavora in carcere deve ricordarsi queste due parole. Così dice Gianfranco Mongelli, direttore del Miogni di Varese: "Sul reinserimento stiamo lavorando da tempo e abbiamo messo in piedi anche un’importante rete di soggetti, l’umanità resta la nostra prima regola, ma con 44 celle e una media di 120 detenuti la situazione si complica". Quella riportata dal direttore della Casa Circondariale varesina è una realtà che riguarda molte carceri italiane: "Fate voi i conti - ha spiegato - si dovrebbe ospitare un detenuto per stanza, ce ne possono stare anche due ma quando le persone sono di più è emergenza. Lo diventa per i prigionieri e per le loro condizioni di vita ma anche per gli operatori che si trovano a dover lavorare in condizioni tese e stressanti".

Il Miogni si trova da tempo in una situazione al limite. Le celle forse, grazie al progetto "Fuori... e dopo?" hanno assunto un aspetto diverso, sono state riverniciate, sistemate, pulite ma è l’intera struttura ad aver bisogno di cure. "Non è adeguata alle reali esigenze del territorio - commenta il direttore -. Negli anni Ottanta è arrivata a contenere fino a 200 detenuti, oggi la situazione è leggermente migliorata ma siamo sempre al limite della crisi. Il Comune di Varese ci aveva proposto la realizzazione di un nuovo carcere alla Stoppada, un’area verde tra Gazzada e Bizzozero ma ci sono state delle opposizioni e il progetto è stato via via abbandonato. Siamo rimasti dunque alla stessa situazione di partenza. Chiediamo chiarezza, una risposta da parte degli enti locali, dell’amministrazione comunale in particolare. Si farà un nuovo carcere? Dove? Questo nessuno ce l’ha più fatto sapere".

 

Detenuti imbianchini rifanno il look alle celle

 

Le quarantaquattro celle del carcere Miogni sono state riverniciate e sistemate, la cucina ha aperto le porte ai detenuti in veste di cuochi. Sono solo alcuni, questi, dei risultati del progetto "Fuori... e dopo?", realizzato dalla Fondazione Enaip Lombardia, Comune di Varese e Consorzio SolCo con il sostegno della Provincia. Un lavoro che ha attivato una vera e propria squadra - fatta anche di volontari - che si rivolge ai prigionieri della Casa circondariale varesina, oltre a quelle di Busto Arsizio e di Como e che propone dei percorsi di formazione a chi si trova rinchiuso.

"I corsi - spiega Sergio Preite della Fondazione Enaip - sono stati scelti in base alle esigenze dei detenuti e di alcuni settori particolarmente attivi in provincia. Nel dettaglio abbiamo organizzato delle lezioni di ristorazione collettiva, tinteggiatura, informatica di base e orientamento al lavoro". L’obiettivo del progetto è quello di fornire ai reclusi degli strumenti per il loro ritorno nel mondo del lavoro. Il percorso di formazione comprende 240 ore complessive e ha finora interessato 33 allievi.

"Stiamo lavorando con persone che stanno ridefinendo la propria identità - ha aggiunto Preite -, si tratta di situazioni delicate e complesse. Per ciò è fondamentale che iniziative come queste continuino nel tempo, aldilà dei bandi e degli strumenti che ne finanziano lo svolgimento". La discontinuità rappresenta infatti un forte ostacolo alle iniziative per il reinserimento dei detenuti.

Alcuni progetti, hanno spiegato i responsabili del Miogni, sono partiti con il massimo impegno ma poi abbandonati nelle loro fasi di sviluppo. "La collaborazione con gli enti locali è sempre fondamentale - ha aggiunto il direttore del carcere Gianfranco Mongelli -. La struttura da sola non ha le forze per dare ai detenuti la possibilità di imparare un lavoro o di perfezionare le proprie abilità. La rete di soggetti che si è creata finora ci ha permesso comunque di superare questi limiti e ci auspichiamo che questa collaborazione continui anche in futuro".

"È stata un’esperienza importante che ci ha messo a confronto con gli altri oltre a ottenere le basi per un nuovo lavoro - ha spiegato un detenuto -. Queste attività tengono impegnata la mente e rendono inoltre meno pesante, dal punto di vista psicologico, la permanenza in prigione".

E dopo? "L’inserimento nel mondo del lavoro non è un passo semplice e automatico - ha precisato Mongelli -. occorre perciò creare dei canali di comunicazione, coinvolgere le imprese, mettere in contatto soggetti diversi. Il detenuto, una volta scontata la pena, corre un rischio molto elevato, quello dell’abbandono. Non prendere in considerazione l’importanza del reinserimento significa riportare queste persone sulla strada della criminalità".

Savona: il Sappe scrive a Scotti sulla situazione del carcere

 

Comunicato Sappe, 11 marzo 2008

 

"Se c’è una cosa di cui l’Amministrazione penitenziaria dovrebbe vergognarsi è l’incapacità di realizzare un nuovo carcere a Savona. Da troppo tempo, infatti, il carcere "Sant’Agostino" di Savona è oggetto di attenzione per la precarietà delle condizioni della struttura, come più volte denunciato da articoli di stampa.

La stessa Commissione Giustizia del Senato in occasione di una visita agli istituti penitenziari della Liguria ha constatato le penose condizioni della struttura, che creano condizioni difficile agibilità, in particolare con riferimento alla sicurezza, per i poliziotti penitenziari e di inaccettabile vivibilità per i reclusi.

Oggi veniamo a sapere dell’ennesimo stop burocratico per l’assegnazione dei lavori di costruzione del nuovo carcere previsto a Savona, in località Passeggi. Tutto ciò è semplicemente scandaloso. Le chiediamo per tanto di accertare le responsabilità dei referenti regionali liguri dell’Amministrazione penitenziaria in questa vicenda gestita non male, ma pessimamente."

È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione della Categoria, in una nota inviata oggi al Ministro della Giustizia Luigi Scotti dopo l’ennesimo stop alla realizzazione del nuovo penitenziario di Savona.

"Voci fantasiose vorrebbero addirittura realizzare un carcere nella Scuola di Polizia Penitenziaria di Cairo Montenotte, che non è affatto idonea a tale scopo e che anzi dovrebbe essere maggiormente impiegata per le attività di formazione e aggiornamento del Personale di Polizia Penitenziaria della Liguria e delle Regioni attigue, attività fondamentali per i poliziotti penitenziari ma del tutto trascurate dal Provveditore regionale di Genova.

Non ha alcun senso snaturare la funzione della Scuola per l’incapacità dei vertici regionali liguri dell’Amministrazione penitenziaria a realizzare un nuovo carcere a Savona. Piuttosto si persegua la nostra decennale proposta, di realizzarne un nuovo nelle aree Acna di Cengio. Ma si realizzi al più presto un nuovo carcere per Savona visto che quello attuale, di Sant’Agostino, è indecente per chi ci lavora e chi ci è ristretto".

Perugia: domani una conferenza sulla psichiatria penitenziaria

 

www.bur.it, 11 marzo 2008

 

Perugia, 12-13 marzo 2008, Aula Magna dell’Università di Perugia. Analizzare procedure clinico - diagnostiche e organizzative, bisogni di cura, tipo di cultura professionale nei detenuti portatori di disturbi mentali, sta diventando sempre più una problematica urgente e attuale. La Consensus Conference, sul tema "La Psichiatria Penitenziaria", che si svolge nell’Aula Magna dell’Università degli Studi di Perugia dal 12 al 13 marzo 2008, ha quindi la finalità di iniziare un lavoro che valorizzi una moderna psichiatria clinica e che, considerando la forte valenza istituzionale del contesto carcerario, ricerchi nuovi equilibri nelle complesse strategie di intervento, ispirate ad orientamenti contenuti negli attuali documenti di programmazione sanitaria.

L’iniziativa, prima in Italia è promossa dalla Società Italiana di Psichiatria, condotta in collaborazione con le Società Italiane di Criminologia, Medicina Legale, Psichiatria Forense, Psichiatria delle Dipendenze e L’Amapi ha avuto il parere favorevole del Ministero di Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, è coordinata dal dottor Sandro Elisei, Sezione di Psichiatria dell’Università di Perugia, segretario regionale S.I.P e dal professor Eugenio Aguglia, Past President della S.I.P.

La raccolta e l’elaborazione dati sarà a cura della Sezione di Psichiatria e della Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università di Perugia, dirette dal professor Roberto Quartesan; (la Scuola di Specializzazione ha stipulato nel 2003 - prima in Italia - una convenzione con il centro clinico della Casa Circondariale di Perugia).

Brindisi: presentato libro "Vista d’interni. Diario di carcere"

 

www.brundisium.net, 11 marzo 2008

 

Martedì 11 marzo alle ore 18.30 sarà presentato presso il Palazzo della Cultura di Brindisi il romanzo "Viste d’interni. Diario di carcere, di "scuri" e seghe, di trip e di sventure" di Antonio Perrone edito da Manni Editori, da cui è liberamente tratto il film "Fine pena mai" di Davide Barletti e Lorenzo Conte. Interverranno Marcello Strazzeri, Preside della facoltà di Scienze Sociali, Politiche, del Territorio dell’Università del Salento, il giornalista Rosario Tornesello, Davide Barletti, il filmaker Simone Salvemini, lo sceneggiatore Marco Saura, l’editore Piero Manni, gli attori Ippolito Chiarello e Mauro Marino.

Il romanzo è una storia in forma di diario, che alterna la narrazione in presa diretta ai flash-back: dalla droga alle rapine al racket del gioco e delle estorsioni al calvario del carcere duro e dell’isolamento. Senza reticenze, l’autore racconta le organizzazioni criminali di Puglia, la solidarietà omertosa, i rituali, l’incoscienza e la ferocia; racconta quell’universo rimosso che è il carcere; le relazioni tra detenuti e con gli agenti di custodia e con quelli che stanno fuori, le miserie, le prepotenze e le violenze, la privazione d’ogni dignità.

Un documento di grande valore sociale. Antonio Perrone (1957), detenuto a lungo sottoposto al regime speciale 41 bis per associazione mafiosa, sconta ora il resto della sua pena in un carcere di massima sicurezza.

"Fine pena mai" è una storia vera, ambientata nel Salento negli anni Ottanta: la storia di un ragazzo come tanti che, seguendo il sogno di una vita al massimo, si ritrova coinvolto in una corsa inarrestabile che lo porterà a divenire un vero e proprio boss mafioso. Un viaggio in nero che racconta una vicenda che ha per sfondo una mafia mai raccontata prima: la Sacra Corona Unita. Liberamente tratto dal romanzo autobiografico "Vista d’Interni", il film narra infatti le vicissitudini di Antonio Perrone.

Il film (protagonisti Claudio Santamaria e Valentina Cervi) è il racconto di un drammatico percorso umano. All’inizio degli anni Ottanta, Antonio Perrone è il primogenito di una benestante famiglia salentina. Ma la sua natura è irrequieta e, come tanti ragazzi di quell’epoca, sogna un futuro migliore, libero dai vincoli sociali. È il sogno di una vita al massimo.

Quando si innamora della giovane Daniela sembra sul punto di realizzare i suoi desideri. Antonio vuole di più, sempre di più, entra nel mondo dello spaccio di droga, divenendo con l’incoscienza di un giovane romantico, protagonista di folli scorribande alla conquista del territorio. La sua corsa è inarrestabile: intraprende una serie di rapine fino a diventare un vero e proprio boss della neonata Sacra Corona Unita, la cosiddetta Quarta mafia, che tenne sotto ricatto, per un decennio, una regione fino ad allora vergine. Il suo sogno si è trasformato in un incubo. Se Perrone è un criminale dalla parabola insolita e drammatica, la Sacra Corona Unita è una mafia che presenta un percorso innovativo e anomalo rispetto alle altre mafie. Ultima a essere nata, tutti i suoi riti di iniziazione, la sua struttura verticistica, il suo codice d’onore nascono da una mescolanza e riedizione delle vecchie tradizioni malavitose. È una mafia violenta e irrazionale. Perrone finisce schiacciato dai suoi meccanismi e il suo percorso culmina in maniera tragica. L’epilogo della propria vita sarà una pena che sconterà senza fine. Mai.

Il film, distribuito da Mikado Film, è prodotto da Classic, Verdeoro e Paradis Film. Riconosciuto film d’Interesse Culturale Nazionale dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Realizzato con il contributo del Fondo Eurimages del Consiglio d’Europa e del Salento Film Fund della Provincia di Lecce.

Droghe: Ferrero; carcere non è deterrente per consumatori

 

Notiziario Aduc, 11 marzo 2008

 

In un intervento alla commissione Onu sugli stupefacenti a Vienna, il ministro della solidarietà sociale, Paolo Ferrero, ha suggerito oggi, alla luce dei risultati "sotto le aspettative" conseguiti finora, di rivedere la strategia decennale dell’Onu di lotta alla droga considerando anche la possibilità di esaminare "processi volti a favorire l’acquisto a fini sanitari di parte della produzione di oppio".

"La realtà è che non siamo riusciti ad incidere in modo significativo né sui consumi né sulla produzione della droga", e in Afghanistan "si è addirittura registrato un aumento del raccolto del papavero", ha detto dicendosi convinto che "non si debba abbandonare lo studio di processi volti a favorire l’acquisto a fini sanitari di parte della produzione di oppio".

In particolare a suo avviso è necessario separare gli interessi dei contadini da quelli dei narcotrafficanti e dare ai primi alternative concrete. Errato inoltre "censurare l’uso tradizionale della foglia di coca" diffuso nei paesi andini poiché ogni paragone fra foglia di coca e cocaina è "privo di fondamento".

Sul fronte della domanda, Ferrero ha rilevato che i dati dimostrano che il "carcere non ha rappresentato un deterrente efficace per chi fa uso di droga", importante è la politica di prevenzione e riduzione del danno. Al riguardo Ferrero ha ricordato che il governo italiano uscente non ha avuto il tempo sufficiente per cambiare la legge sulla droga né per modificare la normativa sulla pubblicità degli alcolici.

In dichiarazioni all’Ansa, Ferrero si è detto convinto della necessità di una legge che vieti la pubblicità dei prodotti alcolici precisando però che non è stato possibile discuterla nel governo a causa di dissensi interni e del peso delle lobbies. "Credo nella prevenzione su tutto e che si debbano evitare le politiche proibizioniste", ha detto. A suo dire inoltre i dati dell’Onu non sono attendibili (enfatizzerebbero i risultati delle politiche perseguite ndr).

Ultimo aspetto su cui Ferrero ha messo l’accento è quello del rapporto fra le azioni di contrasto della droga e diritti umani, sui cui ha insistito anche in un colloquio in margine ai lavori della commissione con il direttore esecutivo dell’Unodc (l’ufficio Onu per la lotta alla droga e al crimine), Antonio Maria Costa. La lotta al narcotraffico deve essere inflessibile ma non vanno confuse le mafie della droga con le realtà sociali dei contadini in Paesi come Bolivia o Afghanistan. In tema di diritti umani, ha aggiunto, non deve inoltre essere abbandonata la battaglia per una moratoria sulla pena di morte.

Droghe: Giovanardi; ripristineremo subito il "Dipartimento"

 

Notiziario Aduc, 11 marzo 2008

 

Se il centrodestra vincerà le elezioni politiche, una delle prime cose da fare sarà di ripristinare il Dipartimento per le politiche antidroga sotto la presidenza del Consiglio dei ministri: lo ha detto Carlo Giovanardi, esponente del Pdl ed ex titolare delle Politiche sulla droga nel governo Berlusconi. Intervenendo alla trasmissione "Viva voce" di Radio24, Giovanardi ha affermato che occorre riportare sotto un unico cappello le competenze sulla droga, che "il governo Prodi ha spezzettato" in tanti ministeri e ricreare un unico Dipartimento, come era fino a due anni fa. Giovanardi ha anche difeso la legge sulla droga che porta il suo nome insieme a quello di Gianfranco Fini.

"Non è vero - ha replicato al ministro Paolo Ferrero che aveva espresso forti critiche - che si va in carcere per il semplice consumo, ma solo se il giudice accerta che si è trattato di spaccio". La legge, ha insistito, "contiene anche misure di prevenzione, e il kit di Milano mi sembra andare in questa direzione. Le droghe leggere, come dicono anche numerose ricerche, sono devastanti per la salute". Inoltre, secondo l’ex ministro, la legge Fini-Giovanardi "ha contenuto l’uso di sostanze stupefacenti che senza le norme sarebbero esplosi".

Droghe: Vienna; le buone intenzioni Onu

di Grazia Zuffa (Forum Droghe)

 

Il Manifesto, 11 marzo 2008

 

Si è aperta nella capitale austriaca la 51 esima sessione della Commissione delle Nazioni Unite sugli stupefacenti. Avviato il bilancio di dieci anni di proibizionismo globale. E per la prima volta sono presenti anche le Ong.

L’allegro e combattivo corteo delle associazioni antiproibizioniste ha attraversato venerdì le vie di Vienna per raggiungere la sede delle Nazioni Unite. Così Encod, il Coordinamento Internazionale Antiproibizionista, ha salutato i delegati che a Vienna stavano confluendo da ogni parte del mondo per l’apertura dei lavori della 5lesima sessione della Commission on Narcotics Drugs dell’Onu (Cnd). Non si tratta di routine: da ieri e fino al 14 marzo molti rappresentanti politici, ministri e capi di governo (per l’Italia c’è il ministro Paolo Ferrero) sono riuniti con l’impegnativo compito di avviare la valutazione della strategia politica mondiale approvata dall’assemblea generale Onu di New York nel 1998. Il processo è destinato a concludersi nel 2009, con un incontro politico ad alto livello, sempre a Vienna. Gli obiettivi fissati nella Dichiarazione politica finale di New York erano, si ricorda, molto ambiziosi: niente di meno che "l’eliminazione, o la riduzione significativa, della coltivazione illecita della pianta di coca, della canapa e del papavero da oppio".

Il "successo" delle politiche adottate per raggiungere tale obiettivo è sotto gli occhi di tutti, e per questo i seguaci della Conservazione Globale, ben rappresentati nelle varie agenzie Onu sulle droghe, stanno facendo di tutto per non entrare nel merito. Nel 2003, anno in cui si sarebbe dovuto fare un bilancio intermedio, la manovra dilatoria riuscì alla grande, anzi, dietro la spinta decisiva degli Usa e di alcuni stati totalitari, col sostegno del direttore dell’Unodc, Antonio Costa, fu sferrato un attacco alle mild policies dell’Europa, le politiche "miti" sulla canapa.

Nel suo intervento il ministro Ferrero, criticando i risultati fin qui raggiunti dalle politiche proibizioniste, ha suggerito per il prossimo decennale di cambiare strategia politica cominciando per esempio col non abbandonare lo studio di "processi volti a favorire l’acquisto a fini sanitari di parte della produzione di oppio afghano". "L’eradicazione forzata delle piantagioni - ha spiegato il ministro Prc - dovrebbe essere sostituita da interventi tesi a separare gli interessi dei contadini da quello dei trafficanti, dando ai primi alternative concrete". Dal lato della domanda invece Ferrero ha evidenziato che "il carcere non è stato un deterrente efficace contro l’uso di stupefacenti", e che troppo spesso vengono violati i diritti umani dei tossicodipendenti.

Parole che potrebbero perfino non cadere nel vuoto nella partita che si apre quest’anno, meno scontata del solito. Non c’è solo Encod infatti a vigilare che il tutto non si risolva in una farsa: col sostegno della Ue e di stati come Canada, Svezia, Regno Unito, Ungheria e Italia, si è svolta da poco a Budapest la conferenza regionale europea delle Ong, dove tra tanti orientamenti diversi è stato individuato una via comune verso una graduale riforma delle politiche sulle droghe.

L’obiettivo a breve termine non è il cambio delle convenzioni internazionali, ma una maggiore "flessibilità" nell’applicarle, considerato che - si legge nel rapporto sulle conferenze - "la loro inflessibile applicazione ha comportato che una proporzione significativa dei detenuti nelle carceri dei vari paesi sia costituita da consumatori di droghe". Se la proposta politica è cauta, chiarissima è la denuncia della criminalizzazione indotta dal regime globale proibizionista. Inoltre si chiede il riequilibrio fra la "riduzione dell’offerta" e quella della domanda: in pratica, meno repressione e più investimenti in prestazioni socio- sanitarie. Altre organizzazioni, come Idpc (International Drug Policy Consortium, di cui fa parte Forum Droghe) denunciano la violazione dei diritti umani perpetrata da molti paesi nel proclamato intento di adempiere gli obblighi previsti dalle Convenzioni: basti pensare alla Cim che in vista delle Olimpiadi ha annunciato di voler rinchiudere un milione di consumatori in centri di disintossicazione coatta, mentre la Thailandia ha intenzione di riscatenare la guerra alla droga che nel 2003 portò all’uccisione senza processo di oltre tremila persone.

Il trend riformista è presente anche nel documento che l’Ue, sorto la presidenza della Slovenia, presenta alla Cnd. È una pressione congiunta che neppure gli organismi Onu possono ignorare del tutto, come si evince dalla lettura del Rapporto 2007 dello Incb (International Narcotic Control Board). Quest’anno per la prima volta lo Incb - tradizionalmente proibizionista al punto da bacchettare paesi cautamente riformisti come la Svizzera, la Germania o addirittura il Regno Unito -, invoca più moderazione verso i reati minori (come il consumo), in nome del principio di "proporzionalità" fra reato e pene, e sembra attenuare la consueta resistenza alla riduzione del danno.

Solo che le buone intenzioni rimangono sulla carta: il Rapporto condanna la Bolivia perché non persegue l’uso tradizionale della foglia di coca (e tace sui paesi che applicano la pena di morte); chiede di chiudere le stanze del consumo (e tace sulla richiesta dell’Oms di distribuire siringhe pulite in carcere). Il confronto comunque è aperto, ed è un bel passo avanti rispetto alle stanche celebrazioni cui siamo abituati.

Nigeria: Onu; nelle carceri la tortura è una pratica sistematica

 

Associated Press, 11 marzo 2008

 

La polizia della Nigeria si sta macchiando di torture diffuse e sistematiche durante gli interrogatori e nelle celle dei penitenziari. Lo ha denunciato Manfred Nowak, investigatore capo dell’Agenzia delle Nazioni Unite sulle torture.

Nowak ha sottolineato che i nigeriani in custodia di polizia sono spesso frustati, picchiati con bastoni e machete, appesi al soffitto. "Le condizioni di detenzione nelle celle di polizia visitate erano raccapriccianti", ha dichiarato Nowak al Consiglio per i diritti umani dell’Onu, formato da quarantasette Paesi.

Le celle erano in maggior parte poco igieniche e sovraffollate, con detenuti costretti a dormire in terra e spesso con poco cibo e poca acqua a disposizione. La missione Onu in Nigeria non ha voluto commentare. Nowak ha visitato il Paese africano nel marzo dello scorso anno quando ispezionò carceri, ebbe colloqui con i detenuti e parlò alle autorità e ai gruppi per la tutela dei diritti umani locali.

Ha osservato che le autorità stanno ammassando troppi detenuti nei centri destinati alla custodia cautelare. Il carcere di Port Harcourt, ad esempio, ha una capienza di circa 800 detenuti ma ne ospitava 2.420 all’epoca della visita dell’investigatore capo. Alcuni aspettano un processo da dieci anni, ha ricordato Nowak. La loro attesa è spesso contrassegnata dalla tortura, "parte intrinseca" del sistema di polizia nigeriano. "Questo inaccettabile stato di cose deve finire", ha aggiunto nel suo rapporto di 27 pagine.

 

 

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