Rassegna stampa 9 maggio

 

Giustizia: stop agli sconti di pena per violenze, rapine e droga

di Mario Coffaro

 

Il Messaggero, 9 maggio 2008

 

Già nel primo Consiglio dei Ministri di Napoli il governo Berlusconi affronterà i problemi della giustizia. Con una serie di norme (un Decreto Legge e uno o più Disegni di Legge) di diritto sostanziale, processuale, e norme speciali.

"Sarà un intervento serio", assicura l’onorevole Nicolò Ghedini. I provvedimenti conterranno modifiche al Codice penale e al Codice di procedura. Incideranno anche sull’Ordinamento penitenziario e soprattutto sulla certezza della pena. Per stupri, rapine e droga non ci saranno sconti. I condannati non avranno più permessi, né altri benefici dalla legge Gozzini.

Altra priorità è quella sulle intercettazioni telefoniche. Già l’ex ministro Mastella aveva provato a impedire la pubblicazione prima del dibattimento di intercettazioni e di conversazioni di non indagati ed estranei. Ma il ddl si è arenato per le divisioni del centro sinistra al Senato. Ora la maggioranza del governo Berlusconi è compatta al suo interno e la riforma è alle porte. Come? La magistratura manterrà il potere di intercettare nelle indagini per i reati di più grave allarme: come malia, terrorismo, traffico di droga, pedofilia, sequestri di persona. Ma saranno ridotti i poteri dei singoli pm di intercettare a cascata tutti i telefonini che hanno avuto un contatto con il primo, con il secondo e così via. Questo ha generato nel 2005 una spesa di oltre 300 milioni di euro per più di 100.000 contatti. Negli Stati Uniti, dove vivono quasi 300 milioni di persone, 6 volte l’Italia, nello stesso anno le intercettazioni furono 1.773.

Un altro punto prioritario è quello della separazione delle funzioni tra pm e giudici come l’aveva prevista l’ex ministro Castelli. Ma Berlusconi non vuole riproporre scontri con la magistratura. Il governo sceglie il confronto, con avvocati e magistrati. Poi decide. Gli avvocati chiedono di separare le carriere di pm e giudici per avere un giudice terzo, come previsto dalla Costituzione e una sezione disciplinare esterna al Csm. Una riforma quella dell’Alta Corte di disciplina su cui anche l’Anni è disposta al dialogo.

Giustizia: accordo Alfano-Maroni per "stretta" sugli immigrati

di Liana Milella

 

La Repubblica, 9 maggio 2008

 

Il neo Guardasigilli cerca la sua legittimazione salendo riservatamente al Quirinale e restando per una mezz’ora a colloquio privato con Napolitano. Il nuovo ministro dell’Interno, che sul Viminale ha già comandato per sette mesi nel ‘94, pranza rilassato con Bossi alla Camera e poi vola a Milano per godersi la partita Padania-Tibet. Ecco la coppia della giustizia e della sicurezza.

Angelino Alfano, la sorpresa del governo, promette "la pacificazione delle toghe" e vanta nel curriculum "doti straordinarie di mediatore". Roberto Maroni viene benedetto dal Senatùr come "una garanzia di sicurezza per i cittadini". Tra una settimana gestiranno assieme il primo provvedimento impegnativo del Berlusconi quater. Un decreto legge sulla sicurezza che il premier lancerà nel primo Consiglio dei Ministri da Napoli.

Sarà proprio un Decreto, "sennò la gente ci manda subito a casa", per rendere più pesanti le pene per minacce, furti e rapine, irrigidire i benefici penitenziari, espellere alla svelta i clandestini, sfruttare il processo per direttissima per i reati gravi. Su come fronteggiare l’arrivo degli extracomunitari per mare c’è un ventaglio di ipotesi, tutte durissime, mancano l’ultima parola di Maroni e il visto del Quirinale. Il ministro dell’Interno è avaro di dettagli, ma promette "dialogo col l’opposizione" e descrive un’Italia in cui "c’è una sensazione diffusa di grande insicurezza anche se l’Istat dice che è il Paese più sicuro d’Europa".

Uno del Sud (Alfano è nato ad Agrigento), l’altro del Nord (Maroni è di Varese). Il primo dovrà vedersela con le toghe. Il secondo potrà contare sulla polizia con cui, 14 anni fa, ebbe un ottimo rapporto. Maroni mise il naso nei dossier del Sisde, dialogò coi giudici, s’incontrò spesso con Gian Carlo Caselli, s’oppose al decreto salva-ladri, minacciando le dimissioni.

Strada spianata, dunque. Per Alfano l’antipasto è già agrodolce. Passa tutta la giornata nella sua stanza al primo piano di via del Plebiscito, a un passo da Berlusconi. Il forzista Carlo Vizzini lo benedice ("Ha cultura giuridica, in Sicilia si è mosso bene"). Un viatico promettente glielo assicura il presidente dell’Anm, il Gip milanese Simone Luerti: "Che sia giovane e laureato all’università Cattolica come me è una buona premessa di dialogo e collaborazione futura, gli auguro buon lavoro perché il compito è arduo e spero, com’è tradizione dell’Anm, d’incontrarlo presto".

In compenso lo stronca l’ex Pm e leader dell’Idv Antonio Di Pietro: "Berlusconi vuole fare anche il Guardasigilli e per questo ha messo a via Arenula un suo dipendente politico. È come affidare a Dracula il centro di trasfusione di un ospedale. Più che far funzionare la giustizia questo governo vuole definitivamente isolare e sterilizzare l’azione della magistratura". Un’analisi che fa il paio con chi tra le toghe, ma con garanzie d’anonimato, liquida via Alfano: "È un foglio bianco, ma reca un timbro molto netto". O ancora: "Si capirà presto se è un politico di razza, o che razza di politico è".

Ma dal Csm il Vicepresidente Nicola Mancino gli assicura "leale collaborazione nel superiore interesse della giustizia" e una toga d’esperienza come Giuseppe Maria Berruti gli dà un benvenuto positivo: "Un ministro giovane, figlio di una terra che soffre la debolezza della giustizia, fa ben sperare. Mi auguro che non si parta dai cosiddetti "problemi della giustizia", ma da quelli che i giudici debbono risolvere col loro lavoro. Occorrono processi seri e magistrati presi sul serio".

Giustizia: l'Osapp promuove la nomina di Alfano alla Giustizia

 

Vita, 9 maggio 2008

 

"Congratulazioni" al nuovo ministro della Giustizia Angelino Alfano, "una personalità nuova, che arriva in un momento di grave emergenza, soprattutto sul fronte delle carceri, e dove vi è la necessità di misure eccezionali, anche impopolari, per ripristinare sicurezza e legalità. E per restituire dignità professionale ad un corpo di polizia penitenziaria vituperato da troppo tempo". Lo afferma il segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma di Polizia penitenziaria (Osapp) Leo Benedici, che auspica "che il nuovo titolare affronti con risoluzione una partita non di facile approccio, senza dar troppo peso agli innumerevoli suggerimenti, o alle tante pressioni delle forze di potere in campo".

Giustizia: giovani avvocati; governo faccia riforme organiche

 

Asca, 9 maggio 2008

 

L’Associazione Italiana Giovani Avvocati auspica che, "ora che la situazione politica italiana sembra uscita da una lunga fase di instabilità ", "finalmente si apra una stagione di seria riflessione sulla crisi della giustizia in Italia e si pervenga ad una ridefinizione del sistema con interventi organici e coordinati". "Dobbiamo abbandonare la logica dell’emergenza - dice il presidente dei giovani avvocati, Valter Militi- e favorire il coinvolgimento dei diversi soggetti della giurisdizione nella elaborazione di un armonico progetto di riforma della Giustizia in cui avvocati, magistrati e personale dell’amministrazione giudiziaria siano richiamati all’etica della responsabilità". L’esigenza di "contrastare la criminalità e garantire la certezza della pena non può prescindere dal rispetto di garanzie che non sono affatto formali", avvertono i giovani avvocati, che chiedono che "qualsiasi modifica agli attuali sistemi processuali" sia "compiuta nell’ambito di un disegno complessivo".

Giustizia: la paura dei crimini... che aumenta sotto le elezioni

di Mariuccia Ciotta

 

Il Manifesto, 9 maggio 2008

 

Chi ha perso le elezioni non era radicato nel "territorio", non sapeva "ascoltare" i bisogni della gente e ha sottovalutato il problema "sicurezza". Le parole-tormentone del dopo-elezioni si specchiano oggi nei dati Istat sull’Italia degli ultimi anni contenuti nel volume 100 statistiche per il Paese. Indicatori per conoscere e valutare. L’immagine riflessa più che una "mucillagine" è quella di un disastro nazionale prodotto dalla complicità colpevole tra istituzioni, media e cittadini.

Tre voci ci dicono tutto: crimini, cultura e motori. "In Italia diminuiscono gli omicidi, ma gli italiani hanno più paura". Dai 13 per milione di abitanti del 2000, infatti, sono passati ai 10,3 del 2005, sotto la media europea (14). Siamo, perciò, uno dei paesi europei più sicuri. Ma se gli omicidi in discesa suggeriscono che le aggressioni in generale sono diminuite (i "feriti", come in guerra, sono proporzionali ai morti), la sirena dell’allarme mediatico e politico ci ha stordito e ha portato la sinistra a una rincorsa dei metodi repressivi della destra, che aveva tutto l’interesse a disegnare un paese invaso dagli straccioni assetati di "dolce vita".

Qualcosa di vero, però, c’è. La percezione di pericolo non è proprio un abbaglio, solo che va dislocata altrove. Nella disintegrazione della sensibilità comune, nella perdita della bellezza sociale e mentale "made in Italy". Della cultura, che non coincide esattamente con i successi scolastici, anche se - ed è il secondo dato Istat - l’Italia spende meno per l’istruzione della media europea, e il titolo di studio più elevato del 48% degli italiani è la licenza di scuola media inferiore, molto distante da quello della Ue, 30%, il che ci colloca nelle ultime posizioni.

Il bullismo degenere, adolescente e adulto, ha i suoi modelli nella visione del mondo teletrasmessa ogni pomeriggio, nel linguaggio dei politici, nell’idea di potere, di spettacolarizzazione del dissenso, che non si distingue più dal conformismo, ne ha assunto le stesse modalità espressive. E di tutto questo, di questa Italia ai minimi storici di sé, la destra vuol fare tesoro, alimentare l’autarchia contro il relativismo culturale, che vuol dire apertura planetaria, conoscenza di gusti e di piaceri in transito.

Abbiamo imparato ad aver paura dell’altro mentre è da noi stessi che dovremmo guardarci. Di un’Italia che cova i suoi mostri, e che esibisce il suo unico primato: siamo tra i più motorizzati del mondo. Superiamo del 26% la media europea. Sgommiamo sulle strade allegramente, conosciamo l’arte del sorpasso e non ci fermiamo mai sulle strisce pedonali. Sbricioliamo passanti? E che importa. Abbiamo vinto le elezioni.

Giustizia: Napolitano; basta con "tribune" per gli ex terroristi

 

Adnkronos, 9 maggio 2008

 

Nessun "diritto di tribuna" per i protagonisti e i cattivi maestri del terrorismo. È un "no" fermo e deciso, oltreché venato da una autentica commozione, quello che esprime il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano(nella foto), celebrando al Quirinale il "Giorno della Memoria" dedicato a tutte le vittime delle stragi e del terrorismo, a partire da Aldo Moro, alla presenza di tutte le massime autorità istituzionali.

"Lo Stato democratico, il suo sistema penale e penitenziario, si è mostrato in tutti i casi generoso: ma dei benefici ottenuti, gli ex terroristi non avrebbero dovuto avvalersi per cercare tribune da cui esibirsi, per dare le loro versioni dei fatti, per tentare ancora subdole giustificazioni - afferma con forza il capo dello Stato - no, non dovrebbero esserci tribune per simili figuri". Anche perché: "Non pochi tra i responsabili delle azioni terroristiche sono rimasti reticenti, anche in sede giudiziaria - osserva Napolitano - e sul piano politico hanno ammesso errori e preso atto della sconfitta del loro disegno, ma non riconoscendo esplicitamente l’ingiustificabile figura criminale dell’attacco terroristico allo Stato e ai suoi rappresentanti e servitori".

Invece "si doveva e si deve dar voce non a chi ha scatenato la violenza terroristica ma a chi l’ha subita, a chi ne ha avuto la vita spezzata, ai familiari delle vittime e anche a quanti sono stati colpiti, sopravvivendo ma restando per sempre invalidati". 30 anni fa, colpendo a morte Aldo Moro, le Brigate rosse "non scelsero un obiettivo simbolico ma decisero di colpire il perno principale del sistema politico e istituzionale, su cui poggiava la democrazia repubblicana". "La prova contro il terrorismo è stata ardua, terribilmente dolorosa; ma non può considerarsi del tutto conclusa o conclusa una volta per tutte". Napolitano ricorda, infatti, che "abbiamo visto negli ultimi anni il riaffiorare del terrorismo, attraverso la stessa sigla delle Br, nella stessa aberrante logica, su scala ben più ridotta ma pur sempre a prezzo di nuovi lutti e di nuove tensioni. Si hanno ancora segni di reviviscenza del più datato e rozzo ideologismo comunista e vediamo nel contempo segni di reviviscenza addirittura di un ideologismo e simbolismo neonazista"

A tal proposito, il presidente della Repubblica esorta a "saper cogliere il dato che accomuna fenomeni pur diversi e opposti: il dato della intolleranza e della violenza politica, dell’esercizio arbitrario della forza, del ricorso all’azione criminale per colpire il nemico e non meno brutalmente il diverso, per sfidare lo Stato democratico".

Occorre, per Napolitano, "opporre a questo pericoloso fermentare di rigurgiti terroristici, la cultura della convivenza pacifica, della tolleranza politica, culturale, religiosa; la cultura delle regole democratiche, dei principi, dei diritti e dei doveri sanciti dalla Costituzione repubblicana". E, al tempo stesso, "occorre ribadire e rafforzare senza ambiguità un limite assoluto, da non oltrepassare qualunque motivazione si possa invocare: il limite del rispetto della legalità, non essendo tollerabile e, anche muovendo da iniziative di libero dissenso e di contestazione, si varchi il confine che le separa da un illegalismo sistematico e aggressivo".

"Non si possono sfogliare quelle pagine, senza avvertire una profonda commozione e un profondo sgomento", ha detto ancora Napolitano con la voce rotta più volte da un’autentica commozione e con le lacrime trattenute a stento, in un Salone dei Corazzieri gremito da tanti familiari, che alla fine tributano un calorosissimo applauso di riconoscenza nei confronti del capo dello Stato.

In platea, presenti tutti i vertici delle istituzioni, come delle Forze Armate e dell’ordine. In prima fila, il presidente del Senato Renato Schifani, il presidente della Camera Gianfranco Fini, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, i ministri dell’Interno Roberto Maroni, della Difesa Ignazio La Russa, della Giustizia Angelo Alfano, dell’Economia Giulio Tremonti e gli ex titolari dei dicasteri Giuliano Amato, Arturo Parisi, Luigi Scotti, Piero Fassino, Giuseppe Pisanu, oltre a esponenti politici come Walter Veltroni, Pier Ferdinando Casini, Maurizio Gasparri, Fabrizio Cicchitto, Luciano Violante, Rosy Bindi, Rocco Buttiglione, nonché il sindaco di Roma Gianni Alemanno, il vicepresidente della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick e il presidente emerito della Consulta Giuliano Vassalli.

Giustizia: in Italia 60 mila vigili, per una sicurezza "fai-da-te"

di Marco Ludovico

 

Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2008

 

Più sicurezza con la polizia locale. Ma come? La pressione dei sindaci ogni giorno è più alta. Le ricette però sono fin troppo varie, alcune al limite del legittimo. Manganelli, spray al peperoncino, perfino vigili con pitbull al guinzaglio: è il fai-da-te della sicurezza nei Comuni. Che si appoggia sui 60mila vigili presenti in tutta Italia. Un mondo da scoprire, pieno di contraddizioni. Con punte di eccellenza e situazioni di degrado.

Stipendi non sempre uguali. I ghisa - in gergo - milanesi, per esempio, stanno molto meglio dei pizzardoni romani. Fanno corsi di aggiornamento alla Bocconi. Hanno più soldi: la legge regionale sulla sicurezza varata da Formigoni tre anni fa stanziò 10 milioni di euro; quella di Storace per il Lazio, due milioni. Mentre i poliziotti o i carabinieri, a Cuneo come ad Agrigento, hanno lo stesso stipendio, non è così per gli agenti locali: i fortunati stanno nelle regioni a statuto speciale e hanno in busta paga l’80% dell’indennità riconosciuta alle forze di polizia; nella gran parte del resto d’Italia si riduce al 20%. L’inquadramento è nel comparto enti locali, lo stipendio netto iniziale pari a 1.300 euro. Un lavoro diviso in turni, nelle grandi città distribuiti su 24 ore.

Stranezze delle norme. Berlusconi si è impegnato, con una lettera del l’aprile all’Ospol - sindacato di categoria - a sottolineare "l’urgenza della riforma della legge sulla polizia locale". Conferma Alfredo Mantovano (Pdl): "La riforma è necessaria per dare copertura giuridica completa alla polizia municipale, che ormai opera su molti set’tori, come la lotta all’abusivismo e alla contraffazione". Fa notare Claudio Giardullo (Silp Cgil): "Le richieste dei sindaci sono un dato di fatto. Ma occorre calibrare l’efficacia degli interventi.

Per tutelare davvero gli operatori della polizia locale, che già oggi mettono a rischio la loro incolumità e non hanno né le risorse, né la formazione e neanche la rete informativa delle forze dell’ordine".

A tutt’oggi, la norma di riferimento è la legge quadro n. 65 del 1986, emanata su ispirazione di Francesco Andreotti: comandante storico dei vigili a Roma e fratello maggiore di Giulio. Quelle disposizioni danno alla polizia locale molti poteri, spesso però difficili da applicare. I vigili hanno sì funzioni di polizia giudiziaria, stradale e di pubblica sicurezza.

Ma non possono esercitarle al di fuori dell’orario e del luogo di servizio, a differenza di un poliziotto o un carabiniere. Con il risultato che qualche vigile, per essere stato troppo zelante, ha rischiato il posto di lavoro.

"Un’assurdità normativa che ci mortifica" osserva Luigi Marucci (Ospol) "così come non abbiamo, nei casi tragici che purtroppo accadono, gli istituti di previdenza, assistenza e di assicurazione previsti per le forze di polizia. Però ci chiedono più sicurezza", Non mancano i cavilli burocratici: gli sfollagente sono previsti solo per le forze dell’ordine; ai vigili è consentito il "bastone distanziometro": più corto, ma si allunga e fa male lo stesso.

Compiti infiniti. Le funzioni assegnate alla polizia locale in realtà sono una lista lunghissima: amministrativa, urbana, rurale, commerciale, sanitaria, edilizia, demaniale, metrica, tributaria, veterinaria, ambientale, mortuaria, annonaria. Però adesso la richiesta è una sola, più sicurezza. Senza tanti voli pindarici il modello in realtà è già pronto: si chiama vigile di quartiere. A Milano è già in funzione.

Su scala nazionale fu proposto dalla Casa delle libertà nel 2001, ma poi il Cavaliere lanciò poliziotto e carabiniere di quartiere e oggi nel programma del Pdl si parla solo di loro. Eppure il vigile di quartiere potrebbe essere la quadratura del cerchio: costa molto meno dell’idea di mettere Polizia di Stato e Arma a passeggiare nelle strade. Senza contare che, oggi, le forze dell’ordine soffrono già una carenza di organico di 21.700 unità.

Affollamento di divise. Per fare chiarezza, va detto che in Italia ci sono intanto cinque forze di polizia: due a competenza generale (Arma dei Carabinieri e Polizia di Stato) più la Guardia di Finanza, il Corpo forestale dello Stato e la Polizia Penitenziaria. Poi c’è la Polizia Locale, di solito distinta in comunale e provinciale. I vigili (le "guardie" le chiamava il codice Rocco) oggi però devono fare i conti anche con gli ausiliari. A Roma ce ne sono cinque tipi: per le strisce blu dei parcheggi a pagamenti; per le soste vicino ai cassonetti della nettezza urbana; per chi viaggia sulle corsie preferenziali; a sorveglianza di parchi e giardini; più altri ausiliari ex dipendenti del Comune in mobilità. Col paradosso che, nonostante questa pletora di operatori, le mamme con i passeggini sanno bene quanto sia difficile attraversare la strada: le auto parcheggiano spesso impunemente sulle strisce pedonali, la gimcana è d’obbligo.

Mille pistole in magazzino. Le norme prevedono la dotazione di un’arma per i poliziotti locali. Ma sono i consigli comunali a stabilirlo e, spesso, diventa una questione infinita. Le conseguenze, a volte, sono surreali. Come nella capitale, dove nel magazzino del Comando generale del vigili, in via della Consolazione 4, giacciono imballate un migliaio di pistole Beretta. Ordinate un anno fa, ma ancora in attesa di essere assegnate.

Giustizia: Radicali; accertamenti su morte di detenuta incinta

 

Apcom, 9 maggio 2008

 

L’Associazione Antigone ha denunciato oggi la morte in circostanze non chiare in carcere di una donna al sesto mese di gravidanza. La donna, che sarebbe giunta all’ospedale ormai in coma e con il bambino morto in grembo, era straniera e appena giunta in Italia aveva confessato al magistrato di aver ingerito alcuni ovuli di cocaina.

"Ci chiediamo - affermano i senatori Donatella Poretti e Marco Perduca parlamentari radicali eletti per il Partito Democratico - come sia possibile mandare in carcere una donna al sesto mese di gravidanza, per lo più se si è a conoscenza di fatti che indichino potenziali problemi di salute anche gravissimi".

"C’è stata almeno una visita medica approfondita prima dell’incarcerazione? Non è stato violato in questo caso l’art. 275 cpp che prevede il divieto di carcerazione preventiva, se non in casi di eccezionale rilevanza?", chiedono i due deputati. "Già la prossima settimana - annunciano di due senatori - presenteremo una interrogazione ai ministeri della Giustizia e del Welfare e Salute per chiedere che vengano accertate eventuali responsabilità. Una tale tragedia era e doveva essere prevenuta. Ed il fatto che non lo sia stata, ci impone di riflettere anche sul modo in cui il nostro sistema giudiziario e penitenziario si fa carico delle donne in gravidanza".

Sassari: Caligaris (Psi); un detenuto tunisino rischia di morire

 

Ansa, 9 maggio 2008

 

Le condizioni di salute di Jadaida Mustapha Ben Mohamed sono incompatibili con la permanenza in carcere. È urgente che il giovane tunisino di 28 anni detenuto al San Sebastiano di Sassari, sia curato in una struttura adeguata altrimenti rischia la vita. La denuncia è della consigliera regionale socialista Maria Grazia Caligaris (Partito Socialista), componente della commissione Diritti Civili.

Si tratta di un caso umano che richiede un immediato intervento da parte dell’autorità giudiziaria - incalza Caligaris - Il giovane, che nei mesi scorsi ha attuato lo sciopero della fame in quanto si ritiene vittima di ingiustizia, ha perso circa 15 chili e ormai non riesce più ad alimentarsi. Le condizioni fisiche non gli hanno consentito neppure di presenziare a un’udienza. È quindi indispensabile e urgente il ricovero. La situazione del giovane tunisino - conclude l’esponente socialista - richiama all’attenzione delle istituzioni le condizioni di numerosi detenuti ammalati nelle carceri isolane e sulla necessità di garantire il dettato della Costituzione e il rispetto della legge sull’ordinamento penitenziario.

Orvieto: Sappe denuncia; detenuti stranieri minacciano agenti

 

Ansa, 9 maggio 2008

 

Detenuti extracomunitari in rivolta, al carcere di Orvieto, minacciano di morte i poliziotti. Ne dà notizia il sindacato di Polizia Penitenziaria Sappe che, per gli episodi, chiede ufficialmente la rimozione del direttore della Casa di Reclusione, Giuseppe Donato.

A Donato, da 25 anni alla guida del carcere di via Roma, viene rimproverato con forza di non aver saputo fronteggiare i gravi tumulti che si sono verificati in queste settimane dietro le sbarre orvietane e di non aver tutelato la polizia penitenziaria. È il segretario generale del Sappe, Donato Capece, in data 7 maggio, ad aver inviato una lettera ufficiale al capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e alle altre autorità responsabili nel settore per chiedere con la massima urgenza un’ispezione per far luce su questi episodi e su altri fatti analoghi "che da anni - afferma Capece - vengono denunciati in quella struttura penitenziaria".

"Negli ultimi giorni - spiega nella lettera il dirigente sindacale - sono accaduti fatti allarmanti. Alcuni detenuti extracomunitari avrebbero aggredito e minacciato il personale di polizia mettendo anche in atto manifestazioni di protesta che hanno destabilizzato l’ordine e la sicurezza dell’istituto, nonostante ciò, la direzione del carcere non avrebbe assunto alcuna decisione fino a quando, alcune notti orsono, si è resa necessaria la presenza di molte unità di polizia, del comandante di reparto e dello stesso direttore per sedare un’altra manifestazione di protesta nel corso della quale alcuni agenti sono stati minacciati di morte dai detenuti che, in quel frangente, erano addirittura armati di lamette da barba". Per Capece è altresì "assolutamente incomprensibile il fatto che il direttore del carcere - dice - oltre a non aver proceduto ad assumere provvedimenti disciplinari, avrebbe addirittura concesso ai detenuti che manifestavano un sussidio di cinquanta euro ciascuno".

Verona: volontari da 40 anni, ma società rifiuta gli ex detenuti

 

L’Arena di Verona, 9 maggio 2008

 

Il problema dell’emarginazione del carcere inizia nel momento in cui i detenuti mettono piede fuori e tornano nella quotidianità, in una società che non li accetta. Questo è uno dei problemi che affligge il mondo di chi sta dietro le sbarre e su cui vuole porre l’attenzione l’associazione La Fraternità, che quest’anno festeggia i 40 anni dalla fondazione e che ieri pomeriggio, nella sala conferenze della Banca Popolare, ha fatto il punto sui quattro decenni di attività durante la Tavola rotonda, moderata dalla giornalista Marina Zerman.

Seduti a raccontare "l’operato di chi segue i detenuti, le loro storie, i loro tormenti e cerca di aprire loro un orizzonte senza sbarre", alcuni dei protagonisti di questi anni. Come fra Beppe Prioli, fondatore de La Fraternità, don Sergio Pighi e Giuseppe Malizia, ex cappellani del carcere, Mariano Alviggi, magistrato di sorveglianza nel primo periodo della riforma giudiziaria degli anni Settanta.

"A quel tempo, ad affollare le carceri della Bangkok d’Italia erano più che altro i tossicodipendenti", dice Roberto Sandrini, presidente de La Fraternità. "Oggi, il problema è che la società non è in grado di accogliere gli ex detenuti. Non riconosce che sono persone che dovrebbero potersi rifare una vita", prosegue Sandrini che sottolinea come il periodo in carcere sia totalmente inadeguato a preparare i detenuti ad affrontare il futuro. "Il carcere così funziona poco. I recidivi rappresentano il 70 per cento dei detenuti". Un’altra questione su cui l’associazione focalizza l’attenzione è il problema del sovraffollamento, che ha ormai raggiunto cifre precedenti all’indulto.

Tra gli obiettivi dell’associazione, la priorità ora si chiama Centro d’ascolto. Approvato già dal ‘95 come progetto, la costruzione del centro è rimasta incagliata per questioni amministrative e istituzionali. "In attesa di realizzare il Centro d’ascolto fuori il carcere di Montorio, ne stiamo allestendo uno nella nostra sede. Sarà utile per le persone una volta uscite dal carcere e soprattutto per i familiari, anche se essendo decentrato perderà parte della sua efficacia", spiega Sandrini.

Torino: 10 scrittori, dalla Fiera del libro al carcere di Saluzzo

di Monia Cappuccini

 

Liberazione, 9 maggio 2008

 

Torino volta pagina. Non solo perché ieri al Salone del libro è filato tutto liscio per la visita del presidente Napolitano e si è tirato un sospiro di sollievo dopo giorni di polemiche e allarmi. Ma anche perché Voltapagina è il nome di una iniziativa che da ieri a domenica porterà dieci scrittori nel carcere di Saluzzo.

Un titolo scelto dai detenuti stessi, un esperimento, al suo secondo anno di prova, per portare dentro il mondo di fuori, che ieri ha trasformato questo appuntamento in una sorta di altra inaugurazione. A varcare per primi il portone della casa di reclusione Rodolfo Morandi sono due giovani scrittori torinesi, entrambi esordienti: Fabio Geda finalista lo scorso anno al Premio Strega con "Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani" (Instar edizioni) e Paolo Giordano, autore de "La solitudine dei numeri primi" (Mondadori), da qualche tempo in vetta alle classifiche dei libri più venduti in Italia.

Al parcheggio del Lingotto - insieme al moderatore Maurizio Crosetti di Repubblica -, ci attende una macchina di ordinanza. Saluzzo è a circa 70 km da Torino, in provincia di Cuneo, per raggiungerla ci vuole un’oretta di viaggio, giusto il tempo per fare conoscenza.

Fabio Geda ha 36 anni, padre torinese madre palermitana, è laureato in Scienze della comunicazione, da dieci anni lavora come educatore in una comunità alloggio per i minori a rischio. Ragazzi come Emil, il 13enne romeno innamorato di Tex Willer protagonista del suo romanzo. "Nessun riferimento reale, a parte le prime dieci righe, il resto è tutta fantasia", tiene a precisare. Paolo Giordano invece di anni ne ha 25. Abita in un comune limitrofo e si definisce "torinese di confine", nella vita fa il fisico. "Non mi aspettavo che il mio libro prendesse questa piega. Per ora mi tengo in equilibrio e sono curioso di vedere come va a finire".

Come quello di Geda, anche il suo romanzo racconta di due bambini, Mattia e Alice, una storia dolorosa alle spalle. "Diciamocelo, il ragazzino tira" confessano scherzando. Il viaggio prosegue senza intoppi. Paolo Giordano è contento e un po’ teso dell’incontro: "Non mi sono mai avvicinato a un carcere e non so cosa aspettarmi. Sono luoghi tenuti fuori dalla nostra conoscenza, a parte la tv o Hollywood". Fabio Geda appare più rilassato. "Con il lavoro che faccio, mi capita spesso di accompagnare i ragazzi ai colloqui con i genitori. Una volta poi sono stato invitato a Le Vallette per parlare di libertà. Mi chiesero un autore e ho scelto John Krakauer, che è anche alpinista".

Il carcere di Saluzzo si staglia in lontananza, una struttura composta da due edifici, una a quattro piani per i detenuti, l’altra più bassa per chi lavora lì dentro. Abilitato per 150 detenuti, in realtà ne ospita 380. Molti sono extracomunitari, rumeni e albanesi in percentuali crescente e proporzionale al calo della popolazione italiana. Scontano pene che vanno dai tre anni in su, principalmente omicidi, e c’è anche una sezione di Alta Sicurezza per i reati associativi.

L’ingresso al passeggio - il cortile per l’ora d’aria dove si tiene l’incontro - è accompagnato da musica ad alto volume. La tensione si scioglie, complice l’assenza di vento e il sole che tiranneggia sopra questo quadrato di cemento. Ad aspettarci una ventina di studenti delle scuole superiori, una trentina di detenuti seduti e scalpitanti, mentre degli assenti percepiamo le voci e qualche schiamazzo dalle celle dell’edificio sovrastante.

Per accogliere Fabio Geda e Paolo Giordano, i detenuti hanno organizzato dei gruppi di lettura e sono preparati al punto da mettere ogni tanto in difficoltà i due autori. D’altronde qui la scrittura e la creatività sono esercizio di pensiero quotidiano: alcuni fanno parte di una compagnia teatrale, che si esibisce anche in teatri pubblici, altri - i più partecipi all’incontro - danno vita alla redazione di "Parole in libertà", la tv a circuito chiuso che gestiscono nel carcere. Un bell’impegno, mi spiegano due di loro, Raffaele e Marco. "La mattina ci aspetta la rassegna stampa, leggiamo i giornali, scegliamo le notizie e le rielaboriamo in video. Prepariamo due notiziari - alle 12 e alle 19 -, tradotti anche in lingua albanese e marocchina. La mattina mandiamo musica e speciali sugli artisti, verso le 9 un b-movie, a mezzogiorno il tg , il pomeriggio qualche documentario, poi di nuovo il tg e alla sera un film di prima visione". Hanno una telecamera e uno studio di registrazione a loro disposizione. "Una volta preparato il palinsesto riversiamo tutto su un dvd per mandarlo sul sul canale interno".

"Vi ringrazio per avermi strappato al Lingotto". A dare il via all’incontro è Paolo Giordano. Introduce il tema della bellezza, filo conduttore della Fiera. "È un tema azzeccato, solo non mi piace la Venere scelta per le locandine, la trovo un’immagine statica. La ricerca della bellezza passa per il dolore, in questa maniera quando la scopri non ti si stacca più". A rompere il ghiaccio delle domande è un detenuto sulla cinquantina. Ringrazia gli interlocutori, poi chiede il motivo di tanta crudezza nei loro romanzi. "Soprattutto il suo - dice a Giordano - non l’ho letto, mi sono bastate poche righe". L’ammissione strappa la prima risata agli astanti, fugato ogni imbarazzo, la distanza tra dentro e fuori almeno in questa ora sembra dimenticata. Quando una studentessa chiede a Fabio Geda quale sia il messaggio del suo romanzo, lui colto di sorpresa risponde candido: "Ma in realtà non volevo trasmetterne alcuno". Ci pensa un attimo, argomenta: "Un ragazzino in fuga da una brutta situazione e contemporaneamente alla ricerca di qualcos’altro. È un messaggio di speranza". "Ma allora perché dopo tanto peregrinare, ha liquidato l’incontro tra Emil e il nonno in poche righe?", incalza un’altra voce. "Perché i momenti straordinari della vita non sono per forza plateali". "Quanto pesano i sensi di colpa nei suoi personaggi?" - questa è per Giordano. "Molto, sono auto-inflitti e generano esclusione. Ne facciamo il pieno nell’infanzia e nell’adolescenza e poi arriva il momento di farci i conti". La domanda successiva dalle pagine dei romanzi finisce per introdurci ad altre sfere dell’emozione. "Perché non menzionate mai la tecnologia? - interviene un detenuto africano, riferendosi alla lettera che Mattia scrive ad Alice ne La solitudine dei numeri primi -Trattandosi di ragazzi, non poteva inviarle una mail?". "In effetti nel romanzo non c’è neanche un sms - constata Giordano -, ma solo gli scrittori navigati riescono a maneggiarli nella narrazione. La lettera ha un che di romantico, è scritta di pugno, passa nelle mani delle persone fino al destinatario. La mail è troppo fredda". La replica dello scrittore suscita a sua volta una approvazione che sa di testimonianza. "Per noi le lettere hanno quel valore là", interviene un detenuto. "È il modo con cui comunichiamo con l’esterno e ci trasmettono calore". L’ultima domanda spetta a un detenuto che rimprovera i due scrittori per il linguaggio che gli è sembrato volgare. "Veramente i miei ragazzi parlano pure peggio di così", si difende Geda. "Beh, anche qui non è che parliamo aulico", incalza qualcuno dalla platea.

L’appuntamento inaugurale di Voltapagina si chiude con una riflessione sui giovani di oggi, poi il tempo finisce. Noi torniamo al Lingotto, loro nelle loro celle. Fino alle 18 di stasera, quando le porte si riapriranno ancora per tre autori sardi, Flavio Soriga, Giovanni Maria Bellu e Annino Mele, detenuto proprio a Saluzzo che in questi giorni pubblica La sorgente delle pietre rosse (ed. Sensibili alle Foglie). Sabato sarà poi la volta di Giorgio Faletti e domenica gran finale con Carlo Lucarelli. Sperando di non dover aspettare un altro anno, prima che il mondo di fuori e quello di dentro si incontrino di nuovo grazie a un libro.

Immigrazione: per i comunitari reddito minimo, o espulsione

di Francesco Grignetti

 

La Stampa, 9 maggio 2008

 

Sono giorni che i leghisti insistono su questo tasto. C’è tornato sopra anche Umberto Bossi a chiusura del primissimo consiglio dei ministri di ieri. E non è un caso se Bobo Maroni, neoministro dell’Interno, vestito scuro e pochette verde, a sera si sia presentato al Viminale per un velocissimo cambio delle consegne. Un’ora di colloquio, prima con il suo predecessore Giuliano Amato, poi con il capo di gabinetto Gianni De Gennaro.

In testa, il ministro ha ben presente la priorità delle priorità del nuovo esecutivo: dimostrare agli italiani il pugno di ferro verso l’immigrazione clandestina. Ed ecco che annuncia "misure urgenti". Lascia capire che quanto prima ci sarà un Pacchetto Sicurezza. Già dalla settimana prossima si vedrà con i colleghi di Esteri, Difesa e Giustizia. Ci sarà un giro di vite, è evidente.

E si comincia con gli immigrati comunitari, i rom con passaporto rumeno: una delle idee è fissare una soglia minima di reddito da dimostrare all’atto di richiedere la cittadinanza. Secondo requisito annunciato, la rispondenza ai requisiti di abitabilità delle residenze indicate. Se non ci sarà l’uno e l’altra, e cioè non potendo più indicare una baracca o un ponte come proprio indirizzo, e dovendo dimostrare le fonti legali di reddito, i sindaci potranno negare il certificato di residenza al nuovo cittadino originario di un Paese Ue. Passo successivo, dopo novanta giorni di libero soggiorno, ma senza avere ottenuto la residenza, scatterebbe la possibilità di allontanamento coatto. Cioè di rimpatrio.

Questo prevedono le Direttive europee, questo non aveva voluto fare il precedente governo di centrosinistra (che aveva indicato tra i motivi di allontanamento solo il pericolo per la sicurezza e per l’ordine pubblico, non i motivi economici). Ma i leghisti, nel loro piccolo, e cioè con un’ordinanza del sindaco Massimo Bitonci di Cittadella (Padova), ora deputato a furor di Lega, ci avevano già provato a fissare i paletti per concedere la residenza. Bitonci si era ritrovato indagato, ma nel frattempo era diventato un’icona del Parlamento del Nord. Era poi insorta la ex maggioranza: Amato si era opposto e soprattutto la sinistra radicale aveva trovato immorale l’iniziativa.

Ma ora c’è un leghista al Viminale. E le strategie della Lega, partito politico attento al territorio, ripartono da qui. Maroni, ieri, al momento del giuramento, qualcosa ha fatto capire. Innanzitutto la sua grinta. "Sono felice - ha detto - di tornare al Viminale dove ho vissuto una breve ma intensa esperienza 14 anni fa. Un ministero solido e molto efficiente, dove troverò persone che ho già conosciuto e che hanno grandissima capacità e professionalità". Tra le persone che apprezza, si sa che ci sono De Gennaro e l’attuale capo della polizia, Manganelli. Ritrova poi il prefetto Angela Pria, che è stato suo capo di gabinetto nei cinque anni dei Welfare e che attualmente si occupa - guarda caso proprio di immigrazione.

I due problemi, sicurezza e immigrazione, secondo i leghisti sono legati indissolubilmente. Maneggiando l’una, si incide anche sull’altra. All’opposto, lasciando campo libero ai clandestini, si ottiene come risultato un gran senso di insicurezza. Pure a prescindere dai risultati concreti, quelli che certifica l’Istat. E infatti, se Maroni pure concede ad Amato di aver fatto qualcosa di buono, la sua accusa è di avere lasciato crescere il senso d’insicurezza proprio perché nulla di serio si faceva contro i clandestini. È da qui, quindi, che si riparte.

Aprendo nuovi Cpt e estendendo quelli attuali. Ricominciando con grandi numeri in espulsioni coatte. A Roma, ad esempio, dove l’attuale Cpt era stato ridimensionato in capienza, la prima richiesta nel nuovo sindaco, Gianni Alemanno, è di farlo funzionare a pieno regime. Il che è appunto quanto Maroni ha intenzione di fare.

Droghe: quasi ogni giovane in cura psichiatrica usa sostanze

 

Adnkronos, 9 maggio 2008

 

Droga e alcol "dinamite" nel cervello per i giovani italiani. Pericolosi compagni di vita che diventano la miccia per disturbi di personalità, schizofrenia e paranoie. A lanciare l’allarme sono gli esperti della Società Italiana di Psichiatria (Sip), riuniti oggi a Milano per un incontro sull’assistenza in Italia a 30 anni dalla legge Basaglia.

"Nelle grandi città i giovani che accedono ai servizi psichiatrici sono quasi tutti consumatori di sostanze a rischio dipendenza", spiega Mariano Bassi, presidente della società scientifica insieme ad Alberto Siracusano. Sotto accusa cocktail micidiali come l’abbinata "alcol e cocaina". Perché quando una mente fragile" incrocia queste sostanze, "il loro uso, e non necessariamente l’abuso - precisa Bassi - potenzia enormemente il problema, scatenando manifestazioni di rabbia, aggressività e perdita di controllo".

Episodi che possono sfociare in casi di cronaca nera. Maschio, precario e ancora in casa con mamma e papà. Questo l’identikit dell’italiano che presenta disturbi psichici associati all’uso, abuso o dipendenza da sostanze a rischio. A indagare l’emergenza comorbidità - così come la definiscono i medici - è uno studio condotto tra il 2005 e il 2006 dal Dipartimento di neuroscienze e tecnologie biomediche dell’università degli Studi di Milano Bicocca, su 28 Dipartimenti di salute mentale per un totale di oltre 86 mila pazienti con doppia diagnosi (problemi mentali e di droga o alcol). Il fenomeno risulta tre volte più diffuso fra gli uomini e i giovani (età media 40 anni per i maschi e 43 per le femmine). In genere si tratta di persone celibi, che raramente vivono in condizioni autonome (20%) o hanno figli (33%).

In tre casi su 4 questi pazienti hanno completato solo la scuola dell’obbligo, e appena il 25% conta su un lavoro stabile. E ancora, un terzo dei pazienti esaminati dallo studio milanese presenta disturbi al fegato; circa il 20% ha avuto guai con la giustizia, il 33% ha episodi di malattia psichiatrica in famiglia e il 18% precedenti familiari di disturbi da uso di sostanze a rischio. Il 41% del campione soffre di una dipendenza vera e propria e il 54% una sindrome da abuso. L’alcol sembra la sostanza più gettonata tra le persone che abbinano consumi pericolosi a disturbi mentali. Per lo più si tratta di problemi di personalità (37%), psicosi schizofreniche e stati paranoidi (30%), seguiti da psicosi affettive (16%) e disturbi nevrotici (9%). E in base alla malattia cambiano anche le preferenze: chi soffre di disturbi della personalità sceglie soprattutto cocaina, barbiturici o altri induttori del sonno, oltre alla cannabis, mentre quest’ultima prevale nettamente nella categoria dei pazienti affetti da una psicosi di tipo schizofrenico.

Il dato più preoccupante, segnalano gli psichiatri della Sip, è che "solo il 50% degli utenti in doppia diagnosi (problemi mentali e uso o abuso di sostanze a rischio) ha usufruito di un trattamento da parte dei servizi per le dipendenze - riflette Siracusano - Calcolando anche la quota del 9% inviato in una comunità terapeutica, risulta comunque che il 40% degli utenti non ha ricevuto alcun trattamento specialistico per l’uso di sostanze". Un’indagine su 707 centri di salute mentale italiani, realizzata tra il 2004 e il 2006 dal Centro studi e ricerche in psichiatria di Torino in collaborazione con la Sip, mostra inoltre delle lacune sul fronte prevenzione dei problemi psichici in generale. Anche per quelli non legati al consumo di sostanze pericolose. Se è vero che oggi da parte degli esperti è cresciuta l’attenzione alla diagnosi precoce, nell’universo dei programmi terapeutici attivati dalle strutture specializzate sono trascurati gli interventi sugli adolescenti a rischio (35%), la prevenzione dei suicidi (38%), il sostegno ai detenuti (24%) e a chi soffre di disturbi alimentari.

 

Problemi mentali per 2 milioni di italiani, il 25% in cura

 

Due milioni gli italiani con disturbi mentali, circa uno su quattro in trattamento per una psicosi, un disturbo dell’umore o per l’ansia. Sono i dati presentati ieri a Milano dagli esperti della Società italiana di psichiatria (Sip), in una conferenza dedicata al futuro della psichiatria a 30 anni dalla Legge Basaglia. I nuovi accessi ai servizi di salute mentale nel 2004 hanno superato i 234 mila casi. La fascia più colpita dai disturbi è quella dei giovani adulti tra i 18 e i 44 anni. Le donne in cura sono più degli uomini. La diagnosi più frequente, con quasi 120 mila casi, è quella relativa alla psicosi (29,14%) seguita dai disturbi dell’umore (25%) e dell’ansia (22,3%) (queste ultime due colpiscono quasi il doppio delle donne rispetto agli uomini). Nei nuovi accessi si dimezzano i disturbi dell’area psicotica, mentre aumentano i disturbi d’ansia.

Secondo i dati, relativi a 707 Centri di salute mentale italiani, i servizi meno presenti rimangono gli interventi sugli adolescenti a rischio (34,8%), la prevenzione dei suicidi (38,3%), il sostegno a detenuti (24,3%) e i servizi per i disturbi del comportamento alimentare. "La tutela della salute mentale nel nostro Paese richiede oggi idee chiare e azioni concrete", ha affermato Mario Maj, presidente dell’Associazione mondiale psichiatri (Wpa), secondo il quale sul fronte dell’assistenza psichiatrica l’Italia resta indietro rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea. Sia per quanto riguarda la diagnosi precoce e la terapia basata sulle evidenze di tutta la gamma dei disturbi alimentari non psicotici, sia sulla pratica delle psicoterapie e degli interventi psicosociali.

Droghe: Belgio; programmi per favorire le persone dipendenti

 

Fuoriluogo, 9 maggio 2008

 

In Belgio la politica sulle droghe ha raggiunto il suo pieno sviluppo a partire dalla metà degli anni ‘90. Nel 1997 il gruppo di lavoro parlamentare sulle droghe (1996-1997) formulava alcune raccomandazioni per combattere i problemi legati alle droghe. La prevenzione doveva venire prima del trattamento, e il trattamento prima della repressione.

Sulla base di quelle raccomandazioni, il governo belga ha adottato nel gennaio 2001 la "Nota del governo federale sul problema droga", in cui si indica l’importanza dell’interazione tra il sistema penale e il sistema trattamentale. Nel documento è sottolineata l’importanza del trattamento per i consumatori problematici (rispetto alla loro integrazione), al fine di giungere a una presa in carico individualizzata e continuata per chi ha commesso reati di droga. Seguendo questo approccio, è stata introdotta la figura del case manager giudiziario, con il compito di mettere in relazione il sistema giudiziario e il sistema trattamentale. Il case manager informa e assiste l’autorità giudiziaria sulle possibilità di trattamento per le persone che hanno commesso reati per droga e consiglia i clienti sulla opportunità e necessità di un trattamento. Nonostante queste intenzioni promettenti e la necessità di questa figura, il case manager non ha ancora trovato attuazione.

 

Le misure alternative e le sanzioni: cornice legale

 

Sono previste più alternative a tutti i livelli del procedimento penale per avviare al trattamento gli autori di reati correlati alle droghe. Ogni livello del sistema penale ha le sue sanzioni e misure che sono studiate per distoglierli dal crimine e dalle droghe.

A livello del procedimento penale, una delle alternative giudiziarie è la libertà condizionale. Il magistrato inquirente ritira le accuse se l’imputato accetta determinate condizioni. Se è stato commesso un reato di droga con una vittima identificabile, il magistrato inquirente può comunque suggerire una mediazione. Inoltre può proporre un accordo per cui la persona inquisita paga una multa. Questa però non è una alternativa appropriata per i consumatori problematici: in primo luogo può rafforzare il circolo vizioso negativo e, in secondo luogo, manca l’invio a una struttura terapeutica. Rispetto alla carcerazione preventiva, è possibile il rilascio condizionale: il magistrato inquirente può rilasciare una persona in attesa di giudizio, se ricorrono talune condizioni.

A livello di sentenza, possono essere applicati due tipi di libertà vigilata. O la condanna è posposta sulla base di un programma individuale (non c’è condanna, anche se i fatti risultano dimostrati), oppure la punizione è differita. In questo secondo caso c’è la condanna, ma la sentenza è sospesa finché il condannato non abbia ultimato il suo programma (in entrambi i casi, per un periodo massimo di cinque anni).

Con riferimento alla esecuzione della pena, i detenuti possono essere rilasciati temporaneamente (per motivi di salute) o con la condizionale; in questo modo possono abbreviare la pena se rispettano un certo programma. Questa gamma di alternative giudiziarie può essere applicata alle persone che hanno commesso reati di droga con profili diversi rispetto all’età, ai tipi di consumo, al genere di reato commesso. Si cerca di proporre il tipo di programma adatto alla situazione particolare del singolo (ad esempio, sottoporsi al trattamento, ai test delle urine). La caratteristica di queste misure è che il reo può scegliere tra trattamento e detenzione.

L’invio al trattamento delle persone che hanno commesso reati di droga ha determinato un rapporto di "collaborazione" tra i servizi trattamentali e il sistema giudiziario. Il punto fermo nel rapporto fra giustizia penale e agenzie trattamentali è il riconoscimento della diversità degli ambiti in cui operano (con obiettivi e pratiche contrastanti), ma della pari dignità degli uni e degli altri. Nella pratica, la collaborazione tra i servizi trattamentali e il sistema giudiziario presenta delle difficoltà. Molti di questi problemi concreti sono stati descritti e analizzati nella letteratura internazionale.

Un ostacolo che viene citato spesso è la mancanza di rispetto e di comprensione reciproca per la diversità degli approcci, per i differenti principi cui si ispira il lavoro e le diverse filosofie della giustizia penale da una parte, e dei sistemi trattamentali dall’altra. Ad esempio, esiste il rischio che l’autorità giudiziaria usi i servizi come uno strumento per i suoi obiettivi (strumentalizzazione) e che veda le agenzie di trattamento come appendici del sistema giudiziario.

Un secondo ostacolo attiene alla legislazione concernente la privacy professionale, che generalmente è complessa e ambigua. I servizi trattamentali spesso trovano difficile rispettare allo stesso tempo le esigenze legate alla privacy professionale e quelle legate allo scambio di informazioni nell’interesse del cliente. Dopo tutto, i servizi attribuiscono grande importanza alla relazione fiduciaria con gli utenti. Questa situazione può portare problemi di comunicazione.

Il terzo ostacolo che vorrei segnalare è la scarsa conoscenza che sembra esistere in entrambi i settori. Anche se i giudici e gli operatori dei servizi lavorano insieme ormai da diversi anni, spesso manca la conoscenza di aspetti importanti del lavoro dell’altro settore.

Partendo dagli ostacoli citati, possiamo individuare alcune opportunità e/o principi fondamentali per una relazione ottimale. Per costruire ponti tra questi soggetti è necessario che tra di loro si stabilisca una partnership. Ciò implica la capacità di collaborare, comunicare e "fare sistema" con attori diversi. È cruciale che i giudici si confrontino costantemente con le istanze terapeutiche.

C’è bisogno di chiarezza anche in relazione alle misure alternative. Tutti i soggetti coinvolti devono rispettare la filosofia e i principi su cui si basa il lavoro degli altri soggetti interessati. Inoltre servono accordi chiari riguardo allo scambio di informazioni. Infine, tutti coloro che partecipano al progetto dovrebbero avere una conoscenza chiara delle possibilità che esso può offrire.

Un elemento importante è l’esistenza di una definizione appropriata dei ruoli. I giudici e gli operatori dei servizi trattamentali devono lavorare indipendentemente gli uni dagli altri: una netta separazione tra loro è auspicabile. Data la scarsa conoscenza di cui ho parlato prima, entrambi potrebbero trarre beneficio dalla creazione di un punto di contatto fra il sistema giudiziario e il sistema trattamentale. Inoltre, dovrebbe essere effettuato un addestramento comune ai due sistemi; in questo modo i diversi soggetti potrebbero conoscersi meglio. Infine, deve essere fornito l’accesso ai servizi di trattamento. Dovrebbe essere messa a disposizione degli autori dei reati di droga un’ampia gamma di opzioni terapeutiche che siano in grado di rispondere ai loro bisogni specifici.

 

Un nuovo progetto: il "Proefzorg"

 

Nonostante esistano questi diversi tipi di misure alternative per indirizzare al trattamento le persone che hanno commesso reati per droga, si è ritenuto che le alternative a disposizione del magistrato inquirente non fossero sufficienti. Perciò a Gent, nel 2005, è stato avviato un progetto pilota chiamato Proefzorg. L’autorità giudiziaria di Gent ha deciso di inviare ai servizi coloro che avevano confessato di aver commesso reati per problemi di dipendenza. Dal punto di vista legale, questa alternativa si basa sul principio dei poteri discrezionali del magistrato inquirente.

Il progetto ha tre obiettivi principali: l’invio degli autori dei reati di droga (nel caso di reati senza vittime) al trattamento in modo rapido (intervento precoce), efficiente (con minimi ostacoli pratici e massima cooperazione tra le autorità giudiziarie e i servizi di trattamento) ed efficace (con risultati positivi).

Sono stati creati due nuovi soggetti: in primo luogo, il Proefzorgmanager, che gestisce la parte giudiziaria dell’invio. Il Proefzorgmanager rappresenta un ponte tra il sistema penale e i servizi trattamentali. Di fatto, egli assume il ruolo del case manager giudiziario. In secondo luogo, sono stati creati due "centri di coordinamento" per le procedure di invio. I centri indirizzano l’utente ai centri sociosanitari (dalla bassa soglia ai centri e alle comunità residenziali) che siano in grado di fornire trattamento e assistenza.

Il Proefzorg può avere due versioni diverse. La versione breve prevede un colloquio presso il centro di coordinamento. Si rivolge soprattutto ai consumatori non problematici, che non hanno problemi in altre sfere della propria vita. La versione lunga dura sei mesi e prevede tre colloqui nel centro di coordinamento. Durante questo periodo deve essere messa a punto una proposta completa di trattamento. Si rivolge soprattutto ai consumatori problematici, che hanno problemi in altre sfere della vita e hanno già commesso reati per droga. Se l’esito è positivo, il caso è chiuso. Se l’esito è negativo, l’interessato sarà sottoposto ad azione penale.

Il progetto pilota è stato valutato nel 2005-2007, con un procedimento quantitativo e qualitativo. I risultati della parte quantitativa sono stati positivi. Dei 388 casi analizzati, solo il 3% ha fallito nella versione breve, a fronte del 36% nella versione lunga. I risultati della valutazione d’impatto hanno dimostrato che il Proefzorg è una risposta sufficiente per superare il problema del mancato ricorso alle misure alternative da parte del magistrato inquirente. In questo modo, c’è una risposta appropriata per tutti gli interessati. Sono state riscontrate prove evidenti di una collaborazione fruttuosa tra il sistema giudiziario e i servizi trattamentali. La maggior parte degli intervistati si sono detti soddisfatti del loro ruolo e hanno assunto un atteggiamento positivo verso il progetto. Gli elementi di criticità (la forma standard del feedback, il ruolo del Proefzorgmanager...) individuati servono come una guida per mettere a punto o ottimizzare alternative diverse.

Cina: grazia ai detenuti politici, in occasione delle Olimpiadi?

 

Associated Press, 9 maggio 2008

 

Un attivista americano per i diritti umani ha lanciato un appello alle autorità cinesi affinché venga concessa la grazia ai prigionieri politici di lungo corso. Un gesto che, secondo John Kamm, contribuirebbe ad allontanare la diffidenza crescente della comunità internazionale verso la Cina e i Giochi di Pechino 2008, come hanno dimostrato le proteste esplose in tutto il mondo dopo gli scontri a Lhasa a metà marzo. La grazia, richiesto con una lettera da Kamm a un leader cinese, potrebbe forse portare al rilascio di diverse, forse molte centinaia, di persone imprigionate per atti politici, come le proteste di piazza Tiananmen nel 1989 o le dimostrazioni avvenute a Lhasa, capitale del Tibet, alla fine degli anni Ottanta.

"La Cina ha un’opportunità storica per diventare il primo paese ospite delle Olimpiadi" a compiere un simile gesto, e con questo lasciare un’importante eredità agli ospiti futuri", ha scritto Kamm il 24 aprile. Parti della lettera oggi sono state pubblicate sul sito della sua organizzazione, la fondazione Dui Hua (www.duihua.org), che ha base a San Francisco. Anni fa John Kamm era un uomo d’affari di successo a Hong Kong, ma dall’inizio degli anno Novanta ha deciso di battersi per la difesa dei diritti umani in Cina. Da allora è diventato un efficace organizzatore di campagne e ha lavorato con diverse agenzie per ottenere il rilascio di detenuti politici. Con questa lettera Kamm spera di fare leva sulle aspettative che Pechino ha nei confronti dei Giochi, il cui successo rischia di essere compromesso dalle proteste pro-Tibet e dalla forte pressione internazionale sulla questione dei diritti umani nel paese.

Brasile: assalto al carcere, detenuto muore in scontro a fuoco

 

Associated Press, 9 maggio 2008

 

È rimasto ucciso un prigioniero nello scontro a fuoco scoppiato dopo che una banda armata ha assaltato una stazione di polizia per liberare due detenuti. Quindici uomini hanno fatto irruzione nella caserma a Rio de Janeiro, dove sono detenute persone sospettate di narcotraffico e omicidio, prima dell’alba oggi. Un detenuto è rimasto ucciso mentre altre decine di prigionieri hanno dato vita ad una ribellione poi sedata dagli agenti. Due sono riusciti a evadere, ma non quelli che la banda tentava di liberare.

 

 

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