Rassegna stampa 27 maggio

 

Giustizia: Cnvg; le chiavi in mano ai "secondini della politica"

 

Comunicato Stampa, 27 maggio 2008

 

Voci pesanti, difficili da ignorare, si levano a dar forza allo sterminato coro di protesta del mondo dell’associazionismo e del volontariato, allo sdegno di tanti cittadini che si sentono essi stessi ricoperti di vergogna per certe norme contenute nel cosiddetto "pacchetto sicurezza".

La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, organismo che raccoglie le associazioni di volontariato che operano nelle carceri e nella giustizia, non può che associarsi allo sdegno sollevato dall’introduzione per decreto del reato d’immigrazione clandestina.

La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia è in totale disaccordo con questa politica e chiede che le problematiche sociali siano affrontate in modo serio, con il coinvolgimento delle parti sociali e del volontariato, senza inutili e spettacolari azioni di forza, generatrici di violenza su persone che dalla violenza fuggono e si trovano invece respinti, discriminati ed anche imprigionati.

La sicurezza e la giustizia hanno bisogno del riconoscimento dell’altro ad esistere e vivere in modo dignitoso, ma non si può trasformare in reato ciò che è una condizione esistenziale non voluta. In carcere ci vadano solo i delinquenti pericolosi, siano essi italiani o stranieri. Non vogliamo più carceri, non vogliamo più Cpt, ma un diverso concetto di pena che metta in sicurezza la società, nel momento in cui esercita il controllo su chi si è reso responsabile di crimini, offrendogli concrete possibilità di cambiamento. Questa ci pare l’unica via praticabile per la sicurezza, per la soluzione dei conflitti e per la pace sociale.

 Non è con le norme del "pacchetto sicurezza" che si affrontano i problemi legati all’immigrazione, non è criminalizzando lo straniero, spargendo la cultura dell’odio e della paura che si realizza la sicurezza dei cittadini; al contrario si genera una spirale violenta di razzismo e intolleranza dagli effetti disastrosi. Non c’è risultato delle urne che possa moralmente legittimare un governo a sospendere la ragione e il diritto degli stranieri, soprattutto quando ciò è la negazione del senso di umanità verso una moltitudine di migranti, la quasi totalità dei quali fugge da condizioni di vita disumane nell’illusione di trovare nell’accogliente Italia possibilità di una sopravvivenza dignitosa.

Non si può colpevolmente sfruttare questi disperati, come forza lavoro a basso costo in barba alle leggi dello stato, o peggio facendoli vivere in condizioni vergognose e senza diritti, non voler vedere situazioni diffuse di riduzione in stato di schiavitù, ma al contrario enfatizzare la componente criminale che pur si annida fra milioni di stranieri per avallare atti repressivi di eccezionale gravità, destinati ad abbattersi su una moltitudine di povera gente lasciando indenni i veri delinquenti.

Ancora una volta l’Italia è spaccata in due, incapace di liberarsi dagli spettri del passato, di trarre insegnamento dalle tragiche lezioni della storia recente a quarant’anni dalle leggi razziali del 16 ottobre 1938. È imbarazzante, di fronte alla comunità internazionale, andare fieri oggi della nostra democrazia. Alex Zanotelli (Liberazione, 24 maggio), raccontando i mille drammi dimenticati di un mondo ingiusto, dove lo sfruttamento e la mercificazione dei miserabili sono la regola, sintetizza questo disagio affermando: "Mi vergogno di essere italiano". Gli fa eco Luigi Ciotti con una lettera aperta "Io chiedo scusa", condannando lo sgombero dei campi Rom e le violenze che lo hanno preceduto. Ci associamo al loro pensiero e confidiamo in quell’Italia accogliente e tollerante, che percorre la via del sostegno e dell’integrazione, che si riconosce nel mondo della solidarietà e del volontariato.

 

Paola Roselli

Addetto Stampa CNVG

Giustizia: è nato un diritto "speciale" che sospende le garanzie

di Stefano Rodotà

 

La Repubblica, 27 maggio 2008

 

Disse una volta il primo ministro inglese Margareth Thatcher: "La società non esiste". Simile l’impostazione del "pacchetto sicurezza", all’origine di quella "politica militarizzata" sulla quale ha richiamato l’attenzione Giuseppe D’Avanzo.

Ma, inviato a Napoli con un ruolo a metà tra il Fassbinder di Germania in autunno (dove la madre del regista invoca un dittatore "buono e giusto") e il Tarantino di Pulp Fiction ("Il mio nome è Wolf, risolvo problemi"), il sottosegretario Bertolaso ha subito dovuto fare i conti proprio con la società, ha dovuto mettere tra parentesi gli strumenti autoritari e si è incontrato con i sindaci, i rappresentanti dei partiti e persino con i rappresentanti dei terribili centri sociali.

Non è il caso di fare previsioni sull’esito di questa partita difficilissima. Registriamo uno scacco della logica militare, ma non lasciamoci fuorviare da un episodio e consideriamo con attenzione il nuovo modello di governo della società affermato con il "pacchetto". È accaduto qualcosa di nuovo, che mette alla prova i principi della democrazia e dello Stato costituzionale di diritto, ponendo l’eterna questione del modo in cui si può legittimamente reagire ad emergenze difficili senza travolgere quei principi. La storia è piena di queste vicende, molte delle quali hanno provocato trasformazioni che, in modo duro o "soffice", hanno alterato la natura della democrazia.

Un punto è indiscutibile. È nato un diritto "speciale", fondato su una sostanziale sospensione di garanzie fondamentali. Una duplice specialità. Da una parte riguarda il territorio, poiché ormai in Campania vige un diritto diverso da quello di altre regioni. Dall’altra riguarda le persone, perché per lo straniero vige un diritto che lo discrimina e punisce in quanto tale, anche per comportamenti per i quali la sanzione penale è chiaramente impropria e sproporzionata o ingiustificatamente diversa da quella prevista per altri soggetti che commettono lo stesso reato.

Colpisce la contemporaneità di provvedimenti che sembrano collocare nella categoria dei "rifiuti" sia le cose che le persone, la spazzatura da smaltire e l’immigrato da allontanare. E tuttavia una distinzione bisogna farla, non per attenuare la gravità di quanto è avvenuto, ma per analizzare ciascuna questione nel modo più adeguato. L’emergenza rifiuti in Campania ha una evidenza tale, una tale carica di pericolosità anche per la salute, da rendere indifferibili provvedimenti urgenti. Ma l’insieme delle nuove regole fa nascere un modello che produce una "eccedenza" autoritaria inaccettabile.

In Campania, in materia di rifiuti, è stato cancellato il sistema del governo locale. Le aree individuate per la loro gestione sono dichiarate "di interesse strategico nazionale", con conseguente militarizzazione e attribuzione al sottosegretario Bertolaso della direzione di tutte le autorità pubbliche: a lui vengono subordinati "la forza pubblica, i prefetti, i questori, le forze armate e le altre autorità competenti", con una concentrazione di potere assoluto davvero senza precedenti. Un accentramento di potere si ha anche per la magistratura, con la creazione di una superprocura per i rifiuti, con la centralizzazione dell’esercizio dell’azione penale e dello svolgimento delle indagini preliminari. La stessa logica accentratrice è alla base dell’attribuzione al solo giudice amministrativo di tutte le controversie riguardanti la gestione dei rifiuti, anche per le "controversie relative a diritti costituzionalmente garantiti". Vengono creati nuovi reati, per il semplice fatto di introdursi in una delle aree "militarizzate" o per l’aver reso l’accesso "più difficoltoso": una formula, questa, di così larga interpretazione che può risolversi in inammissibili restrizioni di diritti costituzionalmente garantiti, come quello di manifestare liberamente.

L’insieme di questi provvedimenti è impressionante. Nessuno, ovviamente, può spendere una sola parola a difesa di un sistema di governo locale assolutamente inefficiente. È essenziale, tuttavia, rimuovere anche le cause ambientali, camorristiche e affaristiche, che hanno accompagnato l’inerzia e la complicità degli amministratori locali: senza queste misure, il ritorno della mala amministrazione, magari in altre forme, rischia d’essere inevitabile e le misure prese rischiano di non funzionare (come si allenterà la presa camorristica sul trasporto dei rifiuti?). Inaccettabile, però, appare la manipolazione del sistema giudiziario. Il Governo si sceglie i magistrati che devono controllare le sue iniziative. Viene aggirato l’articolo 102 della Costituzione, che vieta l’istituzione di giudici straordinari o speciali. La garanzia dei diritti costituzionalmente garantiti è degradata. La legalità costituzionale è complessivamente incrinata.

Interrogativi analoghi pone l’altro diritto "speciale", riguardante gli immigrati. A parte l’inammissibilità di alcune scelte generali, contrarie ai principi costituzionali riguardanti l’eguaglianza e la stessa dignità delle persone, siamo di fronte a norme destinate a far crescere inefficienza e arbitri, a perpetuare un sistema che genera irregolarità. Si è sottolineata l’impossibilità di applicare le nuove misure senza far saltare il sistema giudiziario e carcerario. Tardivamente ci si è resi conto che si possono provocare sconquassi sociali, e si è detto che si porrà rimedio al problema delle badanti, distinguendo caso per caso. Ma sarà davvero possibile fare accertamenti di massa, controllare centinaia di migliaia di persone? E ha senso limitarsi alle badanti o è indispensabile prendere in considerazione anche colf e altre categorie di lavoratori altrettanto indispensabili, come hanno sottolineato molte organizzazioni, Caritas in testa? Provvedimenti giustificati con la volontà di ristabilire l’ordine, si rivelano fonte di nuovo disordine e ulteriori irregolarità.

Ma contraddizioni, difficoltà di funzionamento, smagliature, non possono far sottovalutare la creazione di un modello di governo della società che ha tutti i tratti della "democrazia autoritaria": centralizzazione dei poteri, abbattimento delle garanzie, restrizione di libertà e diritti, sostegno plebiscitario. Si affrontano questioni dell’oggi, ma si parla del futuro. Si coglie la società italiana in un momento di debolezza strutturale, e si modificano le condizioni dell’agire politico. Si lancia un messaggio che rafforza i pregiudizi e diffonde la logica della mano dura: non sono un caso le aggressioni romane a immigrati e gay. Qui è la vera riforma istituzionale, qui il rischio di uno strisciante mutamento di regime.

Un virus è stato inoculato nel sistema politico e istituzionale. Esistono anticorpi che possano contrastarlo? In democrazia, questi consistono nel Parlamento, nel ruolo dell’opposizione, nel controllo di costituzionalità, nella vitalità dell’opinione pubblica. Ma una ferrea maggioranza annuncia il Parlamento come luogo di pura ratifica delle decisioni del Governo. L’opposizione sembra riservarsi quasi esclusivamente "un potere di emendamento", che la mette a rimorchio delle iniziative del Governo. Molto lavoro attende la Corte costituzionale, come accade nei tempi difficili di tutte le democrazie.

I cittadini, l’opinione pubblica? Sulle capacità di reazione di un mondo reduce da una batosta elettorale si può sospendere il giudizio. Ma i disagi profondi e le insicurezze reali vengono ormai governati con l’accorta manipolazione dei sondaggi, con una presa diretta delle pulsioni sulla decisione politica, con una logica sostanzialmente plebiscitaria che li capitalizza a fini di consenso. Si imbocca così una strada vicina a quella che ha portato alla crisi di molte democrazie nel secolo passato. Certo, tempi e contesti mutano. L’Europa ci guarda e, per molti versi, ci garantisce. E tuttavia il populismo ci insidia tutti, sfrutta ogni debolezza della democrazia e dei suoi fedeli, ci consegna a logiche autoritarie. È una tendenza ormai irreversibile, come più d’uno ormai teme? O non bisogna perdere la fede, e cogliere proprio le occasioni difficili per continuare a lavorare sulla democrazia possibile?

Giustizia: cosa fare perché la pena abbia un valore positivo…

Monica Cali (Magistrato di Sorveglianza di Torino)

 

www.ilsussidiario.net, 27 maggio 2008

 

Sono Magistrato di Sorveglianza da circa 13 anni ed ho seguito con interesse la coraggiosa indagine del sussidiario.net sul tema carceri. Uso l’espressione "coraggiosa" perché, dal complesso delle interviste e delle riflessioni sinora raccolte, emerge l’idea che ripartire dal carcere è possibile in certe e a certe condizioni e che la pena detentiva non è un male metafisico in sé.

Sono sempre stata di quest’avviso, anche se la mentalità comune, che purtroppo serpeggia anche tra gli addetti ai lavori, non la pensa così. Con tanti colleghi abbiamo lavorato e lavoriamo sempre perché tutto, ogni opportunità, possa diventare per i nostri ospiti un’occasione per desiderare un cambiamento e perché il carcere possa diventare una ipotesi positiva da cui ripartire pur tra mille difficoltà e drammi.

Si oscilla spesso tra una visione severamente giustizialista e una eccessivamente perdonista che confondono e lasciano disorientato sempre più l’uomo comune, che a buon diritto pretende giustizia e sicurezza e che si straccia le vesti per il sovraffollamento delle carceri, ma grida vendetta quando ai provvedimenti clemenziali seguono impietose statistiche sull’aumento del tasso di recidiva. È difficile in questo clima credere nella positività del carcere e della pena, che comunque venga eseguita si pensa non debba servire a nulla.

Vorrei poter dare anch’io il mio contributo all’indagine del Suo giornale, aggiungendo qualche riflessione su funzione e significato sostanziale della pena in sé, che può perdere la sua connotazione negativa se si sgombera il campo da alcuni equivoci di fondo su cui si basa, a mio avviso, certa ottica giustizialista o perdonista.

1) Si ritiene che l’attuale sistema penitenziario sia assolutamente insufficiente ed inadeguato a soddisfare il bisogno umano di giustizia. Lo stimolo educativo che esso propone avviene in condizioni così sfavorevoli (privazione della propria libertà, dei propri affetti) che appare utopico che ad esso possa corrispondere un percorso positivo da parte del detenuto.

2) Una sanzione penale che si concretizzi in una detenzione è inutile poiché - così si pensa - il carcere è spesso luogo dove i detenuti finiscono con l’aggravare la loro capacità delinquenziale.

3) Il sistema dei benefici penitenziari si basa su una osservazione trattamentale, che va richiesta dal detenuto ma che finisce con l’essere strumentale poiché il condannato la chiede a fini utilitaristici.

4) L’intervento educativo si basa su un obiettivo ambizioso ed irraggiungibile che è quello del trattamento individualizzato. Che pertanto andrebbe abbandonato.

5) Il trattamento penitenziario si basa su istituti quali il lavoro e l’istruzione, pieni di limiti, che spesso si risolvono in un mero riempimento di una giornata vuota e priva di prospettive.

6) Il sistema penitenziario è in crisi perché è la sanzione penale ad essere in crisi. Il clima multiculturale proprio della nostra epoca ha fatto venir meno la corrispondenza tra i valori tutelati dalla norma penale (che storicamente affonda le radici in una concezione giudaico cristiana) e quelli diffusi, con la conseguenza che chi si trova a patire una condanna per violazione di un principio non appartenente alla propria cultura non capisce a cosa e perché deve essere rieducato.

7) A questo sistema in crisi, poiché fondato su valori ormai non più comunemente condivisi, si dovrebbe sostituire un sistema di carattere risarcitorio riparatorio, l’unico che forse può perseguire obiettivi di serie e comprovata rieducazione.

Qui è proprio in discussione il senso e il significato della pena e quale sia la sua funzione. La mia esperienza quotidiana non mi consente di condividere il giudizio complessivo alla luce del quale l’ordinamento penitenziario fallisce sostanzialmente gli obiettivi primari della rieducazione e del reinserimento.

Si tratta di un problema più pratico che teorico, perché le risorse dedicate alla esecuzione penale ed alla utile espiazione della pena sono poche e inadeguate. Scarso è il personale penitenziario, amministrativo e di polizia. Gli stessi Uffici di Sorveglianza sono sguarniti dal punto di vista degli operatori e dei magistrati. A ciò si aggiunge spesso una povertà umana desolante, mentre di fronte a chi più ha sbagliato occorre che ci siano persone professionalmente capaci, credibili e portatrici di senso, che suscitino in chi incontrano speranza e desiderio di cambiamento, offrendo vere opportunità.

Voglio a questo proposito ricordare una bellissima lettera (inviatami per conoscenza dalla collega dell’Ufficio di Sorveglianza di Pescara) che i detenuti del carcere di Lanciano hanno scritto per il Natale al giornale Il Centro, dicendo che nelle giornate detentive si ha bisogno più di ogni altra cosa di credere nell’operato di qualcuno che la speranza la concretizza in realtà, dando e chiedendo fiducia.

È vero che il carcere è spesso luogo dove i detenuti finiscono con l’aggravare la loro capacità delinquenziale, ma non bisogna dimenticare che l’articolo 27 della Costituzione recita "la pena tende alla rieducazione" significando che è nella libera scelta del condannato continuare a delinquere o cambiare rotta, desiderando un mutamento per sé e affidandosi al percorso rieducativo proposto in carcere.

Se nel carcere si registra una tendenza criminogenica dobbiamo metterci di fronte alle nostre responsabilità, facendoci portatori di una strada credibile e praticabile per il nostro ospite, senza però nulla togliere alla necessità di una sanzione penale.

È vero che spesso l’interesse all’osservazione trattamentale ed in generale al trattamento offerto all’interno degli istituti penitenziari è dettato da motivi utilitaristici ed è strumentale alla richiesta di benefici, ma non bisogna dimenticare che l’ingresso in carcere non determina in sé un desiderio di cambiare.

desiderio (proprio come accade per ognuno di noi) è frutto e solo frutto di un lavoro libero su di sé, che non scaturisce dalla quantità di tempo passato in carcere. È un viaggio dentro di sé che determina questo desiderio di cambiare, è questo guardarsi dentro (che al limite una situazione come quella carceraria può favorire), non il tempo più o meno lungo passato in cella. Non ritengo opportuno abbandonare il trattamento individualizzato perché si basa su istituti inutili. Sicuramente il trattamento deve essere migliorato, approfondito, rimpolpato, ma non è condivisibile il giudizio di chi ritiene che nell’istruzione e nel lavoro in carcere vi siano solo limiti.

In realtà, da quello che in questi anni abbiamo potuto vedere in Sicilia, in Abruzzo, in Piemonte, nel Veneto come altrove, il lavoro penitenziario è, sì, sempre scarso e riguarda poche persone, ma non è solo mezzo di assistenza indiretta, priva di valore educativo o - come spesso la mentalità comune lo definisce - un espediente per combattere la noia. Piuttosto, è il modo attraverso il quale il detenuto può provare ad impegnarsi di nuovo con la realtà, facendo fatica - ed accettando dunque di dover fare fatica - per procurarsi ciò di cui ha bisogno.

Parlando con quelli tra i detenuti che hanno fatto l’esperienza delle borse lavoro in carcere o che lavorano in articolo 21 o.p. o che hanno partecipato ai lavori volontari per il recupero del patrimonio ambientale, emerge come costoro guardino a queste esperienze come a momenti in cui hanno l’opportunità di sentirsi di nuovo utili e produttivi, di vedersi in azione e dunque di sperimentare una positività indispensabile per poter progettare un qualunque futuro.

È inaccettabile il giudizio di sfiducia sulla stessa funzione della sanzione penale, in quanto basata su un’etica cristiana ormai non più condivisa né condivisibile. Quando un uomo commette un crimine è perché non ha rispettato il suo rapporto corretto con la realtà e questo è vero per chiunque.

La norma costituzionale, lungi dal muoversi in un’ottica di mera pacificazione sociale, propone e chiede un lavoro su di sé, per recuperare innanzitutto il rispetto per se stessi, articolabile in due momenti: accettare davanti a sé che si è sbagliato, e conseguentemente disporsi ad un’espiazione che non sia vissuta come un’ingiustizia, ma come tempo nel quale recuperare quanto con il crimine si era rotto o incrinato, accettando delle opportunità valide per rendere più stabile il proprio percorso rieducativo.

La distinzione tra il bene ed il male e la possibilità di scegliere l’uno o l’altro è nel cuore di ogni uomo. L’articolo 27 della Costituzione propone un percorso vero per tutti coloro che hanno deciso di essere uomini sino in fondo e non bestie.

Non bisogna poi dimenticare che se il sistema sanzionatorio si priva di questo leit motiv di fondo, riducendo la propria pretesa e sostituendo al sistema della pena un sistema alternativo esclusivamente fondato sull’attività lavorativa risarcitoria e sulla cosiddetta giustizia ripartiva in generale, finisce davvero col privare il condannato della possibilità di impegnarsi per cambiare (tra l’altro non esonerando dal rischio di una recidiva). Se non si capisce perché si deve lavorare, cosa si deve risarcire perché il sistema non aiuta a capire se e perché si è sbagliato, davvero si finirebbe con l’infliggere pene alternative, ma ingiuste, perché comminate a prescindere dall’esistenza del bene, del male e dalla propria responsabilità e libertà.

Il nostro ordinamento penitenziario e la esecuzione della pena detentiva così come in esso viene prevista è forse ancora uno dei migliori modi possibili e rimane ancora il modo più adeguato (così come pensato dai nostri padri costituenti) per soddisfare il bisogno di giustizia dell’uomo nei termini che davvero esso richiede: desiderio di cambiamento e responsabilità, consentendo di partire, anzi di ripartire, proprio da dove si è sbagliato e salvaguardando la propria libertà.

Diversamente - ritenendo cioè che tutto ciò che è diverso o alternativo all’attuale sistema sia migliore - si fanno fuori le premesse di un percorso che non si capisce dove porti e il perché valga la pena intraprenderlo.

Giustizia: soppresso, per decreto, il patteggiamento in appello

di Giovanni Negri

 

Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2008

 

Rafforzamento delle espulsioni e stretta sugli affitti a clandestini. Condanne più severe sulle violazioni al Codice della strada. Un progetto di accelerazione dei processi senza scorciatoie sui riti alternativi. Limiti alla sospensione della pena.

Da oggi, con il decreto legge 23 maggio 2008 n. 92 sulla "Gazzetta Ufficiale" del 26 maggio, diventa operativo un primo blocco delle misure varate dalla riunione del Governo a Napoli. Quelle considerate da subito più urgenti e sulle quali l’Esecutivo intende marcare da subito una presenza forte. Con qualche sorpresa, come la cancellazione della possibilità di patteggiare in appello, da sempre oggetto di polemiche, per tutti i reati e non solo per quelli che vedono l’intervento della criminalità organizzata. Riprendendo una misura già contenuta nei disegni di legge presentati dall’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato nell’autunno scorso, viene cancellata una norma che permetteva al condannato in primo grado di ottenere in secondo grado anche forti sconti di pena.

Inserita all’ultimo momento anche l’esclusione della competenza del giudice di pace per le ipotesi aggravate di lesioni colpose commesse da chi è ubriaco o sotto stupefacenti. Sul fronte della repressione, il decreto legge si divide nettamente in due parti. Una indirizzata a colpire alcune condotte nel campo dell’immigrazione e l’altra finalizzata a sanzionare pesantemente le violazioni più gravi in materia di sicurezza colpito l’immigrato che ha trasgredito all’ordine di espulsione inflittogli per una qualsiasi condanna di misura superiore a 2 anni. Se la pena è rimasta la stessa (da 1 a 4 anni) la svolta rispetto al passato è netta perché la sanzione, sino a poche ore fa, poteva riguardare solo le condanne ricevute per una misure detentiva da 10 in su.

L’altro punto forte dell’intervento è l’introduzione di un reato finalizzato a elevare la trasparenza nel mercato degli alloggi a stranieri per cui può essere condannato a una pena da 6 mesi a 3 anni, con l’aggiunta della confisca dell’immobile, chi affitta locali a clandestini.

Per quanto riguarda invece la sicurezza stradale e la volontà di elevare la deterrenza sull’accoppiata tra alcol e stupefacenti da una parte e guida di un’auto dall’altra, vista l’oggettiva difficoltà a contestare l’omicidio volontario ai responsabili di incidenti stradali spesso conclusi con vittime, vengono invece innalzati i massimi di pena per l’omicidio colposo, che possono toccare i io anni se la guida è in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti; ma anche la sola guida in condizioni fisiche alterate è punita con un detenzione che nel massimo può arrivare fino a un anno.

Trova una sanzione penale poi, finora era solo amministrativa, il rifiuto a sottoporsi all’etilometro. Sul piano delle procedure, invece, da oggi il pubblico ministero vede ridotti i margini di manovra sul giudizio direttissimo dopo la convalida dell’arresto in flagranza: sinora ne aveva semplice facoltà, anche se il decreto si preoccupa di precisare che la scelta per il direttissimo non deve pregiudicare le indagini (rinviando quindi la valutazione di nuovo al Pm).

Stesse modalità poi per il giudizio direttissimo in caso di confessione. La pubblica accusa recupera spazio sul versante del giudizio immediato, con il salto dell’udienza preliminare quando l’indagato si trova in carcere: il Pm avrà 180 giorni per valutare la possibilità di accesso alla forma processuale accelerata. Sospensione della pena vietata poi, ed esecuzione immediata, per alcuni reati di accresciuto allarme sociale come furti e rapine. Infine, il Dl prevede che siano i sindaci ad adottare misure contingenti e urgenti tutte le volte "che sono in pericolo incolumità pubblica e sicurezza urbana".

Giustizia: sparare al ladro in fuga è o non è "legittima difesa"

di Alberto Custodero

 

La Repubblica, 27 maggio 2008

 

"È legittima difesa, espressamente prevista dalla nuova legge del 2006". Per Carlo Taormina, avvocato e docente di procedura penale all’università Tor Vergata di Roma, Simone Barontini ha ucciso l’uomo che ha sorpreso a rubare a casa sua per difendersi. E, per questo, non è punibile.

Ma il caso dell’imprenditore di Fucecchio indagato per omicidio volontario per avere sparato nella schiena a un ladro, riaccende un dibattito nel mondo del diritto sui confini della legittima difesa. Non tutti i giuristi, in particolare, ritengono che la riforma voluta nel gennaio 2006 dall’allora governo Berlusconi autorizzi la gente a sparare in caso di un grave pericolo per sé o i propri beni.

"Quella modifica dell’articolo 52 del codice penale - ha spiegato Giulia Bongiorno, avvocato e presidente della commissione Giustizia della Camera - non è affatto una licenza di uccidere ladri di abitazioni o rapinatori". "La novità - ha aggiunto - è che si dà per scontato che ci sia proporzione fra l’uso delle armi e la difesa propria e dei beni. Prima questo aspetto andava dimostrato a processo". Per l’avvocato Bongiorno, tuttavia, la legittima difesa non si può invocare "se l’aggressione s’è interrotta". In sostanza, se l’aggressore ha "desistito" - come recita il codice penale - e si sta dando alla fuga, la difesa non è più né "attuale", né "necessaria".

Se per l’avvocato Taormina l’imprenditore fiorentino non è condannabile "perché la presenza del ladro in camera da letto ha messo in pericolo la sua incolumità", per Carlo Federico Grosso, invece, ordinario di diritto penale all’università di Torino, "se il malvivente

è stato ucciso da un colpo alla schiena, non si può invocare la legittima difesa". "Anche dopo la riforma del 2006 - è la tesi del professor Grosso - si può reagire agli aggressori che siano entrati in un domicilio solo quando il pericolo è attuale. Se il ladro scappa, il pericolo non c’è più".

Questi i ragionamenti giuridici codice penale alla mano. Ma in piena notte, quando si è sotto choc per avere scoperto uno sconosciuto in camera da letto, come si fa a capire fino a che punto ci si può difendere? Il ladro, del resto, anche mentre scappa potrebbe girarsi e sparare. Secondo l’avvocato Bongiorno, "questo è l’aspetto più difficile della difesa: sostenere a processo la legittima difesa putativa, ovvero la reale convinzione che il padrone di casa ha avuto di essere stato in pericolo anche mentre il ladro o il rapinatore stava fuggendo".

Giustizia: i nuovi Br in sciopero fame per condizioni detentive

 

Agi, 27 maggio 2008

 

Alcuni detenuti accusati di aver dato vita alle nuove Brigate Rosse, e imputati nel processo milanese davanti alla prima Corte d’Assise, hanno cominciato uno sciopero della fame per protestare contro le cattive condizioni di detenzione alle quali sarebbero sottoposti. Ne da notizia l’avvocato Giuseppe Pelazza, legale di Vincenzo Sisi, in carcere dal 12 febbraio dell’anno scorso. In particolare, Pelazza denuncia il "pesante isolamento" del suo assistito, "collocato in una cella singola, chiusa 24 ore su 24 e, quando riesce a camminare (è gravemente sofferente alla schiena e anca), effettua l’aria da solo. In occasione di qualunque spostamento - aggiunge è seguito da un ispettore della polizia penitenziaria".

Questo comporterebbe, secondo il difensore, la violazione delle norme carcerarie che prevedono l’obbligo di favorire la "socialità" dei detenuti. Gli altri presunti appartenenti agli eredi delle Brigate Rosse in sciopero della fame sono Claudio Latino, Davide Bortolato, Alfredo d’Avanzo, Massimiliano Toschi e Massimiliano Gaeta. Pelazza si sofferma, poi, sull’intenzione manifestata dal leader della Cgil Guglielmo Epifani, di presentare una richiesta di costituzione di parte civile del processo. "A parte che si tratterebbe di un’istanza tardiva - commenta il legale - evidentemente, Epifani ritiene sia buona cosa stare a fianco di Forza Nuova, la cui costituzione da parte civile è stata accolta, nelle udienze scorse… ma faccia come vuole, ognuno sta con chi desidera".

Giustizia: negli Opg internate 1.354 persone, di cui 153 laziali

 

Comunicato stampa, 27 maggio 2008

 

Sono 153 (su un totale di 1.354) i detenuti residenti nel Lazio con problemi di salute mentale ricoverati negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) di tutta Italia. Il dato è stato diffuso dal Garante regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni nell’audizione davanti alla Consulta Regionale per la Salute Mentale.

Scopo dell’audizione: fare il punto sulla salute mentale nelle carceri del Lazio anche in considerazione delle drammatiche vicende avvenute di recente negli Istituti di pena della regione (due detenuti con problemi psichici morti nell’ultimo mese a Roma e Frosinone). "L’ufficio del Garante è impegnato in prima linea sulle tematiche delle malattie psichiche in carcere - ha detto il Garante Angiolo Marroni - sia attraverso una presenza settimanale nelle carceri che attraverso il monitoraggio dei detenuti del Lazio ricoverati negli Opg di tutta Italia".

In queste settimane il Garante sta seguendo la vicenda di 8 detenuti ricoverati nell’Opg di Aversa che hanno terminato le misure di sicurezza a loro carico e che potrebbero essere inseriti in un percorso terapeutico per consentire loro, alla lunga, di rientrare in società. Ma ciò attualmente non è possibile perché, durante la loro detenzione in Campania, hanno perduto la residenza. Oltre che per tracciare la mappa delle problematiche dei malati psichici in carcere (che il Garante aveva già fatto nella Prima Conferenza Regionale sulla salute mentale del novembre scorso in cui, per la prima volta, la questione delle malattie psichiche in carcere era stata inserita tra le criticità del territorio), la Consulta Regionale per la Salute Mentale presieduta da Daniela Pezzi, ha invitato il Garante per affrontare il tema del passaggio delle competenze sanitarie carcerarie dal Ministero della Giustizia alle Asl, per trovare risposte adeguate anche ai detenuti affetti da malattie mentali.

Nel Lazio le problematiche psichiche sono affrontare prevalentemente nel reparto di Osservazione Psichiatrica di Rebibbia (con sei posti letto) e nelle sezioni Nuovi Giunti delle carceri regionali, dove si concentrano la maggior parte dei detenuti a rischio, sono ospitati in celle singole (le cosiddette "celle lisce") e guardati a vista dagli agenti di polizia penitenziaria.

Il reparto di Osservazione Psichiatrica Rebibbia, in particolare, è il riferimento regionale per queste problematiche con periodi massimi di osservazione psichiatrica di 30 giorni.

"Il nodo più grande è quello di assicurare la continuità terapeutica, non sempre possibile - ha detto Marroni - È evidente che, fra i detenuti, la patologia psichiatrica non può essere gestita solo con il carcere o l’uso massiccio di farmaci. Per ogni tipo di malattia è importante intervenire con tempestività garantendo cure adeguate. Per questi motivi stiamo sollecitando il passaggio operativo della medicina penitenziaria dal Ministero di Giustizia alle Asl, cosa che nel Lazio è già stata avviata in alcune realtà ma che ora è necessario accelerare".

Giustizia: in Italia 341 minori detenuti per una misura cautelare

 

Redattore Sociale, 27 maggio 2008

 

Rapporto del gruppo Crc. "Le procedure relative all’ascolto del minore non hanno ancora raggiunto i necessari livelli di uniformità" Sono 393 i minori in carcere a giugno 2007.

"Le procedure relative all’ascolto del minore non hanno ancora raggiunto i necessari livelli di uniformità rispetto alla normativa vigente in materia di tutela dei diritti del minore". È quanto denuncia il gruppo Crc nel 4° Rapporto su "I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia". Altro dato che viene evidenziato nel rapporto è l’eccessivo ricorso alla detenzione cautelare in carcere: in Italia, su 393 minori presenti negli Istituti penali minorili a giugno 2007, 341 erano detenuti in misura cautelare e 52 in espiazione pena.

"La tendenza a ricorrere alla detenzione cautelare in carcere è diffusa nel sistema penitenziario italiano, ma paradossalmente per i minori è persino più forte che per gli adulti - ha affermato Arianna Saulini, coordinatrice del gruppo - Alcune categorie di minori, come quelli stranieri, rom, quelli minori residenti nel Sud Itali, a hanno una evidente disparità di trattamento in palese violazione del principio di non discriminazione, sancito dall’art. 2 della Convenzione". Al giugno 2007, i minori stranieri detenuti in Italia erano 198, mentre gli italiani erano 195, più della metà del totale, nonostante le denunce a loro carico fossero poco più di un quarto del totale.

Livorno: caso Lonzi; tenta suicidio l’infermiera che lo soccorse

 

Il Tirreno, 27 maggio 2008

 

Si è iniettata in vena una massiccia dose d’insulina. Voleva farla finita così una giovane infermiera che lavora al carcere delle Sughere. Livornese, 35 anni, ha agito durante l’orario di servizio, venerdì verso le 20:30. Ha calcolato con precisione, forte della sua professionalità, la quantità d’insulina necessaria per andare in coma diabetico e poi dire addio alla vita. È stata salvata in extremis ed ora è ricoverata in gravi condizioni in ospedale. La settimana scorsa era stata ascoltata dalla magistratura nell’ambito della vicenda Lonzi.

Cinque anni fa, quando il giovane Marcello fu trovato morto in carcere, in servizio c’era anche lei. I primi soccorritori l’hanno vista sdraiata per terra, agonizzante, ancora con la siringa in mano. E proprio quella siringa che continuava a stringere l’ha salvata. Una fortuna, perché il medico, visto quanta insulina si era iniettata, ha potuto calcolare la quantità di glucosio necessaria per farla riprendere dal coma. Sono state necessarie sei dosi di glucosio per rianimare la giovane, che poi è stata trasportata in ospedale e ricoverata in Medicina d’urgenza.

Un attimo in più e per lei non ci sarebbe stato più nulla da fare. Restano ignote le cause del gesto. C’è chi dice che negli ultimi tempi la giovane attraversasse un momento difficile, di forte depressione. Appena la scorsa settimana l’infermiera era stata sentita da carabinieri e magistratura nell’ambito della vicenda Marcello Lonzi, il detenuto di 28 anni morto in carcere nel Luglio nel 2003.

Un’inchiesta che il pm Antonio Giaconi aveva riaperto nell’estate 2006 per fare maggiore chiarezza sulle circostanze in cui il giovane è morto (la madre sostiene per le percosse). In base a quanto emerso, al stessa infermiera era stata ascoltata dagli investigatori come persona informata sui fatti poiché era stata lei, insieme al medico, a soccorrere il detenuto nelle prime fasi. Al momento, come abbiamo scritto nei giorni scorsi, nell’ambito delle indagini per quella morte, due persone sono state indagate. Resta ovviamente tutto da chiarire se le due vicende, tentato suicidio e morte del Lonzi, siano intrecciate o se si tratti solo di una coincidenza. Le indagini faranno luce su ogni aspetto.

Venezia: un appalto da 120mila € per la lavanderia del carcere

 

Dire, 27 maggio 2008

 

Le due strutture hanno stretto un accordo. Dalla lavanderia del carcere 14 detenute si occuperanno della pulizia delle divise del personale, del lavaggio e della stiratura degli abiti dei clienti. Accordo da 120 mila euro l’anno.

Il carcere veneziano femminile e il rinomato hotel Molino Stucky Hilton non sono poi così lontani, in tutti i sensi. Le due strutture che sorgono entrambe alla Giudecca hanno stretto un accordo che porterà 14 detenute a lavorare per il grande albergo. Lo faranno dalla lavanderia del carcere, occupandosi della pulizia delle divise del personale dell’albergo, del lavaggio e della stiratura degli abiti dei clienti.

L’accordo siglato è da 120mila euro all’anno e colloca la cooperativa sociale "Il Cerchio", che gestisce la lavanderia, tra le aziende "più virtuose" nel dare lavoro a soggetti svantaggiati. All’interno dell’istituto di pena femminile veneziano si trovano attualmente una settantina di donne, quasi tutte in qualche modo coinvolte in attività mirate al recupero. "Questa iniziativa apre al dialogo e favorisce l’integrazione con il territorio": queste le parole del general manager dell’albergo, Mario Ferraro, che ha sottolineato anche come "si crea in questo modo un ponte a favore dei soggetti più deboli come è negli obiettivi aziendali della Fondazione Hilton in the Community". Il presidente della cooperativa "Il Cerchio", Gianni Trevisan, ha lanciato un messaggio agli enti locali, da cui "vogliamo commesse e in cambio restituiamo servizi ad alta qualità. Abbiamo investito 400mila euro in tre anni e assieme all’altra cooperativa "Rio Terà dei Pensieri" che vende essenze, profumi, saponi e ortaggi provenienti dall’orto del carcere femminile siamo parte integrante della città".

Alla presentazione dell’accordo ha assistito anche il sindaco della città di Venezia, Massimo Cacciari, che ha riservato un plauso "all’intelligenza della direttrice delle carceri veneziane, Gabriella Straffi, che ha favorito l’insediamento di attività produttive all’interno del carcere e ha evidenziato che in città c’è un volontariato particolare con forti spinte imprenditoriali. Non un volontariato che poi necessita a sua volta di assistenza, ma cooperative organizzate che risultano non un peso, ma un aiuto per le istituzioni pubbliche che non sono più in grado di fare beneficenza. La positività di questi interventi cooperativi è che risultano competitivi nel mercato, perché forniscono servizi qualificati".

L’avventura della cooperativa nel carcere veneziano è iniziata nel 2003 con la costituzione di un laboratorio sartoriale che ha riscosso tanto successo da essere seguito dall’apertura di un negozio a Castello (Banco dell’artigianato del carcere). Visti i risultati, la direzione ha quindi accettato di concedere in comodato d’uso gratuito l’utilizzo della lavanderia del carcere, che attualmente soddisfa le necessità dei tre istituti penitenziari, dell’Harry’s bar, Harry’s dolci, di varie pensioni nel centro storico, del residence studentesco Junghans e infine della foresteria di Vento di Venezia nell’isola della Certosa. Ora, anche del Molino Stucky Hilton.

Bologna: per i ragazzi del Pratello parte la stagione di teatro

 

Dire, 27 maggio 2008

 

Pericolo scampato, almeno per il momento, per il laboratorio di teatro per ragazzi del carcere minorile di Bologna. A novembre scorso si parlava di chiudere tutto, ma ieri comune e provincia di Bologna e il carcere minorile del "Pratello" hanno rinnovato la convenzione triennale con la società cooperativa "Il Teatro del Pratello", per la realizzazione del "Centro teatrale interculturale adolescenti" e delle attività rivolte ai giovani reclusi.

Ma non tutti i problemi paiono risolti. A circa due mesi dall’inizio del laboratorio teatrale, "non ho ancora notizie dei fondi, ma solo un calendario virtuale", dice Paolo Billi, organizzatore dei laboratori del Pratello, oggi a Palazzo D’Accursio in commissione per recepire le linee di indirizzo della convenzione. Dunque l’allarme non è rientrato. "La convenzione dà maggior sicurezza, in quanto poter contare su un contributo definito incide in maniera significativa sulla formazione del programma". Non avendo però ancora notizia dei fondi a disposizione, Billi non sa "quali attività si potranno fare", sono cioè a rischio "i mesi di laboratorio con i ragazzi: per queste attività non ho certezza".

Quest’anno poi i tempi sembrano essere relativamente più lunghi rispetto al passato. "Gli anni scorsi - racconta Billi - a gennaio sapevo già quale sarebbe stato il budget per il progetto, quest’anno, per la prima volta, arrivo a fine maggio senza sapere le risorse che avrò", aggiunge Billi. Il che è un problema: "Per le 800 ore di laboratorio, gli spettacoli e le repliche, il progetto necessita di circa 110 mila euro". A questo si somma la perdita di uno sponsor importante, la Fondazione Vodafone, che nel 2007 ha finanziato lo spettacolo con 35 mila euro.

La convenzione con Comune e Provincia, finanzia invece lo spettacolo "per il 15% circa"; l’anno scorso il contributo tramite gli assessorati alla Cultura è stato di 3.500 euro per Palazzo Malvezzi e 8.000 per Palazzo D’Accursio. Sul tema dei finanziamenti pubblici, l’assessore comunale alla Cultura, Angelo Guglielmi, rassicura Billi. "Il contributo non può essere inferiore a quello dello scorso anno, e l’attesa - più prolungata del solito - non è la negazione del contributo".

Resta ancora in sospeso anche la questione degli spazi in cui esercitare le ore di laboratorio e mettere in scena gli spettacoli. "Non c’è un teatro dove poter fare programmazione, un luogo dove sviluppare iniziative di accoglienza residenza per tutti i soggetti che si occupano di ragazzi; gli scorsi tre anni, dato che i lavori erano fermi, abbiamo svolto tutte le attività nella chiesa", spiega Billi. Con il fallimento della ditta che stava svolgendo i lavori di ristrutturazione dell’intera struttura del carcere minorile, ed il nuovo bando nazionale per aggiudicarsi i lavori di rimessa a nuovo della struttura, c’è stata infatti anche al ridefinizione del progetto del teatro.

"Con il restauro iniziato quattro anni fa avevamo fatto richiesta al ministero per apportare delle varianti in positivo", spiega ancora Billi ma, fallendo la vecchia ditta tutto, è decaduto. Il nuovo progetto invece "che è esecutivo e dovrebbe essere ultimato entro dicembre 2009, non tiene conto dell’uso che si fa del teatro", ma considera quella parte del Pratello come una normale sala, con illuminazione standard e un palco in muratura. Il progetto per quella parte dunque dovrebbe essere sospeso perché "comporterebbe dei danni", rispetto al teatro che in futuro si potrebbe realizzare. Unica possibilità che rimane dunque per effettuare "la messa a norma degli spazi teatrali è accedere alla legge regionale per lo spettacolo", oppure rivolgersi al mondo dei privati.

"Il mondo economico della città dovrebbe farsi carico di questo", aggiunge Billi. Anche per Guglielmi il ricorso ai privati rimane forse l’unica soluzione per riuscire a dare al Pratello un teatro. "Il piano del ministero è inaccettabile dal punti di vista dell’uso di quello spazio, quindi è stato arrestato in attesa di tempi migliori: fino a quando non ci sarà il piano l’apertura è affidata alla buona volontà e a come al città risponderà all’appello di Billi".

Roma: i detenuti tornano al lavoro come tecnici di spettacolo

di Francesca Filippi

 

Il Messaggero, 27 maggio 2008

 

Dal carcere si può risorgere. Spesso anche attraverso percorsi imprevisti, ad esempio quelli che portano al mondo dello spettacolo. Ed è grazie a "Ricomincio da qui", il progetto con l’obiettivo di "prevenire la recidiva", che 15 ex detenuti, beneficiari dell’indulto e non, nel Lazio, sono stati inseriti nel mondo del lavoro in veste di datore luci, fonico teatrale e macchinista.

L’iniziativa è stata presentata al Museo Criminologico di Roma dal vice capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria Emilio Di Somma, dal provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria Angelo Zaccagnino, dal giudice del Tribunale di Sorveglianza di Roma Paolo Canevelli e dalle ideatrici del progetto Monica Ratti e Patrizia Salvatori. Molti i teatri che hanno dato il loro contributo al progetto, tra cui il Sala Umberto dove, martedì 27 maggio, a partire dalle 20.45, si svolgerà un gala per la fine del corso di inserimento lavorativo finanziato con 250mila euro da Cassa delle Ammende e curato dall’associazione "Inscena". Parteciperanno alla serata molti personaggi dello spettacolo, tra i quali Raffaele Paganini, Pamela Villoresi, Francesca Reggiani e Kledi Kadiu.

I numeri dell’iniziativa. Durata 14 mesi, ha coinvolto circa 70 ex detenuti. I corsi attivati sono stati due: uno di formazione e d’inserimento lavorativo per tecnici dello spettacolo rivolto a persone che hanno beneficiato dell’indulto, mentre l’altro riguardava l’attivazione di borse di studio lavoro nell’organizzazione del terzo settore, enti e associazioni rivolto ad ex detenuti con problemi di salute, legati ad esempio al pregresso uso di sostanze stupefacenti e senza competenze ed esperienze lavorative.

"La situazione nelle carceri del Lazio ma anche in tutta Italia sta lentamente ritornando come precedente all’indulto - spiega il provveditore regionale Angelo Zaccagnino -. Progetti come questo vogliono prevenire e combattere il fenomeno della recidività ma purtroppo a beneficiarne sono sempre poche persone rispetto alle esigenze".

La situazione nelle carceri in Italia. Attualmente sono 53.500 i detenuti presenti nelle 205 carceri italiane, il 38% sono stranieri provenienti da 140 Paesi del mondo. Nell’agosto 2006 26mila detenuti hanno beneficiato dell’indulto, il 28% dei quali è poi tornato dietro le sbarre. Ogni anno escono di prigione 90mila detenuti ed altrettanti vi entrano. "Una volta in carcere, per i detenuti - afferma Emilio Di Somma, vice capo del Dap - è visto come il massimo dell’espletamento della pena senza garantire un percorso di effettivo rientro perché la detenzione e l’obiettivo costituzionale della pena è la risocializzazione". Soddisfatte le promotrici del progetto "Ricomincio da qui": "Dopo 14 mesi - dicono Monica Ratti e Patrizia Salvatori - concludiamo con una serata di gala dedicata ai nostri allievi, anche se per loro la vera sfida con la vita deve ancora iniziare".

Immigrazione Bagnasco (Cei); no ai ghetti per gli immigrati

 

La Repubblica, 27 maggio 2008

 

È intollerabile creare ghetti per gli immigrati. Aprendo i lavori dell’assemblea dei vescovi italiani, il cardinale Bagnasco indica una via non isterica per affrontare l’emergenza immigrazione. Chi vuole venire in Italia deve poter stringere un "patto di cittadinanza", con diritti e doveri chiari, nel rispetto dell’identità secolare del popolo italiano. Sapendo però - e qui Bagnasco parla ai malati di xenofobia - che l’identità italiana è per tradizione aperta all’apporto delle altre culture.

Pacato, com’è il suo stile, con un accento prevalentemente pastorale, il presidente della Cei ha dedicato il "capitolo" socio-politico della sua relazione alle emergenze principali da affrontare. E su tutto ha fatto vibrare una nota allarmata. Fare presto prima che i problemi portino a conseguenze esplosive. Al Paese serve stabilità, impegno congiunto delle diverse parti politiche (ognuna secondo il suo ruolo) e rapidità di azione. Il campanello d’allarme risuona nelle parole scelte dal cardinale.

Servono risposte sagge ma sollecite. Lungaggini e palleggiamenti offendono i cittadini. In tema di sicurezza i pubblici poteri sono chiamati a prendere misure calibrate ed efficaci, tenendo conto che una "risposta disattesa o differita potrebbe moltiplicare i problemi anziché attenuarli".

L’impressione che ne deriva è che il presidente della Cei - più che agire da soggetto politico come faceva il suo predecessore Ruini - intende far giocare alla Cei il ruolo di "sensore" delle attese e dei bisogni sociali del Paese. Ruolo che deriva alla Chiesa dal suo rapporto capillare nel territorio, soprattutto attraverso quei polmoni che sono le parrocchie con i loro sagrati aperti a tutti. Ma ci sono stati anche omissis nella relazione. Non una parola sui raid xenofobi, sui veti alle moschee, sul reato di immigrazione. Nessuna riflessione sul tramonto della forma-partito cattolica.

L’elenco delle sollecitazioni della Chiesa in merito alle emergenze è essenziale. Primo. La crisi gravissima dei rifiuti in Campania esige una "responsabile collaborazione delle popolazioni". Tradotto: le autorità ecclesiastiche non appoggeranno il ribellismo. Secondo. Urge una difesa reale del potere d’acquisto di salari e pensioni. Dalle famiglie sale una "richiesta d’aiuto" su casa, sostegno alla maternità, lavoro ai giovani, fisco pro-famiglia. Pressante è il richiamo a fermare lo stillicidio delle morti sul lavoro. "Passare con prontezza dalle denunce ai fatti concreti, agli investimenti precauzionali, alle verifiche, ai controlli". Particolare impegno tocca agli imprenditori. (E va notato che in questi anni la Chiesa è stato il soggetto che maggiormente ha ricordato lo scandalo delle morti sul lavoro).

Quanto all’immigrazione, necessita di "buone politiche per una reale integrazione", viste le dimensioni globali del fenomeno. Non può bastare, rammenta Bagnasco, la "generosità" della Caritas, della fondazione Migrantes, del volontariato non può bastare.

Altri (il governo) hanno responsabilità insostituibili. Ultima emergenza, la sicurezza. "Per i sensori che abbiamo pastoralmente nel territorio" - ammonisce Bagnasco - i politici sappiano che si tratta di una "esigenza incoercibile delle persone e delle famiglie". Bisogna agire presto. Su tutto il cardinale ha riproposto l’esigenza di un grande progetto educativo che ridia prospettive morali alle giovani generazioni.

Pro domo sua il presidente della Cei ha rinnovato la richiesta di finanziamenti alle scuole private cattoliche. Critiche alle Linee guida sulla fecondazione assistita, emanate dal ministro Turco prima delle elezioni: vi sarebbe il rischio dell’emergere di una "mentalità eugenetica".

Immigrazione: come è morto Hassan Nejal nel Cpt di Torino?

di Vittorio Agnoletto (Europarlamentare del Prc)

 

Aprile on-line, 27 maggio 2008

 

Venerdì nel Cpt di Torino, considerato un modello per le strutture di tutta Italia, è deceduto un giovane tunisino. Un evento su cui la magistratura dovrà indagare, tenendo conto del racconto dei suoi compagni di stanza, i quali sostengono di aver cercato un medico per tutta la notte ma senza risultato.

Esasperazione, tensione e desiderio di giustizia. Questo è il clima che si percepisce nel Cpt di Torino, dove venerdì notte è deceduto Hassan Nejal. Visitando oggi la struttura, insieme al consigliere regionale del Prc De Ambrogio, a Giovanni Amadura del Gruppo Migranti e all’avvocato Gianluca Vitale dell’Associazione studi giuridici, abbiamo potuto raccogliere il racconto dei tanti compagni di Hassan, in sciopero della fame e scioccati da quanto avvenuto.

Superata la loro diffidenza iniziale, mentre stavano protestando legandosi al collo delle lenzuola con l’intento di mimare simbolicamente il gesto del suicidio, abbiamo chiesto di raccontarci cosa sia avvenuto nella notte tra giovedì e venerdì. La ricostruzione degli eventi fatta dalle diverse persone che si trovano nel Cpt sostanzialmente converge. Alle 10,30 di venerdì Hassan si reca in infermeria per assumere la dose di metadone prescrittagli e alla dottoressa Vlashi che gli somministra il farmaco dichiara di sentirsi male. Lo stesso medico riferisce che il ragazzo aveva 39 di febbre e una tonsillite dovuta ad una forte infiammazione della gola. Per questo gli vengono prescritti gli antibiotici (Augmentin) e l’antipiretico, per poi essere rimandato nell’area rossa dove si trova con gli altri compagni.

Alle 2, quando entra in servizio la dottoressa Ngassa, Hassan continua a sentirsi male e viene dunque riportato in infermeria. Il medico verifica un abbassamento della febbre, non gli somministra altri farmaci e lo rimanda in stanza. È su quello che accade dalle 20 in poi, quando entra in servizio il dottor Tedesco che copre il turno notturno ma che non visiterà mai Hassan, che le versioni divergono, fra le autorità del Cpt e i detenuti nella struttura.

Il colonnello della Croce Rossa Baldacci, che non era presente quella notte ma che per noi ha ricostruito a nome delle autorità quanto avvenuto, e che insieme al dottor Tedesco ha certificato la morte del giovane tunisino, dichiara che la situazione nel Centro è stata tranquilla fino alla mattina, cioè fino a quando gli altri immigrati hanno cominciato ad urlare perché Hassan era morto.

I detenuti invece ci hanno raccontato che quella notte qualcosa è accaduto. Verso le 22 infatti dicono che Hassan sia peggiorato, con il corpo e in particolare il volto che hanno cominciato a ricoprirsi di macchie rosse. Un peggioramento, ci ha riferito Al Huari (il portavoce della area rossa), che spinge i compagni a posizionare un asciugamano sulla fronte di Hassan e a sdraiarlo. A quel punto un altro compagno, El Bentaui, esce dalla zona di detenzione e si attacca all’inferriata che delimita l’area, urlando.

Riesce a parlare con un operatore della Croce Rossa a cui chiede di mandare un medico. Risposta: il medico non c’è, non è disponibile. El Bentuai non desiste e comincia a ripetizione a schiacciare il citofono degli allarmi per richiamare la direzione del Cpt a cui il meccanismo è collegato, ma non ha risposta. Alle 11,30 attraverso un buco della grata arriva la distribuzione dei farmaci. Hassan viene portato lì da Rabi Said e prende la seconda dose di antibiotico, mentre i suoi compagni insistono sulla necessità che lo visiti un dottore.

Passa mezzanotte e gli immigrati continuano a recarsi alla rete di delimitazione e intercettano un altro operatore della Croce Rossa a cui rivolgono l’ennesima richiesta. Niente anche questa volta. Hassan durante la notte si addormenta. Ma tra le 6-7 del mattino i suoi compagni non sentendolo più russare si recano un’altra volta alla grata di delimitazione per cercare di parlare con qualcuno e tentare di chiamare un medico.

Parlano con un operatore della manutenzione e gli rivolgono la richiesta, sempre la stessa. Ma niente anche questa volta. Alle 9,27 suo fratello dalla Tunisia chiama Alkair Naoui per parlare con lui. Alkair tenta di svegliarlo ma si accorge che Hassan è morto. È a quel punto che il medico, il dottor Tedesco, arriva nella stanza e non può che certificarne la morte.

Ora la magistratura farà il suo corso per stabilire quanto successo. Per il momento abbiamo ottenuto che gli immigrati testimoniassero a cominciare dal pomeriggio di oggi e alla presenza di un traduttore. Inoltre abbiamo chiesto alla Questura che si impegnasse a che nessuno di loro sia rimpatriato o trasferito in un altro Cpt fino a che non sarà chiusa la fase di raccolta delle testimonianze.

Al prefetto di Torino ho avanzato personalmente la richiesta che i consiglieri regionali possano entrare nella struttura e visitarla in modo da renderla trasparente. Come avviene del resto in tutta Italia ad eccezione del Piemonte. Caso strano visto che ci troviamo alla presenza di un Cpt, quello di Torino, indicato come modello di riferimento per tutti gli altri centri della penisola, aperto meno di due settimane fa e per un costo di oltre 12 milioni di euro. Se l’efficienza del Cpt modello è questa, allora si può immaginare cosa potrebbe avvenire negli altri e cosa potrà mai accadere in quelli che il nuovo governo si appresta ad aprire. Gli immigrati sostengono che la prova di quanto è stato da loro affermato, della veridicità della propria ricostruzione, si può trovare nelle registrazioni video fatte dalle telecamere esterne, a cavallo della rete.

In base a quello che ho appreso oggi, alle informazioni che ho raccolto, mi sono formato la convinzione che non è da escludere la possibilità che Hassan sia morto per un’omissione di soccorso. Per questo credo sarebbe gravissimo se si dovesse constatare che da parte delle autorità che gestiscono il Cpt ci sia la volontà di fornire una versione degli avvenimenti diversa da quanto accaduto in realtà.

Immigrazione: Asgi; come si muore "di insicurezza" in un Cpt

 

Redattore Sociale, 27 maggio 2008

 

La denuncia: "Accade a Torino, nel cpt nuovo di zecca, costato 11 milioni di euro. D’ora in avanti si chiamerà Centro di identificazione ed espulsione". Il dolore e il cordoglio dell’Associazione per la morte di Hassan Nejal.

Proprio mentre il nuovo esecutivo vara il "Pacchetto sicurezza", di insicurezza si muore. È successo a Torino nel Cpt nuovo di zecca, costato la bellezza di 11.160.184 euro (fonte "La Stampa" del 26 maggio), che d’ora in avanti si chiamerà Centro di identificazione ed espulsione, secondo la previsione del decreto legge di prossima emanazione. La presa di posizione arriva dall’Asgi, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. "Hassan Nejl è deceduto nella branda della sua cella - si legge in una nota - : sarà l’inchiesta a stabilirne le cause, se le cure ed i soccorsi sono stati tempestivi, in modo più convincente ed adeguato delle dichiarazioni rese agli organi di stampa dal colonnello del corpo militare della Croce rossa, ente gestore del ‘Brunelleschì, che nega negligenze della struttura e richieste di aiuto da parte degli altri trattenuti, sbrigativamente definiti bugiardi perché clandestini".

"L’Asgi esprime dolore e cordoglio per la morte di un uomo, privato della sua libertà da almeno dieci giorni, parcheggiato in attesa di essere rimpatriato, ma si domanda: è stata una tragica fatalità? Secondo il rapporto conclusivo del 2007 della Commissione De Mistura - istituita dal Ministro Amato - "non è possibile stabilire con precisione il numero complessivo di stranieri malati che sono entrati in contatto con i Cpt, si evidenzia un numero relativamente significativo di cittadini stranieri che risultano non allontanati per ragioni di salute: 114 casi al Cpt di Torino; tale situazione viene gestita in modo assai difforme da una struttura all’altra, basandosi sulla maggiore o minore sensibilità dei 23 diversi enti gestori".

La stessa Commissione così conclude:" Va evidenziato come l’azienda sanitaria competente per territorio non è tenuta ad effettuare periodiche visite di controllo, né è referente diretto dei servizi sanitari allestiti all’interno dei centri. Si può ritenere che la scelta di adottare nei Cpt un modello di sanità separata dalla ordinaria gestione degli interventi sanitari del territorio costituisca un aspetto critico rilevante".

La carenza di assistenza medica e legale nei Cpt italiani è stata altresì rilevata dalla Commissione per le libertà civili e la giustizia dell’europarlamento nella sua relazione del dicembre 2007. Ciononostante, nei Cpt si continua a morire. Dunque non di tragica fatalità si tratta, ma di endemica carenza strutturale di adeguati standard sanitari. La tutela della salute che l’art. 32 della Costituzione riconosce come fondamentale diritto dell’individuo - non importa se italiano o clandestino- viene negata da un modello di sanità separata, questo sì foriero d’insicurezza".

Immigrazione: perché il Papa non difende i clandestini e i rom?

 

Lettera alla Redazione, 27 maggio 2008

 

Forse sono stata disattenta, ma mentre in questi giorni leggo di prese di posizione di associazioni cattoliche, di singoli sacerdoti, di comunità di base che ricordano il valore di persona che tutti abbiamo agli occhi di Dio, tutti, pensate un po’ perfino i rom e i clandestini, non sento levarsi con altrettanta fermezza prese di posizione da parte di Benedetto XVI. Mi sarei aspettata che il Papa dimostrasse la sua vicinanza agli ultimi, anche se "brutti sporchi e cattivi", magari recandosi in un campo rom tra i tanti della periferia romana, che urlasse contro la caccia all’altro che si manifesta in questi giorni e che sotto un’apparenza di ritorno alle regole nasconde disprezzo e alimenta xenofobia, perché il problema non è chi delinque, ma chi è altro, diverso.

Mi sarei aspettata che Benedetto XVI scendesse tra i campi rom per ricordare che "quello che avete fatto al più piccolo (al più debole, all’emarginato, al carcerato, alla prostituta) lo avete fatto a me". Mi sarei aspettata che i vescovi e tutti i sacerdoti nelle parrocchie sferzassero i "buoni cattolici", quelli attenti al valore della vita fin dal suo inizio, che considerano un ovulo fecondato più importante di uomini, donne e bambini rom (sì, perché si spendono più parole per affermare la dignità di uno zigote che dei rom) e ricordassero loro le parole del Vangelo: "Guai a voi ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’aneto e del cumino, e trascurate cose più essenziali della Legge: la giustizia, la misericordia, la fedeltà" (Matteo, 23, 23).

Ho aspettato anche parole da parte del Movimento per la vita, a difesa della vita, quella che già c’è, ma non le ho sentite, forse mi sono sfuggite. E allora da laica, non credente, che però considera il Vangelo un grande messaggio d’amore e fonte di riflessione sul valore della vita e di come essa vada vissuta, mi permetto di appropriarmi delle parole di Cristo: "Perdona loro perché non sanno quello che fanno".

 

Gisella Bottoli, Brescia

Droghe: "mano pesante" contro ubriachi e drogati al volante

di Stefano Manzelli e Enrico Santi

 

Italia Oggi, 27 maggio 2008

 

Mano pesante del governo contro gli ubriachi e i drogati al volante in circolazione per le strade. Arresto fino a un anno e confisca del veicolo per l’automobilista che verrà sorpreso a guidare drogato o in stato di ebbrezza con un tasso alcolico superiore a 1,5 g/l.

Pene severissime per i conducenti alterati da alcol e droga coinvolti in incidenti con morti o feriti mentre tornerà ad essere punito penalmente anche il rifiuto di sottoporsi ai controlli di polizia con l’uso dell’etilometro. E in caso di lesioni gravi o gravissime derivanti da guida alterata competente a giudicare d’ora in poi sarà il tribunale e non più il giudice di pace. Sono queste le principali misure sulla sicurezza stradale contenute nel decreto legge n. 92/2008, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 122 di ieri, contenente misure in fatto di sicurezza E mercoledì inizierà l’esame dell’intero pacchetto sicurezza nelle commissioni riunite affari costituzionali e giustizia del senato.

I provvedimenti (vanno ricordati, oltre al decreto legge, il ddl e i tre schemi di dlgs varati dal Consiglio dei ministri mercoledì scorso a Napoli), inizieranno il loro iter parlamentare da Palazzo Madama. Relatori in commissione saranno i presidenti delle due commissioni, Vizzini e Berselli.

L’inasprimento delle misure punitive si abbatterà innanzitutto contro chi guiderà alterato dalla droga o dall’alcol con valori nel sangue superiori a 1,5 g/l. In questo caso, mentre resterà invariata l’ammenda compresa fra 1.500 e 6 mila euro, l’arresto salirà fino a un anno e, soprattutto, scatterà la confisca del veicolo. Ma se il proprietario del mezzo dimostrerà di essere estraneo al reato non scatterà neppure il fermo. Nella versione ufficiale del provvedimento è stato infatti cancellato il fermo amministrativo del veicolo che era stato inizialmente previsto perla durata di 180 giorni consecutivi.

Con l’avvenuta pubblicazione del decreto legge in gazzetta viene poi di nuovo attratto alla competenza del giudice penale il rifiuto di sottoporsi ai controlli sullo stato di alterazione del conducente anche con l’uso dell’etilometro. Dopo la recente e discussa depenalizzazione introdotta dal decreto legge Bianchi n. 117/2007, poi confermata dalla legge di conversione n. 160/2007, il pacchetto sicurezza sanzionerà d’ora in poi il rifiuto agli accertamenti per il controllo di alcol e droga nel sangue con le stesse pene previste per chi guiderà alterato con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l, ovvero ammenda da 1.500 a 6 mila euro, arresto da tre mesi a un anno e confisca o fermo amministrativo per 180 giorni del veicolo.

Ma verrà aumentato a sei mesi anche l’arresto in caso di guida con tasso alcolico nel sangue compreso nella fascia da 0,8 a 1,5 g/L Saranno poi inasprite le pene anche nell’ipotesi in cui il conducente guidi con tasso alcolico superiore a 1,5 g/1 o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti e provochi danni a persone in ipotesi di incidente stradale. In tale evenienza scatterà la reclusione da tre a dieci anni con la revoca della patente se la condotta colpevole dell’autista provocherà la morte di una persona, reclusione da sei mesi a due anni in caso di lesioni colpose e da un anno e sei mesi a quattro anni in caso di lesioni gravissime. Per la guida sotto l’effetto di droghe, l’arresto salirà fino a un anno, mentre crescerà l’ammenda che sarà compresa fra 1.500 a 6.000 euro.

La reclusione prevista per chi non si fermerà in caso di incidente con feriti, infine, viene leggermente inasprita e sarà compresa fra sei mesi e tre anni mentre sale da un anno a tre anni quella prevista in caso di omissione di soccorso a seguito di incidente. Novità anche per quanto riguarda le lesioni gravi e gravissime derivanti dalla guida alterata da alcol e droga. Se il conducente risulterà drogato o con un tasso alcolico superiore a 1,5 g/1 la competenza a giudicare sarà sottratta al magistrato onorario e passerà direttamente al tribunale. Si tratta di un’ulteriore modifica introdotta nel testo ufficiale del pacchetto sicurezza rispetto al contenuto del provvedimento divulgato informalmente nei giorni scorsi.

Francia: 63mila detenuti, il personale di custodia è esasperato

 

www.businessonline.it, 27 maggio 2008

 

Le prigioni francesi scoppiano, i detenuti si agitano e il personale di custodia è esasperato. Il 1° maggio 2008 l’amministrazione carceraria ha censito 63.645 detenuti per 50.631 posti, il soprannumero raggiunge le 14.000 unità che vuol dire dormire su materassi disposti sul pavimento di celle già occupate da letti a castello.

E non si parla solo di stabilimenti vetusti: la prigione di Meaux (Seine-et-Marne), tre anni dopo essere stata "inaugurata"‘, ha un tasso di occupazione del 165% e si sono dovuti aggiungere 110 materassi, il che significa che un detenuto su otto dorme per terra. A Bordeaux-Gradignan (Gironda), il tasso di occupazione è del 200%.

Il numero totale di detenuti - 63 645 - sfiora il record raggiunto il 1° luglio 2004, quando era intervenuta l’amnistia che lo aveva ridotto a 58 000 nel successivo mese di agosto. Ma oggi la situazione è diversa: la mancata amnistia del luglio 2007 e la nuova legge sulla recidiva, in agosto, hanno fatto aumentare, in un anno, il numero di 3.000 unità mentre la situazione tende a peggiorare per l’affluenza di condannati a lievi pene e di detenuti con problemi psichiatrici che non sopportano di essere rinchiusi e devono vedersela con una promiscuità problematica per tutti.

La ministra Rachida Dati sottolinea che, al 1° aprile, 3.009 persone scontavano la pena fuori dal carcere (braccialetto elettronico) contro 2.519 dell’anno precedente e che il programma di costruzione e di rinnovo di 13.200 posti nelle prigioni, deciso nel 2002, procede. Ma ministra non dice che nel 2012 le prigioni dovrebbero avere 63.500 posti cioè il numero corrispondente a quello degli attuali detenuti, mentre l’amministrazione carceraria prevede 80.000 prigionieri entro il 2017.

Due anni dopo il rapporto del suo predecessore, Alvaro Gil-Robles, il Commissario ai Diritti dell’Uomo del Consiglio d’Europa, Thomas Hammarberg, in visita in Francia in questi giorni, è fortemente preoccupato dalla situazione delle prigioni, dei minori e degli immigrati, sulla cui condizione dovrebbe pubblicare un rapporto a metà luglio.

Hammarberg denuncia l’aggravamento del fenomeno del sovraffollamento nelle carceri francesi e la mancanza di volontà politica di risolvere il problema e stigmatizza il fatto che in Francia la detenzione dei minori è consentita a partire dall’età di 13 anni, sottolineando che i cambiamenti recenti della politica governativa si concentrano sull’aspetto repressivo e poco o nulla su quello educativo.

Per quanto riguarda l’immigrazione, il commissario critica duramente la politica delle quote d’ingresso. "Gli immigrati non sono cifre ma esseri umani" sostiene. A suo avviso, questa politica comporta una pressione sulle forze di polizia e porta a degli eccessi. "Sono stato informato di arresti nei pressi delle scuole o all’interno di pubblici uffici, metodi che non dovrebbero esseri impiegati in luoghi di questo genere".

Criticando il modo in cui il ministro dell’Immigrazione, dell’Integrazione, dell’Identità nazionale e dello Sviluppo solidale, Brice Hortefeux, amico trentennale di Nicholas Sarkozy, ha riferito della "soddisfazione" di Hammarberg riguardo alle condizioni delle persone trattenute nei Centri di ritenzione (i nostri Cpt) "fra le migliori d’Europa", il commissario afferma che "la citazione è inesatta.

La Francia è migliore riguardo alla durata della detenzione in questi centri, 32 giorni, che altrove è maggiore, ma non lo è su tutto il resto". Allude alla situazione nei commissariati intorno all’aeroporto di Roissy-Charles de Gaulle e alla promiscuità fra criminali che escono di prigione e famiglie con bambini in questi centri di ritenzione amministrativa.

Alla vigilia del semestre francese di presidenza dell’Unione europea, la politica carceraria della Francia è criticata da parecchie istituzioni internazionali e non soltanto dal Commissario ai Diritti dell’Uomo del Consiglio d’Europa: per bocca dei rappresentanti del Canada, dei Paesi Bassi, del Regno Unito e della Svezia, l’Onu ha interpellato la Repubblica francese sullo stato delle sue prigioni.

 

 

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