Rassegna stampa 26 maggio

 

Giustizia: con "pacchetto sicurezza" introdotti 23 nuovi reati

di Andrea Maria Candidi

 

Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2008

 

Ventitré nuovi reati. Tra figure ad hoc e aggravanti è questo l’impatto dei provvedimenti varati per l’emergenza Ventitré tra nuovi reati e inasprimenti di pena. Dall’aumento dei massimi di reclusione per il pirata della strada che commette omicidio colposo ai cinque anni di galera che rischia chi organizza le barricate per ostacolare le operazioni di smaltimento dei rifiuti. Alcuni reati scattano immediatamente, altri sono in attesa del vaglio parlamentare dove comunque i numeri della maggioranza che sostiene l’esecutivo dovrebbero garantire un percorso senza intoppi.

La ricetta del Governo per fronteggiare l’emergenza sicurezza, ma non solo, riparte dunque dallo spettro del carcere come strumento deterrente. Quattro provvedimenti, sui sei che compongono il pacchetto (due decreti legge, un disegno di legge e tre decreti legislativi di attuazione di altrettanti provvedimenti Ue), intervengono più o meno direttamente sul Codice penale (si veda la tabella a fianco).

Mentre la norma più controversa dell’intero progetto, quella che dovrebbe punire con il carcere da sei mesi a quattro anni l’immigrazione clandestina, è stata alla fine relegata nel limbo del Parlamento cui l’Esecutivo ha affidato il disegno di legge. Il decreto legge con le misure urgenti contiene la metà della proposta repressiva incidendo in primo luogo sul comportamento alla guida di veicoli.

Torna così a commettere reato, punito con un’ammenda e l’arresto fino a un anno, chi si rifiuta di sottoporsi al test dell’etilometro, violazione che l’estate scorsa l’ex ministro Bianchi aveva depenalizzato. Aumentano poi i massimi di pena per chi al volante investe, qui la gradazione delle sanzioni dipende dal tipo e dalla gravità della lesione provocata, fino al decesso, e cambia anche in base alle condizioni di chi è alla guida.

Ad esempio, a prescindere dalle misure accessorie quali la sospensione o il ritiro della patente e il sequestro del veicolo, per l’omicidio colposo provocato alla guida in stato di ebbrezza la pena ora prevista varia da 3 a 10 anni dietro le sbarre (prima da 2 a 5). Il pugno duro del Governo colpisce anche chi si sottrae dal prestare i primi soccorsi in caso di incidente stradale, sebbene l’aumento sia solo nei minimi della pena.

Nel capitolo delle norme che entrano subito in vigore trovano spazio anche le prime misure contro l’immigrazione clandestina e, soprattutto, contro chi favorisce la permanenza dello straniero irregolare. È ora infatti sanzionato pesantemente chi affitta (o comunque cede a qualunque titolo oneroso) un immobile a uno straniero che soggiorna irregolarmente in Italia. La pena è della reclusione da 6 mesi a 3 anni, mentre l’eventuale condanna comporta l’automatica confisca dell’immobile.

Stesso destino, poi, per gli stranieri comunitari ed extracomunitari condannati alla reclusione superiore a 2 anni: in questi casi il giudice dispone l’espulsione (per gli extracomunitari) o l’allontanamento (per i comunitari). Il Dl ha dunque abbassato da 10 a 2 anni la soglia della condanna mentre la pena per chi trasgredisce l’ordine del giudice è rimasta invariata (reclusione da 1 a 4 anni). Il Dl sull’emergenza rifiuti introduce invece tre nuove fattispecie per punire l’intralcio all’azione di gestione dei rifiuti o reca danno agli impianti di smaltimento.

Ad esempio, l’ostacolo alle operazioni è equiparato all’interruzione di pubblico servizio cui si applica l’articolo 340 del Codice penale e dunque la reclusione fino a un anno (che sale fino a 5 anni per chi organizza o promuove le azioni di disturbo). Affidati al Parlamento, oltre all’immigrazione clandestina, anche l’accattonaggio (l’impiego di minori dovrebbe essere punito anche con tre anni di carcere) e l’aggravante per i reati contro minorati psichici (aumento di pena da un terzo alla metà). Chiude il viaggio nel giro di vite governativo l’aggiornamento delle restrizioni alla libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea: chi rientra in Italia dopo il divieto che accompagna il provvedimento di allontanamento rischia ora da uno a quattro anni di galera.

Giustizia: il Paese dei giustizieri, tra gli immigrati e la politica

di Adriano Sofri

 

La Repubblica, 26 maggio 2008

 

Grazie al cielo, la spedizione punitiva contro i cittadini stranieri e i loro negozi nel quartiere romano del Pigneto "non aveva una matrice politica". Grazie al cielo? Vediamo…

Un maturo adulto italiano, accompagnato da un paio di giovani, si presenta di mattina - alle dieci e mezza, prendete nota dell’ora - nel negozio di alimentari di un signore indiano e apostrofa, a quanto pare, un avventore chiamandolo Mustafà, e intimandogli di restituire il portafoglio che gli sarebbe stato rubato, completo di 500 euro e documenti. Se no, avverte, torno oggi pomeriggio e sfascio tutto. Considereremo in effetti questo antefatto, piuttosto che politico, come una tappa di quell’impulso irresistibile a fare da sé, a mettersi in proprio, che va attraversando la penisola, dalle ronde alle passeggiate notturne ai roghi dei campi rom. Un episodio, diciamo, di sussidiarietà.

Ritorna lo Stato, e l’intendenza lo precede, con la fanfara. Perché telefonare allo Stato, e dunque denunciare un furto, e denunciare il supposto autore del furto, quando possiamo fare da noi? Questa vocazione sussidiaria si conferma alle 17.15, quando una squadra di una ventina di italiani di ceppo, in parte travisati in parte no, si presenta all’appuntamento e fa giustizia di alcuni stranieri in regola - giudicati comunque guaribili, quelli che si prendono la briga di presentarsi a un pronto soccorso - e delle loro regolari botteghe, tre, un bar, un alimentari, e un call-center.

È un notevole segno di coesione popolare e di spirito di iniziativa, il reclutamento apolitico (cioè né approntato da nostalgia neonazista, né da oltranzismo calcista) di una ventina di persone pronte a menare e sfasciare, nel giro di poche ore, e in piena luce del sole. L’inchiesta appurerà altri dettagli marginali, per esempio se Mustafà sia il nome di un ladruncolo reale, o, com’è più probabile e lusinghiero, un eponimo di qualunque straniero, regolare o irregolare, si trovi a passare per il Pigneto e in generale per questo mondo. Noi di qua - con dei fazzoletti sulla faccia, magari - e loro - tutti i Mustafà della terra - di là.

Noi siamo riconoscibili, nonostante i fazzoletti, dal modo in cui pronunciamo: "Bastardi!", a bocca piena e umida, come abbiamo imparato dal doppiaggio dei film sul Bronx di una volta. Loro sono riconoscibili perché stanno di là, i bastardi. Il lunedì di Pasqua del 1282, nella Palermo del Vespro, dove un dannato soldato francese, si dice, molestò una sposa siciliana di singolare bellezza pretendendo che nascondesse armi sotto le vesti, si scatenò la caccia ai francesi con quel mirabile stratagemma di far loro pronunciare il nome "ciciri". Ecco, al Pigneto, e un po’ dappertutto, basterà apostrofare la gente con lo shibboleth "Mustafà", e darle il fatto suo. Così ricostruita, la storia, grazie al cielo, "non ha una matrice politica". È un’altra cosa, più rassicurante. È, appena decentrato, uno scontro di civiltà. Basterà chiamare, a cose fatte, il carro attrezzi.

La sicurezza, si dice, non è né di destra né di sinistra. Non è vero, naturalmente. È vero invece che a ogni proclamazione roboante dell’allarme sicurezza, a ogni annuncio stentoreo che d’ora in poi la tolleranza è morta, chi abbia la faccia da straniero in Italia, irregolari, regolari e perfino cittadini italiani (come la maggioranza degli zingari) trema per la sicurezza dei propri cari e delle proprie cose. L’idea pubblica che il soggiorno irregolare in Italia sia per sé, senza la commissione di alcun delitto, un reato, passibile di galera, è terribile, ed eccita la tracotanza e la brutalità privata.

Recludere per un anno e mezzo nei Cpt persone di niente colpevoli, con il proposito - del tutto irrealistico - di impiegare una simile eternità per appurarne l’identità, ecco un’altra idea che fa venire i brividi. Vuol dire che nemmeno per un momento chi pronuncia la formula "diciotto mesi" ha pensato davvero a che cosa siano diciotto mesi di giorni e notti trascorsi dentro un surrogato di galera in cui diventare pazzi a mucchi. Pazzi - o morti prima.

Se non bastasse il titolo che ciascuno di noi, senza eccezioni, ha a curarsi del destino dei propri simili, invocherei a mio titolo l’esperienza di che cosa voglia dire un giorno in una cella, e una notte in una cella. Migliaia di notti. L’altro ieri - perché in questi giorni, come per una malignità della sorte, tutto sembra darsi convegno - Hassan Nejl, 37 anni, marocchino di Casablanca, è stato trovato morto nella cella numero 2 del nuovo Cpt di Torino. Vi era "trattenuto" - ah, le tenerezze della lingua! - da dieci giorni, per un decreto di espulsione. "Era nel suo letto con la schiuma alla bocca. Abbiamo urlato tutta la notte per chiamare i soccorsi, ma non è venuto nessuno".

Polmonite, secondo le prime dichiarazioni del prefetto. "Ho perso la voce a furia di urlare - dice il suo compagno di camerata - a mezzanotte e quarantacinque gridavamo tutti. Dopo un po’ è arrivato un addetto della Croce Rossa. "Fino a domani mattina non c’è il medico", ha spiegato. Poi se n’è andato. Hassan si è steso sul suo letto, era caldo, stava malissimo...". Alle 8 di mattina il medico di guardia ha constatato il decesso. Tutti gli immigrati hanno annunciato lo sciopero della fame: "Qui siamo come in un canile, dove se abbai nessuno risponde". Ho anche questo titolo più specifico: che sono ancora a questo mondo perché in una notte di cella i miei compagni persero la voce a furia di urlare, e venni soccorso. Al Cpt torinese non è successo. Si può essere "trattenuti" per due mesi, finora: vi sembra poco, per accertare un’identità personale? E di che cosa diremo che sia morto Hassan Nejl: di polmonite?

Tutto si è dato convegno in questi giorni. I roghi di Ponticelli e la guerra di Chiaiano, gli assalti omofobi e il raid di Pigneto e lo sventurato - "ultrà laziale, pariolino, tossicodipendente, senza patente"... - che ha spezzato la dolce vita di due giovani romani. In quanti posti deve andare in pellegrinaggio il nuovo sindaco di Roma.

Al Pigneto, scrive qualcuno, citando bei nomi, da Pasolini a Luxuria, finora la vita era bella, e la convivenza cordiale. Qualcun altro obietta che c’era la stessa febbre che ha acceso tutte le periferie un tempo operaie e popolari, ora degradate da una contiguità non voluta e spaventata. Qualcuno ha manifestato contro la vergogna del raid punitivo, qualcun altro aveva applaudito mentre si svolgeva. Chissà. Bisogna pensare, in questi giorni, alla vecchia questione della guerra fra poveri, e più precisamente all’intimità detestata cui sono costretti gli ultimi e i penultimi. Vi ricordate quel giudizio di un operaio di fabbrica, per spiegare il voto: "La sinistra ormai va solo dietro ai gay e agli zingari...".

Non si può sfuggire alla condanna per cui stare con gli ultimi debba significare tradire i penultimi - o esserne traditi? I fascismi e i razzismi se ne nutrono. Benché abbia imparato a maneggiare con cura le cose fragili, e a tener conto del deposito del passato, senza illudermi di tabulae rasae e di nuovi cominciamenti, sono tentato da qualche domanda senza pregiudizi, di quelle che vedono il re nudo, di quelle da vigilia di un Sessantotto.

Se si assegnasse qualche casa ad affitto agevolato a zingari o migranti in regola ai Parioli e in altri quartieri medio alti, accostando gli ultimi, se non ai primi, almeno ai secondi e ai terzi, e mettendo qualche distanza fra ultimi e penultimi? Così, per vedere l’effetto che fa. La questione in fondo non è così paradossale, è quasi evangelica: in quale cortile metteremo la prossima discarica?

Giustizia: Matteoli; il "pacchetto" sarà approvato entro estate

 

Asca, 26 maggio 2008

 

Nessun passo indietro da parte del governo sul reato di immigrazione clandestina. Tempi rapidissimi per l’approvazione definitiva dell’intero pacchetto sicurezza varato dal consiglio dei ministri e attenzione - ma con grande "chiarezza" - alla questione delle badanti e delle colf. È la linea del governo annunciata dal ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli. "L’impegno è di approvare il pacchetto sicurezza - dice Matteoli - entro le vacanze estive, compresi tutti i disegni di legge. Poi naturalmente dipende dal Parlamento, però l’obiettivo del governo è questo".

 

Per quanto riguarda l’introduzione del reato di immigrazione clandestina, il sottosegretario alla presidenza Consiglio con delega alla Famiglia, Carlo Giovanardi, ha dichiarato che è "dannoso" e che andrebbe eliminato in Aula. Che cosa ne pensa?

"Che posso fare io se Giovanardi fa una dichiarazione del genere... in consiglio dei ministri abbiamo dato l’ok, quindi è evidente che siamo tutti d’accordo".

 

Ma l’obiezione è che si rischia un affollamento delle carceri e una lentezza della giustizia che renda impossibile di fatto l’espulsione dei clandestini dal nostro territorio...

"Uno Stato deve attrezzarsi per rispettare le leggi che il Parlamento vara. Quello che è scritto nei provvedimenti è quello che penso e che auspico si realizzi". Stesso discorso per i cittadini comunitari (come i rumeni): "Quello che abbiamo scritto nei vari provvedimenti - decreto legge, disegno di legge e in tutto il resto del pacchetto - è il pensiero del governo che io condivido totalmente".

 

E infine il capitolo badanti-colf. C’è chi parla di regolarizzazione o addirittura di sanatoria, come risolvere questo problema?

"Non c’è dubbio - dice Matteoli - che le badanti svolgano un ruolo anche sociale e quindi ci vuole un attenzione particolare. Ma con grande chiarezza, perché spesso si passano per badanti coloro che badanti non sono affatto. Quindi, ripeto, ci vuole grande chiarezza... ma so che il ministro dell’Interno Maroni sta lavorando con grande serietà a questo problema".

Giustizia: ci sono sistemi più avanzati del nostro, guardiamoli

Intervista a Giovanni Tamburino (Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia)

 

www.ilsussidiario.net, 26 maggio 2008

 

Dottor Tamburino, ilsussidiario.net ha avviato una riflessione sul tema del lavoro nelle carceri. La rieducazione non può fare a meno di un’assunzione crescente di responsabilità da parte dei detenuti. Il reinserimento attraverso progetti di lavoro è la strada maestra per attuare quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione?

Il lavoro è sicuramente una delle condizioni esistenziali che maggiormente favoriscono l’inserimento sociale, perché riguarda tutti, anche le persone libere: abbiamo un posto nella società anche perché lavoriamo e lavorare significa essere riconosciuti come membri utili di una società. Questo riconoscimento reciproco ci aiuta ad avere un’integrazione con gli altri. Questo è indubbiamente vero soprattutto per i detenuti, perché per molti di loro non c’è l’abitudine del lavoro. E identificarsi in un ruolo socialmente utile è senz’altro un fattore che può modificare profondamente la persona.

 

Si parla di funzione rieducativa della pena. Come va interpretata? Al pari di un trattamento? O come qualcosa di più profondo? Che considerazioni si sente di fare sulla pena in quanto tale? Rimane poi il problema di definire cosa vuol dire "rieducazione", visto che la giurisprudenza non offre una definizione di questo concetto.

Una premessa è secondo me necessaria: la pena è inevitabile nelle società, per come le conosciamo noi. È stato sempre molto suggestivo - e lo sarà sempre - concepire una società senza pena. Ma una società senza pena non è mai esistita. La pena è qualcosa in sé di negativo, che per quanti sforzi si facciano, rimane una risposta basata sulla privazione o sulla sottrazione di una prerogativa del soggetto. E non senza sofferenza. Un elemento negativo, direi, nella pena è inevitabile. Detto questo, è vero: la rieducazione non è espressamente definita dall’ordinamento giuridico. Ma da un punto di vista laico, dell’ordinamento generale, possiamo dire che la rieducazione è quanto meno l’abbattimento della recidiva. In passato ho usato questa espressione: rieducazione vuol dire far uscire dal "pozzo della recidiva" cioè aiutare le persone a liberarsi dalla necessità di commettere altri reati. Mi pare un requisito minimo su cui - anche in una visione laica, cioè che prescinde dall’assunzione di valori di altro genere rispetto a quelli propri del diritto - ci dovrebbe essere accordo generale. Ovviamente c’è una componente senza la quale non si può far nulla: la scelta del singolo.

 

Lei che esperienza ha di quest’ultimo fattore, così decisivo?

La mia esperienza è che è possibile uscire dalla "costrizione" della recidiva; però questo riguarda, da un punto di vista sperimentale, una certa percentuale, non riguarda la totalità e purtroppo nemmeno la maggioranza. Per certi reati però la non ripetizione del reato è più frequente. Nel caso dell’omicidio, che è il più grave dei reati, l’autore è soggetto ad una sanzione a cui si aggiunge anche il trauma della tragedia che ha fatto ricadere su un’altra persona. Ma questo gli dà anche la possibilità di meditare e di arrivare a una volontà ferrea di non ripetere il reato. Ciò avviene con una frequenza notevole. Per gli altri reati c’è da fare una distinzione. Ci sono persone che fanno un reato una prima volta. Tra queste una parte consistente non delinque più. Invece abbiamo tassi di recidiva altissimi là dove ci sono persone con una pluralità di reati. In conclusione: una parte di coloro che commettono un reato non ne commette altri, ma un’altra parte continua a farne, come se diventasse una scelta di vita. Per questi ultimi soggetti è molto difficile non ricadere nella recidiva, ma neppure in questi casi è impossibile uscirne.

 

Se si mette la rieducazione al centro della pena, come si giustifica un istituto come quello del 41 bis? Ha ancora senso parlarne oggi? Come può andare d’accordo con una concezione fondata sulla disponibilità del singolo a intraprendere un percorso di reinserimento?

Per dire che il 41 bis non abbia più senso oggi dovremmo trovarci in una società molto più sicura di quella italiana, dove la criminalità organizzata è un fenomeno sociale endemico. Abbiamo territori dove la legalità dello Stato è debole, se non assente. Se questa situazione fosse ridotta o estirpata, allora certi strumenti come il 41 bis potrebbero essere abbandonati. Ho vissuto tutti gli anni del terrorismo: in quella fase, quando la minaccia era gravissima, si dovette ricorrere anche a strumenti forti e proporzionati. E uno dei mezzi più importanti non è la proclamazione di pene altissime, come per esempio gli ergastoli, ma il momento dell’esecuzione. Si è capito, in quegli anni, che la fase dell’esecuzione, cioè il momento in cui si esegue la pena, è cruciale nel rispondere a un fenomeno criminale. La modalità con cui viene eseguita di fatto la sanzione è assolutamente rilevante dal punto di vista pratico. E il tempo del terrorismo ha mostrato l’efficacia di determinati strumenti relativi alla gestione della pena. Poi quando la minaccia del terrorismo è scomparsa - oggi ne abbiamo uno diverso, internazionale - allora certi strumenti si sono potuti abbandonare. Analogamente il 41 bis, oggi, è pensato per i fenomeni mafiosi, che purtroppo sono ancora molto forti nel nostro paese.

 

Lei ha esperienza del funzionamento del sistema carcerario all’estero. Che cosa possono insegnarci altri sistemi più efficienti del nostro?

Ho trovato che il sistema penitenziario spagnolo sia molto avanzato - e questo semplicemente perché è uno dei paesi che si è aggiornato più tardi. Ci sono due aspetti interessanti: il primo è che le pene inferiori a sei mesi non comportano mai il carcere. Cioè si considera che una pena troppo breve non consenta un lavoro utile sul detenuto e quindi sotto i sei mesi si trovano altre forme di risposta penale. Un secondo aspetto interessante del sistema spagnolo è che il personale penitenziario è profondamente integrato: non c’è propriamente una polizia penitenziaria perché la sorveglianza viene fatta dalla polizia esterna. All’interno c’è un personale in divisa, ma non di polizia, fortemente integrato con il personale del lavoro e della rieducazione. Poi la Germania, per il suo grado di efficienza e per certe soluzioni più moderne. Per esempio ho visto istituti ad alto indice di sicurezza, con forme di controllo avanzate, in cui il detenuto ha le chiavi della cella. Inoltre il lavoro dei detenuti in Germania avviene con percentuali ben più elevate che da noi: più del 50% dei detenuti, con alcuni istituti in cui a lavorare è il 90%.

 

Rispetto alla nostra è una percentuale abissale…

Sì, è una differenza abissale. E a occuparsi del lavoro è un manager, che deve far quadrare il bilancio alla fine dell’anno. Un altro aspetto che si riscontra all’estero, soprattutto in Inghilterra, è l’attenzione agli aspetti psicologici o psichiatrici del detenuto, che da noi è del tutto insufficiente per ragioni di spesa. Mentre occorrerebbe una presenza - senza fare del carcere un ospedale psichiatrico - che garantisca ai carcerati un’assistenza psicologica. Ovviamente ciò comporta dei costi. Ma ne varrebbe la pena.

 

Vorrei toccare un aspetto più personale del lavoro di un magistrato di sorveglianza. Avendo egli a che fare direttamente con il percorso del detenuto, verrebbe da pensare che sia più giudice di un rapporto tra persone che giudice di un fatto. Quanto un magistrato come Lei è esposto al rischio della libera scelta del detenuto di affidarsi a un percorso educativo o - viceversa - di tornare a delinquere? Penso al caso Izzo, per esempio. Quanto rischia un magistrato di sorveglianza in termini di responsabilità?

È vero che noi non siamo giudici del fatto, perché il fatto è già stato accertato, noi ci troviamo di fronte a una sentenza. Siamo piuttosto giudici della persona o più esattamente della trasformazione della persona. Noi dobbiamo cercare di capire se la persona che ha compiuto quel reato, magari gravissimo, sta cambiando e in relazione a questo cambiamento applicare, secondo le leggi, gli istituti che l’ordinamento penitenziario prevede. Questo giudizio sulla persona è difficilissimo. Chi può dire di conoscere la persona? Neppure noi conosciamo bene noi stessi e comunque non possiamo sapere come reagiremo in determinate situazioni; è un’operazione difficilissima. Un magistrato di sorveglianza deve ridurre il margine di rischio nei limiti di ciò che è ragionevolmente possibile. Tuttavia la società deve avere ben presente che - pur nel pieno rispetto della legge - il rischio non potrà essere del tutto eliminato.

 

Le leggi attuali lo aiutano o no?

Ciò che aiuta più di tutto è l’esperienza. Esperienza che non è solo il diritto perché le leggi segnano una cornice, ma non dicono come si deve dipingere il quadro.

 

Cosa ne pensa degli istituti clemenziali? Vien da pensare che alcuni provvedimenti di amnistia e indulto potrebbero sembrare quasi interferenze nel percorso di responsabilizzazione che un certo detenuto sta facendo…

L’indulto risponde a motivazioni che sono completamente diverse da quelle che presiedono all’attività del magistrato di sorveglianza. Il magistrato di sorveglianza deve semplicemente capire se rispetto a un percorso di trasformazione della persona un determinato istituto penitenziario può essere adatto o no, naturalmente salvaguardando, nei limiti del possibile, i rischi per la società. Invece l’indulto ha bruscamente interrotto un percorso di recupero iniziato da anni, talvolta danneggiando lo stesso detenuto. L’indulto risponde a logiche politiche.

 

Gli extracomunitari stanno diventando una componente importante della popolazione carceraria. E i loro tempi di detenzione non sono mediamente dei più lunghi. Questo immagino che penalizzi l’attenzione verso possibili percorsi di rieducazione e lavoro, perché il detenuto è già proiettato a quando sarà fuori. Che ne pensa? In secondo luogo, ieri il Consiglio dei Ministri, come già previsto, ha istituito il reato di immigrazione clandestina. Qual è il suo giudizio?

Rispetto alla prima domanda è vero, abbiamo in carcere una percentuale sempre maggiore di extracomunitari. In non pochi istituti ormai abbiamo doppiato la metà, ma ci sono istituti dove arriviamo al 70%. Questa presenza è pesantissima ed è complicata non solo dal fatto cui lei accennava, cioè che non si riescono a programmare interventi seri di recupero, ma soprattutto perché, anche se le pene fossero più lunghe, ci sono notevoli difficoltà di lingua e di cultura. Quindi è vero che nei confronti di questa parte della popolazione si riesce a fare meno ancora di ciò che si faceva e si fa nei confronti del detenuto tipico. Non è una cosa semplice trovare una soluzione, si è fatto e si sta facendo ricorso a mediatori culturali, a forme e tentativi di integrazione, a volte anche con buoni risultati, però non bisogna farsi molte illusioni.

 

E sull’introduzione del reato di immigrazione clandestina?

Non mi sento di dare giudizi su ciò che farà, se lo farà, il Parlamento o su ciò che ha fatto il Governo. Penso che questo provvedimento dovrebbe essere accompagnato da una serie di altri interventi, senza i quali o resterà scarsamente applicato oppure in tempi brevissimi rischia di far esplodere le carceri.

 

Cosa dovrebbe accompagnarlo invece?

Dovrebbe trovare posto all’interno di una complessiva strategia di contenimento dei flussi che parta soprattutto dai paesi di provenienza, sulla base di accordi con i paesi di origine e di transito.

 

E dare seguito ad un programma di espulsione in modo capillare potrebbe rivelarsi a dir poco problematico…

Sarebbe difficile e costoso. Supponiamo che la permanenza clandestina sia un reato: ci troveremmo di fronte a migliaia o decine di migliaia di persone che un reato già l’hanno commesso e quindi saremmo nella situazione di dover fare dei giudizi penali, con il costo che ne consegue e con una macchina della giustizia penale già sovraccarica. E ci troveremmo ad avere nuove esecuzioni penali, con nuovi ingressi in carcere. E con un sistema penitenziario che esplode. Non mi permetto di giudicare il provvedimento, mi limito a notare che questa misura dovrebbe rientrare in una strategia più ampia di contenimento del fenomeno immigratorio.

Giustizia: Sappe; queste tre priorità del sistema penitenziario

 

Comunicato Sappe, 26 maggio 2008

 

Una modifica del sistema penale che potenzi maggiormente l’area penale esterna; un incremento sostanziale della Polizia Penitenziaria, sotto organico di 4mila unità; istituire la Direzione Generale del Corpo nell’ambito del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria.

Sono le tre richieste di intervento contenute in una nota inviata oggi al Ministro della Giustizia Angelino Alfano dalla Segretaria Generale del Sindacato autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione della Categoria con oltre 12 mila iscritti.

Scrive nella lettera Donato Capece, segretario generale Sappe: Nell’ambito del Ministero della Giustizia, è indubbio che le problematiche che riguardano il settore penitenziario debbano essere poste tra le priorità d’intervento. Il fallimento del provvedimento d’indulto hanno portato le carceri del Paese a livelli allarmanti di affollamento, con conseguente aggravio della già difficoltose condizioni di lavoro delle donne e degli uomini appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria. È palese, infatti, che la grave situazione penitenziaria che si registra oggi nei nostri Istituti di pena si ripercuote principalmente sulle donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria.

Il Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione sindacale della Polizia Penitenziaria, ritiene doveroso indicare tre fondamentali ipotesi di intervento:

1. una modifica del sistema penale - sostanziale e processuale - che renda stabili le detenzioni dei soggetti pericolosi affidando a misure alternative al carcere la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale, prevedendo procedure di controllo mediante strumenti elettronici o altri dispositivi tecnici come il braccialetto elettronico a cura del Corpo di Polizia penitenziaria;

2. la necessità di prevedere nuove assunzioni nel Corpo, atteso che la grave carenza di Personale che si registra nel Paese si attesta su circa 4.000 unità (dato, questo, recentemente evidenziato anche dalla Indagine conoscitiva sullo stato della sicurezza in Italia, sugli indirizzi della politica della sicurezza dei cittadini e sull’organizzazione e il funzionamento delle Forze di Polizia, redatta dalla I Commissione della Camera dei Deputati);

3. l’istituzione della Direzione generale del Corpo di Polizia Penitenziaria nell’ambito del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria.

La Segreteria generale del Sappe conclude la nota al Ministro Guardasigilli auspicando un prossimo urgente incontro per l’approfondimento delle criticità del sistema penitenziario e del Corpo di Polizia Penitenziaria.

Cagliari: muore una detenuta, indagini su presunto pestaggio

 

Ansa, 26 maggio 2008

 

Sarà l’autopsia disposta dal magistrato della Procura di Cagliari a stabilire le cause della morte di una detenuta del carcere Buoncammino, Rose Ayough, nigeriana di 33 anni, deceduta la notte tra il 22 e il 23 maggio all’ospedale San Giovanni di Dio dove era stata ricoverata due giorni prima, trasferita d’urgenza dall’infermeria della Casa Circondariale. Gli inquirenti sospettano che la donna possa essere stata brutalmente picchiata in carcere, forse per dissidi legati alla pulizia della cella. Nel registro degli indagati - riferisce oggi il quotidiano L’Unione Sarda - è finita una connazionale della vittima, Sony Eke, sua compagna di cella. È accusata di omicidio preterintenzionale, ma il suo il difensore esclude qualsiasi responsabilità e nega che vi sia stato un pestaggio.

Una tesi sostenuta anche dal direttore del carcere, che ha riferito solo di un banale diverbio scoppiato tra le due donne il 14 maggio e annotato sui registri dell’istituto di pena. Rose Ayough era stata arrestata il 27 marzo scorso nell’ambito di un’operazione antidroga: aveva ingoiato 200 grammi di cocaina racchiusa in ovuli che non riusciva ad espellere per una occlusione intestinale, rischiando la morte per overdose.

Roma: i detenuti di Rebibbia imparano il mestiere di pizzaioli

 

www.ilsussidiario.net, 26 maggio 2008

 

Carcere circondariale di Rebibbia. Sei cancelli separano i detenuti dalla libertà. Sei barriere che a entrarci manca l’aria, se non si e abituati, perché oltre alle chiavi da girare ci sono le sbarre a ricordare che si entra in un luogo tutto particolare.

Maria Pia Giuffrida, dirigente generale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del ministero della Giustizia, era stata lungimirante, qualche tempo fa, quando aveva provato a unire i due mondi, quello del carcere e quello fuori dal carcere, proponendo che fossero le imprese a investire sui detenuti, a entrare in galera insomma. Ci aveva provato e qualche impresa, o meglio qualche cooperativa sociale, ha accolto l’invito e ha investito risorse ed energie nel lavoro dei detenuti. "Perché se a coloro che si trovano in carcere - spiega Luciano Panzarotto, responsabile della cooperativa sociale "Men at Work" che assieme all’ "E Team" della Caritas gestisce una mensa all’interno del carcere di Rebibbia - si dà una prospettiva di cambiamento, se si prova a offrire loro un lavoro retribuito, la vita cambia e soprattutto il futuro cambia".

È proprio questo lo scopo dell’inserimento delle imprese nelle carceri: abbattere la recidiva con il lavoro. Su cento detenuti è probabile che accettino di lavorare in venti, ma quei venti può darsi che una volta usciti dal carcere continuino a fare quello che facevano quando erano dentro: lavorare senza tornare a essere delinquenti.

Inizialmente (era il 2003) don Sandro, il cappellano di Rebibbia che con la Caritas già lavorava nel carcere, ha aiutato la "Men at work" nell’inserimento. Non era facile, infatti, cambiare le regole di una mensa che da anni si gestiva a modo suo. I macchinari erano vecchi, vecchissimi. I posti migliori erano assegnati non secondo il merito ma secondo l’anzianità. Metà del cucinato veniva buttato perché ai detenuti non piaceva.

"La situazione spiega Panzarotto era difficile. Il nostro intento era quello di fare impresa, ne più ne meno. Non avevamo, insomma, intenzione di svolgere un’attività di semplice caritativa. No, volevamo fare sul serio, stare alle regole del mercato, lavorare come si deve. Così abbiamo avviato una selezione del personale. Abbiamo dato un avviso a tutti i detenuti dicendo loro che chi lo desiderava poteva partecipare ad un corso di formazione, al termine del quale trenta persone sarebbero state selezionate per lavorare in cucina. Così abbiamo fatto e i migliori trenta sono stati assunti per lavorare".

Da allora alcuni carcerati hanno preso il patentino di pizzaioli acquisendo una professionalità ben retribuita anche fuori dal carcere. Si è trattato di una svolta, poiché prima che "Men at work" mettesse piede a Rebibbia, le cose venivano controllate dall’alto e le guardie si limitavano a gestire una situazione precostituita, dove nulla poteva cambiare perché tutto doveva essere come era sempre stato: lavorava solo chi era più anziano o solo chi aveva guadagnato qualche diritto in base a regole interne tra i detenuti.

Oggi, invece, c’e una possibilità per tutti. "La nostra - spiega ancora Panzarotto - è stata una battaglia d’intelligenza. Per affermare il nostro metodo, quello della meritocrazia, abbiamo dovuto sudare, ma oggi le cose vanno meglio: non soltanto la cucina del carcere è migliore, ma i detenuti che vi lavorano imparano delle regole, imparano una modalità di lavoro e capiscono che questa modalità la possono applicare se vogliono anche una volta fuori".

Bologna: un dvd a fumetti per spiegare il carcere agli studenti

 

Dire, 26 maggio 2008

 

Un dvd interattivo a fumetti aprirà le porte del carcere agli studenti delle scuole superiori di Bologna. Cinque storie di detenuti, donne e uomini, italiani e stranieri, video-testimonianze, testi, giochi, quiz e immagini, aiuteranno gli studenti a conoscere il mondo dietro le sbarre ed a formarsi una propria opinione al riguardo. Con questo intento nasce "Wunder Kammer - La Camera delle Meraviglie", dvd interattivo sul tema dell’esecuzione della pena e della fase post-penitenziaria, frutto di un percorso di collaborazione iniziato nel 2001 tra Comune di Bologna, Istituto di ricerca e formazione Iress, e associazione Gruppo Elettrogeno.

Stampato in 1.000 copie, Wunder Kammer verrà inviato a tutte le scuole superiori bolognesi, e presentato a giugno ai presidi, che da settembre prossimo potranno inserirlo nei percorsi formativi, integrando così le attività che gli ideatori del progetto svolgono già negli Istituti. Il dvd riassume infatti in un unico supporto multimediale le varie esperienze che Iress ha realizzato nel corso degli anni in classe, centri sociali, sedi di Quartiere e altri luoghi di aggregazione sociale della città.

Grazie al nuovo strumento, le scuole potranno quindi formare autonomamente gli studenti sul tema del carcere e della detenzione, al fine di portare i ragazzi a "costruirsi un proprio pensiero, una propria formazione", spiega Elena Di Gioia, di Gruppo Elettrogeno, oggi a Palazzo D’Accursio per presentare il dvd. Iress e Gruppo Elettrogeno, mettono inoltre a disposizione delle scuole i propri operatori, per una presentazione accompagnata del dvd, una vera e propria conferenza spettacolo con attori che recitano la parte dei cinque carcerati.

Wunder Kammer renderà dunque più accessibile il complesso argomento della detenzione, non solo fornendo informazioni sulla storia ed i significati della pena e del carcere e sulle figure e le istituzioni ad essi collegate, ma consentirà anche di visualizzarne alcuni degli aspetti più significativi, a partire da personaggi, racconti, opinioni e punti di vista. Gli studenti impareranno ad esempio cosa si può portare in cella, quali sono le strutture di detenzione a Bologna, ma anche quelle di sostegno, i progetti e le aziende che si attivano dopo che si è scontata la pena. Focus anche su tutti i numeri sulla giustizia bolognese, anche quella minorile.

Per Massimo Ziccone, responsabile Area pedagogica della Dozza, è molto importante "sensibilizzare la città, perché il carcere è sempre più visto come un luogo dove depositare i rifiuti della società". Per Ziccone invece "una società matura deve essere capace non di espellere ma di integrare; solo con il recupero sociale infatti si possono risolvere i problemi, se li continuiamo ad espellere ritornano moltiplicati: un detenuto che esce senza ricevere aiuto è destinato a commettere altri reati".

Il dvd verrà presentato domani al Teatro S. Martino: a momenti di rappresentazione teatrale si alterneranno brani video estratti da Wunder Kammer. Sempre al Teatro S. Martino, dal 28 al 31 maggio, Gruppo Elettrogeno presenta il secondo appuntamento con Il Teatro delle Necessità: verrà proiettato "Il Decalogo delle Donne", video realizzato nella sezione femminile della Dozza. Giovedì e venerdì verrà proiettato in anteprima "Storie di Montesole, ovvero l’incredibile": racconta per immagini l’esperienza del concerto "Canzoni e canzonette", a Monte Sole, nata dal laboratorio di musica condotto nella sezione penale maschile della Dozza, che ha coinvolto detenuti e non.

Livorno: premio letterario, detenuti raccontano la loro infanzia

 

Adnkronos, 26 maggio 2008

 

Racconti, lettere e poesie sulla propria infanzia, sull’assenza della scuola e della cultura, fondamentali nella crescita di un uomo, o semplici monologhi sulla vita in carcere. Questi i temi degli elaborati dei detenuti italiani che concorreranno al Premio "Carlo Castelli" per la solidarietà; si tratta della prima edizione, abbinata alla campagna nazionale della società San Vincenzo De Paoli e la Fondazione Federico Ozanam - Vincenzo De Paoli, "Fatemi studiare, conviene a tutti".

L’iscrizione al concorso, aperta a tutti i detenuti italiani, dovrà essere effettuata entro il prossimo 15 giugno. Al primo classificato andranno mille euro, più la donazione a suo nome di materiale e sussidi didattici ad una scuola di un Paese povero per un valore di mille euro. In palio per il secondo classificato, c’è invece il premio di 800 euro, oltre a una borsa di studio destinata a un minore straniero uscito dal carcere del valore di mille euro. Al terzo classificato andranno 600 euro, più l’adozione a distanza a suo nome per cinque anni, per far studiare un bambino del Terzo mondo (valore 800 euro).

Infine, verrà consegnato un attestato di merito ad altri dieci autori dei migliori elaborati. Il premio è stato intitolato a Carlo Castelli, si sottolinea, torinese morto nel ‘98 che fin dagli anni Sessanta si è dedicato come volontario della San Vincenzo De Paoli nei vari campi assistenziali e dagli anni Settanta ha rivolto tutta la sua attenzione al settore carcerario.

I detenuti che decideranno di battersi a colpi di rime e monologhi, dovranno scegliere tra gli argomenti stabiliti. "Sono stato bambino anch’io: ricordi suggestioni ed episodi dell’infanzia", "Ero bambino, sono carcerato", "La scuola che non ho avuto", "Ignoranza fa rima con ingiustizia".

Gli elaborati, devono ben evidenziare, anche in riferimento ad un proprio vissuto, l’importanza della scolarizzazione, del poter disporre di strumenti di conoscenza che consentano ad un bambino una sana formazione al riparo dei circuiti devianti, che s’instaurano invece più facilmente dove prospera l’ignoranza. Queste le tracce da cui nasceranno i futuri poeti e scrittori dietro le sbarre. Autori che per il momento però resteranno nell’anonimato, visto che gli elaborati non dovranno essere non firmate e prive di riferimenti.

Dovrà invece essere spedito separatamente con l’opera realizzata, un modulo contenente nome e cognome dell’autore, insieme al consenso per il trattamento dei dati personali. A giudicare gli scritti sarà una Giuria prescelta, che poi provvederà alla pubblicazione delle tredici classificate. Infine, la premiazione avverrà tra ottobre e novembre prossimi all’interno di un istituto penitenziario.

Gli organizzatori del premio letterario evidenziano come le persone detenute "hanno spesso alle spalle tristi storie d’infanzia negata, quindi di violenze subite, di mancanza di affetto e di cure, di abbandoni scolastici, costrizione lavorativa, sfruttamento e altre odiose forme di abuso, sia in famiglia che nella società, in contesti d’ignoranza e di degrado".

Dunque, stimolare una riflessione profonda sulle cause che sono all’origine dei propri fallimenti, "aiuta a recuperare consapevolezza e desiderio di cambiamento, a maturare il rifiuto dell’illegalità, per un nuovo senso di cittadinanza". Scrivere dunque per rifiutare l’idea di illegalità, ma anche per annullare la distanza incolmabile con i propri affetti. È il caso dei detenuti del carcere milanese di "Opera" che nell’aprile 2006 hanno dato vita a un libro di poesie d’amore, "Confesso che amo".

La confessione non è di un reato terribile ma il desiderio di dire agli altri, con umiltà, di avere la consapevolezza del male e con pudore dichiarare di non aver perso la capacità di amare. Il libro, illustrato dai disegni di Nicole Gravier, è uno dei messaggi di speranza provenienti da dietro le sbarre, speranza per chi ha scritto le poesie, e soprattutto per chi sta fuori ed è incapace di liberasi dai luoghi comuni e dai pregiudizi rispetto al diverso e a chi ha sbagliato.

C’è poi chi ha trasformato in autentica letteratura la propria esperienza criminale e da detenuto: si tratta dello scrittore americano Edward Bunker, morto nel 2005. Bunker, uscito dal carcere nel 1975, aveva passato quasi tutti gli anni della sua vita, a parte quelli dell’ infanzia, dietro le sbarre. Fin oltre ai quarant’ anni Bunker aveva molta più familiarità con il mondo del carcere che con una sia pur relativa libertà. Tra i suoi racconti un mixer di alcol, droga e crimini. Piccole rapine, spaccio, accoltellamenti.

Il corollario che lo porta in galera e che lo fa restare dietro le sbarre per diciotto lunghi anni. In quegli anni Bunker legge e studia, mentre deve vedersela con un mondo che vuole la sua eliminazione. Quel mondo che così bene descrive in "Animal Factory", dove trova degli amici e da cui riesce ad emergere. E ad entrare anche nel jet-set del cinema hollywoodiano.

Ma al di là della fama e dei successi, il carcere è diventato per Bunker un momento di riscatto attraverso pagine e pagine di scrittura. E come lui sono tanti i reclusi che scelgono la poesia e la scrittura per raccontare le loro storie e creare un ponte con la società libera. Crescono infatti i concorsi e i premi letterari per detenuti, da quelli di poesia e prosa a quelli di narrativa noir, gialla e thriller.

Immigrazione: la super-arma anticlandestini non funzionerà

di Bruno Tinti (Procuratore aggiunto presso il Tribunale di Torino)

 

Piombiamo in un incubo quando leggiamo della nuova arma decisiva per la lotta all’immigrazione clandestina, dello strumento che risolleverà le patrie sorti e libererà l’Italia dalla piaga endemica dei clandestini: il nuovo reato di immigrazione clandestina, punito da 6 mesi a 4 anni.

Chi dunque è immigrato clandestinamente in Italia, secondo i nostri Solone (trattasi di un celebre legislatore dell’antichità) commette reato. Come ogni imputato, anche questo, che da adesso chiamiamo AB Ben Mohamed, deve essere iscritto nel registro degli indagati. In verità è anche detenuto, perché Solone ha pensato di prevedere che l’immigrato clandestino deve essere obbligatoriamente arrestato.

Siccome Solone ha anche pensato che Alì Ben Mohamed deve essere giudicato con rito direttissimo, nelle 48 ore il nostro viene portato in Tribunale. Per giudicarlo hanno lavorato un pm, un giudice, due segretari (uno del pm e uno del giudice), un cancelliere per l’udienza, un numero variabile di poliziotti (chi lo ha arrestato, chi ha fatto il rapporto, ehi 10 ha portato in carcere ecc.), la Polizia penitenziaria della scorta, un interprete e un funzionario amministrativo che gli ha liquidato il compenso che gli tocca. Tempo medio complessivo (senza considerare il lavoro di poliziotti & C) ore 2.

In realtà quasi sempre il processo per direttissima non si farà; perché quel giorno di direttissime ce ne sono 15 o 20; non c’è solo l’immigrazione clandestina che prevede il rito direttissimo. Ancora si commettono reati di porto d’armi e ancora ci sono casi di direttissima per reati piuttosto gravi (per esempio traffico di droga); poi ci sono gli altri reati della Bossi-Fini che fanno concorrenza a questo nuovo arrivato. Insemina, nel 70% dei casi (ma sono ottimista) il processo sarà rinviato.

A quando? Mah, da un mese a sei mesi. Ma soprattutto ci saranno un sacco di motivi per i quale in realtà Alì Ben Mohamed sarà prosciolto. Il punto è che il Codice Penale prevede una scriminante (sarebbe una causa di giustificazione): lo stato di necessità, ad esempio (ari. 54 del Codice Penale). Forse Solone non lo sa, ma si tratta di una cosa che vale per tutti, anche per i clandestini.

In ogni modo, anche se condannato, Alì Ben Mohamed rarissimamente resterà in carcere. E, se anche ci resta, dopo 9 mesi deve essere buttato fuori per espressa disposizione di legge (sono le norme sui termini di carcerazione preventiva, questa cosa orribile che viene sempre vituperata, tranne, pare, per Alì Ben Mohamed).

Ma, e qui la cosa si fa interessante, in realtà Alì Ben Mohamed non deve stare in carcere, deve essere espulso; Solone ha deciso che il giudice, con la condanna, ordina l’espulsione. Questa cosa è bellissima; Solone proprio non sa o non ha capito niente di quello che succede. Dunque, ordine di espulsione, si avvia il procedimento amministrativo per l’espulsione di Alì Ben Mohamed. In soldoni il questore gli notifica un provvedimento che dice che lui deve andare via. Ovviamente Alì Ben Mohamed se ne frega e non va via. Resta a fare il clandestino che a questo punto ha commesso anche un altro reato, quello previsto dall’ art. 14 comma 5 ter della Bossi-Fini.

Sicché, quando lo prendono di nuovo, lo denunciano anche per questo nuovo reato. Anche per questo reato si fa la direttissima; e quindi si riapre tutto quello scenario descritto più sopra, un sacco di gente lavora su Alì Ben Mohamed. Qui Solone dovrebbe sapere che l’assoluzione è la norma; e non perché i giudici sono una manica di incapaci, lassisti, comunisti. Ma perché la situazione (vera, verissima) che Alì Ben Mohamed racconta è la seguente. Cari giudici io ho provato a ottemperare all’ordine di espulsione e, a mie spese, mi sono recato alla frontiera con la Spagna; però lì, quando gli ho fatto vedere l’ordine di espulsione (non i miei documenti perché io non li ho, me li hanno rubati - come si dice, se non è vera è ben trovata), mi hanno detto che non se ne parlava nemmeno e che loro non mi facevano entrare.

Quindi ho provato, nell’ordine e sempre a mie spese, in Francia, in Svizzera, in Austria e in Croazia; ma anche lì mi hanno cacciato via. Alì Ben Mohamed probabilmente finirà in un Cpt (questa è bellissima, il nuovo pacchetto sicurezza contiene una norma decisiva per la lotta alla criminalità in genere e a quella degli immigrati clandestini e no in particolare: i centri di permanenza temporanea non si chiameranno più così, si chiameranno da adesso in poi Centri di identificazione ed espulsione).

Magari il giudice che giudica Alì Ben Mohamed per una volta non è né incapace, né lassista né comunista, e lo condanna. Cosi anche qui Alì Ben Mohamed fa appello, ricorso per Cassazione e intanto gira in strada dove fa danni. Eh sì, perché siccome è clandestino e pregiudicato non trova lavoro. Sicché cosa fa? Spaccia, probabilmente, oppure fa contrabbando di sigarette o vende cd taroccati. Tutto questo scenario, secondo il Solone di adesso, dovrebbe essere moltiplicato per 650.000.

Magari 650.000 proprio no, forse 500.000, forse 400.000. Chi lo sa? Tanto la magistratura deve solo attrezzarsi e ottemperare ai suoi compiti istituzionali, senza sterili e incostituzionali lotte con il potere politico. È ridicolo solo a pensarsi, figuriamo a dirlo o a scriverlo. Cinquecentomila processi per questo nuovo reato non potrebbero mai essere fatti.

È vero che non si può peggiorare un sistema penale come il nostro. È già morto del tutto. Ma, forse, non c’è motivo di essere così pessimisti. Forse non succederà niente di tutto questo. Nel testo del decreto sicurezza questo nuovo reato è previsto così: "Lo straniero che fa ingresso nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente Testo Unico (sarebbero le norme sull’immigrazione) è punito etc.".

Significa che il reato viene commesso nel momento in cui lo straniero fa ingresso nel territorio dello Stato. Siccome anche Solone sa (lo sa?) che c’è l’art. 2 del Codice Penale secondo il quale nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato; e siccome questa nuova legge non c’era (proprio perché è nuova) quando i 650.000 sono entrati; ecco che i nostri clandestini possono stare tranquilli. Loro sono entrati clandestinamente quando la cosa non era reato.

Certo, possono essere espulsi, ripescati, denunciati perché non hanno obbedito all’ordine di espulsione, tutto come prima. Però per il reato di immigrazione clandestina non possono essere processati. I nuovi, quelli che entreranno dopo l’entrata in vigore della legge, questi sì, dovranno essere sottoposti a processo. E siccome non dovrebbero essere del tutto cretini, o comunque i loro difensori qualcosa gli suggeriranno, certamente ci diranno che è vero che sono clandestini, ma sono entrati nel 2007 (a fare tanto) e da allora mai nessuno li ha fermati. Speriamo che siano pochi. Ma se Solone gli immigrati non li vuole proprio, perché non se li espelle da solo con tanti bei provvedimenti amministrativi fatti da questori, prefetti, sindaci e compagnia cantante; e non lascia i magistrati in pace a fare il loro lavoro?

Immigrazione: Giovanardi; il reato clandestinità è ingestibile

 

Ansa, 26 maggio 2008

 

Il reato di immigrazione clandestina è "dannoso e ingestibile": parola di Carlo Giovanardi, esponente del Pdl e sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla famiglia e alla droga, che apprezza la scelta di mettere il provvedimento in un ddl e non nel decreto legge, ma pensa che in Parlamento vada assolutamente tolto. "Dal mio punto di vista - afferma Giovanardi - l’introduzione di questo reato indebolisce la lotta alla clandestinità e non la rafforza".

Il problema, aggiunge, "è che fino ad oggi, per esempio a causa della carenza dei Cpt, la situazione ha portato a rendere poco efficace la politica delle espulsioni e dei respingimenti, che vanno fatti con più decisione". Secondo il sottosegretario "il fatto di processare decine di migliaia di persone, ovvero farli entrare in un circuito penale con primo grado, appello e Cassazione e nel frattempo farli permanere in Italia per i diritti di difesa, rischia di aggravare la situazione e non di risolverla. Io sinceramente sono per togliere questa forma di reato dal disegno di legge e invece rafforzare assolutamente tutti i meccanismi, compresi i Cpt, che consentano l’identificazione e l’espulsione, ma per via amministrativa. Che è molto più rapida rispetto a un procedimento penale. Facciamo un esempio: arriva un barcone con trecento persone, bisognerebbe fare trecento processi".

Immigrazione: 38nne tossicodipendente muore in Cpt Torino

 

Agi, 26 maggio 2008

 

Hanno deciso lo stato di agitazione e lo sciopero della fame gli ospiti, in tutto 61, del Centro di permanenza temporanea di Torino dove sabato mattina è morto Hassan Nejl di 38 anni. Gli ospiti del Cpt torinese, che hanno incontrato oggi l’europarlamentare Vittorio Agnoletto, chiedono chiarezza su quanto è avvenuto e lamentano che al giovane siano mancati i necessari soccorsi. "Ho trovato una situazione di tensione - ha detto Agnoletto al termine della visita al Cpt -, di forte esasperazione tra i detenuti, come io li considero. Ci è stata fatta una ricostruzione a più voci estremamente precisa, diverso da quello che era stato detto. Io chiedo, quindi, che le istituzioni responsabili del Cpt di Torino facciano uno sforzo per ricostruire la verità di quanto accaduto, perché questa vita è vero che non la può restituire nessuno ma sarebbe gravissimo che si scoprisse poi che oltre all’omissione di soccorso c’è anche una parziale ricostruzione dei fatti".

Individuazione di dieci nuovi Cpt e censimento di tutti i campi nomadi esistenti: questo il programma annunciato in tema di sicurezza e immigrazione dal ministro degli Interni, Roberto Maroni, presente oggi all’assemblea degli industriali della provincia di Varese. "Domani vado dal ministro della Difesa - ha detto - per cominciare a dare attuazione al programma sulla sicurezza, in particolare individuando dieci nuovi Cpt in regioni dove non ci sono". Maroni ha inoltre anticipato i prossimi due temi sul tavolo: "Sto studiando il censimento di tutti i campi nomadi, di chi ci sta e di chi ha diritto a starci: chi non ne ha il diritto se ne deve andare. C’è poi la questione dell’accordo con la Libia che dovrà coinvolgere la Presidenza del Consiglio e anche per quello sono ottimista. Tutto questo è in programma nei prossimi tre giorni".

 

Agnoletto: non è andata come hanno detto

 

Hanno iniziato stamattina lo sciopero della fame gli immigrati ospitati nel Centro di permanenza temporanea di Torino dove venerdì notte è morto Hassan Nejl. Lo ha riferito l’eurodeputato di Rifondazione Comunista Vittorio Agnoletto, che questa mattina li ha incontrati con il consigliere regionale Deambrogio, l’avvocato Gianluca Vitale e Giovanni Amedura del Gruppo Migranti. "Ho trovato una situazione di grande tensione e di forte esasperazione tra i detenuti - ha riferito Agnoletto - ed abbiamo raccolto una ricostruzione estremamente precisa di quanto è accaduto. È differente da quanto vi è stato detto". Agnoletto ha poi sottolineato la necessità che gli ospiti del Cpt "non vengano spostati né rimpatriati" fino a quando la magistratura e le forze dell’ordine non avranno fatto chiarezza sull’accaduto. Gli immigrati, secondo le testimonianze raccolte dall’europarlamentare, avrebbero cercato per tutta la notte di attirare l’attenzione del personale di servizio. "Hanno fermato gli operatori lungo la recinzione - ha raccontato Agnoletto - hanno suonato più volte il citofono di cui sono dotate le baracche, ma non è accaduto nulla".

Una versione che si discosta da quella formulata dalla Croce Rossa: "Alle 3.30 - ha sostenuto il colonnello Antonio Baldacci - il nostro personale è entrato nella zona in cui si trovava Hassan Nejl, ma tutti dormivano". "Sarebbe grave - ha aggiunto Angoletto - se all’eventuale omissione di soccorso si dovesse poi aggiungere il tentativo di travisare la realtà. Mi appello alle forze dell’ordine affinché facciano tutto il possibile per ricostruire la realtà". Intanto, è prevista per oggi pomeriggio l’autopsia sul corpo dell’extracomunitario.

 

Barra (Cri): tutti i Cpt siano provvisti di metadone

 

In ogni Cpt ci siano i farmaci necessari ad affrontare la condizione di tossicodipendenza degli ospiti: naloxone e metadone. È l’appello che il presidente della Croce Rossa Italiana, Massimo Barra, rivolge ai responsabili dei centri di permanenza temporanea per immigrati. Barra ha insistito sull’argomento dopo la morte di un giovane tossicodipendente nel Cpt di Torino, dovuta probabilmente non alla dipendenza dalla droga ma ad una patologia virale. "Le cause della morte saranno accertate dall’autopsia, ma il fatto che si tratti di un tossicodipendente mi spinge comunque a chiedere ai responsabili dei Cpt che in ogni centro vi siano tra i farmaci di pronto intervento il naloxone per evitare le crisi da overdose e di metadone per evitare le crisi di astinenza. Spesso nei Cpt dove i tossicodipendenti sono tanti la sola parola tossicodipendente rischia di mandare in paranoia l’intera struttura. E in una situazione aggravata da mancanza di libertà questo può mettere in crisi anche gli apparati sanitari se non si dotano di questi due presidi fondamentali".

 

 

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