Rassegna stampa 28 giugno

 

Associazione Funzionari Polizia: Gozzini inefficace

 

Comunicato stampa, 28 giugno 2008

 

I dati mostrano con chiarezza l’inefficacia, per la prevenzioni dei crimini, del sistema volto al reinserimento sociale dei rei. La sterilità della Gozzini è risultata evidente già l’anno successivo dall’entrata in vigore della c.d. legge Gozzini, infatti nel 1986 furono commessi 2.479,3 delitti ogni 100 mila abitanti, mentre nel 1987 l’indice aumentò del 33% ed i crimini furono 3.299 per 100 mila abitanti. Il trend dei delitti continua a salire con vari picchi e si stabilizza oltre i 4.000 a partire dal 2003.

Perciò, in vent’anni l’indice di delittuosità è aumentato quasi del 100%. Le pene vengono falcidiate sistematicamente, con buona pace del giudicato, dal combinato delle misure alternative con la liberazione anticipata. Infatti, quest’ultima prevede uno sconto della pena di 45 giorni ogni 6 mesi di detenzione. Perciò, ad esempio, un soggetto condannato ad 8 anni di reclusione, con tale sistema, sarà posto in libertà dopo 6 anni e 3 mesi e potrà, comunque, essere ammesso ai benefici dei permessi premio, della semilibertà e della libertà condizionata.

Se, poi, si tratta di un tossicodipendente dopo 18 mesi può essere ammesso alle misure alternative nei programmi di recupero. Peraltro, il nuovo espediente utilizzato dalla criminalità organizzata è l’alcool-dipendenza, che consente di essere liberati o di eludere la pena sino a 6 anni di reclusione. Infatti, troppo facilmente si certificano le alcool-dipendenze dai Ser.T., quasi fosse una malattia riconosciuta come causa di servizio, come, peraltro, affermato nella relazione parlamentare della XV legislatura sullo stato della sicurezza in Italia.

Le Forze di Polizia con grande sacrificio adempiono al loro dovere, tanto che le persone denunciate sono passate dalle 435.751 del 1990 alle 651.485 del 2006 e nell’ultimo quinquennio si passa dalle 125.689 persone arrestate nel 2002 a 153.936 del 2006. Ora sta al mondo della politica dare risposte certe.

 

Anfu - Associazione Nazionale Funzionari di Polizia

Il Segretario Nazionale, Enzo Marco Letizia

Margara: lasciamoli in galera, recidiveranno 3 volte di più!

di Alessandro Margara (Presidente Fondazione Michelucci)

 

Lettera alla Redazione, 28 giugno 2008

 

Il comunicato dell’Anfu è esemplare per dimostrare come chi svolge una attività importante ed essenziale dello Stato non ne conosca il funzionamento sostanziale: quali sono, cioè, le condizioni che dettano le linee e gli effetti di quel funzionamento.

Prescindo, per ora, dal collegamento Gozzini-indice di criminosità e mi soffermo essenzialmente su due condizioni che influenzano quell’indice. La prima è l’ampliarsi della penalità, ovvero della normativa che prevede sanzioni penali e in particolare sanzioni detentive. Come emerge dalle statistiche, le esecuzioni penali detentive nel 1990 erano 36.300 (30.000 erano in esecuzione pena in carcere e 6.300 in misura alternativa). Negli anni che hanno preceduto il condono, le esecuzioni penali detentive erano circa 180.000: 60.000 detenuti + 50.000 misure alternative + un numero elevato di esecuzioni penali detentive in attesa di decisioni da parte dei tribunali di sorveglianza ai sensi della legge Simeone, numero che oscillava intorno alle 70.000. Sicuramente questi dati sono espressi con larga approssimazione, ma lo erano anche quelli del 1990. Se notiamo, però, che si tratta della quintuplicazione delle esecuzioni penali detentive, ci rendiamo conto che la penalità si è moltiplicata e non ci vuole molto a rilevare che ciò è accaduto con riferimento a due settori ben determinati: immigrazione e tossicodipendenza e alle norme relative, che vengono ora ancora modificate e sempre più severamente.

La seconda condizione che determina il lievitare dell’indice di criminosità è che lo stesso è ricavato dalla efficacia del contrasto alle situazioni di reato. Ciò che si ricava da quell’indice è il numero accertato formalmente dei reati, che hanno un loro numero oscuro, come si dice, che non è noto. Ora il contrasto di polizia verso l’immigrazione e le dipendenze è ben noto. Quando nel comunicato dell’Anfu si nota la crescita delle denuncie, si dovrebbe verificare quanti, dei fatti denunciati riguardano tossicodipendenti e immigrati, e chiedersi se la linea di intervento di polizia non incide fortemente su queste denuncie e non sia dovuto alla intensificazione del controllo di polizia su quei fenomeni. Lo stesso dicasi per gli arresti, per i quali abbiamo come riprova, tutte le rilevazioni statistiche che dimostrano che tossicodipendenti, immigrati e anche persone in difficoltà sociali (e quindi fonte di disturbo sociale, quest’ultimo ormai sempre più contrastato) rappresentano i due terzi dei detenuti.

Certamente occorrerebbe conoscere le componenti dell’indice di criminosità. Là dove sono state fatte ricerche, proprio negli Stati Uniti, è stato del tutto smentito il rapporto fra severità del trattamento penale e, cioè, alti livelli di carcerazione, e la crescita o la diminuzione del numero dei reati. Le circostanze che influiscono sulla crescita o la diminuzione dei reati sono molteplici e seguono un andamento sul quale influiscono l’andamento dell’economia, le modalità delle aggregazioni criminali, le tipologie della immigrazione (molto rilevante anche là). Sicuramente non influisce la severità penale ovvero quella che è stata chiamata tolleranza zero.

Alla fine, c’è da chiedere agli autori del comunicato Anfu, che ci azzecca, come dice Di Pietro, la legge Gozzini con l’andamento dell’indice di criminosità? Come si è detto quella legge incide sulle modalità delle esecuzioni penali, ma questo è un dato a monte dell’intervento Gozzini. Se si vuole, si possono comunque aggiungere due dati. Il primo è che le revoche delle misure alternative sono minime (tra il 3,5 e il 4,5 %) e che tali revoche sono pronunciate per commissioni di nuovi reati in circa lo 0,20 % dei limitati casi indicati. Il secondo è che risulta da ricerche del Dap che la recidiva di chi espia la pena in misura alternativa, dopo 7 anni dalla conclusione della esecuzione della misura, è di 3 volte e mezzo inferiore a chi espia la pena in carcere. Quindi: lasciamoli in galera, recidiveranno 3 volte e mezzo di più.

Preferire la forza della ragione alla ragione della forza

 

Comunicato stampa, 28 giugno 2008

 

Semplicistica è la tesi di chi legge nei recenti, numerosi, casi di violenza da parte di detenuti registrati nei confronti degli operatori penitenziari, innanzi tutto di polizia, la naturale conseguenza del riformarsi del sovraffollamento nelle carceri.

Certamente concentrare un numero eccessivo di persone detenute in strutture che non sono, obiettivamente, in grado di contenerle, favorisce lo scatenarsi di situazioni di criticità e di tensione, ma la causa non può essere solo e sempre quella.

In verità la sensazione, diffusa tra tutto il Personale (nessuno escluso), è che si stia progressivamente perdendo la caratterizzante attitudine professionale (mai concretamente monetizzata) di riuscire a rimanere "freddi" in situazioni calde, razionali in situazioni dove gli animi dei detenuti risultino essere tesi e concitati, di riuscire ad imporsi, preliminarmente, con la forza della ragione e della parola, facendo comprendere come non giovi a nessuno peggiorare la qualità dei rapporti umani o far precipitare le situazioni.

Il carcere è sempre stato, e continuerà ad essere, un luogo "difficile", e sicuramente il Sidipe e la Cisl, nei tavoli in cui interverranno, in tema di rinnovi contrattuali, ribadiranno tale elementare principio, affinché sia "pesato" in termini retributivi ed attraverso mezzi di protezione sociale adeguati, rimarcando le differenze: la polizia e gli operatori penitenziari stanno "in mezzo", per l’intero arco della loro giornata lavorativa, alle più diverse, e talvolta spietate, criminalità prigioniere.

Non bisogna essere sociologi per comprendere come i detenuti malvolentieri si sentano ospiti nelle patrie galere, non risultando sufficiente il subentrare della rassegnazione: in carcere anche i problemi talvolta più semplici e banali vengono vissuti come gravi ed insormontabili; il rischio ed il conflitto sono sempre in agguato.

Proprio l’esigenza di questa consapevolezza, che andrebbe particolarmente curata in sede di formazione professionale, dovrebbe spingere gli operatori penitenziari a mettere in campo la loro migliore performance, la loro capacità di non perdere il controllo delle situazioni, anche ove le stesse appaiano pronte a collassare.

I dirigenti penitenziari sono i primi testimoni a tal riguardo, in particolare quelli che hanno avuto la fortuna d’incontrare nella propria vita professionale Comandanti "mitici", Marescialli poi divenuti Ispettori e Commissari, che con uno sguardo "gelavano" quello dei mafiosi, che con poche parole, pur essendo uomini di parola, placavano gli animi irruenti e, senza mai consigliare ai Direttori l’utilizzo di alcun strumento speciale di dissuasione violenta, riportavano immediatamente l’ordine all’interno delle sezioni, non invocando l’aiuto di Prefetti o delle altre Forze di Polizia, finanche dell’Esercito.

Così come non si può dimenticare il valore e l’impegno profuso, per anni, da ispettori che svolgevano i compiti di Comandante, dove l’assenza di titoli di studio e di dottorati erano ben compensati da una esperienza viva sul campo, in trincea, e che mai si sarebbero sognati, per riportare l’ordine in un reparto detentivo, di far scendere in campo poliziotti penitenziari che usassero pistole "elettriche" o altri strumenti di nuova concezione, ben comprendendo che, in una situazione dove la consistenza numerica vede, irrimediabilmente, minoritari i poliziotti penitenziari, il rischio che quelle stesse armi possano "cambiare" di mano è un fatto concreto, al punto da sconsigliarne l’adozione.

Non è un caso, e non è una dimenticanza, se i poliziotti penitenziari all’interno delle sezioni non portano armi o altri strumenti di difesa. Se si volessero dotare gli agenti di spray immobilizzanti, ad esempio, essi andrebbero distribuiti a tutto il personale come dotazione individuale, e dovrebbe ricordarsi che un agente può trovarsi, solo con se stesso, a confrontarsi anche con 50 e più persone detenute all’interno di un cortile passeggi, di una sezione, di un’aula scolastica, di un parlatorio, di una infermeria, etc., idem ove avesse una pistola che emetta scariche elettriche, e se pure fosse in grado di utilizzare gli artifizi, senza che diventino uno strumento contro di lui, sarà poi automaticamente assolto da ogni responsabilità lì dove, facendone ricorso, un qualche detenuto riportasse conseguenze gravi sul piano fisico, tenendo conto che spesso i detenuti, quali i tossicodipendenti e tanti stranieri, possono essere portatori di malattie debilitanti o comunque non in buona salute?

L’attuale legislazione e la giurisprudenza, insieme con la c.d. "società civile", starebbero con il poliziotto penitenziario oppure contro? Altra cosa è impedire, usando le armi in dotazione da parte delle sentinelle (figure ormai rare e da collezione in diversi istituti), l’evasione di un detenuto, altro è essere costretti a ricorrere, in situazioni di forte criticità, a sfollagente e scudi, gas lacrimogeni o lance antincendio.

Ma queste sono considerazioni comuni a tutti coloro che, per davvero, operino all’interno delle carceri e non certo quelle di quanti, cerchino di affrontare le criticità illudendosi che un armamentario diverso risulterebbe risolutivo.

È la presenza di personale di polizia penitenziaria e degli altri operatori tutti che andrebbe, al contrario, esigita e maggiormente assicurata, non abbandonando quelle poche residue nelle stesse, in sezioni detentive sempre più affollate di detenuti e, contestualmente, depredate negli organici di polizia che si vorrebbe impegnare altrove, purché fuori dagli istituti penitenziari: pensate quale grande sollievo sarebbe per un giovane agente non sentirsi soli, ed avere un compagno di lavoro accanto, nei posti di servizio!

Altro che "colpi di sole", è l’ombra ed il buio che molti sembrano voler continuare a preferire in questa calda estate.

 

Enrico Sbriglia, Segretario Nazionale Sidipe

Marco Mammucari, Coordinatore Nazionale Penitenziario Cisl-Fps

Giustizia: Alfano; sì all’utilizzo del "braccialetto elettronico"

 

Corriere della Sera, 28 giugno 2008

 

Braccialetti elettronici, terminali e radiolocalizzatori nelle centrali operative. Questa la ricetta tecnologica condivisa dal ministro della giustizia Alfano e i sindacati di polizia penitenziaria per migliorare la situazione nelle carceri italiane.

Il ministro della giustizia Angelino Alfano, dopo l’incontro a Roma con i sindacati di Polizia penitenziaria si è espresso in maniera favorevole all’utilizzo di procedure di controllo mediante dispositivi tecnici come il braccialetto elettronico.

"Una strada nella quale occorre muoversi, è quella di una nuova politica della pena, necessaria e indifferibile, che preveda un "ripensamento" organico del carcere e dell’Istituzione penitenziaria, avvalendosi anche della tecnologia" - ha detto il ministro durante il confronto con i rappresentanti dei sindacati.

Soddisfazione per le parole del guardasigilli le esprime Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria), prima e più rappresentativa organizzazione di categoria che da tempo chiede a gran voce l’adozione del braccialetto elettronico per il controllo dei detenuti con pene brevi da scontare.

Il Sappe, per altro, ha appena concluso l’organizzazione di un convegno nazionale proprio sul tema dell’utilizzo della tecnologia in ambito di giustizia e sicurezza, in particolare sull’uso del braccialetto elettronico. Il dibattito ha visto confrontarsi sull’argomento, ma anche sulle novità introdotte dal pacchetto sicurezza proposto dal governo Berlusconi, i rappresentanti della polizia e dell’amministrazione penitenziaria, gli amministratori locali e i parlamentari di entrambi gli schieramenti.

"Il braccialetto elettronico ha finora fornito in molti paesi europei una prova indubbiamente positiva. E se la pena evolve verso soluzioni diverse da quella detentiva, anche la polizia penitenziaria dovrà spostare le sue competenze al di là delle mura del carcere, parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e propria polizia dell’esecuzione penale - ha spiegato Capece - il controllo sulle pene eseguite all’esterno e sull’adozione del braccialetto elettronico, oltre che qualificare il ruolo della polizia penitenziaria, potrà avere quale conseguenza il recupero di efficacia dei controlli sulle misure alternative alla detenzione. Efficienza delle misure esterne e garanzia della funzione di recupero fuori dal carcere - ha concluso il segretario generale del Sappe - potranno far sì che cresca la considerazione della pubblica opinione su queste misure, che nella considerazione pubblica, non vengono attualmente riconosciute come vere e proprie pene".

Giustizia: manca legge tutela di chi subisce un reato violento

 

La Stampa, 28 giugno 2008

 

Ustica, e anche il 2 agosto, la stazione che salta in aria, l’aereo militare che si infila in una scuola di Casalecchio, la banda della Uno bianca. Centinaia di morti e di feriti. Vicende giudiziarie infinite. Risarcimenti che arrivano dopo anni e anni. Non è un caso che a Bologna e in Emilia Romagna siano in tanti a occuparsi di vittime, che qui hanno acquistato peso politico. Perché sono tante, e riunite in associazioni. E non si dimenticano delle "altre" vittime, quelle di omicidio, stupro, aggressione, e delle loro famiglie. Come invece fa il governo italiano. Che a differenza del resto d’Europa da anni non riesce a dotarsi di una legge, e di un fondo, a tutela di chi subisce un reato violento. Come ogni anno ricorda Paolo Bolognesi, tenace presidente dell’associazione delle vittime della strage del 2 agosto 1980, nel suo discorso dal palco della stazione.

Bolognesi è stato vicepresidente dell’Osservatorio sulle vittime che istituì Piero Fassino, allora ministro della Giustizia, nel 2001. Prima di venire soffocato in culla, l’Osservatorio ha prodotto una proposta di legge quadro. Consegnata al ministro della Giustizia, era Roberto Castelli, si è persa nei corridoi. Di proposte di legge sulle vittime il parlamento non è carente, vengono da destra come da sinistra. Due le richieste: l’istituzione di un fondo, e la modifica dell’articolo 111 della Costituzione, dove è stato inserito il giusto processo ma le vittime non sono nominate. Tutto fermo. Con Prodi come con Berlusconi. "Forse avevano di meglio da fare", ipotizza Bolognesi. L’indulto? "Per esempio". Altro? "Non potrebbero neppure pensare di bloccare i processi, se le vittime avessero diritti costituzionali".

Alcuni fondi già esistono: per le vittime del terrorismo, della criminalità organizzata, dell’usura e del racket, e poi del lavoro, delle calamità naturali e della strada. Per le "altre" non c’è nulla. Con due eccezioni: la Lombardia, che ha attivato un’assicurazione, e l’Emilia Romagna, che invece ha istituito la Fondazione per le vittime dei reati, presidente il giornalista e senatore Sergio Zavoli. Creata nel 2004, a oggi dal suo fondo ha preso 530.000 euro per 52 casi e assistito 70 tra vittime e familiari, dei quali 41 donne e 25 minori. Gli interventi vanno da 2.000 a 30.000 euro, per assistenza psicologica, cambi di abitazione, rate del mutuo, sostegno allo studio, spese mediche, legali, funerarie. Se ci sarà un futuro per le figlie della donna albanese uccisa dall’ex marito, che ha sparato nel tribunale di Reggio Emilia prima di essere freddato dalla polizia, sarà anche grazie alla Fondazione. Cambiare casa, per una donna perseguitata che ha già subito violenza e continua a ricevere dallo stupratore fino a 200 telefonate minacciose al giorno, è cosa che costa. Come costa mettere una porta blindata nella casa di una donna che ha visto il marito ucciso e ancora si sente in pericolo. Interventi immediati, richiesti dal sindaco del luogo di residenza delle vittime o dove è successo il fatto, e disposti da un comitato di garanti. Che non aspettano il terzo grado di giudizio, perché l’aiuto serve subito.

Augusto Balloni è presidente della Società italiana di vittimologia, sede a Bologna: "Hanno meno tutele del reo. Manca l’informazione, almeno uno sportello, o un vademecum. Non esiste un fondo, ma neppure il gratuito patrocinio". Diritti garantiti in tutta Europa tranne che in Italia e Grecia. Non abbiamo mai ratificato la Convenzione europea del 1983, relativa al risarcimento delle vittime di reati violenti. Non abbiamo recepito la decisione quadro del 2001. La direttiva del 2004 che impone, anche, "l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti", ha prodotto un decreto legislativo a fine 2007. Nella relazione che lo ha accompagnato si ricorda che fondi e patrocinio gratuito ci sono, per alcune vittime. Le "altre", che aspettino.

Giustizia: Rossi e Pecorella; dalla "salva premier" al "lodo"

 

www.radiocarcere.com, 28 giugno 2008

 

Pubblichiamo l’intervista doppia a Gaetano Pecorella, avvocato, professore di procedura penale e deputato del Pdl e a Nello Rossi, procuratore aggiunto presso il Tribunale di Roma ed ex segretario dell’Anm.

 

Che dire delle leggi ad personam?

Pecorella: Con questa logica delle leggi ad personam prima si getta fango su un Governo che le ha approvate, ma poi non vengono cambiate. Quindi saranno sì anche leggi ad personam, ma evidentemente funzionano.

Rossi: Un "diritto penale dell’amico" può alterare profondamente il corso della giustizia. Anche perché i principi del diritto penale sono stati concepiti per scongiurare il pericolo opposto e cioè un "diritto penale del nemico".

 

Non le pare che l’emendamento sulla sospensione dei processi prende atto di un problema ma non lo risolve?

Pecorella: L’emendamento ha la sua razionalità in un sistema che ha un enorme quantità di processi che non riesce a smaltire. Credo anche che il testo vada migliorato, eliminando dalla sospensione altri reati che riguardano la sicurezza dei cittadini.

Rossi: È una scelta criticabile perché non aiuta a realizzare l’obiettivo della ragionevole durata dei processi, può danneggiare gli imputati innocenti e le vittime di reati e rischia di produrre disorganizzazione dell’intera attività giudiziaria.

 

Non sarebbe stato più logico fare un’amnistia per quei processi che comunque sono desinati alla prescrizione o che hanno la pena indultata?

Pecorella: In questo momento non ci sono le condizioni politiche per un’amnistia, anche se sarebbe la via meno tortuosa.

Rossi: Due giorni dopo l’approvazione dell’indulto dissi, in una intervista, che serviva un’amnistia seria e selettiva. Oggi non mi resta che ripeterlo.

 

Giuste le critiche altrettanto giusta la reazione della magistratura associata?

Pecorella: Io credo che la reazione dell’Anm sia solo politica perché non si vede come rinviare di un anno alcuni processi possa mettere a rischio le istituzioni, quando sono gli stessi magistrati ogni giorno a rinviare i processi a sei mesi se non di più.

Rossi: L’Anm espone il suo punto di vista partendo dall’esperienza, augurandosi che la politica ne tenga conto. E lo fa senza pregiudizi , esprimendo meditati consensi e meditati dissensi, sempre molto ragionati. Probabilmente oggi la voce della ragione è flebile, ma non è una buona ragione per tacere.

 

Vi è un effettivo pericolo per la nostra democrazia?

Pecorella: Se un pericolo c’è sta nel fatto che mentre i cittadini con il loro voto scelgono chi li deve governare, i magistrati con alcune indagini scelgono quale politico di turno mandare a casa. È successo a Berlusconi, che poi è stato assolto, ma anche al Governo Prodi.

Rossi: Non grido ai pericoli per la democrazia. Dico però che adottare soluzioni sbagliate che rischiano di ritardare ulteriormente il funzionamento della giurisdizione nuoce ad una istituzione fondamentale dello Stato democratico di diritto.

 

La legge ad personam: il male o il sintomo di una democrazia malata?

Pecorella: La legge ad personam, in ipotesi, è un sintomo di una democrazia malata nel senso che è un atto di difesa della politica dagli attacchi della magistratura. È un problema di equilibri tra le istituzioni.

Rossi: Non darei per scontato che abbiamo una democrazia malata; direi piuttosto che la nostra democrazia presenta difetti e anomalie. Ed è sicuramente un’anomalia l’idea che possano esservi leggi ad personam in materia penale.

 

Un sintomo causato da leggi elettorali incostituzionali, che non permettono all’elettore di scegliere a chi affidare l’amministrazione del paese?

Pecorella: È una legge che consente di stabilire il leader che deve governare, ma è anche vero che è una legge che non consente di scegliere i singoli rappresentati, che invece sono scelti dai partiti. E questo non credo sia il massimo per una democrazia.

Rossi: Con questa legge elettorale si rischia di avere un parlamento composto di "nominati" più che di "eletti" ; e ciò può tradursi in una dannosa debolezza del sistema democratico. Una debolezza che da cittadino non giudico positivamente.

 

Non ritiene che non vi sia una democrazia laddove il Parlamento è composto da coloro che vantano legami con chi dirige i diversi schieramenti politici?

Pecorella: Di fatto manca un vero dibattito all’interno dei partiti.

Rossi: La preziosa indipendenza di giudizio del singolo parlamentare è tanto più forte quanto più diretto è il suo legame con gli elettori.

 

Una diversa legge elettorale garantirebbe una qualità migliore della politica?

Pecorella: Io credo di si, basta guardare la realtà all’interno dei partiti. Oggi il livello culturale della politica è molto basso. E questo proprio perché si è candidati a prescindere dalle capacità personali.

Rossi: Il sistema elettorale ha sempre un ruolo di grandissima importanza nel conformare una democrazia e nel selezionare la classe politica. E meccanismi elettorali che favoriscano la cooptazione non sono certo i migliori .

 

Il ruolo politico che la magistratura associata si è attribuita non costituisce un altro sintomo di un democrazia malata?

Pecorella: L’Anm non dovrebbe sovrapporsi al Parlamento né tantomeno fare politica. La ricusazione che è stata proposta dal Presidente Berlusconi è in teoria una ricusazione che riguarda l’80% della magistratura, perché è la magistratura associata che costituisce l’accusatore collettivo del Presidente Berlusconi.

Rossi: Escludo che l’Anm ambisca ad esercitare un "ruolo politico". Ma ha il diritto di parlare di giustizia, di processi, di magistrati. Ed ha il dovere di difendere i magistrati ingiustamente accusati solo per aver fatto il proprio dovere.

 

La critica all’azione di governo non dovrebbe essere esclusiva delle forze politiche?

Pecorella: Ma certo, e non solo di quelle dell’opposizione. Guardi, lo dico senza polemiche, il magistrato guadagna in credibilità nel momento in cui non attacca nessuno che un domani potrebbe giudicare. Un magistrato che con il silenzio, il distacco tutela la sua imparzialità.

Rossi: Il problema è il tono e lo stile della critica. Dai magistrati e dalla loro associazione i cittadini non si attendono né il silenzio disinteressato né il grido fazioso ma il ragionamento, la capacità di ascolto e di proposta, la ragionevolezza.

 

Quale è la giustificazione costituzionale che porta i rappresentanti della magistratura associata a chiedere di essere ricevuti dal Capo dello Stato?

Pecorella: Nessuna. I magistrati ne potevano discuterne al Csm, ma il Presidente della Repubblica non doveva e non deve essere mai coinvolto in vicende politiche di parte come è stata questa. Credo che sia stata una scelta sbagliata e dannosa per l’alta immagine del Presidente della Repubblica.

Rossi: Il Presidente della Repubblica, che è anche presidente del Csm, è un protagonista fondamentale del mondo della giustizia. È quindi fisiologico ed appartiene alla prassi della vita repubblicana che ascolti anche i rappresentanti dell’ANM.

 

Lo scontro rude a cui si assiste tra magistrati e Premier dove porta?

Pecorella: Io spero che ci porti finalmente all’introduzione della sospensione dei processi per le altre cariche dello Stato. Altrimenti si rischia di fare un danno enorme al Paese. Dobbiamo trovare dei punti di convergenza e su quei punti lavorare.

Rossi: Non abbiamo né la volontà ne l’interesse di essere parte di uno scontro istituzionale. Non rinunciamo però a far sentire la nostra voce quando crediamo che si debbano evitare conseguenze negative per la giustizia.

 

Dal ‘94 ad oggi si ripete questo scontro tra politica e magistratura. Ma da allora l’Italia, o almeno la giustizia italiana, è migliorata o peggiorata?

Pecorella: È peggiorata, anche perché la magistratura la deve smettere di intromettersi nella vita politica del paese, e lo dico con molto rispetto.

Rossi: Da molti anni, ormai, la giustizia italiana vive una crisi profonda che nessun governo, sia di destra che di sinistra, ha mai voluto affrontare.

 

Non sarebbe auspicabile se non un dialogo almeno uno scontro costruttivo, che oltre alla critica fornisca soluzioni?

Pecorella: L’Anm ha fatto delle interessanti proposte per migliorare la Giustizia. Credo che dobbiamo saper raccogliere le soluzioni indicate dalla magistratura.

Rossi: Guardi, tutte le risposte che ho dato fin ora sono ispirate ad una logica precisa: nessuno scontro, ma la volontà di ragionare sui problemi concreti, sul merito.

 

Una legge che sospende i processi per le alte cariche dello Stato, con i dovuti correttivi, è irragionevole?

Pecorella: È una legge necessaria per dare stabilità politica al Paese. Sia ben chiaro, nessuna impunità, ma solo prevedere la sospensione dei processi per le alte cariche dello Stato. Processi che riprenderebbero scaduto il mandato.

Rossi: Questo è un tema della politica. Da affrontare tenendo conto dei principi e delle regole della Costituzione. E magari rileggendo la sentenza n. 24 del 2004 della Corte costituzionale che ha già annullato una normativa di questo tipo che era stata mal concepita.

 

Sarebbe auspicabile l’approvazione di questa legge e la responsabile sospensione da parte dei magistrati dei processi in corso?

Pecorella: Assolutamente si, in modo che il Capo del Governo si possa occupare del Paese e non dei suoi processi.

Rossi: Della ipotesi di una nuova legge ho già detto. Per il resto i magistrati hanno il dovere di fare i processi e non quello di sospenderli.

 

Non sarebbe auspicabile che un magistrato si astenesse dal manifestare pubblicamente la propria opinione politica come un arbitro di calcio si dovrebbe astenere da dichiarare la squadra per cui tifa?

Pecorella: Direi di si, d’altra parte come si può sentire un cittadino, che è anche politico, ad essere giudicato da un magistrato lo ritiene politicamente avversario?

Rossi: Non credo alla figura di un magistrato "disinteressato" ai problemi della città ; mi auguro invece un magistrato "interessato" alla vita collettiva ma capace di tendersi consapevolmente verso l’imparzialità nell’atto del giudicare.

 

Non sarebbe auspicabile che un magistrato si astenesse dal giudicare colui che ha pubblicamente criticato?

Pecorella: Tra le cause di astensione del giudice ci sono ragioni di opportunità. Ecco credo che quando un magistrato abbia pubblicamente criticato la politica dell’imputato che deve giudicare, sia più che opportuno il dovere di astenersi dal giudizio in quel processo.

Rossi: Non vedo come la manifestazione pubblica di opinioni anche su temi scottanti possa ledere l’imparzialità di un magistrato. Se si riferisce alla dottoressa Gandus, credo che sia del tutto sbagliato ipotizzare una sua astensione solo per aver sottoscritto anni fa un documento di critica a provvedimenti del governo Berlusconi.

 

È possibile che colui che è giudicato non ritenga il suo giudice imparziale?

Pecorella: Si è possibile, ci sono magistrati che, magari per esperienze personali, si sa da prima essere particolarmente severi e prevenuti nei confronti di certi reati.

Rossi: Certo che è possibile e per questo ci sono le regole sulla ricusazione e sull’astensione. Il resto è chiacchiericcio o l’utilizzazione di posizioni di potere per insinuare il dubbio sull’imparzialità di un giudice.

 

I processi ad personam?

Pecorella: Basta vedere i processi fatti a Berlusconi dopo la sua scesa in politica. Prima del ‘94 nulla, ma dopo…

Rossi: La sua è una malizia, molte volte ripetuta. Ma per suffragarla occorrerebbe essere più precisi e discutere caso per caso.

 

La legge è veramente uguale per tutti?

Pecorella: I magistrati dovrebbero fare il possibile per avvicinarsi al principio di eguaglianza, ma purtroppo da quando la politica si è impadronita dei processi è diventato assai improbabile che la legge sia uguale per tutti. Perché se c’è qualcosa che divide gli uomini e un paese e proprio la politica.

Rossi: No. Ogni giorno nelle aule di giustizia si celebrano processi a soggetti "deboli" e mal difesi che non sono affatto uguali a chi, con maggiori risorse, si avvale di ausili difensivi straordinari.

 

La magistratura oltre a criticare è anche autocritica?

Pecorella: Lo fa molto di rado. Credo anzi che in alcune occasioni una sana autocritica avrebbe ridato credibilità alla magistratura. Un esempio tra tutti: l’incitamento di Borrelli "resistere, resistere..". Un incitamento più da capo popolo che da Procuratore generale.

Rossi: Non si è mai abbastanza severi con se stessi. Ma basta confrontare la giustizia disciplinare dei magistrati con quella degli avvocati o di altre categorie di professionisti, per rivalutare la magistratura.

 

Nessun commento della magistratura relativamente alla follia del caso Pappalardi, una delle pagine più brutte della giustizia italiana?

Pecorella: È vero, e la cosa peggiore è stata che di fronte all’errore si è tenuto in carcere Pappalardi. E tutto per non dire: abbiamo sbagliato.

Rossi: Facciamo un lavoro difficile. L’errore è sempre in agguato ed ha spesso gravissime conseguenze. Per questo sono previsti e devono funzionare controlli rigorosi.

 

Un padre arrestato perché accusato dell’omicidio dei figli, dipinto come un mostro, scagionato solo grazie al caso fortuito?

Pecorella: Ma non solo, probabilmente Pappalardi doveva essere scagionato prima, perché quell’indagine oggi appare veramente piena di lacune, per non parlare del ritrovamento casuale dei fratellini a cui lei fa giustamente riferimento.

Rossi: L’errore giudiziario ti toglie sempre il fiato e la parola. Ma il sistema giudiziario è concepito proprio per rimediare nei limiti dell’umanamente possibile all’errore umano.

 

Si ha la sensazione di trovarsi di fronte a due caste che fanno dell’autoconservazione il loro principio ispiratore?

Pecorella: L’idea è che nel Paese ci siano due corporazioni, magistrati e politici, che si scontrano forse senza interessarsi a sufficienza ai veri problemi della magistratura e della politica.

Rossi: Mi permetta una battuta: dal punto di vista economico direi che il paragone proprio non regge! Per il resto le dico che la magistratura ha cessato da tempo di essere una casta. Ed il suo nuovo modo di essere è anche frutto dell’azione culturale delle associazioni dei magistrati.

Giustizia: sostituire le contrapposizioni sterili con produttive

di Fulvio Conti

 

www.radiocarcere.com, 28 giugno 2008

 

L’Anm muta rotta. Abbandona la contrapposizione fine a se stesa per provare ad avere una contrapposizione produttiva. I suoi maggiori rappresentanti perseverano nella critica della legge ad personam e, affermando: non spetta a noi, aprono ad un nuovo lodo Schifani. I dirigenti dell’associazione di categoria avanzano cautamente verso la ripresa di un dialogo con la preoccupazione di non irritare ulteriormente una base che non tollera le critiche violente del Presidente del consiglio. Una base che si preoccupa di non perdere potere e che sembra fuggire da qualunque autocrica.

Il Colle con in prima linea il suo Consigliere giuridico, magistrato di lungo corso, che a guidato il gabinetto del Ministero della giustizia, si prodiga per non far precipitare la situazione e per recuperare un dialogo produttivo.

La via è a senso unico. L’emendamento "sospendi processi" non è proprio di un paese civile ed inoltre ha la particolarità di non produrre vantaggi, ma solo guasti per la giustizia penale.

Nient’altro che un’aspirina per un malato di tumore. Esatto affermare che il sistema giudiziario è ingolfato da procedimenti datati che probabilmente termineranno con un nulla di fatto: la prescrizione. Altrettanto esatto sostenere che questi ritardano lo svolgersi di procedimenti recenti facendoli inevitabilmente invecchiare. Indiscutibile sostenere che questi poiché probabilmente termineranno con una pronuncia per prescrizione dovrebbero lasciare il passo. Errato ritenere che tutto questo trovi una soluzione nell’emendamento citato. Questo infatti non risolve il problema ma, secondo uno stile tipicamente italiano, lo posticipa paradossalmente aggravandolo.

L’amnistia. La parola magica che raggiungerebbe quel risultato che l’emendamento sospendi processi si prefigge. L’amnistia quella parola da cui politici e magistrati fuggono affermando che non ci sono le condizioni politiche. Il Csm d’altronde, errando, afferma che l’emendamento non è latro che un amnistia occulta.

La via è a senso unico. I processi alle alte cariche allo stato possono disturbare il corretto funzionamento di una democrazia che fa della separazione dei poteri un principio irrinunciabile. Due esperienze. La statunitense e la francese. Clinton e Chirac. Il primo processato e vilipeso. Il secondo ha governato ed è stato processato dopo la cessazione dell’incarico istituzionale. La civiltà pare proprio risieda oltralpe e sarebbe auspicabile si radicasse anche nel nostro paese.

Vibo Valentia: suicida 40enne arrestato per violenza sessuale

 

Adnkronos, 28 giugno 2008

 

Arrestato per aver stuprato anziana, manovale si suicida in carcere. L’aggressione venti giorni fa mentre la donna lavorava nell’orto. Salvatore Giofré, 40enne di San Gregorio d’Ippona, era già stato condannato per un’altra violenza sessuale. Si è impiccato nella cella del penitenziario di Vibo Valentia dove si trovava rinchiuso.

È morto suicida in carcere Salvatore Giofré, il manovale 40enne arrestato dai carabinieri di Vibo Valentia per aver stuprato una donna di 76 anni. Il particolare è trapelato nella tarda mattinata dopo l’annullamento della conferenza stampa che era stata prevista per raccontare i particolari della vicenda. L’uomo, già condannato per un’altra violenza sessuale, ha aggredito e violentato l’anziana venti giorni fa mentre la vittima si trovava a lavoro nell’orto di un fondo agricolo di proprietà. Poi è scappato dileguandosi prima che la donna potesse chiamare aiuto. I carabinieri della Compagnia di Vibo Valentia lo hanno però individuato e arrestato anche grazie alla testimonianza di decine di persone. Portato ieri nel carcere di Vibo Valentia, da quanto si apprende, Giofré si è impiccato. Il suo corpo già senza vita è stato trovato dagli agenti della polizia penitenziaria stamattina alle 7.

Rimini: il carcere "Due Palazzi" di Padova al Meeting di CL

 

Redattore Sociale, 28 giugno 2008

 

La realtà del Due Palazzi di Padova al meeting di Rimini (24-30 agosto). Boscoletto, presidente della Cooperativa Rebus che gestisce il laboratorio di pasticceria e altre attività nell’istituto: esistono storie di umanità bellissime.

Il Veneto è protagonista al tradizionale Meeting di Rimini, la manifestazione internazionale del movimento ecclesiastico che si svolgerà dal 24 al 30 agosto nella località romagnola. Il carcere di Padova e le attività come il laboratorio di pasticceria che tanto interesse hanno raccolto negli ultimi mesi potranno infatti mettersi in mostra al fianco di altre esperienze e "buone pratiche" italiane ed estere. Il titolo del Meeting di quest’anno, "O protagonisti o nessuno", servirà a mettere in evidenza, tra le altre cose, che anche in condizioni di mancata libertà una persona può essere protagonista e seguire la propria strada.

Nel corso della settimana fieristica ampio spazio sarà quindi riservato al mondo del carcere, cui è anche dedicata la mostra dal titolo "Libertà va cercando, ch"è sì cara. Vigilando redimere", nella quale saranno presentate esperienze di umanità dalle carceri del mondo. L’esposizione sarà presentata martedì 26 agosto alle ore 11.15 nel Salone D7 della Fiera alla presenza del ministro della Giustizia Angelino Alfano, del capodipartimento del Dap e del magistrato di sorveglianza Giovanni Maria Pavarin. Ma oltre alle immagini della mostra saranno anche altre immagini a parlare, quelle di un video che sarà proiettato in anteprima assoluta proprio a Rimini e che vuole testimoniare ciò che di buono si fa in ambito carcerario in tutto il mondo. E non potevano in questa circostanza mancare i detenuti-pasticceri del carcere Due Palazzi, che apriranno una "sede staccata" del laboratorio padovano per creare eccezionalmente all’esterno le loro delizie. Saranno impiegati dodici pasticceri, seguiti da una decina di agenti.

"Dall’anno scorso, in seguito all’indulto, gli organizzatori del Meeting hanno voluto ritagliare uno spazio al confronto e alla conoscenza delle realtà carcerarie - racconta Nicola Boscoletto, presidente della Cooperativa Rebus che gestisce il laboratorio di pasticceria e altre attività nel carcere padovano -. L’obiettivo è di mettere in luce il fatto che non solo in Italia, ma anche nel resto del mondo ci sono esperienze positive come la nostra e che esistono storie di umanità bellissime. Quello che bisogna sottolineare è che la libertà di una persona non può essere soppressa, anche quando si è reclusi". Da qui l’idea del titolo di quest’anno, che con la realtà carceraria sembra calzare davvero bene, visto che "con la mentalità di oggi a nessuno verrebbe in mente che anche un detenuto possa essere protagonista - continua Boscoletto - e nessuno penserebbe che invece si può trovare la propria strada anche in condizioni di privazione, come il carcere".

Lodi: al via "Lodi al sole", partecipa la Casa Circondariale

di Guido Bandera

 

Il Giorno, 28 giugno 2008

 

La rassegna di Lodi al Sole, tradizionale kermesse estiva di spettacoli e incontri sulle piazze della città, è stata presentata ieri, in lieve ritardo sul calendario degli eventi, già ampiamente iniziati. Ieri, comunque, attorniato dagli sponsor, l’assessore alla Cultura, Andrea Ferrari, ha presentato l’iniziativa nel suo complesso, insieme alla collega ai Servizi sociali, Silvana Cesani e alla direttrice del carcere, Stefania Mussio, che ha coinvolto la casa circondariale all’interno dell’iniziativa. "Si tratta di tre mesi di eventi - ha spiegato Ferrari -, un calendario triplicato rispetto alla prima edizione del 2005, che conta in tutto 70 appuntamenti su 40 diverse location.

Ogni luogo, dalle Vigne a piazza San Lorenzo, avrà la sua caratterizzazione", ha concluso. Fra i grandi eventi di quest’edizione, anche gli appuntamenti legati all’850esimo anniversario di fondazione della città. Continua il Lodi Blues Festival, esperienza positiva già nella scorsa stagione, continua anche ballando ballando, mentre per la Città Bassa è in programma il "Maddalena Cafè". Ci sono poi i concerti in corte, il circo in piazza e i cinema all’aperto. Per chi è in vena di intrattenimenti più sofisticati, ci sono Libriamoci e Cultura in San Lorenzo. Nel settore Omnia, infine, sono confluiti tutti quegli eventi difficilmente catalogabili, puro intrattenimento o serate speciali, che l’Amministrazione e i partner hanno inserito in programma. Fra gli appuntamenti più attesi, la notte bianca di fine agosto. Stefania Mussio, direttrice del carcere, ha spiegato l’evento che coinvolgerà la Cagnola: "Arriverà Gherardo Colombo, che sarà alle 21 in carcere, per parlare sul tema "la conoscenza della Costituzione italiana: diritti e doveri degli immigrati - ha spiegato -. L’appuntamento non sarà solo una lezione, ma un’occasione di educazione alla legalità, cui i detenuti si stanno preparando in modo attento". Per gli altri cittadini, quelli non reclusi alla Cagnola, sarà possibile seguire l’incontro da un megaschermo all’esterno delle mura del carcere.

L’Assessore Silvana Cesani ha poi insistito sul valore di integrazione che hanno le iniziative nella Città Bassa. "Da due anni stiamo lavorando su questo quartiere - ha detto -, che viene considerato uno dei più degradati, ma che è anche uno dei più belli. Crediamo che la sicurezza si crei anche permettendo ai cittadini di uscire, di riappropriarsi dei propri spazi senza distinzioni fra stranieri o lodigiani. Un lavoro lungo è stato condotto anche grazie all’attenzione di tutte le componenti etniche e le comunità, ma anche grazie alle molte associazioni attive nel quartiere".

Immigrazione: per il ministro Maroni è "un affare di polizia"

di Giuseppe D’avanzo

 

La Repubblica, 28 giugno 2008

 

Il primo indizio, il più considerevole e pertinente, è che a occuparsene sia il ministro di polizia. A Roberto Maroni non sfugge che la pressione migratoria verso Occidente e verso i Paesi della Comunità Europea sia "un fenomeno epocale". Se è tale, perché la polizia? Il ministro aggiunge poche parole.

Svelano un’idea politica. Inaugurano una pratica di governo: "Bisogna cercare di evitare lo tsunami e convogliare la piena - che ci sarà comunque - perché non distrugga il tessuto sociale". Ci sarà comunque. Distrugge il tessuto sociale. Convogliare la piena. Le tre formule dicono perché, per il governo, sia un affare di polizia, di galere o di "campi".

L’immigrazione - attenzione, il ministro non discute di "ordine pubblico" né di "sicurezza" - è una minaccia per la nostra comunità, è un pericolo imminente e concretissimo per il tessuto sociale. Ci possiamo fare poco - è ragionevole tradurre - se non dare avvio a un "diritto di polizia" che consenta a uno Stato fragile, travolto da un "fenomeno epocale", di garantirsi qualche risultato empirico con la creazione di una zona di indistinzione tra forza e diritto, tra violenza e diritti.

Definito così il problema, circoscritta l’area d’intervento, nominati gli attori, scelto il metodo, è naturale che affiori lo straniero come presenza critica. Da qui a definire il migrante "nemico" e subito dopo "criminale" il passo è breve (necessario) e il cerchio è chiuso. Ecco perché deve essere il ministro di polizia, proprio quello, a condurre il carro.

Stretta in questo paradigma la "questione immigrazione" (e non l’ordine pubblico o la sicurezza che hanno altre ragioni e coniugazioni), non deve meravigliare che si voglia prendere le impronte ai bambini rom. Non deve stupire che il ministro di polizia non comprenda nemmeno la disapprovazione e lo sconcerto dell’Unione Europea. Da Bruxelles il commissario alla giustizia rileva, severo, che "gli Stati membri dell’Unione europea non possono prendere misure di schedatura o prelievo di informazioni biometriche come impronte digitali per singoli gruppi nazionali o etnici".

Il Viminale si sorprende. Ricorda che "la decisione di eseguire rilievi fotodattiloscopici con modalità informatiche nei riguardi di cittadini stranieri è stata presa anche sulla base del regolamento del Consiglio dell’Unione Europea, n. 380 del 18 aprile 2008, che prevede l’obbligo di rilevare le impronte digitali ai cittadini dei Paesi terzi a partire dall’età di sei anni". Quel regolamento europeo esiste, come l’obbligo. Sfugge a Roma che quelle tecniche di riconoscimento, se adottate, devono valere per tutti e non soltanto per un’etnia. Anche per noi e non solo per loro.

Ora l’incomprensione ci rivela un fondamento culturale di questo governo e le traiettorie delle sue politiche presenti e future. Lo si può dire con le parole di Hannah Arendt: "La concezione dei diritti dell’uomo, basata sull’esistenza supposta di un essere umano come tale, cadde in rovina non appena coloro che la professavano si trovarono di fronte per la prima volta uomini che avevano perduto ogni altra qualità - tranne il puro fatto di essere umani". Il governo fatica a riconoscere (o esclude di riconoscere) i diritti inalienabili dell’uomo a chi non si configura come "cittadino"; a chi non si iscrive nella tutela di uno Stato, di una nazione; a chi non è nato qui (e a volte anche a loro); a chi si è messo alle spalle - e definitivamente - il territorio che lo ha visto nascere e dove non vuole (o non può) più vivere.

Dunque a chi si propone - come spesso fanno i rom - con "lo statuto stabile dell’uomo in sé". Il "puro uomo in sé" appare una configurazione insufficiente, difettosa, già empia e colpevole per una politica che sceglie il "diritto di polizia" e vuole "convogliare la piena", quindi naturalizzare con molta parsimonia secondo una necessità esclusivamente economica e soprattutto identificare, espellere, rimpatriare lo straniero. Quel che il governo non comprende non è allora la modulazione del problema, ma il problema.

Tutto l’Occidente deve fare oggi i conti con "una massa stabilmente residente di non-cittadini, che non possono né vogliono essere né naturalizzati né rimpatriati" e i rom ne sono l’esempio per eccellenza. Li si può dire "rifugiati", "apolidi di fatto", "non cittadini". La loro irriducibilità all’assimilazione li rende minacciosi ai nostri occhi, esaspera l’intolleranza, incuba reazioni xenofobe. Il governo non intravede altra soluzione che mosse da imprenditori politici della paura (dunque, più intolleranza) e l’iniziativa di un ministro di polizia (dunque, più galera) per affrontare questa crisi radicale dei princìpi dello Stato-nazione, illuminata dall’arrivo accanto a noi di "non cittadini".

La scelta è assai discutibile. Ci procurerà molti guai e fratture con l’Unione europea. È ingiusta. Sarà soprattutto inefficace anche quando i grandi "campi", che il "decreto sicurezza" definisce "Centri di identificazione ed espulsione", saranno affollati.

Quanto affollati lo immagina la relazione tecnica che ha accompagnato, in Senato, il decreto (prevede i capitoli di spesa e le risorse da approntare). Si legge qualche numero che inquieta. La previsione di un reato di "ingresso illegale nel territorio dello Stato" riguarderà 49.050 immigrati clandestini. Si ipotizza che la loro detenzione media (vi potranno essere ristretti fino a 18 mesi) sarà di dieci giorni. Il costo del pasto giornaliero sarà pari a tre euro (!).

"L’onere annuo - annotano i burocrati - risulta pari a 49.050 detenuti x 10 x 3 = euro 1.471.500". Al di là delle minuzie burocratiche, altre sono le domande. Chi controllerà questo circuito carcerario parallelo? Quali saranno le regole? Quali i diritti che vi saranno garantiti? Le impronte per i bambini rom sono soltanto l’annuncio del "vuoto di diritto" che inghiottirà decine di migliaia di "non cittadini".

Immigrazione: no carcere ai clandestini, multa ed espulsione

 

Adnkronos, 28 giugno 2008

 

Una contravvenzione, con sanzione accessoria dell’espulsione ma solo dopo la pronuncia di un giudice. Sarebbe questo, secondo quanto appreso dall’agenzia Adnkronos, l’escamotage legislativo allo studio che consentirebbe di evitare un possibile effetto indesiderato conseguente all’introduzione del reato di immigrazione clandestina, previsto dal ddl che compone il pacchetto sicurezza attualmente in discussione in Parlamento: il sovraffollamento delle carceri in una situazione penitenziaria che sta già tornando pericolosamente verso i livelli pre-indulto, con 50.000 detenuti.

A questo fine, il disegno di legge potrebbe essere presto modificato con un emendamento ad hoc, che permetterebbe di sancire legalmente il principio della clandestinità senza con questo incorrere in inconvenienti applicativi come l’ingolfamento degli istituti penitenziari.

La circostanza era stata accennata martedì scorso dal ministro dell’Interno Roberto Maroni in un intervento al Senato. Il responsabile del Viminale aveva sostenuto in quell’occasione la necessità di "trovare un modo perché sia uno strumento efficace per contrastare l’immigrazione clandestina e non un mezzo che finisca per sovraffollare le carceri e intasare i processi". A questo proposito, si punta quindi "su una sanzione accessoria, il provvedimento di espulsione immediata. Ed è importante che sia un provvedimento deciso da un giudice, ordinario o di pace. Bisognerà calibrare il reato perché il provvedimento abbia questa conseguenza utile".

Immigrazione: Unione Europea; no alle "schedature etniche"

 

La Stampa, 28 giugno 2008

 

La Commissione Europea: le schedature etniche sono contrarie ai nostri valori 5 boccia. Maroni contrattacca: è un normale censimento. Basta l’enunciazione del principio a far esplodere l’ennesima polemica sull’asse Roma - Bruxelles.

Basta che la Commissione Ue, pur astenendosi missione dal commentare direttamente le intenzioni del governo italiano, dica che prendere le impronte digitali di un gruppo etnico, all’interno della popolazione nazionale e di origine comunitaria, è un fatto contrario ai valori su cui si fonda l’Unione europea. Basta solo questo per scoprire che la stretta sui nomadi e sugli immigrati è amara per parecchi palati.

Così il ministro dell’Interno Roberto Maroni è costretto a difendere il suo provvedimento, definendo "infondate" le opinioni di Palazzo Berlaymont e invitando i tecnici europei a "informarsi meglio" perché, assicura, "noi facciamo un censimento e non una schedatura". È una risposta decisa che, però, non ferma la pioggia di accuse.

"Discriminazione!", gridano in tanti. È durissimo il presidente del Consiglio d’Europa, Tarry Davies, rapido a dichiarare che "la proposta invita ad analogie storiche talmente chiare che non devono nemmeno essere menzionate".

All’Europarlamento il gruppo liberaldemocratico auspica un immediato dibattito d’urgenza sul caso alla plenaria del 7 luglio. In Italia l’intera opposizione si solleva, sfoderando aggettivi come "iniziativa aberrante" e "ignobile". Il leader della sinistra democratica Claudio Fava sottolinea che il governo "ha reintrodotto il concetto di razza nell’ordinamento giuridico", mentre il Pontificio consiglio dei migranti esprime "sorpresa, disagio e tristezza". Fuori dal coro solo il centrodestra.

Per garantire la vigilanza sulle comunità nomadi, Maroni vuole le impronte digitali, "le prenderemo anche ai minori, in deroga alle attuali norme, proprio per evitare fenomeni come l’accattonaggio". A suo avviso, serve a "garantire a chi ha il diritto di rimanere di vivere in condizioni decenti". La decisione di "eseguire rilievi fotodattiloscopici con modalità informatiche sugli stranieri - precisa il ministro - è stata presa anche sulla base del regolamento Ue dell’aprile 2008 che prevede l’obbligo di rilevare le impronte ai cittadini dei paesi terzi (per i permessi di soggiorno) a partire dall’età di sei anni".

Vero. I visti per l’ingresso nell’area Schengen richiedono l’impronta. Tuttavia, Bruxelles sottolinea che si tratta di soggetti extracomunitari (cosa che buona parte dei rom non è), e che il limite della strategia è il rivolgersi ad un particolare segmento della popolazione in base alla nazionalità o l’etnia. Questo, sia chiaro, in linea teorica, tanto che in serata il portavoce del commissario alla Giustizia Jacques Barrot ha precisato che "non è stato espresso alcun giudizio sull’annuncio di possibili misure fatto dal ministro degli Interni" perché questa "non è consuetudine" dell’esecutivo.

"Se e quando l’Italia introdurrà misure concrete - ha aggiunto ne esamineremo la compatibilità con la legislazione Ue". È un ritorno di cautela già visto quando Barrot ha espresso preoccupazione per l’aggravamento dei reati dei clandestini.

In quell’occasione lo schietto francese aveva messo in dubbio la correttezza dell’aumento della pena per gli irregolari, affermando che un sans papier dovrebbe essere processato due volte - una per il delitto commesso e una per la clandestinità - e non in un’unica soluzione.

Anche in quell’occasione i suoi collaboratori avevano cercato di gettare acqua sul fuoco. Maroni giura che si è creata una polemica su un fatto inesistente. "Nei Patti perla sicurezza firmati con alcuni sindaci dal ministro dell’Interno Amato - ha spiegato -, c’era la nomina del prefetto a commissario straordinario per l’emergenza nomadi definita tale dal governo Prodi". Tale emergenza, "non è stata affrontata e io ho deciso di dare attuazione ai Patti", perché il fenomeno è "epocale". La sua ricetta, assicura, è inevitabile. "Bisogna cercare di evitare lo Tsunami e convogliare la piena, che ci sarà comunque, perché non distrugga il tessuto sociale". Ue e oppositori temono che la cura sia peggio del malanno.

Droghe: rinasce il Dipartimento, Serpelloni e il sogno italiano

di Franco Marcomini

 

Fuoriluogo, 28 giugno 2008

 

Rinasce il Dipartimento antidroga con Carlo Giovanardi sottosegretario e Giovanni Serpelloni a dirigerlo. Ma quali sono i meriti attribuiti al direttore in pectore del Dipartimento?

Ed ecco di nuovo il Dipartimento antidroga, o meglio, provvisoriamente, la "struttura di missione", che farà decollare il sogno italiano di un paese senza droghe. A dirigerlo sarà Giovanni Serpelloni, attualmente a capo del Dipartimento delle dipendenze di Verona, secondo quanto ha annunciato Carlo Giovanardi.

Complimenti per il tempestivo compiacimento ad Alfio Lucchini, presidente di Federserd, il quale ha dichiarato all’Ansa (16 giugno): "Aver scelto per un compito così importante, come la guida della struttura di coordinamento delle politiche sulla droga, un dirigente di una struttura pubblica, è un fatto rilevante". E ancora: "Siamo certi che Serpelloni sarà in grado di valorizzare la realtà e l’esperienza del servizio pubblico e di intervento in una fase così delicata dell’azione antidroga".

Evidentemente Lucchini è a conoscenza di atti di programmazione e di indirizzo noti solo a Federserd, che si distingue per la sua capacità politico-strategica: gli ultimi ad uscire dalla vergognosa gestione della questione droga da parte del governo Berlusconi, i primi ad entrare nella nuova avventura. Ancora una volta la ricerca della gratificazione immediata prevale sulla prudenza e la ponderazione.

Se i programmi sono oscuri, il personaggio è noto e si commenta da solo. Ma stiamo ai fatti, e vediamo quali sono i meriti attribuiti al direttore in pectore del Dipartimento.

Serpelloni "ha fra l’altro diretto un gruppo di studio internazionale - riferisce l’Ansa riportando l’annuncio di Giovanardi - sulle reazioni del cervello alle sostanze stupefacenti". A questo punto è utile prendere visione della recente pubblicazione del gruppo veronese sulla materia in oggetto: prevalentemente, per quanto riguarda gli aspetti qualitativamente più significativi, una discreta traduzione di articoli accessibili a chiunque possegga un collegamento internet ed in qualche caso possa usufruire di abbonamenti a riviste scientifiche. In sostanza, basta scaricare dalla rete.

"Ha inoltre coordinato uno studio preliminare di fattibilità - continua il curriculum di Serpelloni - per la sperimentazione del "vaccino" anti-cocaina". Le perplessità scientifiche sono legittime e fondate e sono state largamente discusse, trovando autorevoli critiche. L’iniziativa inoltre rappresenta, per le modalità con cui sono state divulgate le informazioni, un pericoloso elemento illusorio che semplifica una questione complessa quale la diffusione dell’uso di cocaina in ampi strati della popolazione.

"Durante la scorsa legislatura - apprendiamo poi - Serpelloni fu chiamato dal ministro Paolo Ferrero a far parte della Consulta degli esperti sulle tossicodipendenze del Ministero della Solidarietà sociale, e dal ministro Livia Turco a far parte della Commissione consultiva in materia di dipendenze patologiche del Ministero della Salute". Chi rappresentava Serpelloni, visto che le scelte del precedente Governo sono avvenute sulla base di una precisa azione di concertazione con il terzo settore, con le società scientifiche, con il mondo dei servizi pubblici e con le Regioni? Non mi risulta che ci siano state chiamate singolarmente significative. O le cose sono andate diversamente? Un’occasione per spiegare.

Infine, la ciliegina sulla torta. Cito ancora dall’Ansa del 16 giugno: "Con l’attuale governo, Serpelloni ha sicuramente in comune una netta presa di posizione rispetto alle droghe cosiddette "leggere". "L’Italia - ha detto poco tempo fa - dovrebbe seguire l’esempio della Gran Bretagna e considerare la cannabis come droga altamente pericolosa". E, ancora: "è necessario come istituzioni dare un messaggio chiaro e inequivocabile alle giovani generazioni sulle sostanze stupefacenti, che sono tutte tossiche per il nostro cervello e in grado di alterare anche permanentemente le normali funzioni psichiche della persona. Sulla base di questo si devono creare condizioni di tutela della salute dei cittadini, soprattutto se minorenni, che ne vietino esplicitamente l’uso e la circolazione"".

Per quanto riguarda le fonti scientifiche, soprattutto anglosassoni, consigliamo a Serpelloni, nei ritagli di tempo concessi dai rituali della politica, di leggere il recente rapporto dell’Acmd, un organismo consultivo tecnico-scientifico del governo britannico di indiscusso prestigio: "Cannabis: Classification and Public Health", Advisory Council on the Misuse of Drugs, Home Office, 2008. Se poi gli avanza tempo, consigliamo anche la review di David Nutt - uno scienziato, non un politico - apparsa su Lancet e relativa alla pericolosità delle droghe: non piacerà né a Fini, né a Giovanardi, ma il nostro impegno civile ci impone di essere attenti alle fonti sottratte da qualsiasi sospetto di pregiudizio ideologico.

Vorremmo che l’impegno nel campo delle droghe partisse da questa attenzione e non dalla menzogna a fin di bene, caldeggiata dal committente politico e mascherata da sapere scientifico. Siamo pronti a confrontarci con la nuova/vecchia politica sulle droghe, anche se il curriculum offertoci da Giovanardi a garanzia della credibilità del nuovo Dipartimento ci fa temere che le scelte saranno dettate da pregiudizio ideologico e da populismo allarmista: tutto ciò che non serve e risulta controproducente per prevenire e ridurre i danni prodotti dalle droghe.

L’unica certezza è che assisteremo a costose, inutili e patinate campagne di immagine: le abbiamo già viste e francamente i mondi dei servizi, della scienza, della cultura e della pubblica opinione meritano maggiore rispetto.

 

 

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