Rassegna stampa 4 febbraio

 

Giustizia: Garante Comunicazioni; stop alla gogna mediatica

di Giovanni Valentini

 

La Repubblica, 4 febbraio 2008

 

Tanto opportuno quanto ineccepibile, sul piano della sostanza e anche del metodo, l’intervento con cui il presidente dell’Autorità sulle Comunicazioni, Corrado Calabrò, ha lanciato uno stop ai processi in Tv. Nel merito, è incontestabile il fatto che spesso la televisione si sovrappone alla giustizia, emettendo sentenze ancor prima che queste vengano pronunciate nelle aule di tribunale, in assenza di un effettivo contraddittorio fra le parti.

E ciò che è peggio, precostituendo il giudizio nell’opinione pubblica, accreditando una verità virtuale che a volte condiziona o addirittura prevale su quella giudiziaria. La spettacolarizzazione dei processi che la tv adotta per fare "audience", molto più suggestiva e invasiva di quella che possono praticare i giornali, degenera spesso in una gogna mediatica a danno della presunzione di innocenza o del diritto alla difesa. Il conduttore televisivo si sostituisce allora al pubblico ministero o al giudice naturale e il talk-show diventa uno pseudo dibattimento che distorce o travolge tutto: prove, testimonianze, intercettazioni e quant’altro.

Se poi il processo reale approda a un esito diverso, la sentenza di quello già celebrato in tv resta impressa comunque nella memoria collettiva come un marchio d’infamia, un residuo di sospetto o diffidenza. Sul piano del metodo, è ancor più apprezzabile che il presidente Calabrò abbia scelto per ora lo strumento dell’atto di indirizzo, senza comminare richiami ufficiali né sanzioni, convocando piuttosto gli operatori televisivi intorno a un tavolo per discutere sulle linee-guida suggerite dall’Authority e adottare magari un codice di autoregolamentazione.

Non c’è dubbio che, in materia di libertà dell’informazione, questa è la strada più sicura ed efficace per evitare qualsiasi rischio di censura preventiva. Ma, a cominciare naturalmente dalla Rai, occorre un’ assunzione di responsabilità che costituisca un impegno formale all’autodisciplina: ecco un caso in cui la tv pubblica può differenziarsi "motu proprio" da quella privata, in ragione del suo ruolo istituzionale, invece di omologarsi alla logica commerciale degli ascolti.

Nello stesso spirito, le televisioni e questa volta anche i giornali potrebbero adottare la regola di non citare i nomi e cognomi dei pm incaricati del caso. Primo, per non personalizzare le indagini giudiziarie che competono alla Procura della Repubblica, sovresponendo così il singolo magistrato a tutti i rischi personali e professionali che questo comporta. In secondo luogo, per non eccitare - neppure involontariamente - un protagonismo o un esibizionismo che spesso finisce per togliere credibilità allo stesso magistrato e attendibilità alla sua inchiesta. Non abbiamo bisogno di giudici-attori né di giornalisti-giudici: in un Paese civile, la giustizia si amministra nelle forme e nei luoghi previsti dalla legge, secondo i riti stabiliti dal codice.

Questo deve valere per il cittadino comune e per il parlamentare o il politico di turno. Quando l’inquirente sa di poter conquistare una visibilità, una tribuna, un potere mediatico che travalicai suoi compiti e le sue prerogative, tende fatalmente a trasformarsi in un inquisitore. E allora assistiamo a "performance" che non hanno più nulla a che fare con la dignità della funzione giudiziaria. Oppure a scene o sceneggiate come quella del procuratore di Santa Maria Capua Vetere che chiede di spegnere le telecamere e chiudere i microfoni per non registrare dichiarazioni "off the record".

È un vero e proprio richiamo, invece, quello che l’Autorità sulle Comunicazioni ha rivolto alla Rai per alcune puntate di "Anno Zero" che a suo giudizio non hanno rispettato i principi di completezza e correttezza dell’informazione, né quelli di obiettività, equità, lealtà, imparzialità, pluralità dei punti di vista e osservanza del contraddittorio. Sono accuse gravi, rispetto alle quali il conduttore della trasmissione ha evidentemente tutto il diritto di difendersi e di replicare.

Ma denunciare una presunta censura "ex post" da parte dell’Authority non giova alla tutela delle proprie ragioni né al prestigio e all’immagine del servizio pubblico: già di per sé una reazione del genere configura un eccesso di legittima difesa, a sua volta censurabile da parte dell’azienda.

Così al di là del caso specifico il conduttore televisivo si arroga la titolarità esclusiva di un contropotere, assurge al ruolo di demiurgo mediatico e alla fine rischia di trasfigurarsi in un demagogo. All’interno del suo talk-show, assume il ruolo centrale e decisivo del giudice arbitro, sceglie gli ospiti, toglie e dà la parola, impone un ordine di priorità, determina i tempi e lo svolgimento del dibattito. E se non assicura neppure la pluralità dei punti di vista e l’osservanza del contraddittorio, allora tradisce la sua funzione e viene meno alla sua responsabilità. Un codice di comportamento, di autodisciplina o autoregolamentazione, s’impone dunque anche in questo campo.

La gogna mediatica è già una sentenza, una condanna preventiva, inappellabile. Non si può intentare un processo a nessuno, né in tribunale né tantomeno in televisione, senza garantire il confronto fra le parti e il diritto alla difesa per rimettere infine il verdetto ai giudici o ai telespettatori.

 

La giustizia non è uno show, di Piero Alberto Capotosti

 

Il Messaggero, 4 febbraio 2008

 

Finalmente l’annuncio di un’imminente azione precisa e rigorosa dell’Autorità Garante per le Comunicazioni contro i processi in televisione. Speriamo che i fatti seguano presto alle dichiarazioni. Poiché non appare più sopportabile assistere ad indegne forme di gogna mediatica, senza che non accada mai nulla.

Sempre più spesso, dai tempi di Mani Pulite, hanno uno straordinario rilievo trasmissioni radiotelevisive, che tendono ad anticipare o a riprodurre, in modo assolutamente tendenzioso, processi, soprattutto penali, di grande risonanza. Si dice che, in un momento in cui molte cose risultano segrete o, quanto meno opache, è auspicabile ed opportuna una ventata di libertà informativa, che spazi via queste nebbie che gravano sul mondo della giustizia. Si dice ancora, in chiave antipolitica, che questa sorta di gestione popolare e diretta del processo sia la migliore garanzia contro le presunte "coperture" e distorsioni del mondo della politica.

Molto spesso, però, nulla di tutto ciò è assolutamente vero: si tratta solo, almeno in alcuni casi, di una malintesa libertà di cronaca e di una forma di degenerazione del rapporto tra processo ed informazione. Dirò di più: si tratta di una sorta di morboso voyeurismo su fatti che eccitano, o per i personaggi coinvolti, o per la crudezza e le modalità dell’azione delittuosa, la curiosità popolare, sollecitandola verso soluzioni, per così dire, precostituite.

Qui non c’entra affatto la libertà di informazione garantita dalla Costituzione, mentre invece è evidentissima la violazione dei fondamentali diritti della persona sottoposta alla gogna mediatica. Si comprendono facilmente le esigenze di audience, ma queste non possono sovvertire ogni valore ed attentare all’onore delle persone, manipolando la pubblica opinione, attraverso ricostruzioni, più o meno fantasiose, dei fatti, le quali tendono solo a produrre determinate reazioni emotive nel pubblico.

In realtà, questa simulazione del processo, attraverso la riproduzione anche orale di intercettazioni - che invece dovrebbero essere segrete o almeno riservate - le dichiarazioni dei presunto colpevole o di sedicenti testimoni, le interviste ad uno stuolo di esperti, avvocati e, purtroppo, talora anche di magistrati, tende solo a creare un clima da corrida, nel quale la, sorte del presunto colpevole è già predeterminata con largo anticipo. Condannato o assolto, secondo le diverse intenzioni dei responsabili dell’emittente, senza tante garanzie, ma sempre con grande partecipazione dei tifosi delle opposte fazioni.

Tutto questo non solo è una distorsione profonda dell’operare della giustizia, che non ha assolutamente bisogno di spettacolo, ma induce nella pubblica opinione convinzioni e suggestioni pericolosissime. Nel processo vero l’esito infatti è determinato dalla rigorosa applicazione della legge e dalla valutazione tecnicamente corretta, nel quadro del principio del contraddittorio, delle prove raccolte, viceversa nel processo mediatico accade quasi sempre che il verdetto finale, che si suggerisce in maniera capziosa, deve comunque corrispondere alle intenzioni di "parte" dei curatori della trasmissione.

Con la conseguenza gravissima che, qualora l’esito processuale vero non coincida con quello mediatico, il giudice che l’ha pronunciato viene sepolto da un mare di critiche, che finiscono con il delegittimare l’intera magistratura. É dunque ora di finirla. La giustizia non è esercizio di un potere politico, che deve rispondere alla pubblica opinione, ma è l’esercizio di un potere assoggettato alla legge e che deve rispondere soltanto alla legge.

Giustizia: indulto occasione persa; ora le carceri verso il caos

di Raffaele Cantone

 

Il Mattino, 4 febbraio 2008

 

All’inizio della nuova legislatura, il Parlamento votò l’indulto finalizzato a far fronte al gravissimo e reale problema del sovraffollamento delle carceri. Si trattò di un provvedimento che, malgrado fosse stato approvato da una maggioranza bipartisan e superiore a quella di due terzi necessaria secondo la Costituzione, scatenò, nella società civile e fra gli addetti ai lavori, molte perplessità sia per il rilevante quantitativo di pena "condonato" (tre anni) sia perché non aveva escluso dal beneficio delitti di particolare gravità (omicidio, rapina, estorsione etc.).

Le critiche alla decisione parlamentare con il tempo non si sono attenuate e, anzi, sono state continuamente rinfocolate tutte le volte in cui reati di grave allarme sociale sono risultati commessi da soggetti ritornati in libertà grazie all’atto di clemenza. Proprio il clima di scontro protratto ha reso difficile conoscere anche i dati delle scarcerazioni e dei rientri, che pur essendo aritmetici - e, quindi, per loro natura non opinabili - venivano forniti in modo dissimile dalle parti contrapposte.

Nei giorni scorsi uno dei sindacati della polizia penitenziaria ha fornito numeri interessanti, passati quasi sotto silenzio per la contemporaneità con notizie più appetibili, quali la crisi di governo e l’emergenza rifiuti a Napoli. Su alcuni di essi è, invece, opportuno focalizzare l’attenzione; la capienza carceraria è di circa 42 mila posti; subito dopo l’indulto si era scesi molto al di sotto del limite massimo; attualmente sono presenti nelle strutture 49 mila detenuti; i rientri di chi aveva beneficiato della misura clemenziale superano, a oggi, il 25%.

Sono dati che dimostrano come le più fosche previsioni sull’inutilità e anzi sulla dannosità dell’indulto si stanno avverando: il trend previsto dal sindacato va nel senso che nel giro di pochi mesi si tornerà a una presenza carceraria pari a quella precedente l’intervento clemenziale (60 mila detenuti circa).

Piuttosto che far ricorso al classico e inutile "l’avevamo detto", può essere utile capire perché si è giunti a questo punto. L’errore principale non è stato il varo del provvedimento di clemenza - necessario in quel momento anche se troppo ampio - quanto l’omissione di provvedimenti che a esso avrebbero dovuto accompagnarsi per evitare di ritrovarsi, a distanza di così breve tempo, nella situazione di partenza.

In primo luogo, si dovevano adottare, da parte del governo centrale e degli enti locali, interventi di sostegno sociale ai detenuti scarcerati per offrire loro le condizioni per rientrare nella legalità. Si potevano, poi, modificare alcune norme penali - ad esempio, quelle in materia di immigrazione clandestina o quelle che, in materia di stupefacenti, hanno equiparato lo spaccio di droghe leggere e pesanti - che contribuiscono ad affollare le carceri di soggetti non sempre pericolosi.

Si dovevano rilanciare quelle misure alternative che garantiscono anche la tutela della sicurezza pubblica; ci sarebbe da chiedersi, ad esempio, che fine ha fatto il famoso "braccialetto elettronico" per il controllo dei detenuti domiciliari, che dopo essere stato presentato come una panacea è stato accantonato non prima, però, di una congrua spesa di macchinari, ora inutilizzati in qualche magazzino della polizia. Sarebbe, infine, stato indispensabile costruire o concludere i lavori di nuove strutture carcerarie anche in grado di fornire condizioni decenti di vita ai detenuti.

Nulla o quasi di tutto questo è stato fatto è non c’è da meravigliarsi; non è una novità, purtroppo, che sui temi riguardanti la sicurezza si operi senza programmazione, intervenendo solo sulle emergenze che via via si presentano. Il prossimo esecutivo, presumibilmente da dopo l’estate, si troverà una grana in più di difficilissima soluzione anche perché un punto è certo: uno degli effetti negativi della cattiva gestione dell’indulto è che nessun parlamentare si assumerà, in tempi mediamente lunghi, la responsabilità di varare un nuovo provvedimento di clemenza.

Giustizia: Reggio Emilia chiede la modifica della Legge Gozzini

 

Sesto Potere, 4 febbraio 2008

 

Il Consiglio Provinciale, presieduto da Lanfranco Fradici, ha approvato all’unanimità un ordine del giorno di Pd e Pdci nel quale è contenuto un impegno ad attivarsi nei confronti dei presidenti delle commissioni Giustizia del Senato e della Camera affinché i disegni di legge tesi ad affrontare in tempi ravvicinati la necessità di aggiornamento della Legge Gozzini, senza tuttavia mettere in discussione i principi fondamentali, a partire dalla rieducazione al reinserimento dei detenuti. L’impulso alla discussione di questa tematica è partito da un documento di An, poi ritirato "in quanto - ha spiegato il consigliere Giuseppe Pagliani - il documento della maggioranza, anche se meno dettagliato del nostro, recepisce la necessità di aggiornare la norma, in tempi anche brevi".

"È fondamentale è la certezza della pena in quanto ha un effetto forte di risarcimento morale - ha affermato il capogruppo di An Leopoldo Barbieri Manodori - Purtroppo però dalla legislazione che si è susseguita in Italia, sembra che della certezza della pena non vi sia alcuna traccia, dimostrando così poca attenzione alle vittime offese dai reati". Barbieri Manodori ha anche detto che "i benefici devono essere motivati, non automatici e che pure il patteggiamento, che sebbene nasca dalla giusta intenzione di velocizzare i processi, vada ponderato in maniera diversa".

Il consigliere del Pd Alessio Mammi ha sottolineato che "la Legge Gozzini ha ormai 22 anni. In questo arco di tempo ha senz’altro svolto una funzione utile al Paese, ma il contesto sociale di oggi è diverso rispetto agli anni Ottanta, sono diverse le caratteristiche dei reati, come anche quelle di chi li commette. Sono necessari interventi normativi anche per ordiamento penale e penitenziario, quest’ultimo dovrebbe rispondere a principi sanciti articolo 27 costituzione che afferma che la pena deve punire e rieducare. Rispondere a questi principi significa garantire sicurezza ai cittadini, pertanto riteniamo che, salvaguardando i principi fondamentali, un aggiornamento della legge in questione sia possibile e auspicabile".

Il capogruppo dell’Udc Tarcisio Zobbi ha sottolineato che "non è oggi possibile di modifiche opportune a questa legge, senza però fare riferimento al pasticcio del decreto Amato e al fatto che nel mentre il governo è caduto". Zobbi ha infine detto "servono atti normativi lineari e chiari".

"Una legge che ha 22 anni - ha ribadito il consigliere di An Giuseppe Pagliani - ed impone di essere realisti per recepire il fatto che le dinamiche sociali cambiano parecchio in un arco di tempo del genere. La necessità di aggiornamento credo dovrebbe essere elemento comune alle parti politiche". Pagliani ha anche detto che "non è pensabile prescindere dalla certezza di una sanzione penale a fronte di un reato compiuto. Questa che è una risposta primaria per la società e per i cittadini. La comminazione della pena, che deve essere certa e proporzionale, è funzionale anche alla rieducazione".

"C’è un errore di fondo nel documento di An - ha affermato la capogruppo del Prc Giorgia Riccò - cioè la contrapposizione fra sicurezza dei cittadini e reinserimento, come se le misure alternative di detenzione siano una sorta di lassismo, che indebolisce stato, giustizia e sicurezza . Il corretto reinserimento è un diritto della società e del detenuto. Sono due cose non sono in contraddizione, tanto più che dato recenti, ci rivelano come la media della recidiva si abbassi parecchio fra chi usufruisce dei benefici".

Di diversa opinione è il consigliere di Forza Italia Francesco Benaglia: "Il detenuto colpevole non è escluso dalla vita, ma in qualche modo ha deciso di auto-escludersi. Ritengo che il detenuto non dovrebbe stare rinchiuso tutto il giorno in una cella, ma dovrebbe essere messo ai lavori forzati e in alcuni casi sarebbe opportuna anche la pena di morte".

Giustizia: da Cittadinanzattiva un progetto per tribunali migliori

 

Comunicato stampa, 4 febbraio 2008

 

Tribunali sotto la lente dei cittadini ed attivazione di un servizio di consulenza ed informazione ai cittadini. Parte il progetto di Cittadinanzattiva per migliorare il sistema giudiziario.

I ragazzi del servizio civile accorrono in aiuto della Giustizia. Per controllarne disfunzioni e ritardi, aiutare gli altri cittadini alle prese con la macchina giudiziaria ed avvicinarla alle esigenze degli utenti. Con questi obiettivi si avviano i lavori per il 2008 della Rete Giustizia per i diritti di Cittadinanzattiva che sono stati presentati oggi nell’ambito del Convegno "Per la Giustizia? Sempre Diritto" promosso a Roma dall’organizzazione.

In concreto Cittadinanzattiva ha "arruolato" da inizio anno 39 ragazzi del servizio civile nazionale per la realizzazione di un monitoraggio su 20 grandi Tribunali italiani (tra i quali Roma, Milano, Catanzaro, Bologna) e l’attivazione di un Pit Giustizia, servizio di informazione, consulenza ed assistenza ai cittadini in tema di giustizia.

Uno dei volontari, Salvatore, 26 anni di Noto, spiega: "a livello personale e professionale conosco poco la giustizia, anche perché sono laureato in Scienze della comunicazione, ma so quali problemi ha il sistema giudiziario ed affrontarlo è per me una sfida". Elvira, 25 anni di Salerno, è invece laureata in Giurisprudenza, quindi conosce bene il sistema e per questo dice: "Mi piacerebbe mettere davvero il diritto al servizio del cittadino. Innanzitutto cambiando i testi normativi perché risultino più accessibili anche in termini di linguaggio al cittadino comune".

Per ora cominceranno, da maggio, a girare nelle sedi giudiziarie, insieme a rappresentanti di Cittadinanzattiva ed operatori, e, già da aprile, a mettersi all’ascolto dei cittadini. L’indagine sui Tribunali rientra fra i programmi del Protocollo di intesa firmato lo scorso anno fra Cittadinanzattiva e Ministero della Giustizia per migliorare la qualità del servizio giustizia, facendo in modo che sia sempre presente il punto di vista dei cittadini, in materia di organizzazione, tempi, accessibilità, informazione. Tra gli altri obiettivi del Protocollo l’istituzione dell’Ufficio relazioni con il pubblico nei tribunali di Catanzaro e Firenze.

Il monitoraggio dei Tribunali sarà condotto sulla base dei sette diritti contenuti nella Carta dei diritti del cittadino nella giustizia, promossa da Cittadinanzattiva nel 2001 (diritto all’informazione, al rispetto, all’accesso, a strutture adeguate, alla partecipazione, ad un processo celere, alla qualità). Ad esempio, solo per far riferimento agli aspetti più concreti, si verificherà la presenza di segnaletica all’esterno e all’interno dell’ufficio giudiziario, la presenza di luoghi, servizi e strumenti idonei a fornire informazioni, l’eventuale presenza di barriere architettoniche, l’adeguatezza degli spazi per l’attesa e per le udienze, la garanzia di tutela della privacy, l’accesso agli atti, l’effettiva possibilità di ricorrere al gratuito patrocinio, le procedure di informatizzazione, la possibilità di dare giudizi sulla qualità del servizio. I risultati dell’indagine saranno presentati il prossimo 25 ottobre in occasione della Giornata europea della giustizia civile.

Il Pit (progetto integrato di tutela) Giustizia sarà un servizio gratuito di ascolto, informazione, consulenza ed assistenza ai cittadini nell’ambito della giustizia, analogo a quelli già attivati da anni da Cittadinanzattiva nell’ambito della salute (Pit salute) e dei servizi di pubblica utilità (Pit servizi). Esso fornirà informazioni sulle modalità di ricorso ed accesso agli strumenti di tutela previsti e alle forme alternative di risoluzione delle controversie; offrirà consulenza per la soluzione di problemi burocratici e di conflitti; assisterà i cittadini dal punto di vista legale e tecnico nei diversi momenti della procedura; produrrà informazioni ed istruzioni per l’uso. E a fine anno Cittadinanzattiva realizzerà una Relazione annuale sul rapporto tra cittadini e sistema giudiziario, basato sulla raccolta e sistematizzazione delle segnalazioni.

"Ridurre i tempi dei processi, più fondi per la giustizia, apertura dell’amministrazione del servizio alla partecipazione dei cittadini". Con queste proposte Mimma Modica Alberti, coordinatrice nazionale di Giustizia per i diritti - Cittadinanzattiva, ha spiegato su quali campi sta lavorando l’organizzazione con l’obiettivo di "migliorare l’efficienza e la qualità della giustizia e ridare centralità alle vittime dei reati".

In concreto Cittadinanzattiva propone di: utilizzare i soldi confiscati in seguito a condanna penale, in parte per integrare i fondi a sostegno delle vittime del terrorismo, della criminalità organizzata e del dovere, ed in parte per l’informatizzazione degli uffici e delle procedure giudiziarie e per la fornitura di materiali, supporti e strumenti necessari ad un loro più efficiente funzionamento; rivedere il sistema della prescrizione sospendendone l’applicazione per tutta la durata del processo penale, come già avviene per il processo civile. Questo consentirebbe una maggiore tutela delle vittime dei reati; abbreviare la scadenza per i termini a comparire, che sono attualmente di 90 giorni. Riteniamo che 40-60 giorni per i procedimenti di non particolare difficoltà siano più che sufficienti; istituire, nella giustizia amministrativa, il giudice monocratico. In alcune materie una composizione monocratica del Tar agevolerebbe l’avvicinamento delle parti in causa al giudice.

Giustizia: Sappe; più "alternative" e il braccialetto elettronico

 

Comunicato stampa, 4 febbraio 2008

 

"Oramai da molti mesi il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, auspica una nuova politica della pena, necessaria e indifferibile, che preveda un "ripensamento" organico del carcere e dell’Istituzione penitenziaria ed un contestuale maggiore ricorso alla misure alternative alla detenzione.

Gli ultimi episodi di cronaca, che registrano costanti arresti di soggetti per evasione dalla detenzione domiciliari, impongono con urgenza la necessità di adottare procedure di controllo mediante strumenti elettronici o altri dispositivi tecnici (come il braccialetto elettronico, che potrebbe essere molto utile anche per il controllo dei tifosi sottoposti al Daspo) che hanno finora fornito in molti Paesi europei una prova indubbiamente positiva.

Il controllo sulle pene eseguite all’esterno e sull’adozione del braccialetto elettronico, oltre che qualificare il ruolo della Polizia Penitenziaria a cui si dovranno affidare i precipui compiti di sorveglianza , potrà avere quale conseguenza il recupero di efficacia dei controlli sulle misure alternative alla detenzione. Efficienza delle misure esterne e garanzia della funzione di recupero fuori dal carcere potranno far sì che cresca la considerazione della pubblica opinione su queste misure, che nella considerazione pubblica, non vengono attualmente riconosciute come vere e proprie pene."

Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, l’organizzazione più rappresentativa della categoria, a commento dei recenti arresti dei carabinieri di Roma di due nomadi pluri-pregiudicate evase dalla detenzione domiciliare del Campo nomadi di Castel Romano.

Aggiunge Capece: "Affidare il controllo delle misure alternative alla detenzione alla Polizia Penitenziaria, accelerandone quindi l’inserimento negli Uffici per l’esecuzione penale esterna, vuole dire andare a svolgere le stesse funzioni di controllo oggi demandate a Polizia di Stato e Carabinieri, che in questo modo possono essere restituiti ai loro compiti istituzionali, in particolare il controllo del territorio, la prevenzione e la repressione dei reati, a tutto vantaggio dell’intera popolazione.

L’utilizzo di queste tecnologie eviterà di rendere evanescente e meramente teorica la verifica del rispetto delle prescrizioni imposte dall’autorità giudiziaria al momento dell’adozione delle misure alternative alla detenzione o della detenzione domiciliare. Per altro, l’esperienza internazionale dei Paesi che hanno adottato il braccialetto elettronico come strumento di controllo raggiunge obiettivi sociali (certezza della pena per effetto di un controllo costante e continuo, riduzione del sovraffollamento penitenziario, recupero e reinserimento degli individui nella società) ed economici (ottimizzazione delle risorse interne ai penitenziari)".

Giustizia: revocato l’obbligo di dimora per Sandra Lonardo

 

Il Mattino, 4 febbraio 2008

 

Sandra Lonardo Mastella torna in libertà. Lo ha annunciato il portavoce della moglie dell’ex ministro, Alberto Borrelli, il quale ha comunicato che pm della Procura di Napoli, Francesco Curcio "ha revocato l’obbligo di dimora per il presidente del consiglio regionale della Campania". "Adesso il presidente Sandra Lonardo - ha detto Borrelli con entusiasmo - è una donna libera a tutti gli effetti e domani finalmente potrà ritornare in Consiglio regionale".

Il provvedimento è stato notificato nella villa della signora Mastella nel pomeriggio di domenica. Già da lunedì, annuncia la stessa Sandra Lonardo, rientrerà a pieno titolo nell’attività politica di presidente del Consiglio regionale della Campania, "per continuare ad adempiere con tranquillità e con l’impegno di sempre i miei doveri istituzionali".

Dal 16 gennaio scorso la Mastella si trovava agli arresti domiciliari prima e poi detenuta con l’obbligo di dimora, nell’ambito di un’inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere che ha iscritto nel registro degli indagato anche l’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella. Un’inchiesta che ha provocato le dimissioni del leader dell’Udeur e la conseguente caduta del governo Prodi.

Lettere: Napoli; ma dopo il carcere... chi ci darà un lavoro?

 

Il Mattino, 4 febbraio 2008

 

Scrivo dal Padiglione Salerno, ho 50 anni, da 25 conosco le droghe e da piccolo rubavo già. Sono stato in carceri minorili e dall’età di 18 anni ho conosciuto vari istituti, come Regina Coeli, Rebibbia, Poggioreale, San Vittore, Parma e via dicendo. Da tre anni convivo con Nunzia che come me viene da un matrimonio sbagliato e che di bello ci ha regalato solo dei figli, lei tre io due; la prima è ormai 34enne ed è sposata con un odontoiatra e mi ha donato due nipotini Asia e Francesco. L’altro si sposerà tra poco tempo, 28 anni, un ottimo lavoro. Sì dice che il detenuto può riabilitarsi, ma io nella mia città non vedo sbocchi, in quanto ho ricevuto come buona uscita tre anni di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno con firma la sola domenica dalle 9 alle 12. Ma in tutto il periodo che sono stato libero per lo più mesi, ci sono ricascato per furto (borseggio), mi sono beccato un anno e peraltro, dopo che ho finito, devo continuare la mia sorveglianza e di più, devo darmi alla ricerca di un lavoro. Adesso viene il bello. Un mio amico, bravo e lavoratore, venti anni or sono si beccò in quel di Cassino tre mesi di pena sospesa per furto di benzina solo per fare ritorno a Napoli, lui e due suoi amici.

Ma questo è praticamente nulla: dopo una quindicina di anni di onesto lavoro si è visto mettere alla porta perché nel frattempo una società del Milanese aveva preso in proprietà anche questa fabbrica dove lavorare gli è diventato impossibile per quel vecchio fatto di gravissima entità sociale e morale. Vengo al sodo. Dunque, io vorrei tanto un lavoro onesto come pure la mia compagna, in quanto stando assieme abbiamo conosciuto l’amore con la A maiuscola. Ma visto ciò che è successo al mio amico, io che di precedenti ne ho una trentina come faccio a cercarmi un lavoro? E poi c’è il fatto che sono un ex tossicodipendente, figurarsi. Sì, è pur vero che non mi prenderanno a calci nel sedere, ma se non lo fanno sarà solo perché il massimo mi è stato già fatto, una vita di carcere e il finale mi sembra già di conoscerlo. Nunzia, 38anni, senza un soldo, si è quasi scocciata di venire a trovarmi in un carcere ogni volta che mi accade di voler portare un po' di euro a casa per far da mangiare. Io, 50 anni finiti, penso proprio che se ciò accade la farò finita nel vero senso della parola.

P.S. - Se la mia vita cambierà sarò uno dei pochi uomini fortunati su questo tipo di discorso. Noi due cerchiamo anche una comunità per andarcene insieme per lavorare e salvarci.

 

Mariano Di Sarno

 

Sono un detenuto di Poggioreale, ho 41 anni e sono stato molte volte ospite dello Stato. Ho tre figli piccoli e non ho un lavoro fisso. Nel 2005, appena uscito dal carcere di Civitavecchia, avevo avuto l’obbligo di firma per due anni. Ho chiesto aiuto al Comune di Afragola, dove risiedo; ho parlato col commissario prefettizio spiegando i miei problemi. Ed ora eccomi di nuovo in carcere, non avendo avuto risposta dal Comune. Vorrei far sapere che molti, come me, vorrebbero lavorare e non tornare in questo lurido posto. Ma non bisogna combattere la delinquenza solo con altra prepotenza, bisogna tendere una mano e creare posti di lavoro, solo così potrà diminuire il 50 per cento dei reati di cui si parla tanto. Tantissimi di noi vorrebbero tornare a casa dopo la fatica ed essere felici con i figli. A Natale i miei figli hanno pianto guardando l’albero. Chiedo a qualche ditta di darmi un posto fisso degno di un padre di famiglia.

 

Angelo Maugeri

Siracusa: muore un detenuto 42enne, ci sono degli indagati

 

La Sicilia, 4 febbraio 2008

 

Ci sono degli indagati per la sospetta morte del detenuto Daniele Foti, 42 anni, il cui corpo privo di vita fu rinvenuto giovedì scorso, alle ore 15, dagli agenti della polizia penitenziaria disteso sulla propria brandina con la pancia in giù e con la testa coperta da un cuscino.

Ma sui nominativi degli indagati nulla è dato sapere poiché il magistrato titolare dell’inchiesta non ha inteso rivelarli. "Un atto dovuto" - si dice alla Procura della Repubblica, dove tutte le bocche restano cucite per garantire il riserbo istruttoria attorno ad una vicenda che presenta numerosi aspetti piuttosto inquietanti. Nessuna indiscrezione è invece circolata sull’ipotesi di reato contestata agli "innominati" indagati.

Non è dato sapere, quindi, se si tratta dei compagni di cella del detenuto trovato morto o se nel mirino sia finito il personale medico della casa circondariale di Cavadonna. "S’indaga in tutte le direzioni", si limita a dire il capo della Procura Roberto Campisi, che si tiene informato costantemente sulla piega delle indagini.

Il magistrato titolare dell’inchiesta, il sostituto procuratore Mauela Cavallo, ha intanto convocato per la tarda mattinata di domani nel suo ufficio il medico legale, Francesco Coco per affidargli l’incarico di effettuare l’autopsia sul cadavere del detenuto di Floridia. Poiché nel registro degli indagati sono stati iscritti dei nominativi, all’appuntamento si dovrebbero presentare anche i medici legali nominati dalle parti. L’autopsia si farà invece nel primo pomeriggio di oggi all’obitorio dell’ospedale "Umberto I".

Anche la famiglia di Daniele Foti, assistita dall’avvocato Paolo Germano, manderà un proprio consulente di medicina legale. I congiunti del detenuto vogliono conoscere le cause che hanno provocato la morte e, quindi, sapere se Daniele Foti sia stato soffocato da qualcuno dei quattro compagni di cella oppure se sia morto per gli omessi soccorsi da parte del medico di servizio quel giorno nella casa circondariale.

A Floridia, dove il detenuto era molto conosciuto, la notizia della sua morte ha provocato rabbia e sgomento. Daniele Foti, che stava espiando una condanna per resistenza ai carabinieri, doveva uscire dal carcere entro il mese di febbraio.

Venezia: muore detenuto 50enne, era accusato di estorsione

 

Il Gazzettino, 4 febbraio 2008

 

Era finito in carcere alla fine di ottobre nell’ambito di un’indagine condotta dalla squadra mobile sul mercato del sesso a pagamento a Marghera. Sette le persone arrestate, insieme a Gianfranco Buschini, 50 anni mestrino e indagate a vario titolo per i reati di sfruttamento della prostituzione, estorsione continuata e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

L’uomo è morto in cella nel carcere di Santa Maria Maggiore molto probabilmente stroncato da un arresto cardiocircolatorio. Il pm Barbara De Munari ha disposto l’autopsia affidando l’incarico al medico legale Antonello Cirnelli. Buschini, insieme alla moglie serba Dragica, di 41 anni, era coinvolto in un giro di lucciole, per lo più serbe e bulgare, sui marciapiedi di via Fratelli Bandiera. Decine gli appartamenti e gli alberghi di Marghera e Mestre passati al setaccio dai poliziotti. Tutto sarebbe iniziato alla fine del 2003, quando alle prostitute nigeriane si sono via via sostituite quelle dell’Est Europa, alcune addirittura minorenni, costrette a prestazioni senza alcuna protezione.

Roma: Marroni; Regina Coeli costa troppo, meglio chiuderlo

 

Comunicato stampa, 4 febbraio 2008

 

Oltre 21 milioni di euro di finanziamenti statali dal 1999 al 2003 - ed altri 450mila euro stanziati nel 2006 dalla Regione Lazio - spesi invano per tentare di fare di Regina Coeli un carcere finalmente a misura d’uomo. È quanto denuncia il Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni il quale, commentando i dati diffusi dalla rubrica del quotidiano Il Riformista - Radiocarcere, propone la trasformazione dello storico edificio in un "Beaubourg romano".

Realizzato nel 1654, il Carcere Regina Coeli è forse il più antico d’Italia. Attualmente ospita oltre 900 detenuti, molti dei quali in attesa di giudizio, divisi in otto sezioni (spesso in 4 o 6 in ogni cella) e in Centro Clinico. La sua manutenzione ordinaria costa 14 milioni e mezzo di euro all’anno.

I finanziamenti statali e regionali sono serviti per ristrutturare tre delle otto sezioni, la prima, la seconda e la terza. Ma i lavori non hanno risolto problemi che riguardano soprattutto le tubature, l’impianto elettrico e il riscaldamento. Nelle celle dell’ultimo piano spesso l’acqua non arriva, l’impianto elettrico ha bisogno di continue riparazioni e il riscaldamento è insufficiente.

A quanto risulta anche agli operatori del Garante, la quarta e la quinta sezione sono chiuse per essere ristrutturate, le altre, dalla sesta all’ottava, sono in uno stato di degrado. Le celle sono .sporche e in pessime condizioni. Il centro clinico è decoroso solo al terzo piano, dove ci sono due moderne sale operatorie.

" È da tempo che affermiamo che Regina Coeli non ha più le caratteristiche per essere un carcere a misura d’uomo - ha detto il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio Angiolo Marroni -, dove si possa applicare il dettato costituzionale che prevede un’opera di recupero sociale del reo. Io credo che sia giunto il tempo delle scelte coraggiose: potremmo impiegare i fondi spesi per far funzionare il carcere di via della Lungara per realizzare una struttura più moderna e consegnare gli spazi di Regina Coeli alla Città di Roma facendone, magari, una punto di riferimento artistico e culturale come è l’area del Beaubourg per Parigi".

Padova: nuovo carcere già sovraffollato e con pochi agenti

 

Il Mattino, 4 febbraio 2008

 

"Non si può affidarsi sempre e solo alla buona volontà degli agenti di Polizia Penitenziaria. La politica non può trascurare il carcere di Padova, che è il terminale del sistema della giustizia, e quindi soffre di tutto ciò che non funziona a monte". Lo spiega il consigliere regionale di An Raffaele Zanon, che ieri pomeriggio ha incontrato poliziotti e detenuti del Due Palazzi. "È una struttura rinnovata ma già oltre il limite della capienza, nonostante l’indulto - continua Zanon -.

E poi manca personale: agli attuali 120 uomini bisognerebbe aggiungerne altri 40. C’è infine il problema della mancanza di un "reparto carcerario" negli ospedali cittadini, dove indirizzare i detenuti malati, ora dispersi tra i vari reparti con notevole dispendio di agenti di sorveglianza". Zanon scriverà al ministero della Giustizia e all’Usl di Padova, sollecitando anche la ristrutturazione del vecchio carcere circondariale e la soluzione ai numerosi problemi che si manifesteranno dopo il 31 marzo, data in cui i sevizi sanitari del sistema penitenziario passeranno in capo alla Regione.

Catania: uno spettacolo alla casa circondariale di Bicocca

 

La Sicilia, 4 febbraio 2008

 

Parlare di droga con uno spettacolo teatrale a chi nel percorso della propria vita questa parola la conosce bene. Parlarne non solo per rievocare le tappe attraverso cui la droga ha invaso il mondo, ma anche per informare su i suoi effetti letali. Lo ha fatto ieri per i detenuti della casa circondariale di Bicocca, la compagnia teatrale "Ponte Secco di Sopra" allestendo una performance curata dal regista Roberto Pagliara e da Jader Giraldi.

È un progetto sulla tossicodipendenza - afferma il direttore Giovanni Rizza - finanziato dalla Direzione Generale Detenuti di Roma ed indirizzato sia ad una informazione esatta sui vari stupefacenti sia alla formazione dei detenuti sulla consapevolezza dei danni fisici che questi provocano. "Direttamente correlato alla tossicità è sicuramente il disagio psichico che ne deriva e la durezza del carcere è un dato certo per cui diviene rilevante un programma di interazione che aiuta a fare riflettere".

Dello stesso programma guidato dal responsabile area educativa trattamentale, dott. Maurizio Battaglia fanno parte anche un corso di musicoterapia, di yoga, di rappresentazione teatrale da parte degli stessi detenuti con la collaborazione dell’Associazione ‘Ali nel silenziò (a fine marzo sarà inaugurata la sala teatro) oltre che una serie di attività, coordinate dal prof. Luciano Nigro, presidente della Lila, relative alle problematiche pertinenti ad Hiv ed Aids.

Lo spettacolo ha presentato l’argomento utilizzando soprattutto il titolo, "Sostanze", una parola le cui prime tre lettere suonano come un Sos, un modo per colpire l’attenzione e poi, come fosse ancora un gioco, lasciare emergere l’altra parola, "Stanze". Perché "chi consuma droga " fa la propria scelta in queste stanze ideali, piene di prodotti accattivanti, eccitanti, sconvolgenti e decide senza saperne il perché e senza essere sufficientemente informato.

‘Stanze alternative, di ristoro, di divertimento, di fuga dalla possibilità più autentica del semplice esserci. In alcune stanze immaginarie si può trovare anfetamina, morfina, ecstasy, eroina, cannabinoidi, Lsd e quanto altro possa dare euforia, leggerezza, rilassamento, alterazione della percezione della realtà, energia, visioni, sedazione. Ma si è sufficientemente informati sugli effetti, a volte mortali? In questo "gioco" basta girare il foglio per sapere e meditare. Intervengono in aiuto gli stessi testi di Roberto Pagliara che sottolineano la parte formativa dello spettacolo: "Scegliere le Stanze reali, uniche, vere, degli uomini re….".

Padova: appello ai media, proteggiamo minori da delitti atroci

 

Il Mattino di Padova, 4 febbraio 2008

 

Un concetto, oggi, trova tutti d’accordo: la dimensione della percezione sociale di un delitto è direttamente collegata allo spazio informativo che lo stesso riesce a conquistarsi. Con una doverosa e tutt’altro che ovvia precisazione: più il delitto assume connotati atroci, mischiando sangue ed efferatezza, maggiore è la cassa di risonanza che si autoalimentata tramite giornali e media audiovisivi. In questo contesto, com’è possibile proteggere i minori dalle implicazioni emotive e psicologiche di notizie devastanti, salvaguardando nello stesso tempo i diritti della libera informazione?

Argomento scottante, affrontato con grande professionalità nel corso di un convegno, organizzato dalle comunità "Il Cedro", dirette da Donatella Mereu, nel Circolo dell’esercito in Prato della Valle, a Padova, al quale hanno partecipato oltre duecento psicologi e criminologi. Tra i relatori, Ugo Catola, direttore dell’istituto psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino, Giovanni Chiello, presidente dell’Ordine degli avvocati di Padova, il saggista Marco Della Luna, Piergiorgio Miottello, responsabile del settore di neuropsichiatria infantile di Bassano, Andrea Esposito, sostituto procuratore presso il Tribunale dei Minori di Venezia, Carolina Bonafede, vicepresidente dell’Ordine degli psicologi del Veneto e il giornalista del Mattino, Leandro Barsotti.

Un dato, su tutti, è emerso da relazioni e dibattito: oggi, grazie al diffondersi di Internet, come ha ricordato Barsotti, è diventato quasi impossibile mediare e filtrare le notizie, in modo da proteggere le categorie a rischio. Le autocensure che si impongono i giornalisti vengono regolarmente violate dal modo web, dove oggi basta avere a disposizione un video cellulare per lanciare in rete immagini di devastante impatto. E allora, che fare?

Ammesso che non è sufficiente l’impegno dell’Ordine dei giornalisti, dopo la sottoscrizione della Carte di Treviso, per la tutela dei minori e delle categorie a rischio, in che direzione si può incanalare l’attenzione del legislatore? Lo studio di tre eclatanti casi di cronaca (Cogne, Rignano, Perugia) ha rivelato che la ricerca del particolare più perverso e atroce è in grado di azzerare qualsivoglia controllo.

L’opinione pubblica è sempre più affamata di sangue & gossip. E se la domanda cresce, non c’è dubbio che ci sarà sempre qualche inossidabile media pronto a regalare adeguate risposte. "Oggi si pone in primo piano, con drammaticità, il problema dei diritti delle vittime e dei presunti colpevoli - afferma Donatella Mereu - di volta in volta vittimizzati anticipatamente, non solo dal corso ininterrotto di notizie che li riguardano. Senza dimenticare il ruolo patogeno delle notizie orride e del trauma secondario che provocano sugli spettatori e fruitori delle informazioni, anche bambini".

"Se è ormai chiaro il danno esistenziale arrecato alle vittime di accuse infondate e infamanti, e altresì è evidente l’esigenza di tutela della salute emotiva delle vittime vere e degli operatori che intervengono sul luogo del delitto. L’esposizione mediatica è oggi responsabile della formazione di convincimenti sociali che influenzano le inchieste e le indagini stesse.

Insomma, è sempre più necessario cauterizzare il clima che si è venuto a creare, del giallo in diretta, con le sue conseguenze nefaste, senza per questo allinearci a forme di censura regressiva. Personalmente non vedo bene l’eccesso di pubblicità intorno al delitto, affinché un assassino non divenga una star. O un innocente immeritatamente divenga un mostro e tale rimanga. E allora ecco che una informazione rispettosa di questi limiti diventa una necessità vitale in una società che vuole educare in modo sano i propri figli".

Immigrazioni: maxisanzione per chi dà lavoro ai clandestini

 

Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2008

 

La maxisanzione per il lavoro irregolare deve essere applicata anche in particolari situazioni. Il ministero del Lavoro ha esaminato alcune particolari casistiche e ha fornito importanti istruzioni operative (Lettera Circolare n. 8906 del 4 luglio 2007) che vale la pena ricordare alla luce del piano di vigilanza 2008.

Extracomunitari clandestini. In caso di impiego di lavoratori extracomunitari clandestini, il ministero ritiene compatibile l’applicazione della maxisanzione in concorrenza con la sanzione penale di cui al Dlgs 286/98, atteso che le due disposizioni sono solo parzialmente coincidenti in quanto volte a tutelare diversi beni giuridici.

Minori non regolari. Il ministero ritiene di poter procedere all’irrogazione della maxisanzione (sanzione amministrativa da 1.500 ai 2mila euro per ciascun lavoratore, maggiorata di 150 euro per ciascuna giornata di lavoro effettivo) anche nell’ipotesi di impiego di lavoratori minorenni privi dei requisiti minimi per l’ammissione al lavoro. In questo caso sono violati differenti interessi giuridici: da un lato, la salute e l’integrità psicofisica dei bambini e degli adolescenti, dall’altro la regolarità dei rapporti di lavoro, sanzionati dalla normativa in questione.

Lavoratori parasubordinati. La maxisanzione potrà trovare applicazione solo nei casi in cui l’ordinamento preveda precisi obblighi di formalizzazione documentale del rapporto di lavoro da parte del committente. Ammesso, perciò, che la prestazione di lavoro autonomo sia genuina (cioè non si tratti di lavoro subordinato mascherato ma di veri co.co.co., co.co. pro., associati in partecipazione), la maxisanzione sarà legittima qualora non siano adempiuti i relativi obblighi di documentazione formale (ad esempio comunicazione al Centro per l’impiego).

Imprese commerciali. È applicabile la maxisanzione nelle ipotesi di rapporti di lavoro di collaboratori familiari che, partecipando con carattere sia di abitualità che di prevalenza al lavoro aziendale; siano inquadrabili come "coadiuvanti" delle imprese familiari e conseguentemente soggetti all’obbligo di iscrizione nel libro matricola; lo stesso dicasi per i soci di attività commerciale che sono tenuti all’iscrizione nel libro matricola.

Lavoratori domestici. L’applicazione della maxisanzione scaturisce dal fatto che la mancata formalizzazione del rapporto di lavoro mediante documentazione obbligatoria è condizione fondante per la sanzione stessa pur non essendo previsto, in tale ipotesi, l’obbligo di istituzione del libro matricola. Il ministero precisa, poi, che non si esclude l’applicabilità della maxisanzione qualora il datore di lavoro domestico utilizzi il proprio lavoratore in altra attività imprenditoriale o professionale (ad esempio per pulire gli uffici). In queste ipotesi, infatti, devono essere instaurati due distinti rapporti di lavoro pur se le parti in causa sono le medesime.

Droghe: Veneto; le Comunità denunciano un taglio dei fondi

 

Corriere del Veneto, 4 febbraio 2008

 

Gridano allo scandalo Covest e Sirio, i due Coordinamenti delle comunità terapeutiche per il recupero dei tossicodipendenti del Veneto. I rispettivi presidenti, Fabio Ferrari e Fabio Salandini, denunciano che "An e Lega proporranno di togliere 10 milioni di euro dal budget totale di 21 milioni dedicato al settore". "È una follia che causerà gravissime ripercussioni su tutto il modello veneto della cura e del reinserimento sociale di queste persone - aggiungono i due -. Così si azzerano anni di lavoro e si rischia di rimandare a casa o per la strada oltre un migliaio di tossicodipendenti".

Secondo i dati forniti da Covest e Sirio, nella nostra regione operano 35 comunità terapeutiche, che ogni anno accolgono 2.200 pazienti, coinvolgendo 30 cooperative, 50 associazioni, 1.500 volontari e 1.200 famiglie, che seguono percorsi di recupero. "Se verranno tagliati i fondi - chiudono Ferrari e Salandini - le comunità saranno messe in ginocchio".

Molto diversa la versione di Pierluigi Cortelazzo, capogruppo di An in Regione: "Io e il capogruppo della Lega, Franco Manzato, abbiamo presentato un emendamento al bilancio per stornare 3 milioni e non 10 dai 25.700.00 euro, e non 21 milioni, riservati alle comunità terapeutiche, per destinarli al progetto "Vita indipendente". Un’iniziativa avviata nel 2005 dalla Regione per sostenere i disabili gravi e non autosufficienti e della quale io sono orgoglioso. Quest’anno abbiamo ricevuto più richieste del previsto, che vanno supportate con altri fondi: stornare 3 milioni da quelli delle comunità non significa mandarle a fondo. Questo è terrorismo psicologico".

"Anche perché, in caso di bisogno, a favore del recupero dei tossicodipendenti si potranno girare altre risorse del Sociale - aggiunge Franco Manzato -. E comunque in questo momento di ristrettezze tutte le strutture devono tirare la cinghia, nessuna esclusa. Abbiamo previsto un abbattimento delle spese in ogni capitolo di bilancio, ma questo non significa compromettere l’esistenza né l’attività di alcuno. E poi ci sono sempre gli aggiustamenti di bilancio".

Droghe: Radicali; nuovo prefetto di Torino, ipocrita e miope

 

Notiziario Aduc, 4 febbraio 2008

 

Dichiarazione di Giulio Manfredi (Giunta di segreteria Radicali Italiani) e Domenico Massano (Giunta di segreteria Associazione Radicale Adelaide Aglietta): "Sembra che si stia delineando chiaramente la nuova strategia dei quattro pilastri per il contrasto alle droghe secondo l’interpretazione "estensiva" del nuovo prefetto ossia: reprimere, reprimere, reprimere, reprimere (anziché: lotta al narcotraffico, prevenzione, cura, riduzione del danno).

L’asse sembra ormai essersi spostato definitivamente sui cittadini tossicodipendenti, a tal punto che il prefetto propone di applicare l’articolo 75 bis della famigerata legge "Fini-Giovanardi", ventilando un suo possibile uso per interdire i cittadini tossicodipendenti dal frequentare Parco Stura ("Tossic Park" ormai anche per il Cardinale di Torino!).

Tale prospettiva non tiene in alcun conto la condizione di dipendenza patologica nella quale versano i cittadini tossicodipendenti che nelle intenzioni del Prefetto, verrebbero messi nella condizione o di andare a reperire le sostanze in altri luoghi, o di tornare "illegalmente" rischiando la misura penale conseguente alla violazione dell’interdizione.

Facciamo innanzitutto presente al Prefetto che tale misura è applicabile solo se riferita al divieto di frequentare "determinati locali pubblici", non un parco cittadino (art. 75 bis, comma 1, lettera c) del Dpr 309/90). Riteniamo che sia, comunque, ipocrita e miope riferirsi ad una misura che, se non accompagnata dalla definizione di adeguate politiche socio sanitarie capaci di offrire delle alternative ai cittadini tossicodipendenti, sortirebbe l’unico effetto di aggravare la già difficile situazione di degrado e marginalità in cui molte persone sono costrette a vivere, rappresentando una corsia preferenziale per il loro ingresso in carcere.

Come abbiamo più volte ribadito, le sale del consumo (narco-sale) sono una concreta iniziativa di riduzione del danno che rappresenterebbe un’alternativa di integrazione per le persone tossicodipendenti. Come le 72 esperienze europee ci insegnano, solo quando alle iniziative repressive si accompagnano iniziative di riduzione del danno e politiche inclusive si riescono ad ottenere dei risultati positivi per la cittadinanza e duraturi nel tempo.

Senza un’adeguata rete di sostegno, costituita da servizi socio sanitari capaci di intercettare e rispondere ai bisogni dei cittadini tossicodipendenti mediando con le esigenze ed i diritti dell’intera cittadinanza, l’enorme salto all’indietro che sembra volersi fare nell’affrontare il fenomeno della tossicodipendenza a Torino, rischia di rivelarsi molto pericoloso.

Ringraziamo di questa situazione, che rischia di farsi di giorno in giorno sempre più critica, il Governo uscente ed in particolare i Ministri della Salute (Livia Turco) e della Solidarietà Sociale (Paolo Ferrero), che non solo hanno dimostrato l’incapacità di abolire la legge "Fini-Giovanardi" (come previsto nel programma elettorale del Governo), ma hanno fatto di più: il Ministro Turco è intervenuto pesantemente nel dibattito torinese sulle narco-sale ponendo un veto alla sperimentazione delle stesse; il Ministro Ferrero si è limitato a fare dichiarazioni di principio senza entrare nel merito del dibattito, lavandosene pilatescamente le mani".

Svizzera: "Reform 91" denuncia; detenuto violentato e ucciso

 

Swiss Info, 4 febbraio 2008

 

"Reform 91", un’organizzazione di aiuto ai carcerati, ha sporto denuncia per negligenza contro i responsabili della giustizia zurighese, e in particolare contro il direttore della struttura, in seguito all’omicidio avvenuto domenica scorsa all’interno della prigione Pöschwies di Regensdorf.

Un detenuto di 49 anni aveva violentato e ucciso un 25enne che si trovava nel suo stesso reparto e scontava una breve pena per rapina, furti e violazioni alla legge sugli stupefacenti. La vittima avrebbe dovuto essere trasferita, sostiene "Reform 91", se il personale avesse tenuto conto del fatto che si era già lamentato con la propria famiglia delle molestie sessuali subite dietro le sbarre.

Sarebbe inoltre stata sottovalutata la pericolosità dell’omicida, un ex infermiere psichiatrico condannato nel 1996 per coazione sessuale e per l’assassinio di due ragazzi. La direzione dello stabilimento, alcuni giorni fa, aveva precisato che l’uomo non si era mai distinto per atti violenti da quando era stato rinchiuso.

Sebbene considerato potenzialmente pericoloso, come altri 180 ospiti del carcere, non si trovava in cella di isolamento, un provvedimento che in base alle direttive in vigore in tutta la Svizzera viene adottato solo quando esistono "indizi concreti di una minaccia per gli altri".

Thailandia: italiana detenuta 4 mesi senza capire il perché

di Roberto Scarcella

 

Secolo XIX, 4 febbraio 2008

 

Quattro mesi di inferno, trascorsi tra una cella malsana e i locali maleodoranti di un centro per immigrati, a Bangkok, senza sapere con esattezza perché. O meglio, ipotizzando un motivo - l’essere in possesso di un passaporto considerato falso - che pareva sproporzionato rispetto al trattamento inflittole dalle autorità tailandesi.

E, infatti, solo al rientro in città, Giovanna Casadei, 37 anni, genovese, impiegata in un canile, scoprirà che la motivazione del suo arresto e della successiva permanenza forzata a Bangkok era un’altra: la donna era accusata di aver rubato alcuni souvenir che, chissà come, si era ritrovata accanto, in un sacchetto, sui sedili dell’aeroporto.

Ma nessuno era stato in grado di farle capire esattamente quale fosse l’imputazione a suo carico. Così, senza neppure la possibilità di abbozzare una minima difesa, era stata gettata in prigione. Con 760 detenute, perlopiù asiatiche, che prima la chiamavano Joanna, all’inglese, poi semplicemente Italy.

Dopo un mese e mezzo passato in un carcere thailandese e un mese di domiciliari in una guest house per detenuti in attesa di giudizio, Giovanna ha passato un altro mese nei putridi locali del centro immigrazione thailandese in attesa di un biglietto aereo per l’Italia e un foglio di via che sembravano non arrivare mai. L’incubo ha inizio il 26 agosto dello scorso anno: Giovanna sonnecchia su una poltroncina dell’aeroporto di Bangkok in compagnia dell’amico Massimiliano. I due, partiti dall’Italia a fine luglio, erano in giro nel sud-est asiatico da ormai un mese: rientravano da una serie di escursioni in Cambogia e Vietnam.

E Bangkok avrebbe dovuto essere una semplice tappa di poche ore in attesa di salire sull’aereo per l’Europa. Ma sotto quelle poltroncine giaceva un sacco incustodito: al suo interno oggetti di poco conto, classici souvenir da aeroporto non pagati. Ancora oggi, a distanza di cinque mesi non si sa bene chi li abbia presi. Giovanna, convinta di essere stata fermata per un passaporto falso, afferma di aver saputo la verità soltanto rientrata in Italia.

Il terminal era pieno di gente, ma la più vicina a quel sacco era lei, che condotta in un posto di polizia è stata interrogata in lingua thai (senza che lei capisse mezza parola), segregata per due giorni in una stanza dell’aeroporto e poi trasportata con un pick-up nel carcere di Klong Dan a Samut Prakan, poco fuori Bangkok.

"Ho passato un mese e mezzo in uno stanzone puzzolente in cui c’erano delle luci al neon accese 24 ore su 24 - racconta Giovanna, ancora visibilmente scossa -. Gli spazi erano talmente angusti che dovevamo dormire una attaccata all’altra". La vita del carcere si rivela dura fin da subito, e Giovanna impiega qualche giorno per capire cosa fare, con chi parlare per migliorare la propria situazione. Innanzitutto viene ricevuta da "Big Boss", l’uomo che all’interno della prigione sembra potere tutto: "Avrà avuto una cinquantina d’anni, grosso e grasso, con i vestiti sempre perfettamente stirati e un codazzo di "segretarie".

"Davanti a lui le donne devono inginocchiarsi - dice Giovanna - e spiegare le proprie ragioni a mani giunte, come se si fosse in preghiera". Ma Big Boss è solo uno dei tanti personaggi da romanzo che popoleranno le giornate di Giovanna. Tra questi, Jinda, una donna asiatica condannata per spaccio di droga: sarà lei a insegnarle come non farsi più rubare la divisa da carcerata durante la notte: "Con ago e filo ci siamo messe d’impegno e scritto la parola Italy su tutti i miei panni. E di italiana lì c’ero solo io".

Ma i problemi erano altri: la puzza, gli orari stravolti dalle preghiere mattutine, i sotterfugi tra carcerieri e carcerati, i viaggi verso il tribunale, in cui uomini (a torso nudo e ammanettati) e donne venivano caricati insieme su lunghi pick up "che assomigliavano tanto a carri bestiame". Giovanna trova in carcere una rivista di una compagnia aerea con un planisfero. Si addormenterà ogni notte sognando la fuga e un tragitto lungo tutto l’Asia destinazione Genova, Italia.

Il suo Paese, che Giovanna celebra durante una serata danzante in carcere, cantando a squarciagola l’Inno di Mameli. "Comunicare era dura, non avevo nemmeno un vocabolario italiano-thai". Giovanna viene salvata da un avvocato thailandese. Dopo il pagamento di una multa viene scarcerata, ma il peggio si rivelerà il centro immigrazione, dove rimarrà per un mese. "La gente faceva i propri bisogni per terra, c’erano bambini trattati come bestie, donne anziane che venivano picchiate". Il 16 gennaio arriva l’agognato foglio di via.

India: italiano detenuto, padre chiede il gratuito patrocinio

 

Adnkronos, 4 febbraio 2008

 

Figlio in carcere in India, padre rivendica diritto a gratuito patrocinio. Mio figlio è innocente e sarebbe già libero se fosse adeguatamente difeso.

È in carcere da quasi un anno Angelo Falcone, il 27enne arrestato in India e accusato di spaccio di droga dalla polizia locale di Mandi insieme ad un coetaneo italiano, Simone Nobili, e a due indiani. I due italiani disconoscono le accuse e si ritengono vittime di un clamoroso abbaglio giudiziario. Sono attualmente a giudizio e le prossime udienze si tengono a marzo. Il padre di Angelo Falcone, Giovanni, materano di Rotondella, ha aperto un blog ed incessantemente cerca di portare il caso all’attenzione del governo e dei media nazionali ma i risultati sono stati davvero molto deludenti.

Nemmeno diverse interrogazioni al Parlamento italiano ed europeo hanno avuto l’esito sperato. Giovanni Falcone, che ha già fatto lo sciopero della fame e minaccia anche azioni autolesionistiche, sta battendo molto anche su un altro tasto: all’estero non è garantito il patrocinio gratuito dello Stato ai connazionali alle prese con la giustizia. Sarebbero 3 mila le persone, in gran parte giovani, detenuti all’estero ed alle prese con le rispettive vicende giudiziarie. Giovanni Falcone è convinto che suo figlio e l’amico Simone Nobili sarebbero già liberi se avessero avuto un’assistenza legale adeguata al caso.

Invece rischiano pene fino a 20 anni perché accusati di detenere a fini di spaccio 18 chilogrammi di hascisc in due valige. Angelo Falcone, che è residente a Fidenza (Piacenza), e l’amico Simone Nobili erano a Mandi, nella regionale himalayana dell’Himachal Pradesh, per vacanza. Alloggiavano in una piccola pensione. Qui, secondo le loro dichiarazioni, sono stati arrestati nella sera del 9 marzo dello scorso anno. I verbali della polizia riportano invece che sono stati arrestati in un taxi insieme ad altri due indiani mentre erano diretti all’aeroporto con le valige cariche di sostanza stupefacente nel bagagliaio.

Come da loro denunciato, sono stati trattenuti per 24 ore senza poter telefonare all’Ambasciata senza un interprete nè tantomeno un legale ed infine hanno firmato una dichiarazione in lingua non italiana. Sono stati rinchiusi in cella e sono stati a lungo senza vedere un giudice. Dopo il rinvio a giudizio, il processo è iniziato il 26 dicembre, altre udienze si sono tenute a dicembre e gennaio e sono stati escussi dei testimoni, che sono tutti dell’accusa e quasi tutti poliziotti. Nell’udienza del 21 gennaio sono stati mostrati gli atti ed i verbali di sequestro e di sopralluogo che la difesa dei due italiani ha contestato. Riprenderà il 10, l’11 ed il 12 marzo, ad un anno esatto dall’inizio della detenzione. La difesa punta su diverse incongruenze che Falcone e Nobili hanno denunciato all’Ambasciata.

Innanzitutto, le circostanze dell’arresto che divergono sensibilmente dal momento che gli italiani dichiarano di essere stati arrestati nel loro alloggio. Sui verbali divergerebbero anche gli orari dell’arresto che sono indicati in maniera diversa per l’uno e per l’altro. Oltre al processo, la detenzione è anche motivo di afflizioni fisiche. I due italiani hanno contratto infatti l’epatite virale. Angelo Falcone è notevolmente dimagrito.

Le condizioni carcerarie sono difficili ma comunque "accettabili" secondo i responsi delle visite consolari. Giovanni Falcone, brigadiere dei carabinieri in pensione, lotta senza pause. "Sono disperato, sono andato a trovare mio figlio a novembre ed era notevolmente dimagrito ed è a pezzi con il morale - dice Falcone all’Adnkronos -. Mio figlio è incensurato, non ha mai fatto uso di droga. È rimasto invischiato in questa storia in cui non c’entra ma nessuno ci aiuta. Ma si può immaginare che due ragazzi che vivono in una poverissima pensione possano portare droga del valore di cento mila euro.

Si stanno sbagliando ma non riusciamo a venire a capo di questa storia. Sono pronto a tutto - sottolinea -. Ho già fatto lo sciopero della fame e sono pronto ad altre azioni forti, qualcosa devo fare affinché l’Italia si accorga di questa storia". Proprio questo non va giù al signor Falcone. "Ma come - si lamenta - se succede qualcosa a qualche straniero in Italia tutti i giornali e le televisioni ne parlano, di Angelo non si è interessato nessuno. Ho scritto anche all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ed alla Vigilanza Rai per chiedere che si faccia sapere questa vicenda perché occorre la mobilitazione del governo e della gente. Ma se nessuno lo sa, non si muove niente".

Per questo ha aperto un blog (www.giovannifalcone.blogspot.com). Non esistono accordi bilaterali tra il nostro Paese e l’India per il trasferimento dei detenuti. Falcone è in perenne contatto con le autorità statali, riceve assistenza dall’Ambasciata ma nel frattempo l’avvocato se lo deve pagare di tasca propria perché non esiste il patrocinio gratuito per gli italiani detenuti all’estero. "Mio figlio sarebbe già libero se uno studio legale forte avesse potuto difenderlo ma non ho le possibilità, le parcelle e le spese che mi hanno chiesto sono elevatissime - dice Falcone -.

In Italia uno straniero ha tutti i diritti, per noi all’estero invece non sono garantiti. Qui non si tratta solo del fatto legale perché sono in ballo i diritti umanitari delle persone. In tutto il mondo sono 2944 gli italiani detenuti, a prescindere se ci sono anche coloro che hanno ammesso le proprie colpe, lo Stato italiano non garantisce i diritti delle persone. Invece vediamo su tv e giornali che per il caso di Perugia e della povera Meredith Kercher le autorità governative di tutti gli stranieri implicati si sono presentati con avvocati famosi per assistere i propri cittadini".

Il padre di Angelo Falcone non molla, non perde le speranze ma i punti di riferimento sono diventati molto pochi. "Adesso che è caduto anche il governo è ancora più dura perché non riesco a contattare proprio nessuno", sottolinea. "Il dramma è che l’Italia non conosce la storia di Angelo, il dramma è che non se ne frega proprio nessuno", chiosa con moltissima amarezza. Una speranza. "Angelo ha compiuto 27 anni ad aprile mentre era in carcere, spero che non debba festeggiare un altro compleanno così", conclude commuovendosi.

 

 

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