Rassegna stampa 18 febbraio

 

Giustizia: il 60% delle condanne non viene scontato in carcere

di Roberto Martinelli

 

Il Messaggero, 18 febbraio 2008

 

Le spiegazioni che saranno date a chi pretenderà di sapere perché mai un pedofilo, condannato a sei anni di reclusione per violenza carnale, è stato messo in libertà ed ha potuto stuprare un’altra bambina, sono le stesse di sempre.

E cioè: che la lentezza della giustizia è causata dall’enorme carico di lavoro dei magistrati, dalle carenze delle strutture, dalle condizioni proibitive in cui lavorano gli operatori del diritto e via così. Le stesse risposte sono state date poche settimane fa ad una madre che si è vista uccidere la figlia da un uomo condannato e scarcerato per il medesimo meccanismo che ha aperto le porte del carcere al pedofilo: decorrenza dei termini.

Questo istituto impone alla giustizia di rispettare i tempi che il codice prevede per concludere l’iter delle varie fasi giudiziarie cui è sottoposto l’imputato. Esso si applica sia alla fase preliminare delle indagini sia a quella che segue la celebrazione dei processi. E i tempi variano a seconda della gravità dei reati contestati.

Il pedofilo era stato riconosciuto colpevole e condannato ma la sentenza non era diventata definitiva perché si doveva ancora celebrare il processo di appello e poi quello di Cassazione. Il ritardo della macchina giudiziaria ha fatto scattare la norma che gli ha consentito di tornare in libertà con l’obbligo di firmare il registro dei sorvegliati.

Una formalità assolutamente inutile come hanno dimostrato casi di rapinatori condannati e scarcerati per decorrenza dei termini, che dopo essersi sottoposti al ridicolo rituale della firma in caserma, saccheggiavano banche e negozi. Senza che nessuno sia mai preoccupato di disporre controlli seri e reali su persone sulle quali esisteva il ragionevole dubbio che potessero commettere reati analoghi a quelli per i quali erano stati condannati.

Basta scorrere le cronache degli ultimi mesi per documentarsi su episodi di questo genere. Ma purtroppo accade che, che dopo un primo momento di sconcerto e di sconforto per lo stato della giustizia, l’immaginario collettivo li cancella e li colloca nella soffitta della scomoda quotidianità da dimenticare.

Nessuno infatti ha mai riflettuto seriamente sul fatto che nell’ultimo decennio sono 850 mila gli anni di detenzione inflitti e non scontati in carcere. Non solo, ma da rapporto tra gli anni di reclusione effettivamente scontati e quelli inflitti in via definitiva è stato possibile realizzare l’indice della "certezza della pena" nel nostro paese.

La ricerca ha stabilito che la percentuale degli anni effettivamente trascorsi in carcere su quelli inflitti si è abbassata dal 44/45 per cento della metà degli anni novanta a al 37/38 degli anni duemila. Come dire che nel nostro paese non solo non c’è certezza della pena, ma quel che peggio si fa strada sempre più il fantasma della virtualità del processo.

Infatti, secondo i dati più recenti resi dal Ministero della Giustizia, su 90 mila persone arrestate o condannate nel 2005, soltanto 4.000 sono ancora in carcere e molte altre sono sul punto di tornare in libertà. Di chi e di cosa la colpa di tutto ciò? I magistrati denunciano di essere oberati di lavoro, ma dimenticano che il loro organico è uno dei più numerosi tra quelli dei paesi europei: i togati in servizio sono 8.837 e i giudici onorari altrettanti.

I sindacati degli ausiliari di categoria sostengono che il personale non è sufficiente ma è altrettanto vero che molti uffici giudiziari fanno orari ridotti e godono di lunghi periodi di ferie estivi e invernali. E chi ci sono aule che restano desolatamente vuote nei fine settimana.

Forse non è solo tutto questo la causa della crisi che mina alla base il principio della certezza del diritto e della effettività della pena. E allora non resta che mettere mano a riforme strutturali capaci di cambiare lo stato delle cose ed evitare che il cittadino perda sempre più fiducia nei suoi giudici, chiamati a garantire il rispetto delle leggi non solo nel campo penale ma soprattutto in quello civile ove si assiste a veri e propri episodi di denegata giustizia.

Giustizia: Veltroni; contro i pedofili la "mano dura" dello Stato

di Isabella Bertolini

 

Il Messaggero, 18 febbraio 2008

 

Il caso di Agrigento ha provocato allarme anche a livello politico. "Ci vuole la mano dura dello Stato", ha detto Walter Veltroni a proposito dell’episodio di violenza ai danni di una bimba. "Non è possibile che un uomo già condannato per lo stesso reato - ha insistito il leader del Pd - esca dal carcere con il solo obbligo di firma, dovrebbe stare almeno agli arresti domiciliari. Le pene vanno fortemente inasprite".

Dello stesso avviso Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd e ora anche candidata alla Regione Sicilia: "Non possiamo che rimanere allibiti di fronte a ciò che è avvenuto ad Agrigento. La violenza sui minori è uno dei più turpi e vili delitti che percorre i sotterranei della nostra società. Occorre la certezza della pena".

Per Isabella Bertolini (Fi): "Il buonismo imperante nel nostro Paese ha messo sullo stesso piano vittime e carnefici. Noi stiamo dalla parte delle vittime. Noi vogliamo che i pedofili finiscano in galera e ci restino. Punto e basta".

Stefano Pedica, esponente dell’Idv, aggiunge: "È evidente che le leggi sulla pedofilia sono insopportabilmente lassiste, lo Stato viene meno a un suo preciso e imprescindibile dovere nei confronti dei suoi figli. Bisogna fare qualcosa subito, anche se le camere sono sciolte, in commissione parlamentare esistono numerosi progetti di legge".

Secondo Sandra Cioffi, Udeur, segretario della Commissione parlamentare sull’infanzia il caso del pedofilo di Agrigento "conferma che chi abusa dei minori debba scontare in carcere la propria pena, durissima, e con l’ausilio di medici e di un percorso riabilitativo. Occorrono pene certe e severissime".

Giustizia: estorsioni ed usura in crescita, soprattutto al Nord

di Nello Scavo

 

Avvenire, 18 febbraio 2008

 

I dati del ministero dell’Interno: nel 2007 si è passati da 2.847 a3.182 estorsioni scoperte. In aumento però anche le persone denunciate: da 5.346 a 5.645. Intere aree del Paese sono nelle mani del controllo mafioso.

La criminalità rialza la cresta. Con racket delle estorsioni ed usura mai a livelli così alti. Eppure proprio il 2007 è stato l’anno della svolta: se i reati di estorsione scoperti sono passati, a fine settembre 2007, da 2.847 a 3.182 (+11,77%), le persone denunciate per estorsione sono state 5.645 mentre nello stesso periodo dell’anno prima se ne contavano 5.346 (+5,59%). Sul fronte dello strozzinaggio i reati scoperti sono stati 379 rispetto ai 325 (+ 16,62%) dell’anno prima e le persone denunciate 951 rispetto a 834 (+ 14,03%).

Un quadro nazionale che rivela però un dato allarmante. L’usura cresce soprattutto al Nord, nelle regioni ad economia più avanzata. Con il record di Verona, che nei primi nove mesi del 2007 ha visto l’arresto di 21 "cravattari", 19 in più del 2006. E poi Chieti, con 21 arrestati contro i 2 dell’anno prima. Anche a Como, come ha rivelato il procuratore Alessandro Maria Lodolini, si è passati dai 27 arresti del 2006 ai 47 del 2007.

I dati del ministero dell’Interno tracciano un profilo multiforme. Aumenta la pressione delle forze dell’ordine, ma non accenna a diminuire quella delle organizzazioni criminali. Facilitate, sul fronte dell’usura, dalle difficoltà di tante imprese e dall’irrigidimento del sistema bancario. Il massiccio numero di persone denunciate per estorsione (5.645) prova che i clan possono contare su una manovalanza numerosa e sempre aggressiva. Tra le denunce più clamorose c’è quella di Vincenzo Novari, amministratore delegato della compagnia telefonica "3" Italia, braccio italiano del colosso di Hong Kong guidato dal magnate Li Kashing.

Novari ha lamentato che in alcune parti del Sud la necessità di aumentare la copertura del segnale si scontra con l’azione della mafia: "Ci hanno chiesto il pizzo e io non voglio pagare il pizzo". Intere aree del Paese sono sottoposte al "sottogoverno" mafioso. In Campania il fenomeno ha dimensioni massicce in una vasta area che va dalla provincia di Caserta a quella di Napoli e giù fino a Salerno.

Il clan dei Casalesi, ad esempio, controlla l’economia del casertano, quella legale e quella illegale: dal commercio all’immigrazione clandestina alla gestione dei rifiuti (con i risultati che tutti conoscono). L’espansione delle cosche sempre più a Nord rispetta una regola precisa: infiltrarsi dove la crescita economica è più forte. Come le Marche, dove sono raddoppiati i casi di estorsione accertati, mentre il denaro prestato a caro prezzo supera ogni precedente: +2.800%, con 29 denunciati rispetto all’unico indagato dell’anno prima.

A Varese si è passati da 3 ad 11, mentre a Lucca da 4 a 12. "Il fenomeno del pizzo e dell’usura è molto più diffuso di quanto dicano le cifre". Lo sostiene Paolo Bocedi, presidente dell’associazione antiracket della Lombardia "Sos Italia Libera", recentemente minacciato dalla Camorra. E le cifre purtroppo rivelano che molti, troppi, hanno paura. "Al nostro numero verde - racconta Bocedi - l’anno scorso sono arrivate 1.800 telefonate di commercianti, imprenditori e cittadini sottoposti al ricatto mafioso. Purtroppo solo 4 di loro hanno avuto poi il coraggio di esporsi e denunciare per primi".

Qualche volta però accade che la forza di uno inneschi una valanga che nessuna mafia può fermare. "Una donna del Varesotto ha puntato il dito contro un boss che la tartassava", racconta Bocedi. Le indagini rivelarono che la negoziante non poteva essere l’unica minacciata. Il suo esempio non è rimasto isolato: un po’ alla volta altri cinquanta imprenditori brianzoli si sono presentati in questura e si sono uniti alla denuncia.

Giustizia: vero scandalo è l’ergastolo, anche per Concutelli

di Sandro Padula

 

Liberazione, 18 febbraio 2008

 

Di nero, finora invincibile, c’è nell’Italia odierna il tunnel dell’ergastolo e dello stesso colore è il vessillo dell’angoscia provocata dalle diffamazioni verso gli ergastolani tuttora in carcere.

E tanto per essere più esplicito vorrei dire qualcosa su Concutelli. Desidero precisare che sin da giovanissimo sono antifascista e che nel 1982 mio padre Umberto è stato nominato Cavaliere della Lotta di Liberazione del 1943-1945 dal Presidente Sandro Pertini. Parlerò quindi di un mio avversario politico degli anni 70. Ne parlerò, sperando di non fare torto a nessuno, con l’onesta intellettuale e morale di cui sono capace. Puntando lo sguardo al presente, all’uomo nuovo che c’è in Pierluigi.

Ebbene, l’attuale mentalità di Concutelli, come fattivamente e fino a prova contraria dimostrano le sue numerose attività di volontariato e di risarcimento sociale, è ispirata da una cultura libertaria, ecologista, solidale verso i soggetti svantaggiati, pacifista e garantista. Pur avendo avuto un passato neofascista, oggi lui è molto critico verso la vigenza del Codice penale fascista nel nostro paese, il razzismo e l’uso della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Inoltre, ripensando agli anni 70 e agli omicidi politici di quel periodo o ad essi correlati, da parecchio tempo condivide il pensiero di Che Guevara secondo cui "vale più la vita di un uomo che tutte le ricchezze economiche del mondo".

Oggi le sue condizioni fisiche non sono molto buone. I suoi parenti stretti sono deceduti. Diverse volte gli è stata vietata perfino la possibilità di andare ai loro funerali. Trentuno anni di carcere, di cui molti nel superinferno delle carceri speciali e dei "braccetti", sono una forma di omicidio bianco quotidiano durato oltre 11 mila giorni! Qualcosa di cui tutti si dovrebbero vergognare. Invece no, qualcuno si indigna spietatamente addirittura se lui oggi scrive e presenta un libro.

I libri vanno prima letti e poi eventualmente criticati. Analogamente, gli spettacoli teatrali vanno prima visti e poi se ne può discutere. Questione di stile e di metodo. Questione ignorata soprattutto da chi ricopia pezzi da un altro e precedente articolo che a sua volta riprende informazioni imprecise tratte da sentenze, da condanne all’ergastolo che a loro volta erano basate sui "sentito dire" di "pentiti" pluriomicidi e su presunti sostegni morali a dei sequestri o a degli omicidi.

Grazie ad una disinformazione elevata all’ennesima potenza spazio-temporale, si è giunti a dire e a scrivere cose false e quindi calunniose verso degli ergastolani tuttora in carcere. Grazie a una controinformazione diffusa si può invece rilanciare una critica scientifica, politica, culturale e profondamente etica al "fine pena mai", al pregiudizio senza fine, nero e ancora invincibile chiamato ergastolo.

Giustizia: Antonini; una "sceneggiata" mediatica romagnola...

Vittorio Antonini (Associazione Papillon-Rebibbia)

 

Liberazione, 18 febbraio 2008

 

Infermieraaa!! È il grido che mi è spesso salito alle labbra in questa settima che mi ha visto protagonista involontario di una sceneggiata mediatica incentrata su una mia eventuale partecipazione (da me appresa dai giornali) a un dibattito di contorno ad uno spettacolo di Erri De Luca, "Chisciotte e gli invincibili", in programma (senza data precisa) al Ridotto di Bologna.

Comprendo benissimo il tipo di argomentazioni di chi, in buona fede, si è opposto alla mia eventuale partecipazione a quella serata, ma francamente mi sembrano fuori luogo, essendo la mia presenza riferita unicamente alla presentazione dell’attività socio/culturale della Papillon. E comprendo benissimo anche le prosaiche ragioni economiche che hanno portato inizialmente il direttore del Ridotto a pubblicizzare in modo stupido ma "spettacolare" l’evento e quelle che lo hanno indotto a soprassedere.

A questo punto, consapevole che uno dei risultati concreti di questa sceneggiata romagnola sarà l’ulteriore prolungamento e peggioramento della mia condizione detentiva (che dura ininterrottamente soltanto dal 23 aprile del 1985), mi permetto però di esprimere alcune considerazioni.

1) La notevole alzata di scudi da parte di politici locali e nazionali, incuranti persino di verificare preliminarmente la fondatezza della notizia e di informarsi sulla mia attività quotidiana, è la classica "prova provata" che ogni qual volta si evidenzia una notevole separazione tra larga parte della cosiddetta società civile e il mondo istituzionale, quasi per incanto aumenta il rancore o addirittura l’odio verso tutte quelle espressioni politiche e sindacali (istituzionali o extraistituzionali, di dimensione locale o nazionale, riformatrici o rivoluzionarie, pacifiche o violente) che con maggior coerenza dal ‘68 e per almeno venti anni hanno tentato - in modi diversi e persino antagonisti tra loro - di rappresentare gli interessi materiali delle classi subalterne e di conquistare forme di democrazia più alte ed estese. Ma in queste odierne, assurde manifestazioni di odio politico e culturale la lotta armata delle Br non c’entra nulla, è soltanto un comodo pretesto per chi negli ultimi decenni sembra particolarmente impegnato a dimostrare che il protagonismo delle masse popolari e la critica agli assetti socialmente e politicamente dominanti è roba d’altri tempi, inutile e addirittura dannosa, poiché potrebbe ingenerare il ritorno di una stagione di violenza e di morte. Si arriva così, con sconcertante disinvoltura, a formulare l’accusa di possibili alimentatori dell’inesistente "nuovo terrorismo" (ormai siamo alla demenziale accusa di "terrorismo virtuale") a detenuti politici da oltre venti anni in prigione, che sono coscienti delle tante vittime - di una parte e dell’altra - prodotte da quella stagione politica, che scontano con umile dignità la condanna penale subita, ma che hanno rifiutato di accettare quegli obbrobri politici, giuridici e morali che furono le Leggi sul pentitismo e sulla dissociazione, e non ritengono che l’accettazione di una sconfitta e la ricostruzione di una propria vita diversa dal passato debba essere accompagnata da ciclici pellegrinaggi a Canossa a cui sono ormai abituati politici e giornalisti presunti innovatori e più realisti del Re.

2) Nel nostro paese non è dato a nessuno (proprio a nessuno!) il potere di sottoporre periodicamente a un "quarto grado di giudizio" una persona condannata in via definitiva. Tanto meno quando essa si trova detenuta dall’aprile del 1985 e da sette anni usufruisce delle misure alternative previste dalle leggi in vigore, senza che mai abbia commesso la benché minima violazione del "programma trattamentale", elaborato e verificato dagli operatori penitenziari e dalla Magistratura di Sorveglianza. E francamente stupisce che sullo spirito e la lettera della Costituzione e delle Leggi che regolano l’esecuzione penale sorvoli allegramente persino chi per tanti anni è stato una figura importante delle lotte per la civiltà e il progresso condotte dal movimento sindacale.

3) Il sottoscritto non ha mai partecipato e non intende partecipare ad alcun dibattito sugli anni 70, almeno fino a quando non si potrà parlarne con il necessario rigore storico. Che è poi l’unica strada per comprendere cosa è accaduto durante quegli anni nella società italiana e per non dimenticare le vittime - tutte le vittime - di quella che alcuni studiosi hanno definito una guerra civile strisciante. Ai tanti giovani che incontro mi limito a ricordare che per quanto molte volte il mondo istituzionale possa apparire tutto corrotto, la Politica (tutta, ma soprattutto la politica di classe, di sinistra) è stata e resta la più nobile tra le attività umane e quindi vale sempre la pena di battersi, dentro e fuori dalle Istituzioni, per liberarla dai mali che la mortificano.

4) Ricordo, infine, che tutte le 128 iniziative organizzate nei suoi dodici anni di vita dall’associazione culturale Papillon - sia quelle socio/culturali che di carattere istituzionale - hanno avuto come oggetto lo sviluppo della cultura, i problemi del sistema penale e penitenziario, e soprattutto la creazione di un ponte tra la drammatica realtà delle carceri e quei milioni di cittadini che ogni giorno, oltre a dover affrontare i tanti problemi del salario, della precarietà, del carovita, della casa, delle basse pensioni, etc., devono convivere con l’insopportabile paura di restare vittima di un reato. Invitiamo quindi tutti, compresi i miei accusatori, a partecipare o comunque a conoscere da vicino le iniziative culturali, formative e lavorative che Papillon ha organizzato e sta sviluppando a Roma e in Emilia Romagna. E magari ad assistere tutti insieme qua, nella nostra periferica biblioteca "Giulio Salierno", a uno spettacolo del caro amico Erri De Luca.

Giustizia: le misure alternative riducono numero detenuti?

di Anna Muschitiello (segretaria nazionale Casg)

 

Blog di Solidarietà, 18 febbraio 2008

 

"Le misure alternative: soluzione efficace per la riduzione della popolazione detentiva?" Intervento al Convegno Nazionale del Partito dei Comunisti Italiani "Difendere Abele recuperando Caino - passaggio verso un carcere come comunità terapeutica". Roma, 15 febbraio 2008 - Palazzo Marini.

Avviare una riflessione oggi sui temi proposti da questo seminario mi mette in una situazione di profondo disagio, in quanto ritengo che la situazione politica generale e della giustizia in particolare abbia ormai fatto cadere ogni velo di ipocrisia o meglio ogni illusione sulla possibilità di riformare in tempi accettabili il sistema giustizia in generale e sanzionatorio in particolare.

Dopo 5 anni di governo delle destre, in cui le riforme della giustizia avevano preso una piega del tutto particolare perché rivolte soprattutto a risolvere questione personali, in molti ci eravamo illusi che con l’ultimo governo sarebbe stata archiviata una politica della giustizia "ad personam" per avviare una vera e propria riforma del sistema a partire dal codice penale.

La commissione nominata ad hoc (Pisapia) ha con celerità e tempestività encomiabili avviato e concluso parte dei lavori che andranno naturalmente, come tutti i lavori delle precedenti commissioni, ad arricchire gli archivi del Parlamento e niente di più, in quanto come ha recentemente affermato il garante dei detenuti di Roma Spadaccia: "….il legislatore ha rinviato in continuazione di governo in governo e di legislatura in legislatura quella riforma del Codice penale alla quale lo stesso Parlamento aveva affidato il compito di riconsiderare la gerarchia dei beni penalmente tutelabili in armonia con i mutamenti sociali intervenuti dall’ epoca in cui fu varato il codice Rocco e di riconsiderare il sistema delle pene, facendo ricorso per tutta una serie di reati a strumenti diversi dal carcere.

In mancanza di questa riforma, lo stesso legislatore continua ad affidarsi, sull’onda di campagne mediatiche, a interventi di emergenza che contribuiscono di volta in volta a scardinare ulteriormente il sistema penale e, in nome di una male intesa esigenza di sicurezza, finiscono per irrigidire e limitare il ricorso alle pene alternative in contrasto con i criteri ispiratori cui dovrebbe attenersi il nuovo codice penale".

Come dicevo poco fa ogni illusione è ormai caduta rispetto ad una riforma strutturale della giustizia ma anche rispetto all’abolizione e/o modifica di quelle leggi che unanimemente nel mondo della sinistra erano state considerate non solo cattive leggi ma addirittura leggi "criminogene" e cioè leggi che portano inevitabilmente ad incrementare i fenomeni delittuosi e mi riferisco in primis alla Bossi Fini ma anche alla ex Cirielli e alla Fini-Giovanardi. Tutte e tre leggi hanno avuto e avranno, ancora di più, nel prossimo futuro un impatto sul sistema carcere a dire poco devastante.

Ormai il coro di coloro che denunciano il progressivo riempimento delle carceri con l’azzeramento degli effetti dell’ indulto, si fa sempre più corposo e allarmante e poiché non si può immaginare a breve alcun provvedimento per modificare lo stato delle cose, riteniamo che parlare oggi più che mai di un carcere "come comunità terapeutica" e di un carcere che svolga "…un’azione di prevenzione della recidiva e riduzione del potenziale distruttivo del reo….." é quanto meno inimmaginabile, ammesso che lo sia mai stato.

Da anni ormai si ripete che il sistema penale non si può affidare solo al carcere e che, sull’ esempio degli altri paesi europei, è necessario ricorrere in misura molto maggiore di quanto attualmente avviene a pene alternative. Studi recenti ci confermano che la recidività di coloro che tornano alla libertà dopo aver scontato una parte della pena in misura alternativa è di almeno tre volte inferiore alla recidività di coloro che escono direttamente dal carcere. Tutti riconoscono che l’ affidamento in comunità, l’affidamento ai servizi sociali, il lavoro esterno, la semilibertà, la libertà condizionale consentono alle persone sottoposte a pene di ricostituire un tessuto di rapporti sociali e di relazioni affettive oltre alla possibilità di trovare occasioni di lavoro.

Nonostante questo, le pene alternative in Italia sono in media un terzo di quelle a cui si fa ricorso negli altri paesi europei, dove quasi ovunque superano nettamente le pene detentive, mentre da noi il rapporto fra le une e le altre è rovesciato. E la tendenza che ormai da tempo si sta sempre di più affermando è quella di restringerne ulteriormente il ricorso anziché ampliarlo.

Mi chiedo come si possa oggi pensare ad un carcere comunità capace di rieducare quando la popolazione detenuta cresce con un ritmo di 1000 detenuti al mese, passando da 39.005 nel dicembre 2006 a 48.693 nel dicembre 2007, e soprattutto se pensiamo che la composizione di tale popolazione è fatta da soggetti in attesa di giudizio per il 57,88% del totale e del 37% di detenuti stranieri provenienti da ben 144 paesi diversi, con punte tra il 50% e l’80% in alcuni istituti, con tutti i problemi connessi di comprensione della lingua e delle culture ecc., mentre nel decennio tra il 1980 e il 1990 erano solo il 15%?

Se guardiamo ancora più in profondità i fenomeni del sovraffollamento non possiamo ignorare quanto più volte denunciato dal capo del Dap che la presenza media delle persone in carcere è di pochi giorni, quindi esiste un flusso di presenze molto variabile che non consente alcun tipo, seppur minimo, di attività trattamentale.

Se questa è la fotografia del carcere oggi, come possiamo pensare di considerare "Il carcere come comunità terapeutica che può costituire un passaggio, una soglia verso un percorso individuale che tenga conto di dimensioni peculiari di ogni essere umano quali instabilità e tempo intesi come processi e quantificazione di un cambiamento possibile. Anche a condizione che si investano strategie, risorse, professionalità specifiche".

Per non parlare delle risorse… come sono ridotte in particolare quelle relative all’area trattamentale e quali prospettive concrete ci sono perché si modifichino i rapporti di forza tra questa area e quelle della sicurezza, sempre più incombente su tutto e su tutti, tanto da prevedere una sua estensione non solo all’ interno, ma anche all’ esterno del carcere e in particolare nella gestione delle misure alternative?

Anche le misure alternative sono oggi in profonda crisi dopo che in 32 anni dalla loro esistenza sono state caricate di contenuti e di significati completamente diversi da quelli originari. L’Ordinamento Penitenziario, non essendo mai stato accompagnato dalla correlata modifica del codice penale, ha dovuto fare riferimento ad un sistema sanzionatorio che considera la detenzione come unica pena principale, a prescindere dal reale disvalore sociale dell’ illecito, caricando le Misure Alternative della funzione impropria di riparare, in sede esecutiva, ad un eccessivo rigore punitivo, contribuendo in questo modo ad addebitare impropriamente alle misure alternative l’assenza di una certezza della pena e a considerarle una "non pena".

Alcuni hanno fatto risalire il fenomeno del sovraffollamento carcerario, sempre presente negli anni passati, nonostante la crescita considerevole anche del settore penale esterno, proprio a questa fondamentale sfasatura creatasi tra Ordinamento Penitenziario e mancato adeguamento del Codice Penale al principio costituzionale.

Le cause del fenomeno del sovraffollamento del carcere vanno, a nostro parere, ricercate anche in altri ambiti, quali: l’economica, la politica, il contesto socio-culturale del paese.

La tendenza che si è, infatti, affermata nella politica degli anni appena trascorsi è stata quella di spostare sempre di più nell’ambito del penale le soluzioni a problematici fenomeni sociali quali: le dipendenze, l’immigrazione, il disagio psichico, il progressivo impoverimento di sempre maggiori strati di popolazione, ecc., contribuendo a far crescere a dismisura la popolazione carceraria tanto da rendere necessario e indifferibile l’indulto nel 2006 e se queste cause non verranno rimosse porteranno, in breve, nuovamente al collasso del sistema carcerario.

Illustri studiosi come Giuseppe Mosconi hanno sostenuto e tuttora sostengono che "È necessario porre attenzione ai processi di fondo che hanno determinato l’emergenza del sovraffollamento carcerario: il controllo sulle aree povere marginali; un immaginario… di un’opinione pubblica spaventata e vendicativa, disposta ad attribuire consenso solo in cambio di rassicurazione repressiva; una cultura giudiziaria e di polizia che si fa interprete dei così diffusi sentimenti di insicurezza, indurendo l’apparato sanzionatorio; l’incapacità di gestire adeguatamente enormi emergenze sociali (processi migratori, precarizzazione del lavoro, impoverimento dei meno abbienti e di aree di ceto medio, aumento della marginalità)"

E sappiamo tutti quanto questa analisi sia ancora più vera oggi dopo che l’ultimo governo in carica aveva approvato un pacchetto sicurezza che dava ragione a queste tendenze sicuritarie in totale contraddizione con le analisi sociali provenienti dagli studiosi afferenti all’area progressista e che la crisi politica attuale non potrà che aggravare.

Questo è il quadro che dà ragione ad un inaccettabile paradosso: più emerge con evidenza il fallimento delle funzioni storiche, degli stessi fondamenti teorici della pena (retribuzione, rieducazione, prevenzione), tanto più si ricorre alla stessa, nella sua versione carceraria, massicciamente applicata al di fuori dei necessari criteri di proporzionalità e di garanzia, soprattutto verso quei soggetti e quei comportamenti (di devianza sociale) cui più frequentemente si associano immagini di insicurezza.

Appare allora evidente come il sovraffollamento non sia un’episodica emergenza che può, in determinate circostanze, caratterizzare l’istituzione, ma il problema del carcere stesso, della natura e delle caratteristiche che lo stesso ha assunto nella società di oggi, post-moderna e post-sviluppata, a causa della contrazione sempre maggiore delle politiche sociali e degli spazi di democrazia.

Quindi quanto messo all’attenzione degl’intervenuti dagli organizzatori del convegno e cioè: "Restituire senso al carcere ed alla pena, quello che istituzionalmente ha e che nel tempo ha perso, riveste un’importanza determinante nel tutelare la sicurezza sociale poiché significa svolgere un’azione di prevenzione della recidiva e riduzione del potenziale distruttivo del reo….." si può ottenere solo attraverso un capovolgimento delle logiche che oggi vanno di moda.

Per limitare il sovraffollamento carcerario é necessario: effettuare riforme strutturali sul sistema a cominciare da una macchina della giustizia nelle condizioni di funzionare e portare a termine i processi; riforma del codice penale e del sistema sanzionatorio; modifica delle leggi sull’immigrazione, sulle dipendenze oltre che sulla recidiva; attuazione di politiche sociali atte a ridurre forme di disagio e di povertà.

Solo attuando tutto questo sia il carcere che le misure alternative potranno rappresentare per coloro per i quali non se ne potrà fare a meno, un’ occasione per "…un percorso individuale che tenga conto di dimensioni peculiari di ogni essere umano quali instabilità e tempo intesi come processi e quantificazione di un cambiamento possibile". Ci chiediamo se esistono oggi ed esisteranno nel prossimo futuro le condizioni perché questo possa avvenire e la risposta ci sembra purtroppo negativa.

Giustizia: con il "Progetto Indulto" assunti 59 ex detenuti...

 

Adnkronos, 18 febbraio 2008

 

L’iniziativa, promossa dai ministeri del Lavoro e della Giustizia, prevede misure di sostegno al reddito per i beneficiari, ma anche incentivi economici per le aziende coinvolte e interessa 12 regioni. Si tratta soprattutto di uomini, italiani, tra i 40 e i 45 anni.

Sono 59 le persone che hanno trovato un lavoro grazie al progetto "Lavoro nell’inclusione sociale dei detenuti beneficiari dell’indulto". Un’iniziativa finanziata dal ministero del Lavoro e Previdenza sociale, con l’assistenza tecnica dell’agenzia governativa Italia Lavoro, per favorire il reinserimento nel mondo dell’occupazione e nella società in generale di ex detenuti che hanno usufruito della legge sull’indulto.

Il progetto prevede, infatti, misure di sostegno al reddito per i beneficiari, ma anche incentivi economici per le aziende coinvolte e interessa 12 regioni (comprendenti 14 aree metropolitane). Tra i neo-assunti, ben 21 appartengono al Veneto e 13 al Piemonte, mentre 8 si trovano in Toscana, 5 nel Lazio, 3 rispettivamente in Emilia Romagna, Sardegna e Sicilia, oltre a 2 in Puglia e 1 in Lombardia. Inoltre, sul totale di 59, 14 assunzioni sono avvenute dall’inizio del 2008. Un trend in crescita, quindi, come emerge anche dai dati relativi ai tirocini avviati nell’ambito del progetto e rivolti agli indultati.

Sono, infatti, 780 i progetti formativi avviati (al 31 dicembre erano 586). In questo caso, il numero più alto si registra in Sicilia (147), Puglia (136) e Lazio (115), seguiti da Toscana (74), Piemonte (65), Emilia Romagna e Liguria (entrambe 61), Veneto (47), Sardegna (38), Lombardia (20), Campania (13) e Friuli Venezia Giulia (3). Per ogni territorio, ad eccezione della Lombardia, in media oltre il 50% dei candidati sono stati inseriti nei tirocini.

Il 71,1% dei 59 tirocinanti è stato assunto prima del termine del tirocinio e, di questi, il 28,9% a tempo indeterminato e il 42,2% a tempo determinato. Dopo la fine del tirocinio, invece, è stato assunto il 13,3%, di cui l’11,1% a tempo indeterminato e il 2,2% a tempo determinato. Il 2,3% è stato assunto con un contratto di lavoro a tempo determinato inferiore a 12 mesi, oppure in aziende diverse da quelle presso cui ha effettuato il periodo di tirocinio.

La stragrande maggioranza degli indultati inseriti nei tirocini grazie al progetto è rappresentata da uomini (89,8%), ma anche il dato femminile è significativo (10,2%) se rapportato al 4,4% di donne normalmente "ristrette" negli istituti penitenziari secondo il ministero della Giustizia. La suddivisione per età evidenzia come il picco dei tirocinanti (23%) si attesti nella fascia centrale 41-45 anni.

Il 20%, poi, ha tra 36 e i 40 anni, il 17% tra i 31 e i 35, l’11% tra i 46 e i 50. Minoritaria la quota dei più giovani (6,7% nella fascia 26-30 e 5,3% in quella 18-25), ma anche dei più anziani: il 9% ha tra i 51 e i 55 anni, il 5,1% tra i 56 e i 60 anni e il 2,7% oltre i 61.

Inoltre, il 95,2% delle persone avviate in tirocinio è italiana, mentre la restante quota rappresenta equamente le varie nazionalità presenti nel paese, tra cui spicca comunque un 1,1% di marocchini. Per quanto riguarda la durata del tirocinio, le due opzioni di 4 e 6 mesi appaiono scelte in egual misura (rispettivamente, 49,3% e 50,7%).

Sulla scelta della durata del tirocinio influirebbero le preferenze delle aziende, legate a specifiche commesse contingenti, ma anche quelle dei tirocinanti, allettati da un maggiore sostegno economico, oltre all’approssimarsi della scadenza del progetto, che ha portato la scelta progressivamente verso i 4 mesi. Se si esclude un 8% di tirocini interrotti perché, prima del termine, si sono trasformati in assunzioni, è tuttora attivo il 68,9% di quelli complessivamente avviati.

Quanto agli altri, il 6,7% si è concluso, mentre il 14,1% è stato interrotto o perché è stato proposto un nuovo tirocinio oppure perché il tirocinante ha intrapreso altri percorsi formativi, ha cercato autonomamente un altro lavoro, si è trasferito in un’altra città, o ancora si è reso irreperibile. In alcuni casi, poi, il tirocinio è stato sospeso per malattie o ricoveri prolungati.

E talvolta progetti formativi sottoscritti non si sono trasformati in tirocini attivi in quanto la persona indultata non si è presentata il primo giorno di lavoro (le procedure di attivazione del tirocinio prevedono, infatti, che trascorra una media di 10 giorni dalla firma del progetto stesso tra azienda, tirocinante e Italia Lavoro, quale soggetto promotore).

"Risultati positivi, quelli fin qui raggiunti dal Progetto Indulto, la più ampia sperimentazione in Italia di accompagnamento fuori dalle condizioni detentive". Così Mario Conclave, responsabile del progetto, commenta i risultati raggiunti. "Innanzitutto, la quantità di tirocini fin qui avviati è soddisfacente in numero assoluto, ma anche per la media di 100-120 avviamenti che ogni mese si realizzano. A conferma che la macchina organizzativa, incentrata sui servizi territoriali e il rapporto con l’imprenditoria profit e non, funziona".

"Ha dimostrato, inoltre, di essere efficace e trasferibile - aggiunge Conclave - la metodologia d’intervento incentrata in modo diretto e prevalente sulla formazione lavoro in ambito di impresa. Formazione sul lavoro assistita da un tutor dedicato e agevolata da misure di sostegno al reddito. Utile tale metodologia soprattutto per quelle situazioni personali, di fine pena o misure alternative, che necessitano di una presa in carico complessa per la ricostruzione personale e sociale".

Il progetto, che punta a migliorare le competenze delle persone uscite dal carcere attraverso tirocini formativi di 4 o 6 mesi, prevede misure di sostengo al reddito per i beneficiari, ma anche incentivi economici per le aziende coinvolte. I beneficiari, seguiti da un tutor durante tutto il percorso, ottengono, infatti, un sostegno al reddito di 2.700 euro (450 euro al mese per un massimo di 6 mesi o 675 euro al mese per un massimo di 4 mesi).

Ma anche le aziende che decidono di assumere i tirocinanti ricevono un contributo di 1.000 euro per le attività di formazione. E, in caso di assunzione prima della fine del percorso formativo, il contributo destinato al lavoratore per i mesi di tirocinio non svolti andrà all’impresa stessa. È, inoltre, possibile, cumulare il beneficio con altre agevolazioni previste a livello nazionale o locale. Un vero e proprio sistema delle convenienze per lavoratori e imprese, che aderiscono a una ‘carta dei servizi, con cui si impegnano a valorizzare l’esperienza del tirocinio formativo come occasione di reinserimento socio-lavorativo.

Il Progetto Indulto rappresenta anche un’occasione per favorire la qualificazione dei servizi pubblici e privati per l’inclusione sociale e lavorativa delle persone detenute ed ex detenute e per promuovere le politiche dell’occupazione e di sostegno al reddito sul territorio. Al progetto collaborano le regioni, le province, attraverso i servizi per l’impiego, e i comuni, in particolare con i servizi sociali. Operatori pubblici e privati, enti locali, parti sociali, Terzo settore, privato sociale, infatti, sono coinvolti nel recupero e nella valorizzazione delle esperienze degli ex detenuti.

Emilia: Corradi (Lega); regione si occupi delle vittime dei reati

 

www.romagnaoggi.it, 18 febbraio 2008

 

I componenti della banda criminale, di origine albanese, che nel settembre del 2005 a Guastalla, in provincia di Reggio Emilia, assaltarono a scopo di rapina l’abitazione di un imprenditore locale violentando anche la moglie che teneva in braccio la figlioletta di pochi anni, attualmente non sono più in carcere, grazie all’indulto e ad altri istituti di riduzione della pena. Anche il "basista", originario di Avellino, che partecipò alla rapina è libero dal luglio 2007, dopo aver scontato un breve periodo agli arresti domiciliari.

Lo segnala, in un’interrogazione, Roberto Corradi (lega nord), riferendo anche che le vittime della rapina il 14 febbraio scorso hanno dichiarato di rinunciare alla costituzione di parte civile nel processo a carico di uno dei componenti della banda, motivando tale scelta con la presa d’atto che l’attuale sistema penale protegge solo i criminali ed è privo di qualunque elemento di certezza della pena. Per le vittime dei reati e in particolare di reati gravi quali rapine e stupri, appare ingiusto ed inconcepibile che gli autori di tali crimini possano essere rimessi in libertà dopo pochissimo tempo, sottolinea il consigliere, aggiungendo che "le attuali misure destinate alla rieducazione ed al reinserimento sociale dei criminali appaiono prive di qualunque senso se rivolte a criminali stranieri, la cui presenza nel nostro paese è motivata solamente dalla scelta di condurre attività delinquenziali potendo beneficiare delle mollezze del nostro sistema penale".

Corradi, pertanto, richiamando la legge recentemente approvata a tutela dei carcerati, che conferma, a suo parere, la "simpatia congenita della maggioranza di sinistra per Caino e la preconcetta ostilità politico-culturale verso Abele", sollecita la Giunta ad occuparsi del problema "giustizia", avendo cura di non trascurare, per evidenti ragioni ideologiche, il ruolo delle vittime dei reati, oggi limitato ad un fondo che eroga solo alcune decine di interventi ogni anno. In particolare, Corradi invita l’esecutivo regionale ad adottare misure di sostegno nei confronti delle vittime di reato che decidono di costituirsi parte civile nei processi, prevedendo l’accollo totale, o quantomeno parziale, delle relative spese processuali. Il consigliere, inoltre, chiede alla Giunta di sollevare, in sede di Conferenza Stato-Regioni, il tema della "certezza della pena", impegnando il Governo a rivedere le attuali norme in materia penale.

Avezzano: detenuto morto nel 2004, giudice archivia il caso

 

Il Centro, 18 febbraio 2008

 

È stato archiviato il giallo del marocchino trovato morto nel carcere di Avezzano nel 2004. La tesi secondo cui si trattava di un suicidio ha prevalso. Nella vicenda erano indagati tre agenti di polizia penitenziaria di Avezzano e due detenuti con l’accusa di omicidio in concorso di Jassine Adardour.

Su istanza del difensore degli agenti, Leonardo Casciere, il processo è stato archiviato. Il Pm ha chiesto l’archiviazione al Gip Alberto Amodio che l’ha accolta. A ottobre del 2005, quando fu presentata l’ultima perizia, emerse che sulla cinghia sequestrata e sulla federa ritrovate nella cella non c’erano tracce che potessero ricondurre ai tre agenti.

La morte di Jassine Adardour avvenne nel 2004. La notte tra il 19 e il 20 maggio fu trovato nella sua cella con un lenzuolo avvolto intorno al collo. I sospetti caddero subito sugli agenti di polizia penitenziaria. Successivamente due detenuti, uno dei quali è morto nel corso del processo, furono accusati di favoreggiamento. L’esito delle numerose perizie dimostrarono che non si trattò di un omicidio ma di un suicidio.

Teramo: la pulizia delle aree verdi affidata a otto detenuti

 

www.primadanoi.it, 18 febbraio 2008

 

Sarà sottoscritta domani, martedì 19 febbraio 2008, alle ore 11.00 nell’Aula Consiliare del Municipio di Teramo la convenzione che sancisce la collaborazione con le carceri circondariali per la pulizia dei parchi e dei cimiteri cittadini.

In base a quanto sarà firmato domani, la Teramo Ambiente Spa si impegna ad accogliere presso le proprie strutture otto detenuti delle carceri teramane cui saranno affidati compiti di pulizia dei parchi fluviali, di piccola manutenzione delle aree cimiteriali e della altre aree verdi della città e di lavaggio di mezzi di igiene urbana. Nel progetto intervengono altri partner, e ciascuno assume precise modalità di collaborazione, secondo lo schema che nel presente comunicato riportiamo nelle sue linee generali.

La Casa circondariale di Teramo individuerà gli otto detenuti; il Comune di Teramo si impegna ad assicurare la supervisione delle attività e a divulgare nel territorio le finalità rieducative del progetto. L’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, si impegna ad offrire supporto tecnico e interventi ai detenuti protagonisti dell’iniziativa; l’Associazione di volontariato Verso il Futuro seguirà gli stessi detenuti durante l’attività, mettendo a disposizione anche la Casa di Accoglienza di Santo Spirito.

L’impegno richiesto per ciascun detenuto è di 3 giorni al mese; la convenzione avrà durata di un anno. Non sono previsti costi né altre obbligazioni né per la Team né per il Comune, mentre sarà la stessa associazione di volontariato a curare l’accompagnamento dei detenuti da e verso i siti lavorativi, fornire loro i pasti e garantire la copertura assicurativa.

Vicenza: dopo tre anni di lavori terminata la ristrutturazione

di Chiara Roverotto

 

Giornale di Vicenza, 18 febbraio 2008

 

Ancor prima di renderti conto della campagna che lo circonda a pochi passi dalla periferia della città,"come quei nidi di creta che fanno i calabroni intorno ad uno spino indurito", si vede lo scheletro di cemento armato circondato da cancelli, torrette moderne ricoperte di vetro. È il carcere costruito in via Della Scola a metà degli Anni Ottanta con i soldi delle famose carceri d’oro di cui la giustizia chiese spiegazioni più volte, ma senza trovare responsabili. Se ne sta li da quasi trent’anni e ora, se all’esterno sembra sempre lo stesso con i ferri acuminati dei cancelli, la periferia grigia, l’autostrada che corre a poche centinaia di metri, molte cose sono cambiate. Dentro. Non certo fuori, dove rimane un mondo creato per l’isolamento, che balza agli occhi da qualunque parte si arrivi.

Ed è lì, al S. Pio X, che dopo più di tre anni - tanto sono durati i lavori di ristrutturazione - sono tornati i detenuti nell’area destinata alla massima sicurezza per cui boss mafiosi, della ‘ndrangheta, della sacra corona unita, sigle che ancora oggi riempiono i telegiornali.

Il carcere di Vicenza è tornato ad essere quello di una volta: con 280 detenuti (ma ne potrebbe ospitare solo 130), è tornato ad essere completamente pieno dopo i trasferimenti degli ultimi anni, quando le tubature per il riscaldamento erano scoppiate e i detenuti vennero trasferiti a Treviso piuttosto che a Padova o a volte addirittura più lontano perché il riscaldamento non funzionava e le coperte della Caritas non bastavano mai. I lavori adesso sono quasi finiti, come conferma la direttrice reggente, Irene Iannucci: "Manca ancora la cucina, ma ci stiamo organizzando".

Qualche anno fa a denunciare le pessime condizioni igieniche furono prima i sindacati, poi le ispezioni dell’Ulss 6. "Circa un milione di euro i finanziamenti spesi finora per sistemare le celle che prevedono due posti letto e i servizi che ora non sono più in comune con quelli dell’intera sezione". Un po’ di privacy che, comunque, non rispetta gli standard per il quale il carcere era stato costruito. A tutt’oggi i detenuti sono 280, il 50 per cento immigrati dai 30 ai 40 anni, arrestati per spaccio, violenza o per reati contro il patrimonio.

Le sezioni sono state ripristinate tutte e cinque: la prima definita ad alta sicurezza, la seconda di media, una terza cosiddetta polivalente, la quarta per chi entra per la prima volta e, infine, quella d’isolamento. Normalmente nell’ultima vengono portati i presunti pedofili o persone che si sono macchiate di crimini di una certa rilevanza sociale.

"Nella sezione ad alta sicurezza ci sono una cinquantina di detenuti, la maggior parte dei quali - dichiara il capo degli agenti di polizia penitenziaria, commissario Giuseppe Testa - deve rispondere di associazione di stampo mafioso, sequestro di persona, traffico internazionale di droga o di armi, rapine gravi. Poi ci sono i collaboratori di giustizia e quelli che godono del regime di semilibertà che sono comunque tenuti in palazzine separate da tutti gli altri detenuti".

Insomma, via Della Scola si è riempito nuovamente e con qualche problema in più da affrontare non più legato solo alle strutture o alla carenza di personale: ora gli agenti effettivi sono 170, ma al Due Palazzi di Padova stanno facendo lavori di ristrutturazione e per questo molti detenuti sono stati portati a Vicenza. "Questo moltiplica i lavoro degli agenti che si devono spostare per portare i detenuti in aula per i processi. Anche se - ribadisce la direttrice - il corpo di polizia penitenziaria cerca di avere una migliore visibilità anche all’esterno. Già da alcuni anni gli agenti vengono chiamati a svolgere servizi di ordine pubblico allo stadio e questo è stato visto come un impegno importante, un riconoscimento di una professionalità che non è minore rispetto a quella di altri corpi di polizia".

Ora i detenuti non avranno più freddo. Tra un po’ ci saranno nuove cucine, dormiranno con i servizi in cella, ma tutto questo non servirà a farli sentire meglio. Gente sfortunata o cuori di tenebra? Uomini che cercano di comunicare o che rimangono chiusi nella loro durezza? E nella maggioranza dei casi parlano un’altra lingua. Hanno usi e costumi diversi. In questo groviglio di storie, di uomini è sempre difficile capire…

E quando quei cancelli si chiudono all’esterno si scorgono solo le buche dell’asfalto e le sbarre per entrare anche nel parcheggio. Il pass per attraversare la frontiera.

 

Al S. Pio X nasce una sezione Fidas

 

Pensare agli altri, occuparsi del prossimo. Fare della solidarietà non solo una parola con la quale esprimersi, ma un principio da mettere in pratica. Quotidianamente. "Perché ci crediamo". Bastano queste tre parole, pronunciate da Giuseppe Testa, commissario comandante del reparto di polizia penitenziaria per presentare il nuovo gruppo Fidas che è all’interno del carcere di S. Pio X.

Bandiere, gagliardetti, i rappresentanti della Fidas con il presidente provinciale Muraretto, Beria e De Carli. E ancora la direttrice reggente, Irene Iannucci, Francesco Colacino, Francesco Tarantello, Andrea Nicolin, Leonardo Angiulli, tutti pronti per l’inaugurazione della prima sezione di donatori che nasce all’interno di una casa circondariale, anche se poi gli agenti si appoggeranno alla segreteria provinciale in via Baracca ai Ferrovieri e doneranno il sangue all’unità trasfusionale del S. Bortolo.

"Siamo i primi in Italia - spiega Andrea Nicolin - e contiamo di aprire una strada che potrà essere percorsa anche da altri colleghi che lavorano tra le forze dell’ordine: questura, carabinieri, guardia di finanza. Del resto il sangue che viene donato in città non è sufficiente, noi ci impegneremo per aggiungerne qualche goccia in più. Il gruppo è nato con questo scopo e vuole dare un messaggio all’esterno del nostro senso di appartenenza al corpo di polizia che non vuole essere solo repressivo, ma anche propositivo e concreto".

Soddisfatta anche la direttrice reggente, Irene Iannucci. "Sono fiera di quanto stanno facendo gli agenti e questo non è che un indizio che vogliono mandare all’esterno, un segnale distensivo per chi è abituato a convivere in mezzo a persone che hanno problemi seri all’interno di un carcere, anche se le iniziative non mancano per far pesare un po’ meno la mancanza di libertà, almeno nei confronti di alcuni detenuti".

Per la Fidas a parlare è Giuseppe Munaretto. "Questo della polizia penitenziaria sarà l’ottantatreesimo gruppo all’interno della federazione. Siamo 25 mila iscritti e quelli che donano il sangue sono 18 mila. Lo scorso anno ne sono state raccolte 34 mila unità, ma all’Ulss 6 non sono bastate, la direzione ne ha richiesto un altro migliaio". Gli agenti che vanno in ospedale per le donazioni sono 80 sui 150 in servizio.

Droghe: Bernardini (Radicali); il Pd e il tabù antiproibizionismo

 

Notiziario Aduc, 18 febbraio 2008

 

"C’è un argomento di cui è vietato parlare in campagna elettorale ed è l’antiproibizionismo sulle droghe. Se i compagni del Pd pensano ad un accordo con noi, sicuramente ci raccomanderanno di abbassare i toni sulla laicità e di tacere sull’antiproibizionismo, spiegando magari che i problemi del paese sono altri e ben più gravi. Ma l’ipocrisia foraggia la criminalità. Noi vogliamo risposte sui risultati della politica proibizionista". Lo afferma Rita Bernardini, segretario dei Radicali Italiani.

"Oggi 15 agenti di polizia sono stati sospesi a Palermo perché positivi al test antidroga. Ma se gli stupefacenti sono in uso tra le forze di polizia; se la droga riesce a penetrare nel luogo che più di tutti dovrebbe essere blindato qual è il carcere, cosa avviene fuori, protetto dall’ipocrisia generale? Avviene che dai 3 ai 5 milioni di persone consumano hashish e marijuana, e che si preferisce lasciare questa gente nelle mani del mercato della criminalità mafiosa, quindi senza alcun tipo di controllo", sottolinea. "Questo è ciò che gli irresponsabili di questo paese preferiscono. Di questi problemi non si può parlare, ma io vorrei una risposta, dati alla mano, soprattutto sui risultati della politica proibizionista".

 

 

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