Rassegna stampa 28 dicembre

 

Giustizia: politica, istituzioni e triste storia dell’Italia corrotta

di Eugenio Scalfari

 

La Repubblica, 28 dicembre 2008

 

L’Italia è una nazione corrotta? Da sempre o da quando? È corrotto il popolo, la società nel suo complesso? Oppure è corrotta soltanto la classe dirigente del Paese e il popolo assiste, passivo e stupefatto, a questo devastante fenomeno?

Questo gruppo di domande è di nuovo alla ribalta, il tema è di nuovo di incalzante attualità e si torna a parlare dei mezzi necessari a porvi rimedio; il governo ha messo all’ordine del giorno la riforma della giustizia con il dichiarato obiettivo di affrontare le malformità dell’ordine giudiziario e di stroncare l’immoralità dilagante: un soprassalto degno di nota poiché il capo del governo è uno degli esempi più vistosi dell’immoralità pubblica o almeno così è percepito da una parte rilevante della pubblica opinione.

Appena ieri la questione morale è stata presa di petto da Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera e da Guido Crainz su Repubblica. Quest’ultimo ne ha addirittura fatto la storia citando coloro che se ne sono occupati a partire dal 1970, molto prima della nascita di Tangentopoli che ebbe inizio nel 1992 e che contribuì ad affondare la Prima Repubblica senza tuttavia riuscire ad estirpare la corruzione che continua come e più di prima a devastare la fibra del Paese. Siamo dunque condannati senza scampo a portarci appresso questa piaga purulenta che resiste ad ogni medicina e ad ogni chirurgia?

In realtà il fenomeno è molto più antico, le sue radici affondano non già nel passato prossimo ma in quello remoto. Molto prima dell’ultima guerra e molto prima del fascismo, l’Italia liberale e monarchica era infetta nelle midolla e non mancavano neppure allora intellettuali e artisti che denunciavano con parole di fuoco il trasformismo e la corruzione. Gabriele D’Annunzio apostrofava Nitti con il soprannome di "cagoia", Salvemini prima ancora lanciava contro Giolitti pesantissime accuse. A monte la questione morale aveva travolto Crispi e lo scandalo della Banca Romana aveva coinvolto addirittura la monarchia.

"I Vicerè", il grande romanzo storico di De Roberto è un documento spietato del malaffare nelle classi dirigenti meridionali. Lo Stato unitario ancora non esisteva ma la corruzione infestava da tempo il regno borbonico e quello papalino. Per non parlare della "romanità": l’impero dei Cesari, anche nella fase gloriosa degli inizi e ancora più indietro risalendo a Pompeo, Catilina, Mario e alla schiera dei proconsoli che depredavano le provincie a beneficio dei propri patrimoni, fu un "combinat" di forza militare e di corruttela pubblica. Nel "De Bello Jugurtino" Sallustio fa dire a Giugurta, re di Numidia, la storica frase: "Roma, venderesti te stessa se trovassi un compratore".

Dunque esiste una vocazione fatale alla corruttela che inchioda da più di due millenni la nazione latina e poi quella italica e italiana a questa peste devastante?

Mettiamo da parte la Roma dei proconsoli e dei Cesari: depredò i sudditi a vantaggio dell’erario e dei suoi titolari come è stato fatto da tutti gli imperi. Restiamo all’Italia moderna.

Qui da noi lo Stato unitario ha avuto una presenza evanescente, estranea, lontana, vissuto più come sopraffattore che come garante del patto sociale. Più come autore di violenza che tutore di legalità. Il popolo non ha partecipato ma ha soltanto assistito alla nascita dello Stato. Quando esso si costituì il 75 per cento della popolazione era formata da contadini. Fuori dalle istituzioni, fuori dal mercato. Consumavano le poche derrate che producevano, non avevano ospedali, non mandavano i figli a scuola, le sole presenze istituzionali erano i carabinieri e gli agenti delle imposte. E i preti. Non facevano notizia i contadini. Nascevano, figliavano, morivano.

L’opinione pubblica rappresentava soltanto il 25 per cento. Proprietari fondiari, commercianti, industriali, magistrati, professionisti, maestri e docenti, impiegati. Da questa fetta sottile della società emergeva la classe dirigente, i capi delle amministrazioni locali e nazionale, gli ufficiali dell’esercito, gli imprenditori.

Insomma la borghesia e la piccola borghesia. I deputati. Lo Stato galleggiava sulla società la quale a sua volta galleggiava sulla moltitudine dei contadini e sui primi nuclei della classe operaia. Lo Stato non era un simbolo né lo era la Patria. Per la maggior parte quelle parole erano sconosciute, prive di significato. Per una parte minore erano depositi di potenza legale da occupare a proprio beneficio.

Domenica scorsa ho citato l’intervista del 1981 dove Enrico Berlinguer descrive l’occupazione dello Stato e delle istituzioni da parte dei partiti, ma avrei potuto citare quasi con le stesse parole Salvemini, De Viti De Marco, Maffeo Pantaleoni, Mosca, Pareto, Luigi Einaudi, Giustino Fortunato, di cinquanta e ottanta anni prima del leader del Pci.

La corruzione italiana è un fenomeno che deriva direttamente dall’estraneità dello Stato rispetto al popolo, dall’esistenza d’una classe dirigente barricata a difesa dei suoi privilegi, dall’appropriazione delle risorse pubbliche da parte dei potenti di turno, dal proliferare delle corporazioni con proprie deontologie, propri statuti, propri privilegi; dalla criminalità organizzata e governata da leggi e codici propri. Infine, in assenza di una legalità riconosciuta, dalla necessità di supplire a quell’assenza con la corruzione spicciola, necessaria per mitigare l’arbitrio con la compravendita di indulgenze civili come da sempre ha fatto la Chiesa con le indulgenze religiose.

Mi domando se la corruzione pubblica sia un fatto solo italiano. L’ovvia risposta è no, non è solo un fatto italiano, s’incontra in tutti i paesi, dove c’è la democrazia e dove c’è la dittatura, con economie mature o sottosviluppate. Dovunque i titolari del potere si appropriano d’una quota in più di quanto gli spetterebbe, dovunque i furbi accalappiano gli allocchi i quali cercano di rivalersi sui più allocchi di loro. Ma in Italia c’è un elemento aggravante in più: la fatiscenza dello Stato, la debolezza delle istituzioni di garanzia, l’evanescenza dello stato di diritto.

Qui la verità storica impone tuttavia un approfondimento dei fatti come si sono sviluppati nel corso del tempo. C’è stato nell’ultimo secolo un graduale aumento di partecipazione del popolo alla vita pubblica, un inizio di radicamento delle istituzioni nella società.

Quest’azione educativa ha avuto come promotori il movimento socialista, il partito comunista italiano, il movimento sindacale. Nell’ultimo cinquantennio vi è stato anche un forte contributo da parte dei cattolici democratici che hanno vinto i "non possumus" emanati per oltre mezzo secolo dal Papato contro lo Stato, con il nefasto effetto di confiscare la libertà politica dei cattolici separandoli dalle istituzioni del loro paese: un fatto tutt’altro che marginale (che registra purtroppo alcuni attuali ritorni all’indietro) senza riscontro nelle democrazie d’Europa e d’America.

Se c’è stato - e c’è sicuramente stato - un processo di sviluppo democratico, esso è dovuto in larga misura alla sinistra italiana. Tanto maggiore è quindi la preoccupazione più che mai attuale di assistere ad uno scadimento anche nella sinistra per quanto riguarda gli standard di moralità. Probabilmente lo scadimento è stato ingrandito dall’avventatezza di magistrati che dal canto loro hanno smarrito in alcune circostanze i criteri di prudenza doverosi negli accertamenti di supposti reati. I partiti dal canto loro hanno abbassato la vigilanza consentendo che il malaffare entrasse anche in luoghi politici che finora gli erano stati preclusi.

Ma la vera causa è quella indicata a suo tempo da Berlinguer: le forze politiche non debbono occupare le istituzioni, gli organi di garanzia debbono vigilare e colpire senza riguardo ai colori di bandiera, la magistratura deve funzionare come organo di controllo della legalità, la stampa deve imparare meglio e di più il suo officio di contropotere.

Da questo punto di vista una riforma della giustizia s’impone e dovrà concentrarsi su tre obiettivi:

1. la riforma del processo penale e civile affinché sia resa giustizia in tempi ragionevolmente brevi; questo è un obiettivo essenziale che i cittadini reclamano e senza il quale non si avrà alcuna riforma degna del nome.

2. Il conferimento dell’azione penale nelle mani del capo della Procura, che distribuisca il lavoro ai suoi assistenti con criteri certi e oggettivi.

3. La separazione delle funzioni tra magistrati inquirenti e giudicanti senza tuttavia dividere in due l’ordine giudiziario al quale tutte e due quelle funzioni appartengono.

Ieri il presidente del Consiglio, con una più che mai vistosa capriola rispetto a quanto aveva appena detto, ha modificato l’ordine delle priorità del governo: alla ripresa dei lavori parlamentari ci sarà anzitutto il federalismo fiscale; la riforma della giustizia verrà dopo.

Quanto al presidenzialismo, per ora è uscito dalla tabella delle priorità. Evidentemente la Lega e Fini hanno prevalso sulla fretta di Berlusconi di stringere i tempi della svolta autoritaria. Anche la libera stampa ha contribuito a questa svolta di saggezza e vi ha contribuito soprattutto la ferma resistenza dell’opposizione a minacce e lusinghe. Né le une né le altre sono mancate. Il fatto che non abbiano avuto successo dà buone speranze per il futuro.

Giustizia: Tenaglia (Pd); innovazione, via i corrotti dal partito

di Laura Cesaretti

 

Il Giornale, 28 dicembre 2008

 

Lanfranco Tenaglia, ministro della Giustizia del governo ombra, nel commentare la scarcerazione dell’ex sindaco di Pescara D’Alfonso lei ha criticato l’uso eccessivo delle intercettazioni. Perché?

"Sono uno strumento d’indagine fondamentale che non può essere limitato ai soli reati di criminalità organizzata o terrorismo, come vorrebbe il premier. La nostra proposta mira a tutelare la privacy evitando la pubblicazione impropria. Ma le intercettazioni sono solo uno dei mezzi di prova e se non suffragate da altri elementi rischiano di naufragare al vaglio del contraddittorio: per questo è opportuno che arresti e condanne vengano richiesti solo quando esistono riscontri plurimi e concordanti".

 

Il Pd ha rivolto critiche severe ai magistrati, invitandoli ad avere maggiore prudenza…

"Noi, come sempre, esprimiamo fiducia nell’operato della magistratura, ma anche una legittima critica basata sull’altalena di provvedimenti che si potevano evitare. La libertà personale di ogni indagato esige la massima ponderazione. Le considerazioni fatte dal gip quando ha disposto la revoca degli arresti non valevano anche dieci giorni prima, al momento dell’arresto? D’Alfonso aveva già allora presentato le sue dimissioni".

 

Non siete stati un po’ avventati nello scambiare la scarcerazione di D’Alfonso con il "crollo" delle accuse a suo carico che secondo la magistratura restano intatte?

"Con la nettezza di sempre ribadiamo che la magistratura deve procedere nel suo lavoro senza che nessuno metta in discussione la sua autonomia e indipendenza. Ma al contempo le chiediamo, anche per tutelare la credibilità della giustizia, di fare al più presto luce sui fatti addebitati al sindaco di Pescara".

 

Del Turco si è dovuto dimettere da governatore, si è fatto la galera preventiva ed è ancora sottoposto all’obbligo di dimora. Ma pochissimo si sa a tutt’oggi delle prove a suo carico. Troppa fretta nello scaricarlo?

"La posizione del Pd di fronte a presunti reati commessi da propri amministratori non cambia di una virgola, chiunque siano gli interessati. Il nostro codice etico parla chiaro: nel Pd non c’è posto per opacità e corruttele, al contrario di quanto dimostrato dal Pdl che ha eletto 47 parlamentari inquisiti o condannati. Quanto a Del Turco, subito dopo l’arresto Veltroni espresse vicinanza umana e l’auspicio che potesse dimostrare la sua estraneità. Un cittadino, fino all’ultimo grado di giudizio, deve essere considerato innocente. Allo stesso tempo andiamo avanti con la nostra opera di innovazione".

 

Il governatore della Calabria Loiero, Pd, denuncia che in due anni di indagini sul suo conto non è stato ascoltato dai magistrati...

"Loiero segnala un problema reale. Nel processo penale occorre garantire il massimo equilibrio tra accusa e difesa, anche nella fase delle indagini. Il Pd propone di assegnare alla difesa il potere di chiedere in qualsiasi momento dell’indagine il confronto dinanzi a un giudice terzo. Vogliamo che gli indagati possano aprire delle finestre giurisdizionali".

 

Il Pdl vi invita a sganciarvi da Di Pietro e dal suo giustizialismo. Cosa vi divide da Idv?

"Il Pd è un partito riformista che ha nel suo Dna la cultura delle garanzie e della legalità. Per il Pd la questione morale è centrale, ma il giustizialismo è altro da noi. Detto questo, è bene ricordare che il Pd è un grande partito che raccoglie il consenso di un italiano su tre e la sua linea è data solo dalle sue proposte, non da un confronto in chiaroscuro con altri".

 

L’Anm dice che oggi la corruzione è più grave che ai tempi di Tangentopoli...

"L’Anm svolge un ruolo e il Pd un altro. Detto questo, siamo d’accordo nel credere che la corruzione vada estirpata dalla politica a tutti i livelli. A Cascini però dico che nessuno ha intenzione di trascurare le implicazioni politiche delle vicende in corso. Il Pd farà con serietà la sua parte, senza sconti per nessuno. Ci aspettiamo dalla destra la stessa nettezza".

Giustizia: Quagliariello (Pdl); più garanzie, ma processi veloci

 

Il Centro, 28 dicembre 2008

 

Senatore Gaetano Quagliariello, le inchieste accelerano i tempi per la riforma della giustizia?

"Le ultime vicende ne dimostrano la necessità. Bisogna fare una riforma dalla parte dei cittadini con l’obiettivo di avere un processo civile più rapido, un processo penale più garantito e una gestione della pena più equa e più certa: più garanzie per il cittadino e certezza della pena. Prima ci vorranno delle leggi ordinarie sul processo civile a cui, in realtà, si è già operato, quindi toccherà al processo penale e alla situazione delle carceri. Infine, come cornice, sarà necessario anche mettere mano alla Costituzione, senza evidentemente toccare i principi generali".

 

La questione morale del Pd?

"È una questione politica. A lungo hanno ritenuto di essere diversi senza ammettere che in politica, così come negli altri ambiti della vita, i buoni e i cattivi e gli onesti e i disonesti stanno dappertutto. Quando hanno scoperto di non essere immuni sono rimasti attoniti come fulminati sull’orlo di una crisi di nervi. Per cui abbiamo sentito Brutti chiedere ai magistrati di fare attenzione a non sbagliare obiettivi, visto che si trovano sotto un presunto attacco della destra, o Di Pietro parlare di giustizia a orologeria riguardo alle intercettazioni di suo figlio, usando le stesse argomentazioni che utilizzava Mastella qualche mese fa".

 

Il caso D’Alfonso?

"Possiamo dire di non aver mai distinto D’Alfonso dai casi che hanno riguardato in tempi diversi i nostri esponenti perché abbiamo un’impostazione per la quale chiediamo garanzie per tutti i cittadini e riteniamo che la carcerazione preventiva debba essere utilizzata per non inquinare le prove e non per procurarsele. Noi oggi possiamo chiedere processi rapidi per D’Alfonso così come per Del Turco e così come per ogni altro cittadino che, imputato, ha diritto di difendersi e di avere un processo equo e rapido. Riteniamo comunque che il centrosinistra a Pescara abbia innanzitutto fallito politicamente e indipendentemente da ciò che la magistratura, facendo il suo dovere, accerterà sul piano penale. Mai ci siamo rallegrati del fatto che D’Alfonso abbia conosciuto la prigione. Di questo ci si dia atto".

Giustizia: quando i giovani criminali sono di "buona famiglia"

di Lorenzo Mondo

 

La Stampa, 28 dicembre 2008

 

Danno fuoco a un barbone, per divertimento, e si scopre che sono ragazzi di buona famiglia. Approfittano d’un corteo di protesta per sfasciare vetrine e saccheggiare negozi. E si scopre che sono ragazzi di buona famiglia. Investono con l’auto un disgraziato sulle strisce pedonali e lo lasciano morire senza soccorrerlo. E si scopre che sono ragazzi di buona famiglia...

I luoghi comuni non attentano soltanto alla qualità della scrittura ma anche alla verità. La definizione esprime intanto, in molti casi, un riguardo che non esiterei a definire classista. Perché viene riferita ai figli di professionisti o di gente facoltosa, che occupa buone posizioni nella società. Gli altri vengono per lo più designati come incensurati, come soggetti senza precedenti penali.

Arrivando alla sostanza del problema, quante buone famiglie si accreditano come tali per avere accondisceso a tutti i desideri dei loro rampolli, dotandoli di ogni possibile aggeggio elettronico, vestendoli di scarpe e giubbotti griffati, pascendoli di stadi e discoteche. Senza preoccuparsi del vuoto mentale, e morale, che li pervade. Incapaci di educarli al rispetto di sé e degli altri, tendono perfino a giustificarli e a proteggerli quando si comportano male.

Esistono situazioni di speciale disagio giovanile davanti alle quali si può soltanto tacere, e compatire. Esiste una pressione sociale che, forzando le barriere del contesto familiare, influisce negativamente sulle persone più fragili. Ma in troppi casi l’espressione "buona famiglia" avrebbe senso soltanto se fosse usata come un eufemismo (in analogia con il termine "buona donna") e dovrebbe essere sostituita semmai da un "senza famiglia": una dizione più veritiera e alla fine più comprensiva per i devianti.

Mi ha colpito come una sferzata l’osservazione di una madre in difesa della figlia, che aveva partecipato con una banda di coetanei ubriachi alla distruzione dei vetri e degli arredi d’una stazione ferroviaria. Un episodio tutto sommato minore. Sennonché, pur esprimendo rincrescimento per l’accaduto, la signora, quasi a tagliar corto, se ne è uscita con una frase di troppo: "In fondo non ha ucciso nessuno". Veniva la voglia di risponderle, incrociando le dita: "Speriamo che non accada la prossima volta".

Giustizia: con la Finanziaria fondi per carceri tagliati del 30%

di Davide Madeddu

 

L’Unità, 28 dicembre 2008

 

Signori si taglia. I detenuti crescono ma i soldi per le carceri si riducono. Cresce la popolazione che vive dietro le sbarre, al ritmo di mille persone, al mese ma il governo taglia le risorse per far funzionare le prigioni. Centotrenta milioni in meno, questo a sentire i parlamentari del Pd e le organizzazioni sindacali, l’importo che l’esecutivo ha deciso di tagliare, rispetto allo scorso anno per il funzionamento delle carceri.

"Siamo al paradosso - esordisce Amalia Schirru, parlamentare Pd - il numero dei detenuti cresce a dismisura e il governo taglia le risorse per il funzionamento". Sforbiciata che riguarda un importo consistente per un sistema che oggi ha raggiunto quasi quota 59mila detenuti."La nuova Finanziaria prevede un taglio del 30 per cento delle risorse destinate al sistema penitenziario rispetto alle somme stanziate l’anno scorso - dice Amalia Schirru, parlamentare del Pd - che tradotto in soldi dovrebbe voler dire quasi 130 milioni di euro in meno rispetto al passato". Un fatto che, a sentire operatori e addetti ai lavori, non potrà che avere conseguenze sull’intero sistema. chi in carcere sconta una pena. Risultato? Meno servizi e detenuti sempre più stretti.

"Il taglio di queste risorse produrrà una serie di disfunzioni alla vita del carcere - denuncia Francesco Quinti, responsabile del settore penitenziario per la funzione pubblica della Cgil nazionale - anche perché diminuiranno i soldi per i costi di formazione, per le attività culturali, la pulizia dei locali negli istituti, la luce, acqua e telefono". E poi le iniziative culturali e le attività di recupero. "Non bisogna dimenticare che, oltre a tagliare i corsi di educazione - prosegue il sindacalista - si vanno a ridurre le spese per il personale, che significa naturalmente salti mortali per garantire il funzionamento di strutture che sono quasi al collasso".

Ricorda la protesta dell’albero di Natale di carta igienica davanti a San Vittore per dire che "verranno a mancare anche i soldi per la carta igienica", Lillo di Mauro, responsabile della Consulta penitenziaria di Roma che non nasconde il suo disappunto e le critiche per un "sistema che si dirige verso il collasso". "Sia chiaro - dice - qui si sta tagliando su una cosa concreta: il reinserimento dei detenuti nella società. Con questo sistema alla pena inflitta dal tribunale se ne aggiunge un’altra, non scritta ma non meno dura".

I tagli, a sentire il rappresentante della Consulta riguardano anche il lavoro all’interno delle carceri. "Ci sarà una riduzione del 22 per cento delle spese per le mercedi - spiega - ossia il pagamento del lavoro ai detenuti, un altro taglio del 28 per cento riguarda l’acquisto di nuovi arredi mentre un altro taglio del 18 per cento riguarda gli investimenti per il funzionamento del lavoro agricolo". Non mancano poi le polemiche e i problemi legati alla sanità dietro le sbarre. Il passaggio di competenze dal ministero della Giustizia a quello della Sanità con conseguente trasferimento alle Regioni e alle Asl non è ancora terminato.

"Il problema vero è che la fase di transizione non è ancora terminata - prosegue Di Mauro - e all’interno delle strutture detentive si vive ancora una situazione di perenne incertezza". Motivo? "Il governo non trasferisce i soldi alle regioni - aggiunge Amalia Schirru - e questo non può che aumentare il livello di incertezza in cui si è costretti a operare".

Giustizia: reclusi da scoppiare… storie in celle "tutto-esaurito"

di Davide Madeddu

 

L’Unità, 28 dicembre 2008

 

Sempre più stretti. Che ci si trovi al Nord o nelle Isole non fa differenza. In prigione si sta male, e gli spazi si riducono in maniera impressionante. E allora non è raro trovare detenuti costretti a dormire al terzo piano di un letto a castello che quasi sfiora la volta oppure sul materasso poggiato sul pavimento.

"Le carceri scoppiano nuovamente - spiega Riccardo Arena, avvocato penalista e conduttore di Radiocarcere la trasmissione che va in onda ogni martedì su Radio Radicale - i dati parlano di quasi 59mila presenze con un trend di entrate destinato ad aumentare e con una situazione ormai al limite".

Racconta anche alcune storie Riccardo Arena. Sono quelle che, ogni martedì, legge in diretta nel corso della sua trasmissione, dando voce a chi sta dietro le sbarre."Mi risulta che sino a qualche tempo fa a Sulmona ci siano stati casi con quattro letti in una cella singola e detenuti costretti a sistemare il materasso per terra perché non c’era spazio". Oppure il caso di Roberto, detenuto a Lecce e invalido al cento per cento. "Mi ha scritto la lettera un compagno di cella - racconta Arena - dice che lo vede spegnersi pian piano. Ma una persona con questo grado di invalidità dovrebbe stare altrove non in carcere".

Eppoi c’è il caso del carcere dell’isola di Favignana in provincia di Trapani. "A cinquanta metri dalla piazzetta c’è il carcere invisibile - racconta - e sapete perché? È sotto terra. Le celle sono sotterranee. Pensate che i detenuti sentono che arrivano gli aliscafi perché in cella si sente in maniera molto forte il suono delle onde che si infrangono sugli scogli".

Un carcere limite che può contenere 95 persone e a ottobre (dati di Radiocarcere) ne aveva 120, 9 dei quali imputati, 80 condannati e 30 internati, con la misura di sicurezza. "Questo carcere, dove per vedere la luce anche durante l’ora d’aria bisogna saltare, deve essere chiuso - continua ancora - l’aveva detto lo stesso ministro Castelli tre anni fa".

Sulla stessa lunghezza d’onda di Riccardo Arena anche Fabio Pagani della Uil penitenziari della Liguria che descrive il carcere di Marassi "come una pentola a pressione pronta a scoppiare". "Lo ribadiamo e confermiamo - dice - a oggi sono ottocento i detenuti ristretti e tale sovrappopolamento determina condizioni inenarrabili". Con celle che "somigliano sempre più a pollai e detenuti ammassati in spazi sempre più ristretti". Le prese di posizione non si fermano qui.

"Ossia siamo alla soglia pre indulto - dice Francesco Quinti responsabile settore penitenziario della Funzione pubblica Cgil - e a questo punto ci si chiede cosa farà il governo". Quiti aggiunge: "Il ministro dice da tempo che questo problema sarà affrontato con la costruzione di nuove carceri. Ebbene, dato che per costruire una nuova struttura detentiva ci vogliono tra i 9 e i 13 anni, nel frattempo queste persone dove saranno sistemate? Si continuerà ad ammassarle in spazi sempre più ristretti?".

Patrizio Gonnella, presidente di Antigone non ha dubbi: "Ho visitato assieme all’assessore regionale alla Sanità del Lazio il carcere di Regina Coeli - spiega - ebbene, abbiamo trovato una situazione al limite della sopportazione". Un esempio?"In una cella di 15 metri quadrati ci stanno sei persone sistemate in letti a tre piani - dice - inoltre altre persone strette in spazi angusti che non dovrebbero essere neppure destinati alla detenzione".

Non è comunque tutto. "È chiaro che ormai si stia sempre più stretti, e se passa il pacchetto sicurezza e il decreto Carfagna sulla prostituzione non ci sarà più spazio. La speranza - conclude - è che non ci sia un passaggio, cosa tentata anche in passato, verso la privatizzazione delle carceri. Questo sarebbe veramente deleterio".

Giustizia: ha due anni, passa Natale in cella a Buoncammino

di Davide Madeddu

 

L’Unità, 28 dicembre 2008

 

Il carcere degli innocenti. Elisa (il nome è di fantasia) ha due anni, ormai conosce tutti i rumori, suoni e ritmi del carcere. Quando il portone sbatte forte si irrigidisce e piange. Elisa sta al carcere Buoncammino di Cagliari da agosto, da quando la mamma è stata arrestata. La mamma non ha un domicilio e non può essere trasferita agli arresti domiciliari. Con lei deve restare anche la piccola che rischia di trascorrere dietro le sbarre buona parte dei primi mille giorni della sua vita. Quelli più importanti per la formazione e la crescita.

Elisa non è l’unica bimba a vivere dietro le sbarre. In tutta Italia distribuiti tra le carceri sono più di sessanta i bimbi al di sotto dei tre anni che vivono in carcere con le mamme. Di questi solo 24 sono nella sezione femminile del carcere di Rebibbia a Roma.

"Purtroppo non essendoci strutture alternative questi bimbi sono costretti a vivere questa condizione - spiega Leda Colombini, responsabile dell’associazione A Roma insieme (il sito internet è www.aromainsieme.org) - e si tratta di piccoli che il ricordo del carcere non lo cancelleranno mai". Perché, come spiega la responsabile dell’associazione "i primi mille giorni di vita sono indispensabili per la formazione dell’individuo che deve poter crescere in ambienti aperti, liberi e non di costrizione". Cosa che non capita ai bimbi reclusi, costretti a fare i conti con le celle strette, le sbarre alle finestre, i cancelli che si aprono e chiudono e ancora i ritmi del carcere.

"Gli studi degli esperti parlano di bimbi con problemi nella mobilità, nell’apprendimento e nel riuscire a relazionarsi con gli altri - spiega ancora Leda Colombini che in passato è stata anche parlamentare dei Ds - perché lo stare in carcere limita la capacità di espressione, blocca la fantasia e anche quella gioia di vivere che si ha in una condizione cosiddetta normale". Per cercare di superare questa situazione da 15 anni Leda Colombini e i volontari dell’associazione A Roma Insieme cercano di offrire un minimo di libertà e normalità ai bambini reclusi, attraverso l’iniziativa "Liberi sabato". "L’obiettivo è quello di far si che nessun bimbo stia in carcere - spiega - però è chiaro che, in mancanza di provvedimenti che permettano questo, diventa necessario salvare il salvabile, intervenendo con iniziative adatte".

Tra queste rientra appunto il programma di giochi e intrattenimento oltre le sbarre che le volontarie e i volontari dell’associazione portano avanti ogni sabato mattina. "Portiamo i bimbi a giocare al parco piuttosto che allo zoo - spiega - in piscina piuttosto che al mare o al supermercato o in campagna". Iniziative che sono state compiute anche in occasione delle feste di Natale. "Anche quest’anno abbiamo realizzato la giornata di festa dedicata ai piccoli - aggiunge ancora l’ex parlamentare - e ogni bambino ha ricevuto un dono, un dolce e un indumento realizzato dalle volontarie dell’Auser". Un piccolo gesto di solidarietà che custodisce anche una sorta di sogno impossibile: "speriamo che mai più un bimbo possa rientrare in carcere".

Giustizia: Sappe; le riforme strutturali non sono più rinviabili

 

Il Velino, 28 dicembre 2008

 

"Condividiamo l’assunto secondo il quale una riforma organica del sistema giustizia del Paese non è ormai più rinviabile. In tale contesto, un ruolo fondamentale dovrà essere dedicato alla rivisitazione delle politiche penitenziarie italiane, che necessitano di riforme strutturali non più rinviabili. Il nostro auspicio è che una riforma della giustizia e del sistema penitenziario nazionale avvenga con il contributo sinergico di maggioranza ed opposizione parlamentare, atteso che su queste priorità le formazioni politiche devono far prevalere gli interessi del paese agli schematismi ideologici di parte".

Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe. "Svanito l’effetto insulto, le carceri italiane sono tornate a riempirsi. Il fallimento delle politiche penitenziarie del paese è ben evidente nei numeri attuali. Sono infatti ormai quasi 58 mila i detenuti presenti nei 205 penitenziari italiani (case circondariali, di reclusione, istituti per le misure di sicurezza) a fronte di una capienza regolamentare di circa 43mila posti. Ben 8.101 sono i detenuti presenti in Lombardia (capienza regolamentare 7.677 posti), 7.172 in Campania (6.720 i posti regolamentari), 6.843 in Sicilia, 5.341 nel Lazio, 4.544 in Piemonte, 3.456 in Puglia, 2.254 in Calabria, 3.742 in Toscana, 2.968 in Veneto. E anche sul fronte personale che lavora nelle carceri i dati sono altrettanto allarmanti".

"La differenza tra il personale di Polizia penitenziaria effettivamente in forza e quello previsto registra una carenza di 4.425 Agenti uomini e 335 Agenti donne. Le carenze di Baschi Azzurri più consistenti si registrano in Lombardia (circa 1.200 unità), Piemonte (900) Emilia Romagna, Toscana, Veneto e Liguria. Anche il personale amministrativo e tecnico è fortemente sotto organico di ben 2.300 unita. È quindi evidente come la mancata adozione di provvedimenti strutturali da parte di governo e Parlamento per modificare il sistema penitenziario contestualmente all’approvazione dell’indulto abbia riportato le carceri italiane a livelli di sovraffollamento insostenibili. Il Sappe auspica quindi che la questione penitenziaria sia posta tra le priorità d’intervento della riforma della giustizia annunciate dal premier Berlusconi, prevedendo in particolare le necessarie modifiche del sistema penale - sostanziale e processuale - che rendano stabili le detenzioni dei soggetti pericolosi affidando a misure alternative al carcere la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale. Che si trovino soluzioni concrete al problema degli stranieri detenuti (che rappresentano oggi circa il 40 per cento della popolazione carceraria) mediante accordi internazionali che consentano concretamente l’espiazione delle pene nei paesi di origine".

"Ma soprattutto che si impegnino ad assumere almeno 3.000 nuovi poliziotti penitenziari, stante la grave carenza di personale che si registra nel paese". Capece sottolinea che se la strada del governo in materia di deflazione dei penitenziari è quella di costruire nuovi carceri, questo vuol dire necessariamente assumere nuovo personale, di polizia e del comparto ministeri (oggi entrambi nettamente sotto organico), vuol dire stanziare fondi e risorse. "Vorremmo sapere come il governo intende muoversi, visto che è addirittura previsto, nella Finanziaria approvata quest’estate, una netta riduzione ai fondi riservati all’amministrazione penitenziaria. La questione generale del sovraffollamento, infatti, non può trovare esclusiva risposta nello sviluppo dell’edilizia penitenziaria. Ciò non solo per la mancanza di risorse economiche proporzionate alle esigenze e per i tempi lunghi di esecuzione dei lavori, ma anche per la carenza di risorse umane, specificamente Polizia penitenziaria e personale del comparto ministeri, necessarie per la gestione delle nuove strutture. Se, quindi, le attuali dotazioni organiche sono già insufficienti per le esigenze relative all’epoca della loro individuazione, non vi è dubbio che la situazione sia andata ancor di più aggravandosi a seguito dell’apertura, dopo il 2000, di nuove strutture penitenziarie, della realizzazione dei nuovi padiglioni detentivi e della ristrutturazione di sezioni detentive inutilizzate. L’auspicio del Sappe - conclude Capece - è una espansione dell’esecuzione penale esterna, ossia il sistema delle misure alternative, che può essere incentivata offrendo garanzie di sicurezza credibili sia dal giudice che le dispone, sia dalla stessa collettività. Sto parlando di un controllo permanente, cioè di una verifica puntuale di dove il condannato si trovi e di che cosa faccia coinvolgendo sempre di più la Polizia penitenziaria. Altro impulso allo sviluppo dell’area dell’esecuzione penale esterna potrebbe essere dato anche avvalendosi di sistemi di controllo tecnologici come, ad esempio, il braccialetto elettronico".

Giustizia: Dap; iniziativa su prevenzione dei suicidi in carcere

 

Comunicato stampa, 28 dicembre 2008

 

La Direzione Generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in data 18 dicembre ha inviato una nota ai Provveditori regionali e agli assessorati regionali alla salute sulla questione della "Prevenzione dei suicidi e tutela della vita e della salute delle persone detenute e/o internate", in un momento di costante crescita della popolazione carcerata, che precede una iniziativa nazionale prevista per il mese di febbraio.

Sull’iniziativa da produrre - e per un confronto ed una riflessione in tal senso - si sono ritrovati al Dap, convocati dal Direttore Generale Sebastiano Ardita, in qualità di esperti: il presidente del Comitato Europeo Contro la Tortura, Mauro Palma; il presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, Claudio Messina; il suo fondatore, Livio Ferrari; il rappresentante dell’Associazione Antigone, Stefano Anastasia; oltre ai funzionari del Dap Immacolata Cecconi, Bruna Brunetti e Giulio Starnini.

Bolzano: dal 2009 più assistenza sanitaria, ma notti "scoperte"

 

Alto Adige, 28 dicembre 2008

 

Regalo, sotto l’albero, per detenuti e agenti di polizia penitenziaria. A partire dal 2009, infatti, sarà aumentata di due ore al giorno l’assistenza sanitaria ai detenuti. La conferma è stata data ieri dalla direttrice Anna Rita Nuzzaci: "Il personale infermieristico sarà presente 14 ore al giorno mentre quello medico garantirà 12 ore al giorno".

Resta il problema della notte. Il "caso" era esploso a novembre a seguito delle proteste degli agenti di polizia penitenziaria che avevano denunciato una situazione ai limiti dell’emergenza. Per cercare di risolvere il problema la direttrice ha sollecitato a più riprese l’Azienda sanitaria. Negli ultimi dodici mesi la copertura medica è stata garantita solo per 14 ore nei giorni feriali e per 9 nei festivi.

"Riconosco - ha sottolineato la Nuzzaci - che lavorare in un carcere sottodimensionato, sovraffollato e con un’assistenza sanitaria inadeguata possa essere pesante". I detenuti nell’ultimo periodo oscillano tra 130 e 140, il 75% dei quali stranieri. La capienza è di 93 detenuti. L’assistenza sanitaria va tenuta in debita considerazione, anche perché vi sono sieropositivi, tossicodipendenti, diabetici e ipertesi.

In materia di sanità penitenziaria i parlamentari altoatesini si sono confrontati duramente anche ad inizio dicembre. C’era stato in particolare uno scontro Svp-Pdl sulle risorse destinate alle Province autonome. Poi la situazione si è sbloccata con l’approvazione, in commissione bilancio al Senato, di un emendamento alla legge finanziaria che prevede lo stanziamento di 18,2 milioni di euro a favore di Regioni e Province a Statuto speciale.

Treviso: carcere senza soldi, la Caritas paga le ristrutturazioni

 

La Tribuna di Treviso, 28 dicembre 2008

 

Bollette in sospeso da un anno e nessun soldo per pagare ai detenuti la borsa di studio che viene data a quelli che decisono di impegnarsi a scuola o nei corsi di formazione. Al sovraffollamento e alla carenza di personale, nel quadro dei problemi cui deva fare fronte il carcere di Santa Bona si aggiunge quello del bilancio. Un problema che parte dal Tesoro, passa per il ministero della Giustizia e si riflette su Treviso come su tutte le altre Case Circondariali d’Italia.

"Fare un computo esatto di quanto manca alle nostre casse è difficile - dice il direttore del carcere di Santa Bona Francesco Massimo - ma per avare un quadro della situazione basta dire una cosa. Con i soldi del 2008, abbiamo pagato i debiti contratti nel 2007 e se non cambiano le cose quelli del 2009 serviranno per pagare le spese di acqua, luce e gas dell’anno che sta finendo".

Certo, Santa Bona non corre certo il rischio di vedersi tagliare la corrente, ma vive nell’equilibrio precario di una cassa dove va centellinato ogni movimento. "Dopo i lavori fatti 20 anni fa per ristrutturare il carcere non è stato fatto più nulla. Oggi Santa Bona è ancora un luogo dignitoso, ma un domani?" Non resta che affidarsi alle donazioni, rare ma utili a operare piccole migliorie. È il caso della Caritas, che donerà a Santa Bona la ristrutturazione della zona docce e di alcune finestre. "Ma al di là dei problemi - ammette il direttore - stiamo lavorando bene".

 

Il Vescovo contro i crimini della finanza

 

Un duro atto d’accusa contro i responsabili della crisi economica e un invito a riflettere sulle azioni future. Questi i nodi fondamentali dell’omelia natalizia pronunciata dal carcere Santa Bona di Treviso dal vescovo monsignor Andrea Bruno Mazzocato. Davanti a lui quasi metà della popolazione della casa circondariale di Treviso. Molti detenuti stranieri, molti giovani e quasi tutto il personale di guardia. "Siete più di quanti dovreste essere - ha detto il vescovo facendo chiaro riferimento allo stato di sovraffollamento della struttura - eppure in cella non c’è chi ha sconvolto il mondo facendo solo i propri interessi con la finanza. Non c’è chi ha vissuto senza luce e messo in crisi i più poveri".

Dopo la messa solenne nella notte della Vigilia, ma per il quarto anno consecutivo il vescovo ha aperto le celebrazioni natalizie dietro le sbarre e le cancellate di Santa Bona, nella piccola cappella ricavata da un vecchio locale in disuso e affrescata dai detenuti stessi.

"Le prime persone cui l’angelo ha annunciato la nascita di Gesù - ha detto - sono stati i pastori, gente tenuta ai margini. Ed è per questo che io sono qui. Per dimostrare che il Signore va dappertutto". Un messaggio contro discriminazioni e divisioni, che nella foga ha dato luogo anche a un’involuta gaffe ("i pastori all’epoca erano peggio degli zingari") e ha aperto la strada alla richiesta di grazia cristiana per tutti i detenuti.

Colpevoli, "ma non meno di chi oggi però non è in carcere. I colpevoli sono qui, solo qui?" Ha domandato Mazzocato puntando il dito su chi ha speculato, giocato, lavorato e guadagnato nel mercato finanziario creando i presupposti della "crisi finanziaria". Di qui l’invito a riflettere "su ciò che è giusto fare e come. Al di là delle pareti e delle divisioni.

In onore di una serenità di cuore - ha detto a chiusura dell’omelia - che non ha prezzo. È per questo che dobbiamo chiedere al Signore di dare a tutti noi la luce di cui abbiamo bisogno per affrontare la vita nel modo più giusto". Chiusa la cancellata di ferro che segna il confine tra carcere e libertà, il vescovo si è lasciato alle spalle i preparativi di una pranzo di Natale semplice ma atteso. Un menù a base di pasticcio che ha indotto i cuochi a sgattaiolar via dalla messa subito dopo la comunione non senza incappare nello sguardo traverso del direttore. Una piccola evasione in vista della festa.

Livorno: sull'isola di Gorgona il carcere ad energia rinnovabile

di Vincenzo Caccioppoli

 

Affari Italiani, 28 dicembre 2008

 

In un momento di grandi discussioni in merito al miglioramento del regime carcerario e alla costruzione di nuovi istituti di pena, ne esiste uno che si distingue per il trattamento favorevole di cui godono i detenuti, per le condizioni sicuramente molto più umane rispetto alla maggior parte dei carceri italiani e per l’impegno a cui sono sottoposti i reclusi, che si occupano di tutte le incombenze quotidiane che competono all’isola- penitenziario, che si estende su 220 ettari e ospita 250 persone.

Proprio in questo contesto si segnala un’iniziativa anche nel campo dell’ambiente e del risparmio energetico. La Mitsubishi Electric, infatti, nel suo impegno per la promozione di un uso intelligente delle risorse del nostro pianeta, ha fornito i propri moduli fotovoltaici al carcere situato sull’isola di Gorgona. L’impianto, installato direttamente dai detenuti, è costituito da 304 moduli in silicio policristallino di Mitsubishi Electric, ognuno con una potenza nominale pari a 165Wp, per una totale di 50kW.

L’energia prodotta dall’impianto è immessa nella rete elettrica dell’isola e usata in primis dalle utenze locali, mentre l’eccesso viene distribuito sul resto dell’isola dove ci sono molteplici attività ittiche, agricole e di allevamento. Con la sua potenza l’impianto è destinato a produrre circa 65.000 Kw l’anno, con una riduzione del fabbisogno elettrico del 10% e una riduzione di emissioni di CO2 di circa 63 tonnellate l’anno. "Il progetto - ha dichiarato il Dott. Carlo Mazzerbo, direttore del carcere di Gorgonia, - si caratterizza per la sua valenza ambientale confermando il nostro impegno per lo sviluppo delle energie rinnovabili e sociale offrendo ai detenuti un patrimonio di competenze spendibili in termini di occupabilità".

A realizzare e progettare l’impianto come detto hanno partecipato i detenuti, che adesso vogliono sfruttare queste loro competenze per trovare un occupazione quando avranno finito di scontare la loro pena. La Toscana, regione in cui sorge l’isola di Gorgona, d’altra parte si sta rivelando come una delle più virtuose in termini di sfruttamento delle energie rinnovabili, soprattutto di quelle legate all’energia solare ed eolica. Ma questo importante progetto non è destinato a rimanere isolato. Il ministero della Giustizia, infatti, sembra abbia cominciato una serie di accurate indagine conoscitive per capire come istallare il maggior numero di impianti fotovoltaici possibili all’interno delle proprie strutture carcerarie. E sicuramente i nuovi istituti che saranno costruiti avranno al loro interno un impianto fotovoltaico.

Genova: cardinale Bagnasco tra i detenuti per messa di Natale

 

Radio Vaticana, 28 dicembre 2008

 

Che le celle del carcere diventino delle piccole chiese, da dove, "pur nel rispetto di tutti e delle altre fedi", si innalzi un coro di preghiera a Dio. È l’esortazione dell’arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, cardinale Angelo Bagnasco, nell’omelia della Messa celebrata a Natale nel carcere genovese di Marassi.

Secondo quanto riferito dall’Agenzia Misna, ai 630 detenuti nell’istituto di pena - il 70% dei quali extracomunitari - il porporato ha ricordato che "Dio è ovunque e ci vuole bene, non ama i nostri peccati, ma ama noi peccatori e vuole cancellare le nostre colpe se noi siamo veramente pentiti". E sul significato dell’esperienza della detenzione il cardinale Bagnasco spiega che essa deve essere intesa quale "tempo di redenzione, un tempo per fare verità dentro di voi, per riconoscere le colpe e pentirsi del male compiuto", perché questo è ciò che chiede il Signore, giacché "il nostro peccato non fa solo male agli altri uomini, alla società civile, ma in primo luogo a ciascuno di noi".

"Il tempo presente - ha aggiunto - serva per recuperare l’umanità profonda di ciascuno e per tornare, un giorno, nella società e riprendere in modo nuovo il proprio cammino terreno". Rivolto ai cronisti, al termine della celebrazione, l’arcivescovo di Genova ha osservato che il reinserimento dei detenuti che hanno scontato la propria pena "deve essere una responsabilità di tutta la società", che deve aver cura in particolare di coloro che, una volta fuori delle mura del carcere, non possono contare sul sostegno della famiglia.

Droghe: storia del tossico esecrato e del matto addomesticato

di Giorgio Bignami

 

Fuoriluogo, 28 dicembre 2008

 

La riforma sulla droga del ‘75 e la legge psichiatrica del ‘78, uno sguardo in parallelo trent’anni dopo.

Nella seconda metà degli anni ‘70 del secolo scorso, cioè proprio in uno dei periodi più tormentati della nostra storia recente, vennero approvate le due leggi - la 685/1975 e la 180/1978 - che avrebbero dovuto porre fine al regime barbaro cui erano assoggettati i tossicodipendenti e i malati mentali. Tali leggi erano il risultato di difficili mediazioni tra parti politiche assai diverse, o addirittura in perenne scontro tra di loro; quindi, ovviamente, non potevano essere perfette. Da un lato aprivano spazi, per chi ne avesse la volontà civile e politica, per azioni positive di notevole rilevanza; dall’altro di fatto non impedivano il mantenimento dello status quo a tutti coloro - politici nazionali e locali, amministrativi, tecnici - ai quali per interessi economici, corporativi, clientelari, ideologici e politici conveniva di non applicare le nuove norme, ignorandole o dichiarandole assurde e/o inagibili.

Sugli eventi dei primi anni successivi al varo delle due leggi è oggi possibile un giudizio quasi-storico. Stridente infatti appare il contrasto tra le situazioni nelle quali alcune parti hanno efficacemente utilizzato le nuove norme per cambiare radicalmente il destino di molti soggetti in precedenza bistrattati e puniti, e le molte situazioni in cui invece tutto è rimasto fermo, o i cambiamenti hanno avuto un carattere gattopardesco. In estrema sintesi, per la 685 si possono ricordare alcune delle ricadute positive: il modo intelligente in cui parte dei magistrati hanno applicato il criterio della "modica quantità"; la determinazione con la quale il ministro socialista Aldo Aniasi varò nel 1980 i decreti sui farmaci sostitutivi (metadone), incurante dei furibondi attacchi di varie parti sociali e politiche; la dedizione con cui molti operatori trasformarono le modalità di assistenza e cura, in particolare in quei servizi nei quali i decreti Aniasi non si ridussero alla pura e semplice erogazione di "droga di stato".

In campo psichiatrico, la 180 era stata preceduta da robuste esperienze ampiamente pubblicizzate, come quella di Gorizia, di Trieste e altre; quindi, in teoria, essa consentiva minori alibi per la sua mancata applicazione. Allo stesso tempo, tuttavia, la legge era segnata da alcuni handicap inevitabili, date le acrobatiche mediazioni di cui era il frutto; cioè: 1) trattandosi di una sintetica legge-quadro, una volta cessato il momentaneo accordo tra le parti politiche si apriva un vuoto durato quasi vent’anni nei provvedimenti applicativi (sino al primo Progetto-obiettivo degli anni ‘90); 2) la legge aveva un carattere prevalentemente medico-sanitario, conditio sine qua non per prevenirne la bocciatura: un carattere che spianava la strada alla mistificazione buonista ancora oggi prevalente (il matto, poverello, non è un colpevole da controllare e punire, ma un ammalato da curare, mutatis mutandis, come un qualsiasi altro ammalato, consegnandolo per l’addomesticamento a un potere medico da secoli esperto in materia).

In conseguenza la posizione basagliana, che da un lato pienamente riconosceva la natura di vera e propria malattia di buona parte delle patologie psichiche, ma dall’altro insisteva sul fatto che i danni derivavano in massima parte dal modo in cui i pazienti venivano trattati e spossessati dei loro diritti (per incidens, questa tesi era sostenuta da ripetute indagini multicentriche dell’Oms, le quali dimostravano come la cronicità fosse in larga parte la conseguenza dell’organizzazione socio-economica delle società più sviluppate, oltre che da esperienze come quelle di Mosher negli Stati Uniti e di Ciompi in Svizzera) veniva e tuttora viene strumentalmente interpretata come una posizione estremista "antipsichiatrica".

Tale indirizzo, secondo gli oppositori, danneggerebbe gravemente sia gli utenti che gli operatori, svalutando specifiche professionalità come quella medico-farmacologica e quelle psicoterapiche, promuovendo un assistenzialismo dequalificante. Quindi, per lungo tempo nelle sedi di servizio e di formazione ci si è guardati bene dal promuovere e dall’insegnare la professionalità almeno altrettanto ardua e "nobile" della comunicazione con i soggetti, della comprensione dei loro problemi, dell’assiduo sforzarsi nella ricerca di soluzioni appropriate (per i soldi, la casa, il lavoro, i rapporti sociali, la lotta allo stigma, la riappropriazione dei diritti): una professionalità che ovviamente non è in opposizione al corretto esercizio delle precedenti, in un lavoro di équipe ben integrata. (Chi ha poco tempo o voglia di leggere sull’argomento, vada almeno a vedere lo straordinario film "Si può fare" di Giulio Manfredonia).

Da un certo momento in poi i percorsi abbastanza simili - nel bene e nel male - della droga e della psichiatria cominciano a divergere. Smanioso di mostrarsi servo fedele degli Stati Uniti, forte delle paure stigmatizzanti abilmente alimentate in modo indiscriminato nei riguardi degli assuntori "pesanti" e di quelli innocui, Craxi impone di cancellare le parti più positive della 685 col Testo unico del 1990, firmato dalla teodem Rosa Russo Jervolino e dal socialista Giuliano Vassalli.

Il resto è sin troppo noto, dal varo della Fini-Giovanardi al mancato rispetto, nei due anni del successivo governo di centro-sinistra, degli impegni assunti in campagna elettorale per la abrogazione di detta legge e per la promozione delle strategie di riduzione del danno. Per contro i successivi governi Berlusconi, mentre "fanno la faccia feroce" con i progetti di controriforma della 180, di fatto non riescono a farli avanzare di un millimetro; e forse, furbescamente, non hanno neanche l’intenzione di farli avanzare. Perché una tale differenza?

Forse conta soprattutto il diverso peso degli interessi nei due campi: da un lato i sempre più stretti legami tra politica, economia legale ed economia criminale, concimati dal proibizionismo, dall’altro le scaramucce di rilevanza assai più modesta per l’appropriazione degli spiccioli della spesa sociale e sanitaria destinati alla salute mentale (spiccioli che comunque già ora vanno in buona parte al privato, in particolare alle innumerevoli mini-strutture convenzionate di "riabilitazione" - leggi lungodegenza -, per lo più di basso profilo). O forse pesano le ricadute di storie diverse, cioè i quasi due decenni di robuste esperienze di innovazione in campo psichiatrico, prima del varo della 180, a fronte di azioni meno decise e meno avvertite dall’uomo della strada prima del varo della 685.

O forse dobbiamo considerare soprattutto gli sbalorditivi "progressi" nelle tecniche di comunicazione, che hanno fatto sì che il consumo di droga - sia quello minoritario "pesante" e a rischio, sia quello maggioritario "leggero" e innocuo - e il disturbo mentale siano ormai visti in modo assai diverso da una parte crescente dei cittadini: il primo sempre più demonizzato, anche sfruttando le antiche incrostazioni ideologiche contro la "ricerca del piacere" fuori dalle regole; il secondo, decolpevolizzato e addomesticato soprattutto attraverso la medicalizzazione, ormai relativamente più tollerabile.

In ultima analisi, per costruire un’azione più incisiva, urgono chiare e documentate risposte a questi e altri interrogativi. Ciò richiede un impegnativo lavoro secondo indirizzi assai diversi da quelli oggi prevalenti nella ricerca, un lavoro che mentre la casa brucia non può esser delegato ai proverbiali posteri.

Droghe: Fuoriluogo; oggi ci salutiamo, sperando di ritrovarci

di Grazia Zuffa

 

Fuoriluogo, 28 dicembre 2008

 

Questo è l’ultimo numero di Fuoriluogo, che chiude un’impresa durata oltre dieci anni, frutto di puro impegno volontario: lo diciamo con orgoglio e speranza, in tempi così bui per la politica. Sino da giugno, su queste colonne i nostri lettori e lettrici hanno letto delle difficoltà del giornale. Allora abbiamo appreso che il manifesto non era più in grado di sostenere alcuna spesa, si chiedeva l’autofinanziamento completo.

Abbiamo cercato subito di venire incontro alla richiesta economica, soprattutto abbiamo capito che la difficoltà del manifesto - e la nostra dentro quella del manifesto - era un aspetto della crisi profonda di prospettiva della sinistra (sia radicale che riformista). Perciò si è detto che Fuoriluogo era giunto al bivio: o riusciamo a dare un contributo alla ricostruzione di una cultura politica della sinistra su parole chiave quali libertà e legame sociale, autonomia dei singoli e relazioni con l’altro/altra, a partire dai nostri temi storici (e oggi più che mai attuali) del consumo di droghe, della sofferenza psichica, della marginalità sociale; oppure l’esperienza può dirsi finita. O siamo in grado di rilanciare il progetto di Fuoriluogo coinvolgendo più soggetti, gruppi, associazioni nell’impresa di ideazione e gestione del giornale; oppure non ha più senso continuare così, al di sotto della sfida dei tempi.

A questo rilancio stiamo ancora lavorando, raccogliendo adesioni ad una piattaforma politica su cui articolare un nuovo progetto editoriale. Nel frattempo, il manifesto continuerà ad ospitarci con una rubrica settimanale: un’opportunità per mantenere il filo della comunicazione con chi ci ha seguito in tutti questi anni; poi si preciserà il futuro di Fuoriluogo dentro il manifesto. Guardiamo in avanti cercando di reagire alla sconfitta; ma con piena consapevolezza delle dimensioni di quella sconfitta.

Dietro il fallimento del governo Prodi è apparso un vuoto di strategia e di idealità, che ha lasciato campo libero all’ideologia neo conservatrice. Ciò è vero in ogni settore, mai così vero però come per le questioni di cui ci occupiamo.

Il governo Prodi non ha abrogato la Fini Giovanardi sotto l’incanto delle sirene del penale, da usare quale segnale di "moralità" contro i consumatori di droghe; le stesse sirene che hanno ispirato sindaci di vario colore a riscrivere come problema di "disordine" urbano il disagio e la povertà crescenti nelle nostre città; le stesse ancora che hanno ispirato una campagna stampa truffaldina contro l’indulto dipinto come lassismo.

Si potrebbe continuare ancora. Ridotto al nocciolo (doloroso): il ceto politico di centro sinistra saluta oggi come "innovazione" il relitto ideologico della tolleranza zero: incapaci, da bravi parvenu, di guardare oltre il naso al panorama d’oltreoceano che cambia. Il movimento per i diritti, garantista e libertario cui si rivolgeva anche il nostro giornale si è insabbiato, senza più referenti politici.

Per le droghe, si rischia addirittura l’afasia, mentre si avvicinano scadenze importanti. Il governo prepara la prossima Conferenza nazionale sulle droghe a Trieste come occasione di celebrazione della Fini Giovanardi; rafforzata - si vuol far credere - dalle evidenze scientifiche che confermerebbero tutte le droghe illegali come sostanze maledette: il vecchio "spinello brucia-cervello" è di nuovo servito come piatto di nouvelle cuisine.

Ce n’è abbastanza per cercare di resistere. Fuoriluogo è un presidio che non vorremmo perdere. Cari compagni e compagne di viaggio, la strada è lunga. Speriamo di percorrerla ancora

Palestina: missile distrugge il carcere di Hamas, detenuti morti

 

Apcom, 28 dicembre 2008

 

Secondo la tv satellitare al Jazeera nel violento raid dell’aviazione israeliana che stamane ha distrutto il 50% del complesso di edifici al Saraia che ospitano il quartier generale della struttura di sicurezza di Hamas, a Gaza City, un missile avrebbe "raso al suolo anche il carcere principale" del movimento radicale islamico palestinese.

La tv araba che parla di 4 palestinesi "certamente" uccisi, non esclude che "sotto le macerie del carcere" ci siano numerosi detenuti che sarebbero "con ogni probabilità" morti. Le immagini trasmesse dalla tv palestinese Ramattan mostrano grandi cumuli di macerie dalle quali si alzano colonne di fumo. Si vedono inoltre giovani barbuti, che con borse in mano escono rapidamente dagli edifici non crollati. La tv araba, riferisce che miliziani di Hamas "hanno circondato immediatamente il complesso" impedendo ai giornalisti di avvicinarsi al luogo.

 

 

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