Rassegna stampa 19 dicembre

 

Giustizia: Berlusconi; ok a Napolitano, fare le riforme subito

di Marco Conti

 

Il Messaggero, 19 dicembre 2008

 

"Noi siamo garantisti e speriamo che tutto si chiarisca, ma ciò dimostra quanto sia necessario riformare la giustizia". Silvio Berlusconi accoglie l’invito del Capo dello Stato e stringe i tempi. L’obiettivo è quello di arrivare entro il 15 gennaio al varo in Consiglio dei ministri di un primo "pacchetto-Alfano".

"Temo non sia finita qui". Una frase buttata lì, al termine del Consiglio dei ministri. Quel tanto per lasciare perplessi i ministri che poco prima avevano ascoltata la relazione del ministro dell’Interno sulla situazione della giunta di Napoli e sul resto dei comuni investiti dalla nuova seguito delle inchieste. Silvio Berlusconi però ne è talmente convinto da averne discusso la sera precedente con il ministro Guardasigilli Angelino Alfano e il superconsulente sulla giustizia Niccolò Ghedini.

In quel timore del premier c’è tutta la preoccupazione, espressa con i suoi più stretti collaboratori, che presto le toghe possano nuovamente bussare alla porta del centrodestra. Il coinvolgimento di Italo Bocchino, vice capogruppo del Pdl a Montecitorio, viene infatti interpretato come un primo avviso dei pm. Non si fida quindi Berlusconi dei seppur timidi segnali di disponibilità che arrivano dall’opposizione per giungere ad una riforma condivisa della giustizia e non solo di quella civile che porterà - come sottolineato ieri dal premier - "ad una riduzione dei tempi di un terzo".

"Noi abbiamo un programma da rispettare, se qualcuno ora è rinsavito si accomodi e lo appoggi", spiega il presidente del Consiglio. "Siamo garantisti e speriamo che tutto si chiarisca - ha continuato il premier davanti ai suoi ministri - ma tutto ciò dimostra quanto sia necessaria una riforma della giustizia, come peraltro ieri ha sottolineato anche il capo dello Stato". Specie nei passaggi che parlano dei rischi di arbitrio da parte delle toghe e del necessario riequilibrio dei poteri. "Occorre stringere. Ora se diranno di "no" lo diranno non a me ma al capo dello Stato", ha commentato il premier.

L’accordo stretto con la Lega ieri l’altro prevede una via preferenziale per il federalismo fiscale. Immediatamente dopo, entro il 15 gennaio, Berlusconi vuole però incardinare in aula la riforma della giustizia e ripresentare il ddl sulle intercettazioni nella versione originaria e non in quella licenziata a suo tempo dal consiglio dei ministri.

"Le intercettazioni dovrebbero essere consentite solo per reati gravissimi, come terrorismo, mafia e delitti che hanno pene oltre i 15 anni" ha spiegato ieri sera Berlusconi che, parlando agli ambasciatori riuniti dal ministro Frattini alla Farnesina, ha nuovamente definito Gianni Letta "il vero premiere.

Lo slittamento al nuovo anno del pacchetto giustizia che il Guardasigilli avrebbe voluto portare in consiglio dei ministri prima delle feste natalizie, potrebbe però essere arricchito anche se il Cavaliere poco crede alla possibilità di spuntare un confronto costruttivo con il Pd di Veltroni, malgrado gli inviti a dimostrarsi "sinistra riformista" provenienti dai socialisti di Riccardo Nencini.

"Sono in balia di Di Pietro che li ha stretti in un abbraccio mortale - sostiene il premier - e ora sono allo sbando in uno stato confusionale". Berlusconi ovviamente non si oppone al tentativo del ministro della Giustizia di confrontarsi con Pd e Udc, ma nutre molti dubbi sulla possibilità di arrivare ad un testo condiviso e, soprattutto, non vuole farsi dettare l’agenda delle priorità dall’opposizione. Tantomeno però si impressiona per l’ennesima lettera minatoria arrivata al suo indirizzo di Arcore.

Giustizia: fermare i magistrati sarebbe la soluzione sbagliata

di Gian Antonio Stella

 

Corriere della Sera, 19 dicembre 2008

 

"No San Vitur? Ahi ahi ahi ahi!" Pare passato un secolo da quando Cuore faceva il verso a uno spot televisivo sbeffeggiando chi non era ancora finito a San Vittore e pubblicava il "bollettino dei latitanti " e sparava titoli come "Scatta l’ora legale: panico tra i socialisti". Da quando Massimo D’Alema liquidava le parole di Bettino Craxi su Mario Chiesa dicendo che dare del "mariuolo " a qualcuno era "un modo troppo semplice di cavarsela". Da quando la notizia di un avviso di garanzia all’ex premier Giovanni Goria fu accolta dall’assemblea diessina con un applauso.

Mal comune mezzo gaudio? Non hanno senso, a destra, certi commenti del tipo "chi di tangenti ferisce, di tangenti perisce". Sono forse comprensibili, da parte di coloro che per anni sono stati additati come i monopolisti della mala- politica. Ma non hanno senso. Così come appare insensato quel sollievo a sinistra nel sottolineare che nelle retate e negli scandali di questi giorni, tra tanti esponenti del Pd, è rimasto invischiato anche qualche protagonista della destra, quale ad esempio Italo Bocchino.

Il guaio è che il nodo della corruzione in Italia, al di là delle sorti giudiziarie degli indagati, cui auguriamo di dimostrare un’innocenza cristallina, è rimasto irrisolto dai tempi in cui Silvio Berlusconi racconta che "a Milano non si poteva costruire niente se non ti presentavi con l’assegno in bocca". Lo dicono decine di processi in tutto il Paese. Lo confermano gli studi di Grazia Mannozzi e Piercamillo Davigo che esaminando 20 anni di casellari giudiziari hanno accertato che la bustarella non è tramontata mai anche perché le condanne per corruzione (poi ci sono le assoluzioni, le prescrizioni...) sono nel 98% dei casi inferiori ai due anni. Lo denuncia la Banca Mondiale, secondo cui se ne vanno in tangenti, in Italia, 50 miliardi di euro l’anno, tutti soldi che poi, a causa dei rincari delle commesse, pesano sulle tasche dei cittadini. Così come pesano ancora sulle pubbliche casse le mazzette di una volta, che secondo il centro Einaudi di Torino incisero, soltanto negli anni Ottanta, "dal 10 a quasi il 15% del deficit complessivo".

Lo testimoniano infine le classifiche sulla percezione della corruttela elaborate da Transparency: nel 1993, in piena Tangentopoli, eravamo al 30°posto tra i Paesi virtuosi. Nel 2007 stavamo al 41°e quest’anno siamo precipitati al 55°. Dietro (a parte la Grecia che di questo passo sorpasseremo a ritroso) abbiamo solo Paesi come la Turchia, la Tunisia, la Georgia, la Colombia... Davanti abbiamo il Portorico, il Botswana, Cipro... Qualcuno obietterà che si tratta di graduatorie da prendere con le pinze. Giusto. Ma certo la nostra reputazione, in questo settore, è pessima.

La tentazione che pare serpeggiare qua e là, a destra e a sinistra, è quella di uscirne dando una regolata alla magistratura: meno inchieste, meno arresti, meno scandali, meno indignazione popolare, meno astensione alle urne. Ma ammesso che qualche giudice abbia esagerato: sarebbe questa la soluzione?

Giustizia: la tolleranza zero valga anche per i politici corrotti

di Carlo Federico Grosso

 

La Stampa, 19 dicembre 2008

 

I botti giudiziari di questi ultimi giorni, che hanno coinvolto esponenti di rilievo del Partito democratico, hanno aperto una rilevante questione politica. L’esistenza di tale questione non cancella tuttavia la contemporanea esistenza di una questione morale e di una questione giudiziaria.

La grande novità è che al centro della questione morale si trova, oggi, il principale partito di opposizione. Questione morale nella politica significa, innanzitutto, predisposizione di meccanismi adeguati di selezione del personale dei partiti e di controllo del loro operato, idonei a prevenire prevaricazioni, favoritismi, interessi privati, ruberie. In altre parole, trasparenza nella scelta dei dirigenti e dei candidati, nella gestione degli appalti, nel finanziamento dei partiti, nell’approccio con il mondo dell’imprenditoria e della finanza. Nella consapevolezza che, sebbene la maggioranza degli amministratori pubblici sia costituita da persone che svolgono con onestà il loro lavoro, è sufficiente anche un solo scandalo per gettare nel discredito l’intera categoria. Figurarsi se gli scandali si ripetono a ritmo quasi quotidiano.

Questione morale nell’emergenza significa, in secondo luogo, segnale forte di pulizia. Le inchieste penali avranno il loro corso, oggi non è consentito considerare nessuno degli inquisiti un colpevole, prima di formulare giudizi definitivi occorre sicuramente attendere l’esito delle indagini e dei processi.

Sul piano politico, peraltro, non c’è tempo per aspettare. Un partito non può rimanere inerte settimane o mesi. Con la dovuta ponderazione, deve comunque intervenire con iniziative in grado di rimuovere ogni ragione di sospetto. Senza condanne anticipate irrevocabili, ma anche senza indulgente tolleranza, deve sapere rimuovere, estirpare, potare.

A che cosa serve, per altro verso, avere le mani candide, se la testa era comunque girata dall’altra parte, e pertanto non ha visto, non si è accorta, non ha impedito? Non è una circostanza comunque censurabile? L’efficienza, la capacità, la soluzione dei problemi della gente, la selezione dei collaboratori, sono parte integrante della buona politica, e pertanto, in certo senso, della stessa questione morale.

A fianco della questione morale si pone d’altronde con altrettanta forza, oggi, la questione giudiziaria, con una differenza, peraltro, rispetto a quanto accadeva, alcuni anni or sono, ai tempi di Mani pulite. Allora, nei più, c’era la convinzione di sapere dove stavano i buoni e dove stavano i cattivi. I buoni, nell’immaginario collettivo, erano sicuramente i magistrati che controllavano la legalità dei comportamenti pubblici, i cattivi erano invece annidati nei partiti che gestivano la politica in spregio della legge penale e civile.

Era una certezza, forse illusoria, ma sicuramente tranquillante. Oggi questa fiducia è in certa misura svanita. Troppe inchieste, troppe lotte, troppi contrasti, troppi coinvolgimenti hanno rivelato che pezzi minoritari, ma importanti, dell’ordine giudiziario sono stati collusi, coinvolti, partecipi, sono diventati parte integrante di un sistema di potere trasversale.

Cionondimeno, oggi più che mai il potere giudiziario deve essere difeso, quantomeno sul terreno dei principi. Qualche giorno fa ho denunciato su questo giornale il pericolo che la guerra, sicuramente non esaltante, che si è scatenata fra le procure di Salerno e di Catanzaro fornisse al potere politico, contraddistinto da inusitate convergenze, la grande occasione per sferrare l’affondo decisivo contro l’indipendenza del potere giudiziario e l’iniziativa del pubblico ministero.

Oggi, dopo i blitz degli ultimi giorni, le preoccupazioni inevitabilmente si allargano. C’è il rischio che porzioni consistenti del maggior partito d’opposizione, colpito duramente dalle indagini penali dei giorni scorsi, si ribellino, cercando la rivincita decisiva sul terreno di una riforma della giustizia punitiva nei confronti dei magistrati concordata con la maggioranza.

Che una riforma incisiva della giustizia civile e penale sia indispensabile nell’interesse dei cittadini è fuori discussione. Che sia altresì necessario assicurare regole certe per evitare arbitrii nell’esercizio dell’attività giudiziaria è altrettanto fuori discussione. La riforma non deve tuttavia incidere, direttamente o indirettamente, sul potere della magistratura di iniziare liberamente indagini penali, di condurre processi, di pronunciare sentenze. I temi caldi sono, d’altronde, sempre gli stessi: obbligatorietà dell’azione penale, rapporti fra pubblico ministero e polizia, autonomia e poteri del Consiglio superiore della magistratura, ripartizione dei poteri all’interno del Consiglio, intercettazioni telefoniche e ambientali.

L’altro ieri il Presidente della Repubblica, nell’incontro con le alte cariche dello Stato, ha auspicato ancora una volta riforme condivise, accennando, in materia di giustizia, a problemi di equilibrio istituzionale nei rapporti fra politica e magistratura, a misure volte a scongiurare eccessi di discrezionalità, a rischi di arbitrio e conflitti nell’esercizio della giurisdizione. Ben vengano i moniti, anche severi, del Capo dello Stato, supremo garante della legalità del Paese. Siamo infatti certi che il Presidente saprà salvaguardare fino in fondo i principi fondamentali dello Stato di diritto e della divisione dei poteri dello Stato.

Giustizia: il Palazzo teme l’assedio; la bufera arriva a Roma?

di Francesco Verderami

 

Corriere della Sera, 19 dicembre 2008

 

"Noi non accettiamo di farci intimidire". Perché anche lei ha sentito i boatos di Palazzo che danno per imminente un coinvolgimento dei vertici del Pd nel tritacarne giudiziario, "anche a me sono giunte certe voci", dice il ministro ombra Linda Lanzillotta. Sono le stesse voci che la cattolicissima Paola Binetti - con agganci porporati oltre Tevere - aveva sussurrato di buon mattino a un deputato laziale rimasto senza fiato: "La procura di Roma sta per muoversi. Tu capisci...".

Ovviamente ha capito. Non sarà una nuova Tangentopoli, ma i meccanismi somigliano a quelli che negli anni Novanta spazzarono via un’intera classe dirigente. Certo, c’è chi prova a sdrammatizzare, come Ermete Realacci, che ha dovuto calmare la sua segretaria in preda al panico: "Onorevole, c’è un ispettore di polizia qui fuori che la cerca". "Fallo entrare, sarà venuto per gli auguri". Il venticello che è tornato ad alzarsi dopo tanto tempo, scatena nel Pd sentimenti contrapposti.

Anche Realacci ha sentito uno strano refolo, "se così fosse, se puntassero a colpirci ai massimi livelli, allora reagiremmo con fermezza. Perché non tutto quel che ha fatto la magistratura si è poi rivelato fondato". Ieri nell’Aula di Montecitorio i deputati democratici hanno prestato più attenzione alla lettura delle intercettazioni pubblicate dai giornali che alle votazioni sui decreti. La sensazione dell’assedio ha richiamato alla mente di Luigi Nicolais le difficoltà politiche di Veltroni: "Povero Walter, sta preso dai turchi".

Quel modo di dire meridionale rende l’idea dell’accerchiamento: "E noi siamo preoccupati. Ma cosa possiamo fare? Siamo prigionieri - giustamente a mio avviso - della nostra linea. Abbiamo sempre combattuto contro la strategia berlusconiana dell’attacco ai magistrati. Ora dovremmo metterci in scia? Perderemmo tutto".

Ma non tutti la pensano a quel modo nel Pd. La Lanzillotta ritiene che proprio assoggettandosi al giustizialismo "il partito perderebbe, perché si mostrerebbe impotente": "Per questo va separato l’aspetto giudiziario da quello politico, va spiegato che noi non ostacoleremo le inchieste, ma che al tempo stesso ci impegneremo per contribuire al varo di una riforma della magistratura. Senza una riforma condanneremmo il Paese all’immobilismo per altri vent’anni". Lo dirà anche oggi alla direzione del Pd: "Servono le riforme".

La sua, quella sui servizi pubblici locali, non vide la luce "ostacolata come fu, in modo trasversale, anche da alcuni dei personaggi che ora sono coinvolti nelle inchieste". Quella vischiosità la riconosce oggi nei boatos su nuove iniziative giudiziarie che riguarderebbero i massimi esponenti del Pd. Quelle voci sono interpretate insomma come un segnale: "D’altronde - chiosa maliziosamente - ci sono tanti pezzi di potere in Italia che fanno resistenza al cambiamento". Raccontano che Veltroni non citi mai la parola complotto, ma parli di "singolari coincidenze".

E comunque l’affanno dei democratici si coglie nel linguaggio del corpo, nelle frasi lasciate a metà, nell’assenza di solidarietà che Salvatore Margiotta misura non su se stesso ma "sull’amico Lusetti". La Camera aveva appena votato contro l’autorizzazione all’arresto del deputato, coinvolto nell’inchiesta sul petrolio lucano.

Dunque Margiotta avrebbe potuto limitarsi a poche parole di circostanza, invece ha rivolto un pensiero "a Renzo": "Perché appena Italo Bocchino è stato tirato dentro le vicende giudiziarie in Campania, Ignazio La Russa è intervenuto in sua difesa. Per Renzo, Renzo Lusetti, nessuno ha speso una parola nel Pd".

C’era un misto di sconforto e di comprensione: "Io li capisco i miei, però... Evito di pensare ai teoremi per non impazzire, ma... Certo, la preoccupazione che su certe vicende si parta dal territorio per arrivare a Roma...". I democratici sono posti dinnanzi a un bivio, anzi secondo il politologo Gianfranco Pasquino, i crocevia sono due: "Il primo è che il Pd ha problemi con la giustizia e farebbe meglio a riconoscerli, se non vuol perdere la credibilità rimasta.

Per esempio, sarebbe stato meglio se Massimo D’Alema avesse autorizzato l’uso delle intercettazioni che lo riguardavano sul caso Unipol. Il secondo crocevia è decisivo: se il Pd pensasse di risolvere la questione con una collusione politica con il Pdl, si autodistruggerebbe e non ci sarebbe più un’alternativa di governo al centrodestra, perché il campo del centrosinistra sarebbe dominato da Antonio Di Pietro".

Gli scranni dei deputati democratici confinano con quelli dell’Idv, ma è come se tra i due gruppi ci fosse ormai un check point Charlie. Perciò in pochi si sono accorti che la dipietrista Silvana Mura porta sul viso il segno dello scontro politico con gli "alleati". Quel livido sulla guancia è una metafora: gliel’ha provocato un faldone pieno di firme per il referendum contro il lodo Alfano che le è caduto addosso.

L’Idv è il gemello siamese da cui il Pd vorrebbe staccarsi. Ma non può farlo né dirlo, così tocca a Francesco Cossiga spiegare quel che i democratici osano appena sussurrare. E cioè che "i magistrati stanno aiutando Di Pietro, l’unico che può chiedere loro di non infierire sul Pd. L’unico a cui danno ascolto e anche una mano. Perché nelle inchieste - spiega Cossiga - i pm si fermano davanti all’Idv. Mi dicono che a Napoli avevano trovato qualcosa su qualcuno, ma non si sono mossi. D’altronde Tonino li difende, e loro devono pur avere un partito di riferimento in Parlamento...".

Giustizia: Bertinotti; troppo peso agli imprenditori in politica 

di Umberto Rosso

 

La Repubblica, 19 dicembre 2008

 

"Il partito leggero di Veltroni è fallito. È diventato il partito degli assessori, ecco perché è permeabile ai potentati economici". Fausto Bertinotti spiega così la questione morale nel Pd.

 

Presidente Bertinotti, siamo di fronte ad una nuova Tangentopoli, che si abbatte sul Pd, oppure si tratta di singoli episodi di corruzione e malaffare?

"Siamo di fronte ad una crisi di sistema. Investe il Partito democratico semplicemente per la ragione che il Pd, contrariamente a quel che pensano quasi tutti, è la frontiera più avanzata dell’innovazione. Ed è proprio una certa innovazione del nostro sistema la causa prima di quel che sta succedendo".

 

Ma è come nel ‘92?

"La Tangentopoli di allora e i fatti di oggi sono fenomeni diversi, due risposte sbagliate alla crisi della Prima Repubblica. La Tangentopoli del ‘92 è fotografata dall’analisi di Berlinguer. I partiti per salvare se stessi occupano tutto, fagocitano lo Stato. Craxi, nella sua chiamata di correo alla Camera, dice: l’ho fatto per salvare i partiti. Che naturalmente non lottano più in nome degli ideali ma provano a sopravvivere attraverso una crescita del loro potere".

 

La Tangentopoli di oggi?

"È quasi il contrario. I partiti diventano partiti del leader e si dissolvono. Nel Pdl, Berlusconi "a machiavella", come direbbero dalle mie parti per intendere machiavellico, tiene insieme il partito del capo e le singole forze politiche, come la Lega e An. Il Pd invece, in questo senso più innovatore, è il partito del leader allo stato fluido, come direbbe Bauman. Ma la dissoluzione del partito cosa fa nascere? I potentati locali. Senza una reale struttura oligarchica al centro, fragile, si appoggia al partito dei sindaci. Sotto il partito del leader ecco così i potenti locali. Il baricentro del potere si è spostato qui. Comandano gli amministratori".

 

Ma perché la dislocazione "in basso" dovrebbe essere veicolo di corruzione?

"Non di per sé, ma è la miscela con altri fattori che provoca l’esplosione. Intanto, un rovesciamento dell’etica costituente: oggi l’economia comanda sulla politica, che è sempre sotto schiaffo, tende a farsi gradita alle grandi banche, ai costruttori, agli immobiliaristi, ai potentati".

 

Un fenomeno non nuovo...

"Aggiungiamo l’ultimo elemento: una vera e propria controriforma del quadro istituzionale. Il Parlamento è svuotato rispetto al governo ma è ancora nulla rispetto a quel che è successo a livello locale. I consigli comunali letteralmente non contano più niente. Le giunte sono un insieme di assessori dotati di potere sovrano. Ogni singolo assessore è fuori controllo: ha una delega dal sindaco, il quale è in grado di intervenire solo sulle cose su cui sta, e non risponde di fatto al consiglio comunale. I centri di potere locali sono così diventati irresponsabili democraticamente. Chiamati ad occuparsi di servizi pubblici ormai privatizzati...".

 

Erano servizi spesso costosi e inefficienti.

"Non lo nego. Ma quando la mensa degli ospedali era un servizio interno, non da affidare in appalto, il rapporto fra affari e politica era precluso a monte. Lo stesso può valere, che so, per le lavanderie degli ospedali. Oppure per i cimiteri, che ormai non sono più luoghi di culto ma di affari. Il tutto, mentre vengono meno le funzioni pubbliche".

 

In che senso?

"Perché è diventato così ingombrante il peso di costruttori e di immobiliaristi? Ma perché i piani urbanistici, e quindi il ruolo pubblico, subiscono una revisione attraverso quel che viene definito urbanistica contrattata. Il potere pubblico entra sistematicamente in una contrattazione con i privati, ti cedo una parte del territorio e tu mi fai un’opera. Un ragionamento analogo si può fare per gli inceneritori. Così si è spalancata alla strada alla discrezionalità. Non a caso nessuno degli episodi emersi riguarda il finanziamento illecito ai partiti ma lo scambio diretto fra un dirigente politico dotato di potere amministrativo e un soggetto economico".

 

Il partito degli assessori allora agisce solo per sé.

"Ma è un’organizzazione del consenso elettorale, ovvero il punto nevralgico del nuovo partito leggero. Privo della forza dell’oligarchia, e senza la forza della pressione di massa, il partito leggero ha come stella fissa la vittoria delle elezioni. Voti non olet. Quello che olet lo fa il potentato locale, che "scherma" il partito. Per questa ragione la sollecitazione a "bonificare", per quanto sacrosanta, temo sia inefficace. Per bonificare, bisogna mettere mano a quel sistema. Togli una mela marcia e ne marciscono altre dieci. Il contagio è ambientale. La politica non può delegare alla magistratura".

 

Si fronteggiano due modi di affrontare la bufera, vedi Napoli. Il sindaco Iervolino giura sulla sua onestà, rimpasta la giunta e va avanti. L’Italia dei Valori esce a tappeto da tutte le giunte della Campania.

"Dipende dal livello delle indagini ma ci sono casi in cui non ce la fai comunque. Sulla moralità della Iervolino sono pronto a mettere la mano sul fuoco, ma superato un limite di soglia c’è il problema di come un atto politico viene percepito in una città, in un territorio. Non cedo nulla al populismo ma devi poter ritrovare la parola, e a volte per farlo non resta che una discontinuità assoluta, e il voto. Magari per ripresentarsi. Detto questo, io penso però che bisognerebbe cominciare dal grande per arrivare al piccolo".

 

Dal vertice del Pd.

"Occorre riaprire la discussione sulle forme di democrazia nel territorio. Per esempio certe grandi opere meriterebbero il vaglio di una consultazione referendaria. L’altra questione è tutta politica".

 

Qual è?

"È il momento di reinventare i partiti democratici, di massa e pesanti. La questione morale dovrebbe essere colta come un’occasione di riforma, che intanto riguarda la sinistra. Se il Pd viene coinvolto, invece di scandalizzarsi bisogna guardare alle cause profonde e pensare ad un vero e proprio big bang. Perché oggi in Italia nella lotta politica la sinistra non c’è, e il partito leggero moderno si è rivelato esposto a rischi cui il vecchio Pci, con tutti i suoi limiti, era immune. Ammettiamo che un ciclo è fallito, senza colpevolizzare nessuno. Serve un nuovo inizio, in cui tutti si mettano a disposizione".

Giustizia: Parmalat; 10 anni a Tanzi, ma niente risarcimenti

di Giuseppe Oddo

 

Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2008

 

Il gruppo Parmalat ancor prima che un’azienda lattiera è stato - tra la metà degli anni ‘90 e il 2003, fino al momento della bancarotta - una delle principali fabbriche internazionali di titoli tossici. Nella requisitoria al processo per aggiotaggio, conclusosi con la condanna di Calisto Tanzi a dieci anni di reclusione e il proscioglimento di tutti gli altri imputati, il pubblico ministero Francesco Greco aveva fatto l’elenco delle operazioni - spazzatura che le più grandi banche d’investimento del mondo avevano cucito addosso come una camicia di forza alla Parmalat di Calisto Tanzi: cartolarizzazioni, credit default swap, convertibles notes, veicoli speciali, lease back finanziari e chi più ne ha più ne metta. Ne era emerso un quadro devastante: negli ultimi anni prima del default il gruppo di Collecchio aveva concluso in media un’operazione di debito al mese di importo pari o superiore ai 100 milioni di euro con costi per commissioni e interessi molto gravosi che il commissario straordinario Enrico Bondi, nella relazione sulle cause dell’insolvenza, aveva quantificato, appena dopo il dissesto, in oltre 5 miliardi di euro. Ma tutto questo non è bastato a dimostrare l’aggiotaggio e ora manda a casa assolti, chi con formula piena chi per prescrizione del reato, i dirigenti italiani di Bank of America (BofA), l’istituto maggiormente chiamato in causa nel crack, insieme a Citigroup.

Da questo punto vista, al di là della condanna esemplare ma prevista di Tanzi, l’esito del processo è per l’accusa e per i risparmiatori una doccia fredda. Lo è per la Procura, che dopo la depenalizzazione del falso in bilancio aveva scelto di imperniare l’impianto accusatorio sul reato di aggiotaggio. Per di più essa ha visto cadere in prescrizione, a causa della Cirielli, l’evento che a suo giudizio avrebbe potuto inchiodare i dirigenti di Bank of America: l’aumento di capitale di Parmalat Brasil del 1999.

Ma è una sconfitta anche per le migliaia di obbligazionisti truffati. In mancanza di un responsabile civile, non hanno più su chi rivalersi. Ed è una sconfitta anche per la nuova Parmalat, le cui quotazioni erano cresciute nell’attesa dei grandi risarcimenti che sarebbero potuti venire dai processi e in particolare dai processi contro le banche. Ora questa sentenza rischia di rimettere in forse ciò che fino a qualche mese fa poteva darsi per scontato.

Soprattutto rischia di rimettere in forse l’esito dei processi che sono da poco cominciati a Parma, l’altro fronte "caldo", in cui siedono sul banco degli imputati, accusati di bancarotta fraudolenta o concorso in bancarotta, lo stesso Tanzi e gli stessi amministratori, revisori, manager bancari, banchieri che il Tribunale di Milano ha prosciolto o che col Tribunale di Milano hanno deciso di patteggiare.

Il confronto giudiziario si sposta adesso a Parma. Si preannuncia durissimo per la Procura del capoluogo emiliano, che ha fatto di tutto per evitare la grande ammucchiata, il maxiprocesso chiesto dalla difesa di Tanzi, che avrebbe dilatato oltre modo i tempi processuali e portato i reati in prossimità della prescrizione. Si vedrà nel 2009, quando i dibattimenti in corso a Parma entreranno nel vivo, se la scelta dell’accusa di spezzettare in vari rivoli l’inchiesta per bancarotta sarà quella vincente.

Se da un lato ai Pm di Parma non rimaneva altra scelta data la vastità e la complessità delle indagini, dall’altro è indubbio che un processo spezzatino decontestualizza i reati, annacqua certe posizioni processuali, soprattutto quelle dei banchieri, e rischia di ridurre la più grande bancarotta industriale d’Europa e forse del mondo in un imbroglio da ragionieri di provincia. Ma il crack Parmalat non è niente di tutto questo: è una vicenda che chiama in causa, accanto a primarie banche europee e italiane, le più grandi Investment Bank del mondo, quegli stessi colossi del credito che in questi mesi sono stati abbattuti dalla più grave crisi finanziaria dell’era moderna.

Ora, è possibile che un uomo solo, per quanto scaltro, abile, svelto, spregiudicato, abbia potuto creare un buco da quasi 14 miliardi di euro? Perché è questo il punto dolente della sentenza di Milano. L’idea che emerge dopo la lettura del verdetto è che del dissesto della Parmalat vi sia un unico responsabile: Calisto Tanzi. E che tutte le altre siano state figure di contorno, personaggi minori. Ma non è così.

Semmai è vero il contrario: Tanzi e suoi sodali, come il burbero direttore finanziario della Parmalat, Fausto Tonna, da un certo punto in avanti agirono come marionette, come ombre sullo sfondo, manovrate da banche ingorde che dai "servizi" prestati alla Parmalat hanno ricavato commissioni, interessi ed altro per miliardi e miliardi di euro.

La favola che le banche abbiano agito inconsapevolmente, che anzi siano rimaste truffate da Tanzi, non regge nemmeno dinanzi a una sentenza che manda prosciolti tutti a casa. Mai nessuna banca si accorse che Parmalat Spa aveva crediti pari a diverse volte il suo giro d’affari, che nel bilancio consolidato figuravano almeno un centinaio di società domiciliate nei più oscuri centri finanziari offshore, che una società che dichiarava in bilancio oltre 4 miliardi di euro di liquidità continuava a sfornare obbligazioni e a pagare interessi salatissimi.

Senza le coperture, la poderosa rete di connivenze ad altissimo livello che Tanzi aveva creato intorno a sé e intorno al gruppo già prima della quotazione in Borsa del 1990, l’azienda non avrebbe mai potuto sopravvivere fino al 27 dicembre 2003, quando ne fu ufficialmente dichiarata l’insolvenza. Non si passa indenni per Tangentoli se non si gode delle protezioni giuste. Eppure, tra il 1992 e il 1994, quando l’inchiesta " mani pulite" era entrata nel vivo, il Cavalier Tanzi aveva continuato a godere di grande reputazione.

Il giudice Domenico Truppa, che ha condotto l’udienza preliminare del troncone principale del processo per bancarotta a Parma, ha stabilito che il dissesto del gruppo Tanzi è risultato visibile a partire dal 1993, ossia in piena era di Tangentopoli. Come mai, allora, i nomi della Parmalat e di Tanzi non vennero mai fuori in quegli anni? Non è facile rispondere a questa domanda.

È però un fatto che alle spalle di Tanzi agivano forze potenti. Dov’era la Procura di Parma nel 1997 quando un onesto tecnico della città, Mario Valla, aveva accertato, con una perizia commissionata dal medesimo ufficio giudiziario, che il gruppo Tanzi era talmente indebitato da rischiare il dissesto e che senza il sostegno delle banche sarebbe crollato?

Dov’era la Guardia di Finanza di Bologna? Perché nel corso dei suoi accertamenti non scoprì mai la "fabbrica dei falsi" che Tanzi e Tonna avevano impiantato a Collecchio? Come mai l’allora capo delle Fiamme Gialle, Nicolò Pollari, incontrava spesso Sergio Piccini, l’ex sindacalista della Cisl cui Tanzi aveva affidato la responsabilità delle relazioni istituzionali e che dal suo ufficio di Roma teneva i contatti e elargiva denaro a partiti e uomini politici?

Che ci facevano in Parmalat, inseriti in posizioni dirigenziali, ex graduati della Guardia di Finanza e personaggi come Romano Bernardoni, successore di Piccini, a sua volta in buoni rapporti con l’entourage di Pollari? Come mai a casa di Tanzi si svolse almeno una riunione preparatoria della riforma concordataria a cui parteciparono l’allora segretario del Psi, Bettino Craxi, e l’allora segretario di Stato Vaticano, Agostino Casaroli, gli stessi che avrebbero sottoscritto il 18 ottobre 1984 il nuovo accordo tra Chiesa e Stato?

È vero che nelle ore successive al dissesto un camion che trasportava oggetti di valore partì dalla villa del Cavaliere diretto a Roma, Oltretevere? Domande senza risposta. Che, a maggior ragione dopo la sentenza di ieri, fanno della Parmalat uno dei casi più oscuri della storia economica di questo Paese.

Giustizia: il governo rinvia la "class-action" al 30 giugno 2009

di Ettore Livini

 

La Repubblica, 19 dicembre 2008

 

La prima sentenza del crac Parmalat lascia un po’ d’amaro in bocca ai risparmiatori rimasti intrappolati nel crac da 14 miliardi di Collecchio, nello stesso giorno in cui il governo rinvia l’avvio della class-action al 30 giugno 2009, suscitando una vera e propria levata di scudi da parte delle associazioni dei consumatori.

La decisione di ieri del tribunale di Milano diminuisce (almeno per ora) la speranza di ex azionisti e obbligazionisti del gruppo emiliano di veder risarcita un’altra parte del danno subito. La condanna di Calisto Tanzi, da questo punto di vista, è molto meno importante dell’assoluzione e della prescrizione dall’accusa di aggiotaggio degli uomini di Bank of America, l’unico imputato con la disponibilità patrimoniale sufficiente per un rimborso importante, visto che all’ex patron di Collecchio (almeno fino alla scoperta dell’ormai mitico "tesoro" sudamericano) sono già stati sequestrati tutti i (pochi) beni.

La contabilità finanziaria delle vittime del crac però - soprattutto se confrontata ai rimborsi dei grandi scandali Usa stile Enron - non è poi malvagia: certo, gli ex azionisti ben difficilmente rivedranno una lira dei loro risparmi. Ma i titolari dei bond, grazie al lavoro giudiziario di Enrico Bondi - che ha chiuso cause con le banche incassando 1,9 miliardi - e al salvataggio industriale di Parmalat, hanno recuperato ad oggi tra il 25% e il 30% del loro investimento. Anzi, quando il titolo correva attorno ai 3 euro - oggi è a 1,21 - si erano ritrovati in tasca oltre il 50%.

Qualcosa in più hanno portato a casa i 40mila obbligazionisti che si sono costituiti come parte civile nei processi. Ad oggi sono state raggiunte transazioni con Deloitte, Ubs, Nextra, Deutsche Bank e Morgan Stanley che garantiranno un ulteriore rimborso del 16% circa del capitale impegnato e altre intese di questo tipo sarebbero in arrivo. Se i processi per bancarotta a Parma riconosceranno poi un ruolo alle banche e ai loro funzionari nel crac, le speranze di vedere salire ulteriormente queste percentuali cresceranno ancora. "E i risparmiatori possono stare certi che noi continueremo la nostra battaglia in quella sede", ha garantito ieri Carlo Federico Grosso, legale rappresentante di ben 32mila ex bond holder Parmalat.

Qualche spicciolo in più potrebbe arrivare anche dal governo che ha promesso di girare alle vittime dei crac (azionisti compresi) parte dei fondi raccolti con l’emersione dei conti bancari dormienti, finora circa 1 miliardo. Lo stesso fondo però servirà a finanziare la social card, stabilizzare i precari della pubblica amministrazione e dare un contentino agli ex azionisti e obbligazionisti Alitalia. Una lista troppo lunga per sperare in entrate consistenti. Le maggiori banche italiane hanno anche avviato tavoli di conciliazione che hanno portato al rimborso dei bond e delle azioni Parmalat per quei clienti che non erano stato adeguatamente informati sui rischi legati all’investimento.

La via maestra per i risarcimenti, invece, la class action è da ieri una via ancora un po’ più impraticabile. L’esecutivo ha rinviato infatti di altri sei mesi al prossimo 30 giugno l’entrata in vigore della legge. E il timore di molti è che si inseriscano emendamenti che ne limitino la retroattività, rendendo impossibili i ricorsi all’azione collettiva per i casi come Parmalat e Cirio. "Vergogna! Siamo indignati - hanno commentato in una nota congiunta i vertici di Federconsumatori e Adusbef -.

Questa legge, approvata durante la precedente legislatura, è stata prima rimandata dal Governo Berlusconi, con l’obiettivo di migliorarla; oggi, dopo averla peggiorata, viene ulteriormente rinviata di altri 6 mesi. Evidente che gli obiettivi sono altri". "Colpire i consumatori e i loro diritti in un momento come questo significa colpire il mercato", ha aggiunto Vinicio Peluffo del Pd.

Giustizia: Cassazione; perquisire detenuti, ma senza denudarli

 

Adnkronos, 19 dicembre 2008

 

Il rigore dei regolamenti carcerari non è un alibi per umiliare i detenuti. La Cassazione ha annullato le ordinanze del magistrato di sorveglianza di Novara che avevano "punito" un detenuto che si era rifiutato di sottoporsi ad una "ispezione corporale" prima di recarsi a colloquio con il suo avvocato.

Più umanità con i detenuti. Invitando a salvaguardare "il senso di umanità e di dignità della persona", la Cassazione sollecita il personale dell’amministrazione penitenziaria a non disporre le ispezioni corporali nei confronti dei detenuti con troppa disinvoltura, ma solo davanti a "effettive, specifiche e prevalenti esigenze di sicurezza interna". Diversamente l’ispezione diventa "invasiva della sfera personale dell’individuo".

Il concetto vale anche per i detenuti reclusi in regime di "carcere duro". Applicando questo principio, la Prima sezione penale ha accolto la protesta di un detenuto, Aniello B., recluso nel carcere di Novara che, ogni qualvolta andava a colloquio con il legale, veniva preventivamente denudato e costretto a flessioni sulle gambe. Per il Tribunale di Sorveglianza di Novara, ottobre 2007, la pratica non costituiva atto illegittimo in quanto le ispezioni corporali sono contemplate dal regolamento interno dell’Istituto carcerario e, nel caso in questione, erano rese necessarie dalla possibilità che nel corso del colloquio personale del detenuto con il difensore senza vetro divisorio venissero veicolati oggetti non riscontrabili con una perquisizione "ordinaria".

Di diverso avviso la Cassazione che, accogliendo il ricorso del detenuto, ha rinviato il caso al magistrato di sorveglianza sottolineando che "i denunciati atti di ispezione corporale, significativamente invasivi della sfera personale dell’individuo, non risultano motivatamente ancorati ad un criterio ragionevole ed obiettivamente verificabile di effettiva necessità e proporzione in riferimento al caso in esame".

Resta inteso, ha osservato ancora la Suprema Corte, che "l’ispezione corporale con le modalità del denudamenti, anziché l’ordinaria perquisizione personale, ben può essere legittimamente disposta ed eseguita quando sia motivatamente sorretta da effettive, specifiche e prevalenti esigenze di sicurezza interna, in riferimento alla peculiare situazione di fatto o alla pericolosità dimostrata in concreto dalla condotta del detenuto che rendano, nella specie, la misura ragionevolmente necessaria e proporzionata". Il che non significa che per legittimare queste ispezioni bastino "astratte esigenze di sicurezza".

Giustizia: non dimenticare sciopero della fame di ergastolani

di Daniela Domenici

 

www.italianotizie.it, 19 dicembre 2008

 

Un diario giornaliero. Tremendo, doloroso, vero. È la testimonianza diretta di un ergastolano che, per l’ennesima volta, partecipa allo sciopero della fame a staffetta per sostenere la proposta di legge per l’abolizione dell’ergastolo. Perché almeno noi non vogliamo uniformarci al silenzio stampa generale e totale di tutti i mezzi di informazione su questo sciopero, perché vogliamo, nel nostro piccolo, sostenere la lotta di queste persone per abolire la detenzione senza speranza, il fine pena mai che sta lentamente provocando un numero di suicidi inammissibile e di cui non parla nessuno, perché la detenzione sia davvero un metodo di rieducazione e non un abbrutimento dell’individuo.

10.12.08 - Terzo giorno del digiuno a staffetta per l’abolizione dell’ergastolo. Peso 80,900.

Incomincio a sentire la debolezza! Forse anche perché dato che il digiuno è a termine sto facendo psicologicamente più fatica. Sono solo al terzo giorno sic! Probabilmente, per l’età e il freddo, lo sciopero della fame mi sembra sempre più duro. Era mio desiderio, a causa del divieto di fare assistere i parenti allo spettacolo, di ritirarmi dal teatro ma per evitare spaccature nel gruppo mi sono messo in discussione, ho rischiato e ho detto che mi sarei attenuto al voto della maggioranza. I detenuti attori hanno votato e purtroppo la maggioranza ha deciso di fare lo spettacolo. Una rabbia! Quando si vota, la sinistra perde anche in carcere sic! Però non sempre la maggioranza ha ragione. Io credo che fin quando diremo "sì" le cose non cambieranno mai. E le cose per cambiare devono innanzi tutto cambiare dentro di noi.

11.12.08 - Quarto giorno di digiuno a staffetta per l’abolizione dell’ergastolo.

Finalmente il vescovo ha accettato il nostro invito e ieri è venuto a trovarci. Abbiamo parlato in tre: io, Giovanni e Tommaso di 74 anni che è da 30 anni dentro. abbiamo parlato del digiuno e della nostra lotta per l’abolizione dell’ergastolo. Mentre Giovanni l’ha buttata in filosofia e Tommaso sulla speranza, io da buon ateo sono andato sul concreto e gli ho detto:

- Ci permetta di ricordare che Pietro, capo della Chiesa e rappresentante in terra del Cristo ha rinnegato Gesù per ben tre volte. È un principio cristiano quello che la gente cambi (pensi a Sant’Agostino). Il ruolo degli uomini di chiesa è sempre stato dalla parte degli ultimi, dei perdenti, dei peccatori, degli sconfitti e l’ergastolano è tutte queste cose messe insieme. Le chiediamo sostegno, un comunicato stampa di solidarietà e preghiere in tutte le parrocchie della Sua Diocesi per l’abolizione dell’ergastolo.

12.12.08 - Quinto giorno di digiuno a staffetta per l’abolizione dell’ergastolo. Peso 79,800.

Dal carcere di Piacenza mi hanno scritto: Ti scrivo per informarti che il primo di dicembre siamo riusciti a mobilitare un po’ la sezione. Alcuni hanno aderito allo sciopero della fame e tutti hanno fatto lo sciopero del carrello mettendo i piatti fuori dalle celle. Beh! Piuttosto di niente, meglio così. Almeno se ne è parlato. Inoltre, a giudicare dall’atteggiamento sorpreso delle guardie, sembra che qui queste cose non si facciano poi tanto spesso. Stessa dimensione nelle sezioni AS di Pavia e Vigevano dove ci sono altri miei coimputati. Per quanto riguarda noi, abbiamo fatto mettere agli atti del processo e rese pubbliche la nostra adesione alla vostra lotta all’udienza del 27/11. Un abbraccio solidale.

13.12.08 - Sesto giorno di digiuno a staffetta per l’abolizione dell’ergastolo. Peso 78,800.

Un ergastolano dal regime del 41 bis scrive: "Cristo può vedere i detenuti, loro non possono vedere lui perché c’è la grata che esclude la visione del cielo". La protesta continua compatta. Per strada abbiamo perso il povero zio Totò, 75 anni, ha resistito quattro giorni ma è malato di diabete e non ce la faceva più ad andare avanti. Siamo un po’ delusi dai mass media che non stanno dando visibilità alla nostra lotta. Di giorno spesso indosso una maschera di serenità e di allegria per fare coraggio ai miei compagni che stanno dimagrendo a vista d’occhio, la sera, quando la tolgo, resto solo con le mie preoccupazioni e i miei pensieri… mi sento responsabile della sofferenza dei morsi di fame dei miei compagni.

14.12.08 - Settimo giorno, e ultimo, di digiuno a staffetta per l’abolizione dell’ergastolo.

A mezzanotte e un minuto mi farò una minestrina di semolino. Ho fatto tutto quello che ho potuto, ma penso non abbastanza perché l’Assassino dei Sogni è forte, molto forte, si può sconfiggere solo con l’amore sociale come sanno fare le persone speciali come Nadia.

Ho ricevuto una sua busta per lettera di colore blu come il mare, un bigliettino di colore blu come il cielo, con dentro una perla, il titolo dell’opuscolo che c’era dentro. ed ho trovato proprio una perla:

A Carmelo / Mi guardo allo specchio. / Una lacrima scorre su questa mia pelle liscia. / La lascio andare come un sogno / che sfuma e fugge lontano. / il mio adesso è qui, così. / Con questa mia ostinazione e determinazione. / Con questo mio ridere e questo mio piangere. / Con questo volere a tutti i costi cercare una strada. / Ci vuole coraggio a vivere così. / Tanto. / Chiara M.

Mi ha anche scritto: "Non sopporto le ingiustizie, che considero il tuo dolore e quello di ogni uomo su questa terra "sacro", che nessuno dovrebbe soffrire e provare quello che soffri e provi tu, che nessuno ha il "diritto" di far del male sapendo di farlo, che non si può far morire la speranza".

15.12.08 - Finalmente! Sembra passato un secolo, questa mattina ho fatto colazione con un bicchiere di latte e un paio di fette biscottate.

E poi imbucato la lettera a Nadia: "Grazie delle tue parole. Non ti nascondo che mi hanno fatto commuovere. Ma non è colpa mia perché io sono forte, duro e cattivo. Piuttosto è colpa di Zanna blu che è un debole e ha il cuore tenero. La verità è che tutti vogliono bene a Zanna blu e Carmelo incomincia a essere geloso, sic! Non c’è bisogno che mi dici chi sei, io lo so già. Sei l’amore che provo per mia figlia, mio figlio, i miei nipotini, la mia compagna e per l’umanità intera. Non potrei amare loro se non amassi anche te, ma a te ti amo un po’ di più perché con te la vita è stata dura, molto dura. Io non credo di poterti dare un po’ di felicità anche se lo vorrei tanto ma posso volerti bene. Lo so è poco ma è tutto quello che posso fare. Quando vuoi io ci sono e sono qui. Mia figlia mi ha chiesto di te e le ho raccontato come ci siamo conosciuti e che sei una ammiratrice di Zanna blu. Vorrei tanto che un giorno la conoscessi è l’unica cosa buona che ho fatto nella vita (insieme a mio figlio). Sai si è commossa quando le ho detto che hai un problema fisico e che leggi quello che ci scriviamo. Non ti preoccupare per me, io non sono infelice, non sono libero, non ho fede, ma ho l’amore ed è tutto quello che mi serve per essere felice. Ti faccio dono di un disegno e dell’ultima avventura inedita di Zanna blu. Un bacione e un sorriso.

 

Carmelo Musumeci, Carcere di Spoleto

Giustizia: Udc; nel Nordest situazione delle carceri al collasso

 

Il Gazzettino, 19 dicembre 2008

 

Per i deputati dell’Udc Angelo Compagnon e Roberto Rao le carceri del Nord-Est sono al collasso. Il sovrannumero dei detenuti - hanno affermato in un’interrogazione al Ministro di Giustizia, Alfano - ha superato ogni limite a scapito anche della dignità della persona.

Durante l’ultima audizione alla Camera - hanno ricordato - il ministro della Giustizia ha annunciato un piano di interventi in buona parte condivisibili purché si rivelino tempestivi e concreti. Non possono passare inosservati gli appelli di ‘Ristretti Orizzonti’ sulle morti avvenute negli istituti penitenziari nel solo mese di novembre, né che in alcuni di essi, come a Pordenone, i reclusi siano quasi il doppio rispetto alla capienza prevista. La situazione - hanno concluso - appare sempre più ingestibile, ma sulle carceri non si può mettere il cartello "tutto esaurito".

 

La situazione carcere per carcere

 

A Nordest c’è chiaramente un problema di sovraffollamento delle carceri. Nel solo Veneto, a una capienza ufficiale di 1.917 detenuti (i dati sono quelli istituzionali del ministero della Giustizia) fa riscontro una popolazione effettiva (aggiornata al primo semestre del 2008) di 2.826 carcerati. La maggior parte (1.461) sono imputati in attesa di giudizio.

Una vera e propria emergenza, peraltro non nuova, a cui ora si aggiunge il caso-Padova con la lettera inviata dall’amministrazione penitenziaria e recapitata ieri al Procuratore della repubblica Mario Milanese. Quanto si legge è da un lato la conferma della "situazione di sovraffollamento estremo della casa circondariale" del capoluogo euganeo e "impossibilità allo stato di garantire situazioni di isolamento giudiziario". Dall’altro, l’allarmata lettera ufficiale aggiunge -seppure fra le righe- una nota dolente inedita: a Padova non si sa più dove mettere i detenuti e forse è consigliabile non fare scattare troppo spesso le manette.

"Informo che negli ultimi giorni la situazione di estremo sovraffollamento della casa circondariale ha raggiunto punte mai toccate in precedenza", così esordisce la comunicazione della dirigenza degli istituti di prevenzione e pena. Nel 2007 la casa circondariale, che accoglie i detenuti in attesa di giudizio, è stata oggetto di un intervento di ristrutturazione (non ancora iniziata), con la conseguente chiusura dei vecchi reparti detentivi. Morale, l’attuale disponibilità è di 35 celle, con una capienza regolamentare di 98 reclusi, che può diventare tollerabile fino ad un massimo di 133 ospiti. Ma i detenuti sono lievitati all’inverosimile: 216 presenze. Di qui l’allarme lanciato dall’amministrazione. "Pur in presenza di un incessante impegno del Provveditorato Regionale nello sfollare ogni settimana - ormai da più di un anno e mezzo - numeri sempre più elevati di detenuti verso altre sedi penitenziarie del triveneto, l’aumento costante degli ingressi giornalieri e la diminuzione percentuale delle scarcerazioni hanno reso la situazione ai limiti della gestibilità".

E così si è arrivati a trasformare il "Due Palazzi" in una sorta di bivacco: materassi per terra non essendoci "materialmente" più spazio per collocare le brande, che sono tutte a tre piani. E chi ha il "privilegio" della cella non sta molto meglio. Una condizione che ricorda i Paesi del sudest asiatico: in ogni cella sono stipati 8 o 9 detenuti, costretti praticamente neanche a muovere un dito e a bivaccare sdraiati sul pagliericcio. "Non è quindi possibile liberare neppure un cella da destinare ad eventuale detenuto isolato". E si arriva così al grottesco: "Rappresento inoltre che nelle ultime ventiquattro ore il numero degli arrestati è stato addirittura di 14, cifra assolutamente non gestibile per le dimensioni della casa circondariale, già gravemente oltre i limiti tollerabili". Insomma, paradossalmente si potrebbe interpretare la lettera con un "invito" a non arrestare. Almeno non troppo.

E Padova non è certo un caso isolato. Torniamo alle statistiche del ministero. Casa circondariale di Treviso: capienza regolamentare 128; detenuti presenti 255 e ad oggi ancora di più come si vedrà. Rovigo, 66 il livello regolamentare, 97 quello effettivo, numero ormai lievitato a oltre 100 unità. E Belluno, carcere di massima sicurezza che ha ospitato boss del calibro di Raffaele Cutolo, è tornato al livello di guardia: sono 140 le persone mediamente detenute contro una capienza di 100 che s’incrementa a 142 grazie a una quota di tollerabilità. Superata anche quella, stando ai dati di fine novembre.

E se il capoluogo polesano attende per il 2010 la consegna del nuovo carcere, a Pordenone del promesso "sostituto" del Castello si sono proprio perse le tracce. E così il sindaco Sergio Bolzonello è sulle spine per quanto dovrà leggere nel rapporto degli ispettori dell’Asl 6 reduci da un monitoraggio nella casa circondariale cittadina effettuata la settimana scorsa.

Il problema principale anche qui è naturalmente il sovraffollamento con l’aggiunta - nel caso di Pordenone - di dovere fare i conti con un edificio del XIV secolo. Infatti, dicono tra l’altro le indiscrezioni che circolano nel palazzo comunale, l’eccessivo numero di detenuti impone ai detenuti di trascorrere gran parte della giornata all’interno della cella aumentando in questo modo la diffusione di malattie infettive. E si parla addirittura di chiusura. Secondo le statistiche del ministero a Pordenone (sempre nel primo semestre dell’anno in corso) erano presenti 74 persone (56 in attesa di giudizio) contro le 53 regolamentari.

Nelle cinque case circondariali del Friuli-Venezia Giulia su un totale "regolamentare" fermo a 551 posti disponibili, la popolazione carceraria effettiva era a fine giugno di 707 persone.

E sovraffollato sono anche le virtuose province autonome di Trento e Bolzano. Nel capoluogo sudtirolese il ministero ci dice che ci sono 119 detenuti contro una disponibilità per soli 108. Più a sud, Trento e Rovereto non sono da meno con sforamenti più consistenti nella casa circondariale nella cittadina più meridionale della regione a statuto speciale.

Il sovraffollamento è una piaga storica delle nostre carceri. E il problema si "risolve" periodicamente con provvedimenti come l’indulto escogitato ormai più di due anni fa. Un indulto eccezionale: non i soliti due anni bensì tre anni tondi tondi. Battaglie politiche, minacce, colpi di scena e oggi ci risiamo. Anzi, alla luce di quanto sta accadendo a Padova, la prospettiva è peggiorata. Uscirono di galera in migliaia con lo sconto di tre anni praticamente su qualunque reato avessero commesso (rimanevano fuori mafia, stupri, usura e poco altro).

Prendiamo il caso di Treviso. Allora c’erano 276 detenuti, a fronte di una capacità ricettiva giudicata da "vivere civile" di 134. Erano, in pratica, il doppio. A fine novembre scorso erano in 295, ventisette più del doppio. Al "Santa Bona" ci sono celle in cui convivono anche tredici detenuti assieme con un solo bagno alla turca. E poi c’è naturalmente anche il problema della sorveglianza, del personale di Polizia penitenziaria. Una questione che trova il capoluogo della Marca in buona compagnia, praticamente con tutte le realtà italiane. Il segretario provinciale per Treviso del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria Mauro Scipioni, che è anche ispettore capo della Polizia penitenziaria, spiega altri punti dolenti di una situazione già pazzesca. "Una volta il trasporto dei detenuti ai Tribunali lo effettuavano i Carabinieri; ora andiamo noi anche a Venezia. Un tempo le notifiche non spettavano a noi; oggi dobbiamo farlo "tanto i detenuti sono in carcere". Non è vero; molti sono ai domiciliari: tempo e mezzi sono enormi. Sarebbe il meno - continua Scipioni - se avessimo gli organici completi, ma a Treviso manca circa il 35% del personale".

 

Agenti di polizia penitenziaria sotto organico

 

Agenti di polizia penitenziaria sotto organico nelle carceri del Nordest dove, a fronte di una pianta organica complessiva di 2.740 unità, se ne contano solo 2.177. Contemporaneamente il sovraffollamento degli istituti di pena ha raggiunto picchi superiori a quelli registrato prima dell’indulto. Le 17 carceri, a fronte di una capienza complessiva di 2.530 posti, sono stipati da oltre 4mila detenuti. Inoltre le strutture sono spesso vecchie e cadenti, talvolta ricavate in edifici inadatti e in genere poco curate, nonostante un detenuto costi circa 150 euro al giorno alla collettività (dato elaborato da Ristretti Orizzonti, rivista del carcere di Padova, basandosi sul bilancio dell’amministrazione penitenziaria).

Un mix esplosivo che induce i rappresentanti delle varie sigle sindacali della polizia penitenziaria a lanciare un allarme bipartisan sui rischi di evasioni e contagi di malattie infettive che potrebbero trovare negli istituti di pena un brodo di coltura ideale. Comprese malattie da anni debellate in Italia ma presenti nelle nazioni di origine di molti detenuti stranieri, che rappresentano oltre la metà della popolazione carceraria del Nordest. Mentre quasi mille sono i detenuti tossicodipendenti.

I tagli previsti dalla manovra economica triennale (più nota come decreto Brunetta) per il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ammontano a 133 milioni di euro su scala nazionale Altri 70 milioni di euro vengono decurtati dalle spese per l’edilizia, destinate in grossa parte agli istituti penitenziari. Tra l’altro dei 480 psicologi impiegati nelle 205 carceri italiane ne rimarranno solo 16. Tagli che a Nordest, si legge in un documento della Fp-Cgil Veneto (sindacato della polizia penitenziaria associato alla Cgil) porteranno a "rischi di deriva dai pericolosi effetti e dalle gravi ripercussioni".

Il che vuol dire, traducendo dal sindacalese: "Aumento del rischio di evasioni e del rischio di epidemie che potrebbero trovare negli istituti di pena un focolaio scandisce l’ispettore Giampietro Pegoraro, coordinatore veneto di Fp-Cgil - peggioramento netto delle già pesanti condizioni di lavoro degli agenti, condizioni di vita ancora più disumane dei detenuti".

Un giudizio confermato dagli iscritti a una sigla di tutt’altro colore politico. "Il rischio evasioni è presente soprattutto durante i trasferimenti, realizzati sempre sotto organico ribadisce l’ispettore Ignazio Siracusa, segretario nazionale Uspp-Ugl mentre, con i tagli alla sanità carceraria e i continui trasferimenti di detenuti presso le strutture ospedaliere esterne, aumenta anche il rischio di contagi di malattie da anni scomparse in Italia ma ancora presenti nei luoghi di origine di molti detenuti".

E per quanto riguarda gli agenti della Polizia penitenziaria, questi sono ormai da anni sotto organico. Attualmente, rispetto alla pianta organica, ne manca il 20% ma "la scarsità del personale è ancora più pesante di quanto dicono i dati in quanto non tengono conto della presenza di dirigenti o di graduati secondo Siracusa in pratica in alcune strutture si registrano gravissime penurie di quadri intermedi, tanto che ci sono situazioni in cui ci sono più dirigenti che ispettori". E i vuoti nel personale sono destinati ad allargarsi.

Sicilia: presto competenze sulla Sanità penitenziaria a Regione 

 

Asca, 19 dicembre 2008

 

Verrà istituito in tempi rapidissimi un tavolo tecnico che dovrà affrontare tutti i problemi legati al passaggio delle competenze sulla medicina penitenziaria dal governo nazionale al sistema sanitario regionale. Il governo regionale inoltre solleciterà allo Stato la nomina della commissione paritetica, prevista dall’articolo 43 dello Statuto della Regione Siciliana, che dovrà recepire il Dpcm del primo aprile 2008 sulla materia.

È questo l’esito di un primo incontro che si è svolto oggi tra l’assessore regionale alla Sanità, Massimo Russo, e una delegazione composta dal deputato regionale Giovanni Greco (che sull’argomento ha già presentato interpellanze all’Ars) dal rappresentante del garante dei diritti dei detenuti per la Sicilia, Lino Buscemi, dall’esperto di problematiche sanitarie penitenziarie, Fabrizio Scalici, e dal rappresentante siciliano del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) Francesco Lupoli. "L’obiettivo di questa prima riunione operativa - ha commentato l’assessore Russo - è quello di attivare tutti i meccanismi tecnici per trasferire alla Regione, in tempi necessariamente brevi, funzioni, compiti, risorse umane, finanziarie e organizzative che assicurino la normale erogazione dei servizi a tutela della salute delle persone private della libertà personale. Intendo prestare molta attenzione a questa materia perché il diritto dei detenuti a una adeguata assistenza sanitaria sia un elementare fondamento di civiltà". Nel frattempo, in attesa che vengano espletate tutte le procedure burocratiche, l’assistenza sanitaria penitenziaria continuerà ad essere garantita dal governo nazionale che ha previsto un apposito stanziamento.

Emilia Romagna: "dentro-fuori", un vademecum in sei lingue

 

Sesto Potere, 19 dicembre 2008

 

Dentro fuori: informazioni sul carcere" vademecum tradotto in sei lingue. Un progetto del Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna e dell’associazione Giuristi Democratici, con cofinanziamento della Regione Emilia-Romagna.

"Parla" inglese, francese, spagnolo, arabo, albanese e serbo-croato - oltre all’italiano - il manuale "Dentro fuori: informazioni sul carcere", frutto di un progetto del Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, dell’associazione Giuristi Democratici, con la collaborazione del Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria.

"Dentro fuori: informazioni sul carcere", prodotto con un cofinanziamento della Regione e del Comune, vuole essere un contributo per agevolare i detenuti nella comprensione delle leggi e delle regole che disciplinano il regime penitenziario. Ma è utile anche per chi opera in carcere: a questo scopo viene inviato alle associazioni di volontariato penitenziario della Regione, che lo utilizzano e contribuiscono alla sua divulgazione.

"Le persone detenute in carcere, soprattutto gli stranieri, fanno difficoltà a comprendere la realtà che le circonda - sottolinea l’assessore alle Politiche sociali della Regione Anna Maria Dapporto - . Non riescono spesso a esercitare i diritti che l’ordinamento riconosce, e non vengono a conoscenza di opportunità di studio, formazione, lavoro. Alla privazione della libertà personale non si deve però accompagnare la perdita di altri diritti, tra cui quello di sapere ed essere informati".

Le prime ore da detenuto, la nomina del difensore. Le norme di comportamento, i trasferimenti. I colloqui, le telefonate. La posta, l’alimentazione, la formazione. Le misure alternative alla detenzione. In sei capitoli, un vademecum come "Dentro fuori: informazioni sul carcere" accoglie le indicazioni contenute nella circolare del 2007 "Detenuti provenienti dalla libertà: regole di accoglienza. Linee di indirizzo" del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, in cui si legge: "Sia al momento dell’ingresso che per tutta la durata della detenzione al detenuto deve essere data la possibilità di consultare liberamente materiale informativo cartaceo sui servizi offerti nell’istituto e sui diritti che egli conserva in stato di detenzione".

L’associazione Giuristi Democratici di Bologna ha tradotto la pubblicazione - stampata all’interno della Casa circondariale di Bologna dalla tipografia "Il profumo delle parole" - in sei lingue straniere, quelle più rappresentate negli istituti penitenziari della Regione (inglese, francese, spagnolo, arabo, albanese e serbo-croato). I manuali in italiano sono già stati distribuiti in tutti gli istituti penitenziari della Regione; attualmente sono in fase d’invio le traduzioni in lingua straniera.

Veneto: tagli ai fondi per il sociale, protestano le Associazioni

 

Comunicato stampa, 19 dicembre 2008

 

Noi organizzazioni del Privato Sociale del Veneto operative in ambito di grave emarginazione sociale esprimiamo forte preoccupazione e delusione rispetto alle decisioni annunciate dalla Regione Veneto di procedere ad un pesante taglio, per il prossimo ed i successivi tre anni, della spesa per le Politiche Sociali. Ci colpisce l’azzeramento totale dei già modesti capitoli di spesa per le vittime della tratta di esseri umani e la povertà estrema, così come il pesante taglio alle azioni rivolte a minori, tossicodipendenti, disabili, giovani.

Con ciò si distrugge un lavoro paziente portato avanti negli ultimi dieci anni, di collaborazione e sacrificio, anche da parte di numerose organizzazioni del Privato Sociale. Un lavoro che ha permesso di aiutare migliaia di persone ad uscire dal buio dell’emarginazione. Un lavoro che ha permesso di restituire dignità a persone che, nell’abuso e nello sfruttamento, hanno visto ridotti a zero i propri diritti di esseri umani. Un lavoro che ha visto crescere un patrimonio di esperienze e competenze, umane e professionali. Un lavoro che nella difficoltà delle zone più crude delle città del Veneto è continuato nel silenzio e lontano dai riflettori della politica. Ed un lavoro che, attraverso il reinserimento sociale di persone in difficoltà, ha contribuito a moderare la sensazione di insicurezza dei cittadini, cresciuta negli ultimi anni proprio a causa della sempre maggior visibilità dei fenomeni di emarginazione nelle nostre città.

Ci appelliamo a tutte le persone di buona volontà, politici e cittadini, sensibili ai valori della solidarietà, dell’accoglienza e dell’aiuto verso chi è stato meno fortunato per sostenere la richiesta al Presidente Galan ed all’Assessore Valdegamberi di un ripensamento su tale nefasta decisione.

 

Associazione Mimosa

Equality Cooperativa Sociale

Firenze: Uil; l'Opg è una struttura indegna, per un paese civile

 

 

www.gonews.it, 19 dicembre 2008

 

Eleuterio Grieco, Coordinatore Provinciale e della Uil Pubblica Amministrazione Penitenziari e componente della segreteria regionale, intervistato a poche ore dalla visita dell’Opg di Montelupo Fiorentino con una sua delegazione, commenta così:

"Quanto abbiamo visto oggi deve trovare inevitabilmente una discussione a vari livelli che affronti le problematiche della struttura dell’Opg di Montelupo Fiorentino, in quanto attualmente a nostro avviso non è né un carcere né un ospedale. Ci sono 184 detenuti stipati all’ammasso e in condizioni igienico sanitarie da terzo mondo.

Il personale di Polizia Penitenziaria che effettivamente presta servizio nella struttura è di 89 unità, a fronte di 103 circa previste unilateralmente dal Dap, a nostro avviso insufficienti, atteso che essi hanno carichi di lavoro sproporzionati oltretutto sono obbligato ad effettuare turni massacranti e attualmente sono allo stremo delle energie psico-fisiche. Personale costretto a lavorare in postazioni di lavoro fatiscenti e sotto l’acqua che offendono la dignità umana di in un paese che si reputa evoluto.

La necessità di sfollare l’istituto a nostro avviso è solo una delle urgenti priorità, poiché - continua Grieco - la struttura è insalubre e fuori norma su tutti gli aspetti e necessità di un recupero strutturale sostanzioso atteso che numerose parti della struttura (1° Sezione, Paglionaia, Magazzino casellario detenuti, Spazio t; Reparto Torre, Muro di cinta, garitte, 2° Sezione Ambrogiana, caserma agenti, sala convegno, etc.) si presentano degradate ed in condizioni igienico-sanitarie paurose, con infiltrazioni di acqua ed evidenti crepe con annesse puntellature e senza interdizione delle aree come il magazzino casellario detenuti e la vecchia falegnameria.

Tutta l’impiantistica elettrica non è a norma, non una cassetta di pronto soccorso, come non vi è un sistema antincendio funzionante, nell’intercinta lato Arno vi è una vera e propria foresta con canneti alti più di tre metri, vi sono vere e proprie discariche a cielo aperto e ammassi di materiale dappertutto, la struttura è molto dispersiva per poter raggiungere le sezioni bisogna percorrere viali scoperti, sterrati e fangosi e senza luci come senza illuminazione si presenta la cinta muraria. Una cosa che colpisce e che pur avendo 7 (sette) centrali termiche la struttura in questi giorni era ghiacciata.

Aggiunge il Coordinatore Provinciale a Montelupo Fiorentino scarseggiano i più elementari strumenti necessari ad una struttura penitenziaria, ad esempio un sistema di videosorveglianza e una sala regia. La tecnologia che potrebbe garantire condizioni di lavoro al personale nei canoni della civiltà è utopia a Montelupo Fiorentino. Cosa che coglie nel segno è che ogni postazione di lavoro visitata si presenta nell’arredamento in modo indecoroso per un’immagine di una pubblica amministrazione.

Il nucleo traduzione attualmente presenta anch’esso una forte carenza di risorse umane ed il personale oltre ad effettuare numerose ore di lavoro straordinario è costretto a viaggiare su alcuni mezzi obsoleti.

In questi mesi sempre più spesso si continua parlare di nuove carceri e/o ristrutturazioni per reperire posti, è su questo aspetto che la Uil è ancora più critica poiché ha visitato anche la sezione del "Reparto Arno" ristrutturata (solo a metà) all’incirca un anno fa, costata migliaia di euro e dove attualmente vi sono infiltrazioni di acqua e chi le ha concepite però non ha pensato di installare né un sistema di areazione per il fumo passivo (problema annoso all’Opg); né una postazione di lavoro dignitosa per il personale operante, né un sistema antincendio, né un sistema di video-sorveglianza e di allarme, né una cablatura, né tanto meno un cancello automatizzato etc.

Però sono state previste ed installate lampade nelle celle di ultima generazione del costo cadauno di euro 18,00 e rubinetteria a pressione che però oggi, pur, essendo rotte/i alcune li di esse/i non si sostituiscono per carenza fondi... oltre tutto risultano essere state riaperte alcune celle della sezione non ristrutturata che sono una vera insensibilità verso l’essere umano.

Aggiunge polemicamente il Coordinatore della Uil Pa Penitenziari: "Nelle scorse settimane si è parlato tanto del problema Opg Montelupo Fiorentino da parte di chi non ha nessuna competenza sul territorio Montelupino. Noi non diamo opinioni sulla vicenda denunciata poiché siamo fiduciosi della magistratura, però sarebbe fondamentale che anche i garanti dei detenuti abbiano un ambito specifico di competenze nonché responsabilità essendo essi remunerati con fondi dei cittadini nello specifico quelli fiorentini.

L’Opg attualmente come è ridotto è la prova del disimpegno totale dell’amministrazione penitenziaria ai vari livelli ed allo stato riteniamo urgente e doveroso che si discuta sulle questioni vere e non si facciano scorribande verbali con annesse ipotesi astratte, noi non intendiamo partecipare a futili e inutili discussioni per non risolvere l’esistente chiediamo invece che l’amministrazione penitenziari debba far sentire la propria voce al fine di garantire condizioni lavorative e detentive alle persone ristrette nei canoni emanando al più presto linee programmatiche affinché l’Opg sia più ospedale che carcere e che garantisca riabilitazione e rieducazione. Come chiediamo che assegni al più presto un dirigente ed un funzionario alla struttura dell’Opg che diano continuità alla gestione, specialmente in questa fase critica di passaggio dalla medicina penitenziaria all’Asl 11 di Empoli essendo esso peculiare rispetto ad un istituto penitenziario".

Un invito ai vertici dell’azienda Usl 11 e regionali ed ai politici dalla Uil Pa Penitenziari: "Voglio credere che la visita all’Opg di Montelupo Fiorentino del giorno 16 dicembre non sia stata una defilé, ma costituisca la base di accertamenti su cui edificare soluzioni possibili anche quella di una nuova struttura sul territorio". Conclude Grieco che a giorni il coordinamento elaborerà un documento specifico su quanto constatato all’interno dell’Opg di Montelupo Fiorentino inviandolo alle autorità competenti".

Ferrara: il Garante; riconoscere ai detenuti i diritti dei cittadini

 

La Nuova Ferrara, 19 dicembre 2008

 

"Ai detenuti devono essere riconosciuti gli stessi diritti, ad esclusione della libertà personale, dei quali godono i liberi cittadini". A dirlo è Federica Berti, nominata da quasi un anno dal Comune e Provincia, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. In un convegno organizzato ieri presso la residenza municipale, la Garante ha fatto il punto della situazione: "La mia figura - prosegue Federica Berti - ha il compito, attraverso colloqui all’interno della casa circondariale, di segnalare le criticità dei detenuti".

Per questa ragione è fondamentale il dialogo con chi è privato della libertà personale, che attraverso la figura del Garante, può ricostruire un rapporto anche con il territorio. Il Garante, che esercita la sua attività in via Fausto Beretta, relazionerà a marzo, a Comune e Provincia, il contenuto di un anno di attività. "Le due amministrazioni - ha concluso Maria Giovanna Cuccuru assessore alla salute del Comune - hanno scelto di dotarsi di un Garante per i detenuti per valorizzare le attività che vengono svolte in loro favore e conoscere i loro problemi".

Padova: la Casa Circondariale scoppia, 216 detenuti in 98 posti

 

Il Mattino di Padova, 19 dicembre 2008

 

Non c’è mai limite al peggio. Alla Procura di Padova è arrivata una segnalazione preoccupante sulla situazione di "sovraffollamento estremo della Casa circondariale di via Due Palazzi". Un’emergenza che ha raggiunto "punte mai toccate in precedenza". Nonostante la ridotta capienza di questa struttura penitenziaria, in conseguenza della chiusura nel 2007 dei vecchi reparti detentivi in attesa dei previsti lavori di ristrutturazione, si sono raggiunte 216 presenze, a fronte di una capienza regolamentare di 98, e con una tollerabilità massima di 133.

I 216 detenuti vengono distribuiti così "su un totale di sole 35 celle". Pur in presenza di un costante impegno del provveditorato regionale nello sfollare numeri sempre più elevati di detenuti verso altre destinazioni del Nordest, l’aumento degli ingressi giornalieri e la diminuzione delle scarcerazioni rendono la situazione ai limiti della tollerabilità. E si stanno già predisponendo "materassi da porre a terra, non essendoci più spazio dove appoggiare le brande, tutte a tre piani". Diventa pertanto impossibile "garantire lo stato di isolamento giudiziario".

Nelle 35 celle disponibili, quelle singole sono occupate da tre persone, mentre quelle da 4 ospitano 8-9 soggetti che "praticamente non hanno spazio per muoversi". Diventa quindi impossibile liberare almeno una cella da destinare all’eventuale detenuto isolato. Alcune sere fa un italiano arrestato su disposizione della Procura di Trento, pur isolato, è stato "ubicato con altri due extracomunitari, dopo aver informato il magistrato procedente". Nelle ultime ore gli arresti stati addirittura 14: un numero giudicato "assolutamente non gestibile" rispetto alle strutture a disposizione.

Cagliari: Is Arenas; nuove proteste della Polizia penitenziaria

 

La Nuova Sardegna, 19 dicembre 2008

 

Grave e drammatica situazione di disagio e malessere per gli agenti di polizia penitenziaria della Casa di Reclusione di Is Arenas, che tornano ad annunciare iniziative di mobilitazione e dello stato di agitazione. La denuncia, presentata alle autorità competenti con in testa il ministro della Giustizia Angelino Alfano, giunge dalla Cgil Funzione Pubblica Polizia Penitenziaria che già in passato aveva più volte stigmatizzato le condizioni in cui sono costretti a operare gli agenti della struttura carceraria di Is Arenas, salita negli anni scorsi alla ribalta della cronaca nazionale per essere diventata nel periodo estivo suggestiva dependance vacanziera (l’istituto di reclusione è incastonato fra le dune e il mare di Piscinas e di Scivu) dell’allora ministro di Giustizia Roberto Castelli, con familiari e nutrita scorta a seguito.

Dunque, nuova protesta su vecchi problemi, che con l’andare del tempo e perché mai risolti non fanno altro che acuirsi. Lungo l’elenco delle rimostranze che il segretario territoriale Cgil-Fp Polizia penitenziaria, Sandro Atzeni, ha presentato nell’esposto agli organi superiori. Primo l’organico insufficiente: 81 agenti, sui novantuno previsti in organico, a far la guardia a 170 detenuti. Ciò significa che per ogni turno, tenuti fuori dalle disponibilità i riposi, le assenze per malattia, permessi legge 104, congedi parentali, traduzioni e piantonamenti, gli agenti realmente in servizio sono una ventina, spesso neppure.

E allora scattano le disposizioni di servizio con turni continuativi massacranti e il personale costretto a coprire più posti e funzioni diverse. Ma nella struttura penitenziaria ci sono diverse altre gravi lacune che vanno a ricadere esclusivamente sugli agenti, oltre tutto orfani a Is Arenas di un direttore presente stabilmente nell’istituto, nato come colonia penale e tutt’ora con numerosi detenuti che svolgono attività lavorative all’interno della vastissima area penitenziaria. Giusto per citarne qualcuno, i detenuti pastori escono la mattina presto e tornano nel corpo centrale solo il pomeriggio, rimanendo pertanto molto tempo custodi di se stessi.

La sezione degli agenti a cavallo, adatti per vigilare nel territorio, è sguarnita perché gli stessi devono vigilare nelle sezioni detentive. È convinzione pressoché generale che proprio dalle zone di confine prive di adeguata sorveglianza entrino nel carcere considerevoli quantitativi di droga poi girano regolarmente fra i detenuti, in buona percentuale tossicodipendenti. "I problemi sono tanti e gravi - sostiene Sandro Atzeni -, compresi quelli di carattere igienico e sanitario sui posti di lavoro. Se non arriveranno segnali tangibili dall’amministrazione carceraria scenderemo in piazza".

Droghe: alcol al volante… lo Stato "etico" non crea sicurezza

di Salvatore Carrubba

 

Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2008

 

La proposta di vietare del tutto il consumo di alcolici a chi intenda mettersi alla guida non mi convince. Non appartengo ad alcuna associazione di alcolisti anonimi, ma noto come manchi qualunque evidenza che il consumo di un semplice bicchiere di birra sia pericoloso per la guida.

I numerosi incidenti mortali, che giustamente colpiscono l’opinione pubblica, sono stati e continuano a essere provocati da conducenti ubriachi che avevano superato e superano di gran lunga i limiti attualmente stabiliti dalla legge, che dunque sono del tutto credibili. Possiamo facilmente immaginare che cosa succederebbe se la proposta di bando assoluto fosse approvata: sindaci in cerca di pubblicità, e d’introiti, sguinzaglierebbero i vigili urbani fuori da ristoranti e bar per colpire indiscriminatamente chi abbia bevuto un bicchiere; distogliendo quelle forze dell’ordine da controlli sulle strade, necessariamente più complessi per individuare e cogliere chi sia davvero ubriaco e quindi veramente pericoloso.

Incoscienti e criminali continuerebbero a bere, così come grassatori e assassini continuano a rapinare e uccidere, nonostante gli assoluti divieti del codice penale. Sono sicuro che allora, dinanzi alla triste e perdurante realtà degli incidenti mortali, qualcuno ne penserebbe un’altra, magari di controllare quanto si mangi, per evitare i fatali rischi derivanti da sonnolenza post-prandiale.

Non è uno scenario assurdo, ma la conseguenza della pretesa fatale di regolamentare tutto e dell’illusione dannosa di estirpare per legge qualunque fonte di pericolo. Si dirà che un possibile vantaggio per la salute comune meriti pure qualche sacrificio individuale: in caso contrario, nemmeno il semaforo sarebbe accettabile. È ovvio che sia così. Ma in questo caso il sacrificio risulterebbe del tutto inutile, posto che un bicchiere non costituisce alcun pericolo e dunque colpirebbe proprio chi si comporta responsabilmente. È assai più probabile che il bando all’alcol risponda all’esigenza del legislatore di mettersi facilmente a posto la coscienza (e magari di farsi un po’ di pubblicità).

La sicurezza sulla strada va perseguita non alzando in continuazione l’asticella dei divieti e dei limiti, ma ponendo regole di buon senso che tuttavia devono poi essere fatte rispettare rigidamente. Non c’è nulla di peggio per il legislatore, e per la sua credibilità, che emanare "grida" che poi vengano puntualmente trascurate o che si rivelino del tutto inefficaci (soprattutto se inutili). In questo caso, la conseguenza quasi certa sarebbe la sanzione a chi mantiene comportamenti meno pericolosi e più responsabili dei criminali autentici che, con l’attuale regime di controlli, continuerebbero a farla franca.

Sarebbe invece assai più urgente mettere le forze dell’ordine nella condizione di pattugliare meglio le strade e di aumentare la soglia della repressione dei comportamenti effettivamente pericolosi. A quel punto, la legge apparirebbe credibile, e l’incentivazione a rispettarla assai più forte.

Non solo: le norme già vigenti (e in gran parte disattese) impongono di investire una quota rilevante dei proventi da multe nella sicurezza stradale. Il soggetto pubblico dovrebbe dunque cominciare a svolgere efficacemente il proprio mestiere, che è quello di far rispettare le leggi che pone agli altri e gli obblighi che prevede per se stesso. Si dirà che le condizioni dei bilanci pubblici non lasciano molti margini per l’azione. E allora questo è il problema, che è inutile camuffare trasformando lo Stato "guardiano", nel quale tutti speriamo, in Stato "etico", di cui in molti diffidiamo.

Francia: denunciata violazione dei diritti umani nelle carceri

 

Ansa, 19 dicembre 2008

 

"Vergogna", "La repubblica indegna", "Zone di non-diritto": denunciata sulle prime pagine dei giornali francesi la violazione dei diritti umani nelle carceri e nei centri di accoglienza degli immigrati clandestini. Ogni anno il Consiglio d’Europa denuncia le condizioni inaccettabili che incontrano i sans papiers: stavolta la denuncia sulla Francia arriva dal Consiglio di Stato francese, che ricorda i doveri delle amministrazioni penitenziarie in materia di diritto e ha presentato sette nuove decisioni riguardo le condizioni di detenzione dei prigionieri.

I quotidiani "Le Monde" e "Liberation", parlano oggi di trattamento "disumano" che la Francia riserva a queste categorie tra le più deboli e indifese della società proponendo ai lettori due casi "vergognosi" e "indegni" per la repubblica: il carcere di Fleury-Merogis, nella banlieue a sud di Parigi, e il centro d’accoglienza degli immigrati clandestini di Pamandzi nelle isole Mayotte, uno dei territori d’oltremare francesi nell’oceano indiano.

"Vergogna", titola "Liberation" il suo editoriale, pubblicando sul sito internet alcuni minuti di un reportage fatto lo scorso ottobre nel centro di accoglienza degli immigrati clandestini di Mayotte: abilitato a ricevere 60 persone, quel giorno ne aveva 220, tutte ammassate, per terra. Uomini, donne e bambini mescolati. Igiene inesistente. Secondo la Commissione nazionale di deontologia della sicurezza qui "le condizioni di vita offendono la dignità umana", soprattutto quella dei minori, e "il diritto delle persone non è rispettato".

La situazione dei carcerati di Fleury-Merogis non è migliore, come mostrano alcuni estratti del film documentario dei registi Karim Bellazaar e Omar Dawson pubblicati in anteprima sul sito internet di "Le Monde". Docce piene di rifiuti abbandonati, pareti scrostate e tappezzate di muffa verde, infiltrazioni, celle buie e sovraffollate (3.900 detenuti per 2.800 posti), condizioni di prigionia disumane.

Le prigioni in Francia presentano gravi problemi di sovraffollamento - 63.185 detenuti, a fronte di una disponibilità inferiore ai 51 mila posti - e i suicidi e i tentativi di suicidio si moltiplicano. In totale circa 90 detenuti si sono tolti la vita dall’inizio di quest’anno, con un aumento del 18% rispetto allo stesso periodo del 2007, secondo l’Osservatorio internazionale delle carceri

Usa: il Pentagono prepara il piano per chiudere Guantanamo

 

Ansa, 19 dicembre 2008

 

Il ministro della Difesa Usa, Robert Gates, ha chiesto al Pentagono di mettere a punto piani per la chiusura del carcere di Guantanamo, ha annunciato il portavoce del Pentagono Geoff Morrell. La chiusura di Guantanamo è tra le promesse elettorali del presidente eletto Barack Obama che ha confermato Gates all’incarico di ministro della Difesa.

Il problema della chiusura di Guantanamo è però quello di trovare una sistemazione ai circa 250 detenuti, ancora ospiti del carcere nella base militare Usa sull’isola di Cuba. A quanto si dice, nell’insolito pranzo che Bush offrirà a Obama invitando i precedenti presidenti, (Jimmy Carter, Bill Clinton e suo padre George Bush senior, che di solito si incontrano solo ai funerali), Guantanamo sarà uno dei temi "caldi", insieme alle altre pesanti eredità, dalle guerre in Iraq e Afghanistan alla sfida planetaria contro il terrorismo, dalla grave crisi economia al compito di ripristinare l’immagine dell’America nel mondo. E intanto sul carcere nel territorio di Cuba, sulla sua illegalità diffusa, persino sulle sevizie, trapelano continuamente notizie.

Il quotidiano spagnolo "El Pais" nell’edizione di giovedì ha pubblicato in apertura nuove indiscrezioni sui voli della Cia che trasferivano segretamente sospetti terroristi a Guantanamo, facendo scalo in svariati aeroporti europei. Il governo di Josè Maria Aznar - scrive "El Pais" - autorizzò espressamente gli Stati Uniti a fare atterrare gli aerei della Cia in Spagna, con una decisione presa l’11 gennaio 2002. Ufficialmente, "istanze politiche hanno autorizzato i voli americani diretti a Guantanamo a fare scalo in Spagna".

Soprattutto, però, nelle ultime ore Mustafa Ait Idir, uno dei cinque detenuti di origine algerina rilasciati da Guantanamo, ha raccontato all’agenzia France Presse la sua esperienza negli orrori del carcere militare statunitense. "Neanche il diavolo avrebbe saputo creare un luogo così tremendo - ha detto -, non si può immaginare quanto fosse terribile".

Idir - cittadino bosniaco, ritornato a Sarajevo due giorni fa dopo esser stato rilasciato martedì scorso - ha raccontato di essere stato interrogato e picchiato oltre 500 volte da carcerieri che utilizzavano anche gas lacrimogeni: "Le guardie avevano l’abitudine di arrivare in gruppi di sei o sette e di utilizzare spray col gas, è allora che iniziava il pestaggio", ha ricordato Idir, intervistato telefonicamente da France Presse. L’uomo era stato arresto alla fine del 2001 dalle autorità bosniache insieme ad altre cinque persone, accusate di voler preparare un attentato contro l’ambasciata degli Stati uniti a Sarajevo: nel gennaio del 2002 i sospetti erano stati trasferiti a Gauntanamo, dove uno di loro è ancora detenuto.

 

 

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