Rassegna stampa 4 agosto

 

Giustizia: il "tempo delle vacanze" e l’inferno dietro le sbarre

di Domenico Ciardulli

 

Aprile on-line, 4 agosto 2008

 

Sproporzione esistente tra popolazione carceraria, capienza e dimensioni delle strutture e organico effettivo impiegato: il tasso di suicidi rimane alto, forse è talmente alto e a suicidarsi non ci sono solo detenuti. La Uil ha comunicato che negli ultimi otto mesi si sono suicidati 15 agenti di Polizia Penitenziaria mentre negli ultimi tre mesi 75 loro colleghi sono stati aggrediti durante il servizio.

È tempo di vacanze, di sole, di mare. Molti cittadini evadono dalle città per staccare, per ricaricarsi. Ci sono altri tipi di cittadini per i quali l’estate non è sinonimo di vacanza ma di maggiore sofferenza. Si tratta dei cittadini reclusi nelle carceri italiane che sembrano stare su un altro pianeta per quanto sono distanti da noi, dai nostri pensieri. Il malessere del loro pianeta è decuplicato rispetto a quello di noi uomini liberi, che pur siamo immersi nella crisi economica e nella incertezza del nostro futuro.

A rendere spesso un inferno la vita di molti detenuti è la sproporzione esistente tra popolazione carceraria, capienza e dimensioni delle strutture e organico effettivo impiegato. Il tasso di suicidi nelle strutture penitenziarie rimane alto, forse è talmente alto che si preferisce non evidenziarne periodicamente i dati. Ma a suicidarsi non ci sono solo detenuti, la Uil ha comunicato che negli ultimi otto mesi si sono suicidati 15 agenti di polizia penitenziaria mentre negli ultimi tre mesi 75 loro colleghi sono stati aggrediti durante il servizio.

Qualche numero, a titolo di esempio, lo prendiamo al carcere di San Vittore di Milano, una struttura progettata nel 1865 e aperta nel 1879. Ha attualmente circa 1.481 detenuti a fronte di 800 posti di capienza, più del 150%. Spesso capita che i nuovi ingressi debbano trascorrere alcune notti in una sala d’attesa, di primo ingresso, con materassi per terra o letti di fortuna, in attesa che qualche altro detenuto venga scarcerato e liberi il suo posto in cella.

L’organico ufficiale del carcere di San Vittore è di circa 1.030 unità delle quali una metà circa risulta essere stata assegnata ad uffici e ad altri compiti. Della metà restante un buon 40% è assente per motivi vari (malattia, ferie, congedi..). Ad essere effettivamente in servizio dovrebbero essere attualmente non più di 300 agenti.

Già nel novembre scorso la Procura, chiudendo l’ennesima inchiesta sul suicidio di due detenuti a massimo rischio, aveva spedito al ministero della giustizia una relazione su che denunciava "l’evidente violazione dei diritti umani dei detenuti di San Vittore". A maggio scorso un altro suicidio ma, anche in questo caso, la Procura di Milano ha chiuso l’inchiesta denunciando il degrado del carcere: i reclusi subiscono "condizioni di detenzione non degne di un Paese civile". E ancora: "Il sovraffollamento e la cronica mancanza di mezzi rendono impossibile una reale ed efficace prevenzione dei suicidi".

Il vero problema,quindi, è che la stessa struttura del carcere non rispetta "l’incoercibile diritto" di ogni detenuto "di essere custodito in un ambiente che rispetti la sua dignità, oltre che la sua salute e sicurezza". Il direttore del carcere, Luigi Pagano, ha confermato "il sovraffollamento gravissimo soprattutto nel sesto reparto, che avrebbe 200 posti ma di fatto ospita da 400 a 500 detenuti".

Allo stesso direttore, al momento, non è rimasto altro che appellarsi al buon cuore dei cittadini per inviare aiuti (come i vestiti) alle associazioni di volontariato "Incontro e presenza", "City Angels", "Sesta Opera". Oppure a raccogliere le richieste di aiuto lanciate dai detenuti sul sito www.ildue.it.

Giustizia: "Gozzini" verso la rovina, ma almeno non stiamo zitti

 

Lettera alla Redazione, 4 agosto 2008

 

Tra le tante cose che il governo Berlusconi sta tentando di rovinare c’è la legge Gozzini, la legge che da anni regola il mondo penitenziario e che riguarda le misure alternative al carcere, le uniche che provano a dare una parvenza di trattamento rieducativo e di possibile reinserimento una volta fuori dalle strutture carcerarie e che pacifica anche, cosa non da poco, i rapporti tra agenti penitenziari e detenuti.

Il governo di destra, è ovvio, la vuole modificare in senso restrittivo e penalizzare ancor più chi ha sbagliato senza dare un minimo di speranza. La proposta di legge si discuterà verso settembre, sicuramente passerà come tutto il resto che già è passato, però il mondo che ruota intorno al carcere sta provando ad attivarsi e a raccogliere firme... quantomeno possiamo dire di non essere stati zitti.

Basta mandare una mail all’indirizzo di Ristretti Orizzonti (giornale che si occupa di tutto ciò che succede dentro e intorno al carcere fatto da detenuti ed ex) scrivendo il proprio nome e cognome e magari nell’oggetto mettere "adesione all’appello salva Gozzini". L’indirizzo è: redazione@ristretti.it... e fate girare l’appello via e-mail, ad amici e conoscenti.

 

Marco Fiorletta

Giustizia: il carcere, l’informazione... e il rispetto della dignità

 

www.centomovimenti.com, 4 agosto 2008

 

Un altro giovane detenuto di 22 anni è morto nei giorni scorsi nel carcere di Marassi (Genova). Il prossimo 4 settembre sarebbe ritornato in libertà...! Alla triste notizia vengono dedicate solo poche righe e non possiamo fare a meno di notare quanto assordante sia il silenzio che, solitamente, accompagna queste morti in cui teatro dell’evento è il carcere. Lo stato dei detenuti all’interno di esse e le morti sempre più frequenti ripropongono così molteplici interrogativi inquietanti: ma cosa accade in realtà nelle nostre carceri? Perché tante giovani vite finiscono così la loro esistenza? Parlarne non è davvero mai sufficiente!

Porgere la dovuta attenzione e la giusta considerazione alla vita dei detenuti all’interno delle carceri, nonché a tutte quelle morti per le quali spesso non viene fatta sufficiente chiarezza, serve a restituire ai detenuti quella dignità di persona, della quale vengono privati sin dall’inizio della detenzione, oltre a giovare, certamente, a scuotere la coscienza collettiva e far riflettere sulla necessità di trasformazione del regime detentivo nelle nostre carceri e sulla necessità di attuare interventi miranti all’integrazione e alla risocializzazione dei detenuti.

In verità, il nostro sistema carcerario, il cui modello non a caso è stato denominato dell’avvoltoio, mira a creare una profonda spaccatura tra il detenuto e la società, non tende alla risocializzazione e alla reintegrazione del detenuto in società e, lo priva della propria dignità personale. Per non parlare poi dell’errore giudiziale, che oltre a distruggere colui che lo subisce crea precedenti che, per di più, sono destinati a restare anche nella giurisprudenza.

Tutto ciò, in quanto si verte in materia di dignità personale, quella che al detenuto è negata dal suo ingresso in carcere, laddove egli in verità, smette di esser considerato una "persona" e come tale sarà percepito anche dalla società. E si comprende facilmente, che se si considera il detenuto "non umano", maltrattarlo, offenderlo, distruggerlo psicologicamente, spingerlo al suicidio o, persino ucciderlo, può sembrare quasi normale o banale... Il carcere è purtroppo un luogo di annullamento della persona e le conseguenze della detenzione sugli esseri umani sono devastanti.

Infiniti sono i torti che i detenuti subiscono all’interno delle carceri..., torti che mai potranno trovare adeguata riparazione e soddisfazione, proprio per il fatto che è in gioco la dignità personale, fondamentale tra i valori ed estremamente difficile da restituire a colui che ne è stato privato. Da non sottovalutare, poi, il c.d. danno da rimbalzo che si riverbera spesso sui familiari del detenuto...

Il detenuto è una "persona" e la sua dignità deve essere rispettata e tutelata e, conseguentemente, sempre auspicando una radicale trasformazione del metodo e delle modalità di gestione delle nostre carceri, non bisogna smettere di incentivare e accogliere gli interventi miranti alla risocializzazione e alla reintegrazione del detenuto in società e, soprattutto, non bisogna smettere di insistere sulla maggior considerazione che è dovuta al detenuto, in quanto "persona".

Giustizia: da oggi i soldati nelle città, sindacati di polizia critici 

di Vladimiro Polchi

 

La Repubblica, 4 agosto 2008

 

Davanti al Duomo e alla stazione centrale di Milano. Dentro il parco Stura a Torino. In via Anelli a Padova. Nella metropolitana della Capitale. Sotto il consolato americano di Napoli. Al quartiere San Pio di Bari. E poi davanti a tutti i centri per immigrati della penisola. I tremila militari della "missione Italia" sono pronti a prendere posizione: parà, granatieri, bersaglieri e alpini occuperanno questa mattina le principali città italiane. Tra loro, anche 32 soldatesse.

I compiti? Pattuglie miste e posti fissi. Ma sull’ordine pubblico affidato ai soldati, c’è chi applaude (la maggioranza), chi critica (l’opposizione) e chi liquida tutto come una "costosa operazione di facciata" (i sindacati del comparto sicurezza e difesa). A dieci anni dal termine dell’operazione "Vespri siciliani", tornano dunque i soldati tra le vie cittadine.

Il decreto che ne definisce il piano di impiego, firmato il 29 luglio dal ministro dell’Interno e da quello della Difesa, prevede una prima fase di sei mesi al termine della quale un comitato tecnico valuterà risultati ed eventuale proroga. Il costo per le casse pubbliche è di 31,2 milioni di euro nel 2008 e di altrettanti nel 2009.

I tremila militari provengono per lo più dalle file dei carabinieri già impegnati in missioni all’estero, con compiti di polizia militare. Tra i primi a partire per Roma, anche 32 soldatesse della brigata Granatieri di Sardegna e del reggimento Lancieri di Montebello.

Le dotazioni? I militari in pattuglia indosseranno l’uniforme d’ordinanza estiva, con pantaloni e camicia a maniche corte e saranno armati di pistola; quelli a presidio degli obiettivi sensibili avranno mimetica e fucile.

Tre i campi d’azione dell’armata, divisa in tre plotoni da mille uomini ciascuno: il primo sarà impiegato per la vigilanza dei centri per immigrati, presenti in 16 province; il secondo si occuperà di presidiare 72 obiettivi sensibili (tra ambasciate, chiese, stazioni della metropolitana) tra Roma, Milano e Napoli; il terzo gruppo sarà impegnato nel pattugliamento di 9 città. In questo caso, i soldati andranno a piedi, con compiti di pubblica sicurezza, ma non di polizia giudiziaria. Tradotto: potranno compiere arresti solo in flagranza di reato.

Le pattuglie saranno composte da due militari affiancati da uno o due tra poliziotti e carabinieri. "Tutti i militari scelti per questa attività - rassicura Ignazio La Russa - sono persone che hanno svolto compiti più complicati di questo, come quello di polizia nelle missioni all’estero".

Resta il caso di Roma e la presenza dell’esercito nel centro storico: favorevole il ministro della Difesa, contrario Alemanno, l’ultima parola spetterà al prefetto Carlo Mosca. Mentre a Milano, il prefetto Gian Valerio Lombardi definisce quella dei militari "una prima risposta, importante anche se non esaustiva della problematica della sicurezza".

"Quella dei soldati per le strade delle città è l’ennesima sceneggiata di questo governo - sostiene invece Franco Barbato dell’Italia dei Valori - le attività di contrasto alla criminalità sono demandate alle forze dell’ordine, su cui il governo avrebbe dovuto investire, piuttosto che attuare dei tagli disastrosi".

Critici anche i sindacati di polizia. "Per il comparto sicurezza e difesa nel decreto legge 112/2008 non c’è niente - afferma il segretario del Sindacato autonomo di Polizia, Nicola Tanzi - e lo diciamo con una delusione mista a rabbia, perché questo governo ha vinto le elezioni promettendo maggior sicurezza agli italiani e non inutili operazioni di facciata, come l’impiego dei militari". Sulla stessa linea, Claudio Giardullo del Silp-Cgil: "I 62 milioni utilizzati per i soldati sarebbero stati più utilmente impiegati per l’apertura di un commissariato e il potenziamento della stradale". L’appuntamento dei sindacati è per settembre: "Con una mobilitazione via via crescente".

Giustizia: strage di Bologna del 1980, le ombre e le intenzioni

di Giuseppe D’Avanzo

 

La Repubblica, 4 agosto 2008

 

Nessuna sentenza scolpisce la Verità nella pietra. Di ogni sentenza si può dubitare. È soltanto la fallibile verità degli uomini scritta, quando le cose vanno per il meglio, al termine di un’operazione tecnica. Esiste una macchina procedurale. L’accusa formula le sue opinioni. Chi si difende le si oppone con contro-argomenti.

Il dibattimento pesa le une e gli altri. Ne convalida uno. Nel 1995 Giusva Fioravanti e Francesca Mambro sono stati condannati all’ergastolo come esecutori della strage di Bologna del 2 agosto 1980 (85 morti, 200 feriti). Si dichiarano da sempre innocenti. Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha voluto, nel giorno dell’anniversario della strage, far sentire la sua voce per chiedere che "si dissolvano le zone d’ombra che hanno suscitato perplessità crescenti nell’opinione pubblica intorno all’accertamento della verità sulla strage".

Parole irrituali o, come ha detto il sindaco di Bologna Sergio Cofferati, addirittura "gravi" perché "sollecitano la riapertura di un processo sulla base di perplessità dell’opinione pubblica". Ammesso che davvero ci siano esitazioni nell’opinione pubblica - e ammesso che esista davvero l’opinione pubblica - "le perplessità" non possono essere un criterio per una revisione del processo.

Più utili le zone d’ombra. Ce ne sono? Quali sono? Nel corso del tempo, in un’inchiesta e in un processo teatro di depistaggi di ogni genere e segno (per depistaggio sono stati condannati Licio Gelli e Francesco Pazienza, a dieci anni, e due ufficiali del Sismi, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte), si sono contate almeno tre piste alternative abitualmente designate con le formule: "falangisti libanesi"; "libici"; "depistaggio per Ustica".

La prima "pista" nasce dai ricordi di Abu Iyad, un dirigente palestinese. Dichiara che l’Olp ha fornito alla magistratura italiana "indizi" sulla responsabilità di fascisti italiani addestrati in Libano nei campi falangisti. La seconda ipotesi la indica un fascista: Stefano Delle Chiaie. Il suo avvocato sostiene che l’attentato alla stazione di Bologna era stato organizzato "per coprire la vera storia di Ustica", avvenuta un mese prima. Anche l’ipotesi libica nasce connessa alla strage di Ustica, ma ne attribuisce la responsabilità a Gheddafi. A luglio 1991 il parlamentare Dc Giuseppe Zamberletti giura che la bomba alla stazione sarebbe stata una ritorsione per l’accordo tra Italia e Malta firmato proprio la mattina del due agosto 1980. (In una variante di questa teoria, i libici avrebbero agito in replica al tentativo di assassinare Gheddafi a Ustica).

Tutti gli intrighi sono stati esaminati dalla magistratura bolognese che ne ha riscontrato l’infondatezza e, in alcuni casi, la strumentalità. Negli ultimi mesi ha fatto capolino una nuova "certezza" già proposta dalla commissione Mitrokhin. L’ha proposta il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga. "Io, che di terrorismo me ne intendo, dico che la strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della "resistenza palestinese" che, autorizzati dal "lodo Moro" a fare in Italia quel che volevano purché non contro il nostro Paese, si fecero saltare colpevolmente con una o due valigie di esplosivo. Divenni presidente del Consiglio poco dopo, e fui informato dai carabinieri che le cose erano andate così".

La ricostruzione di Cossiga (che in realtà già era a capo del governo) sembra accostarsi alle rivelazioni di Carlos Ilich Ramirez Sanchez, "lo sciacallo": "L’attentato contro il popolo italiano alla stazione di Bologna "rossa" non ha potuto essere opera dei fascisti e ancora meno dei comunisti. È opera dei servizi yankee, dei sionisti e delle strutture della Gladio. Non abbiamo riscontrato nessun’altra spiegazione". Giusva Fioravanti conclude che "la pista palestinese è ormai palese. Carlos ammette che quell’esplosivo era il loro e che a farlo brillare sono stati i servizi israeliani o americani".

Sarebbero queste le nuove zone d’ombra. E si fa fatica a crederle attendibili. Lasciamo da parte gli arzigogoli della "Mitrokhin", la più pasticciona "agenzia di disinformazione" che sia stata mai ospitata in un Parlamento. Carlos non dice che l’esplosivo di Bologna fosse della sua organizzazione. È Cossiga che dice che fosse patrimonio palestinese. Purtroppo il presidente emerito, nel corso degli anni, ha cambiato troppe volte versione per ritenere questo un racconto definitivo. È soltanto l’ultimo in ordine di tempo.

Il 4 agosto 1980, al tempo presidente del Consiglio, Cossiga dichiara in Parlamento che l’attentato alla stazione era un attentato "fascista" ("Non da oggi si è delineata la tecnica terroristica di timbro fascista. Il terrorismo nero ricorre essenzialmente al delitto di strage perché è la strage che provoca paura, allarme, reazioni emotive e impulsive"). Il 15 marzo 1991, divenuto presidente della Repubblica, dice di essersi sbagliato nel definire "fascista" la strage; presenta le scuse al Msi; sostiene che "il giudizio da me espresso allora fu il frutto di errate informazioni che mi furono fornite dai Servizi e dagli organi di polizia. La subcultura e l’intossicazione erano agganciate a forti lobbies politico-finanziarie".

Nel 2000, nuovo ripensamento. In una fatica memorialistica (La passione e la politica, Rizzoli) Cossiga scrive: "Mi hanno tempestato perché dicessi quello che so. Io non so nulla". Nel 2007, in un colloquio pubblicato in Tutta un’altra strage di Riccardo Bocca, il presidente emerito fornisce qualche elemento. Ricorda quel che ha saputo o già sapeva (chissà). La tesi dell’esplosivo palestinese gli sarebbe stata comunicata "nella prefettura felsinea, a ridosso dell’attentato (dunque nell’occasione in cui definì la strage "fascista"), dal capo dell’ufficio istruzione di Bologna, Angelo Vella" (massone).

Come si possono definire "zone d’ombra" quest’affastellarsi confusissimo e contraddittorio di ipotesi, congetture, ricostruzioni senza alcuna prova o indizio - se non indiscrezioni, non si sa da dove piovute? E tuttavia ammettiamo che lo siano: appaiono incoerenti le mosse dei protagonisti (Fioravanti e Mambro) e dei loro sostenitori (la leadership del Movimento sociale di un tempo ora al governo e in Parlamento).

Il processo di Bologna come tutti i processi di quel tipo è stato indiziario. Come sempre nei processi indiziari, ci sono fragilità e debolezze nella sentenza. Ora se si vuole riaprire il processo non c’è che da metter insieme un collegio di avvocati sapienti che, come prescrive la legge, raccolga "nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto". O che documentino come "la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato".

Il fatto è che non c’è traccia in questa storia né di un collegio di avvocati al lavoro né di una richiesta motivata (anche di là a venire) di revisione del processo. Il dibattito mai tecnico è tutto e soltanto politico. Nasce, si gonfia e prospera nei corridoi del Palazzo, nelle interviste senza contraddittorio, nelle audizioni e nei carteggi di rovinose commissioni parlamentari.

È un dibattito che si sovrappone al conflitto tra magistratura e politica; al disegno del governo di screditare il lavoro delle toghe in attesa di una nuova riforma della Costituzione e dell’ordinamento giudiziario. Appare soltanto "occasione" di una politica e un’operazione di azzeramento delle identità e delle differenze. È una disputa che non cela di voler creare una memoria condivisa e artificiosa che è piuttosto "comunione nella dimenticanza", "smemoratezza patteggiata".

Lungo questa strada, Mambro e Fioravanti non avranno mai il nuovo giudizio che attendono. Questo dibattito - che mai affronta la controversia degli argomenti, il loro contraddittorio nel solo luogo che può dare concretezza ai dubbi - può soltanto umiliare gli ottantacinque morti della stazione. Perché, si sa, "si può far tutto con i morti, non hanno difese".

Giustizia: strage di Bologna del 1980, sentenza resta sbagliata

di Andrea Colombo

 

Liberazione, 4 agosto 2008

 

Le sentenze saranno pure sempre e comunque degne di rispetto, come argomentano molti e molto dotti. Però, con tutto il rispetto, quella che condanna Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto del 1980 resta una sentenza sbagliata.

La condanna per il più orrendo crimine della storia repubblicana si basa, come è noto, su un’unica testimonianza, che definire "ragionevolmente dubbia" è un insulto alla ragionevolezza. Confusa. Contraddittoria. Smentita da tutti i congiunti del teste (ultimo, l’anno scorso, il figlio). Demolita da tutti i riscontri oggettivi, se solo li si fosse voluti leggere sul serio. Oscurata dal dubbio, quello sì ragionevole di una scarcerazione del suddetto teste ottenuta grazie a una grossolana falsificazione dei reperti medici che diagnosticavano un cancro in fase terminale al quale Massimo Sparti, il teste in questione, è sopravvissuto una venticinquina d’anni. Miracolo.

La sentenza per Bologna non è il primo errore giudiziario e non sarà l’ultimo. Il concetto di "verità processuale" è stato concepito proprio per confutare alla radice la pretesa di identificare verità storica e sentenze. Quel che rende questa vicenda unica non è neppure la dimensione incommensurabile del crimine. A renderla diversa da tutti gli altri "errori giudiziari" è la diffusissima convinzione che di errore appunto si tratti. Parlavo alcuni giorni fa con agenti di polizia entrati in servizio all’epoca dei Nar. Per quell’organizzazione terroristica non nutrono alcuna simpatia: "Avevamo molto più paura di loro che delle brigate rosse. Per noi erano molto più pericolosi". Ma sulla responsabilità dei Nar per Bologna non hanno dubbi: "Non c’entrano niente". Come non ha dubbi la stragrande maggioranza di magistrati non bolognesi che si sono occupati della vicenda la quasi totalità dei giornalisti che ci hanno lavorato per non parlare di moltissimi esponenti politici di sinistra forse ancor più che di destra. Il problema, allora, è chiedersi perché proprio una parte della sinistra si ostini a negare ogni dubbio su quella sentenza. A parer mio ciò dipende da due elementi distinti. Il primo è la convinzione che si debba comunque difendere la sentenza contro i Nar per evitare i possibili vantaggi che altrimenti ne verrebbero alla destra e non solo a quella più estrema. In questo caso la vicenda di Bologna si rivela lo spartiacque tra due concessioni opposte di intendere l’"essere di sinistra", quella che ho appena citato e quella che, al contrario, ritiene che essere di sinistra significhi difendere sempre e comunque la verità al di là del tornaconto politico a breve. Personalmente, penso che sia lo spartiacque tra tutto quello che della sinistra è da buttare e tutto quello che è invece da conservare e valorizzare.

Il secondo elemento, più recente, più effimero è invece la scelta di difendere sempre le sentenze. A priori. Ogni sentenza. Perché, in caso contrario, si porterebbe acqua al mulino di chi combatte contro la magistratura, di Silvio Berlusconi. È un argomento assurdo. Chi sa se i pretoriani delle sentenze sacre avrebbero pensato lo stesso anche ai tempi della sentenza Dreyfuss? Ma anche in questo caso Bologna è uno spartiacque: tra due modelli opposti di anti berlusconismo, uno che contrasta davvero l’intima natura del berlusconismo e uno che come quello di Antonio Di Pietro ne è invece il complice e anzi l’"alter ego".

Giustizia: i giovani della generazione perdente che va a destra

di Ilvo Diamanti (Sociologo)

 

La Repubblica, 4 agosto 2008

 

Rifondazione Comunista è implosa. Prima alle elezioni politiche del 13 aprile, dove è rimasta esclusa dal Parlamento. Poi, al congresso, dove si è divisa in due pezzi quasi uguali, a sostegno dei candidati alla segreteria: Vendola e Ferrero, il vincitore.

Anche se, in effetti, il partito è assai più frammentato, perché, fin dalle origini, raccoglie molteplici componenti dell’opposizione radicale di sinistra. Una galassia ai margini del sistema politico. "Minoranza", per definizione e per vocazione. Ma, anche per questo, uno dei riferimenti politici più significativi per i giovani. I quali hanno di fronte un futuro aperto.

Amano le utopie. Pensano che sia possibile afferrare i sogni. Raggiungere "l’isola che non c’è". E cercano, inoltre, di definire la propria identità tracciando confini netti fra se stessi e gli altri. Contro padri e padroni. Per questo molti giovani hanno guardato alle posizioni più radicali della sinistra (ma anche della destra) con maggiore passione rispetto alle altre generazioni.

Oggi, però, ciò non avviene più. L’implosione (l’eclissi?) di Rifondazione Comunista è un segno, ma non il solo, del distacco dei giovani dalla sinistra. Non solo radicale, anche moderata. Si tratta della fine di un ciclo breve, che durava dall’inizio di questo decennio (millennio). Da quando, cioè, i giovani erano tornati a votare a sinistra, dopo circa trent’anni. Passata la vampata del Sessantotto, infatti, si erano raffreddate in fretta le speranze di cambiamento che avevano mobilitato ampi settori della società e, in particolare, i giovani. Frustrate dalle utopie del terrore, negli anni Settanta. Dal crollo dei muri e delle ideologie, negli anni Ottanta. Infine, in Italia, dalla fine della prima Repubblica e dei soggetti politici che l’avevano accompagnata.

Dopo la stagione dei movimenti era emersa una generazione "senza padri né maestri" (per citare il titolo di un saggio di Luca Ricolfi e Loredana Sciolla), che si era rifugiata nella "vita quotidiana" (come evoca un altro testo, scritto da Franco Garelli). La domanda di cambiamento era defluita altrove, soprattutto nella partecipazione volontaria. Un fenomeno diffuso, cresciuto a contatto con i problemi di ogni giorno.

Così i giovani erano divenuti "invisibili". Confusi nell’ambiente sociale e locale. Pur diventando appariscenti sui media. Consumatori ed essi stessi consumo. Bersagli e attori di ogni campagna pubblicitaria. Protagonisti di serial e reality televisivi. Politicamente, si erano spostati al centro. Oppure "fuori" dalla vita politica. A sinistra, invece, erano rimasti i loro genitori. Quelli della mia generazione, che nel Sessantotto avevano intorno a 18 anni. Nati dopo la fine della guerra, nei primi anni Cinquanta.

A metà strada, fra noi e i nostri figli, una "generazione perduta", come l’ha definita Antonio Scurati in un suggestivo (auto) ritratto pubblicato sulla Stampa. Nata alla fine degli anni Sessanta. Mentre la "rivoluzione" bruciava e si consumava altrettanto rapidamente. Nel 1989, vent’anni dopo, scrive Scurati, nella notte in cui cadde il muro "finì un’epoca della politica, ma per la mia generazione non n’è mai iniziata un’altra. Non a sinistra, quanto meno".

Infatti, fino alla conclusione del secolo, la classe d’età orientata a sinistra più delle altre è progressivamente invecchiata, da un decennio all’altro. I ventenni del Sessantotto. I trentenni negli anni Settanta. I quarantenni negli anni Ottanta. I cinquantenni negli anni Novanta. E via di seguito. Una generazione di nostalgici, che votano allo stesso modo, un po’ per speranza, un po’ per abitudine.

Solo dopo il 2000 i giovani sono tornati a sinistra. Soprattutto i "più" giovani. I miei figli. I fratelli minori di Scurati (se ne ha). In particolare gli studenti. Per diverse ragioni. La comune condizione di incertezza li ha resi inquieti. Una generazione senza futuro. La prima, nel dopoguerra, ad essere convinta (con buone ragioni) che non riuscirà, nel corso della vita, a migliorare la posizione sociale dei propri genitori. Poi, l’attacco alle torri gemelle e la guerra in Iraq. La globalizzazione economica e politica. Hanno alimentato l’insicurezza e il senso di precarietà, soprattutto fra i giovani. Che hanno "una vita davanti". Ma quale?

Li hanno spinti a mobilitarsi e a manifestare (soprattutto gli studenti). Anche per sentirsi meno soli. I (più) giovani, infine, hanno maturato una competenza comunicativa e tecnologica diffusa. Capaci di stare in contatto fra loro, senza limiti di spazio e tempo. Di sperimentare linguaggi nuovi, inediti e largamente incomprensibili agli adulti. Sono divenuti una tribù. Mischiati agli adulti, eppure separati da essi.

I (più) giovani. Quelli nati negli anni Ottanta, al tempo della caduta del muro. Quelli che non avevano conosciuto il Sessantotto, il terrorismo, la Dc e il comunismo. Quelli per cui CCCP è un gruppo di rock progressivo e Berlino una città di tendenza. Si sono spostati a sinistra. Perché dall’altra parte c’era Berlusconi. Il padrone dei media. Icona del potere nel mondo della comunicazione. A cui opporsi. Perché dall’altra parte c’erano gli amici di Bush e della guerra, ma anche i sostenitori del lavoro flessibile. Così, alle elezioni del 2001 e in quelle del 2006 i giovani hanno votato massicciamente a sinistra. Soprattutto, ripetiamo, gli studenti e i giovani con una carriera di studi più lunga.

Oggi questa stagione sembra conclusa. Era emerso anche nei sondaggi pre-elettorali, ma in misura minore a quanto si è poi verificato. Infatti, alle elezioni del 13 aprile 2008 (Sondaggio Demos - La Polis, maggio 2008, campione nazionale di 3300 casi) appena il 31% dei giovani (fra 18 e 29 anni) ha votato per (la coalizione a sostegno di) Veltroni. Il 49%, invece, per Berlusconi.

Una distanza larghissima, superiore a quella registrata fra gli elettori in generale. Alle "estreme" dello schieramento politico, invece, la distanza fra le parti si è annullata; anzi, quasi invertita. Il 3,2% dei giovani ha votato per la Sinistra Arcobaleno, poco più (oltre il 4%) per la Destra di Storace. Una tendenza ribadita, peraltro, dal voto degli studenti. Anche fra loro la coalizione a sostegno di Berlusconi ha superato il centrosinistra di Veltroni, seppure con uno scarto più ridotto: 42% a 37%. Mentre la Destra radicale è, a sua volta, più avanti della Sinistra Arcobaleno: 6% a 4%. Vale la pena di aggiungere che Di Pietro, fra i giovani, dimostra scarso appeal. Anzi: il suo peso elettorale è più ridotto che nel resto degli elettori.

Quasi una svolta epocale, insomma. Naturalmente, la spiegazione più facile è prendersela con loro. I giovani. Sospesi fra precarietà e un mondo di veline e amici, sarebbero stati risucchiati in un nuovo riflusso "conservatore". Vent’anni addietro, a un osservazione del genere, Altan faceva replicare a Cipputi: "Mi devo essere perso il flusso progressista...". Per capire il deflusso dei giovani verso la destra e il non-voto, però, è più semplice soffermarsi sullo spettacolo offerto dalla sinistra, riformista e radicale. Il Pd, attraversato da divisioni personali e di corrente. Intorno ai soliti nomi: Veltroni, D’Alema, Rutelli. Marini.

Rifondazione: segmentata da fazioni e frazioni. Alcune che "pesano" il 3-4% in un partito stimato intorno al 2%. Pochi accenni, risaputi, evidenti a tutti. Sufficienti a comprendere perché la Sinistra non possa aiutare i 30-40enni della "generazione perduta" a ritrovarsi. Tanto meno i giovani - e gli studenti - a identificarsi. Si sentono una "generazione perdente". Perché dovrebbero affidare il proprio destino, la propria rappresentanza a una classe politica "perdente" di professione?

Giustizia: Clementina Forleo; parte di magistratura è deviata

 

Asca, 4 agosto 2008

 

"Ciò che è accaduto di recente è che è emersa una vera criminalità giudiziaria, intesa come una parte di magistratura deviata che, in collusione con altri potentati, è fondamentale per garantire stabilità al sistema". Lo ha detto il giudice Clementina Forleo, da poco trasferita da Milano a Cremona, parlando questa sera a Catanzaro, dove ha partecipato alla presentazione del libro del giornalista Carlo Vulpio "Roba Nostra".

Al dibattito, moderato dalla giornalista Chiara Spagnolo, ha partecipato anche il giudice di Catania Felice Lima. Nel corso degli interventi è stata criticata, sia da parte dei magistrati che del giornalista Vulpio, anche quella che è stata definita "la lottizzazione della politica nella magistratura; così - è stato aggiunto - la magistratura imita la politica nel modo peggiore".

Assente alla serata il pm di Catanzaro Luigi De Magistris che, attraverso il giudice Lima, ha mandato un messaggio: "De Magistris è assente per motivi di opportunità. È molto attaccato alla Calabria ed è anche ottimista per il futuro di questa terra. D’altronde - ha concluso Lima - non sono stati i calabresi a tradirlo, ma altri".

Giustizia: Corte di Conti; donazioni 8 x 1.000, disperso l’80%

di Raphael Zanotti

 

La Stampa, 4 agosto 2008

 

La televisione, dove l’unico spot circolante è quello della Chiesa Cattolica, ci ha abituati a pensare all’8x1000 come a una magnifica occasione per aiutare i derelitti della Terra. Nelle pubblicità compaiono bambini di Paesi poveri, fame e miseria. Far tornare un sorriso su quei volti emaciati è facile: basta apporre una firma sulla dichiarazione dei redditi e si destina una quota dell’Irpef a quelle popolazioni in difficoltà.

Una bella favola. Peccato che resti, appunto, una favola. La Chiesa Cattolica destina solo il 20% di quello che riceve con l’8x1000 per fare della carità. Il resto lo incamera. Le istituzioni laiche non fanno meglio. Tra il 2001 e il 2006 lo Stato italiano, attraverso l’8x1000, ha destinato all’Africa 9 milioni di euro per combattere la piaga della fame: un quinto di quanto ha dato per la regione Lazio (43 milioni). E pensare che il Continente Nero, con i suoi oltre 800 milioni di abitanti, ha preso più degli altri. All’Asia, 4 miliardi di individui, è arrivato un milione e mezzo: il prezzo di una villa in Sardegna. O se si preferisce un quarto di quanto il governo ha stanziato - prelevandolo dallo stesso fondo - al solo Molise (7,2 milioni di euro). Seguono l’America Centrale con 610mila euro e quella Meridionale con 560mila, poco più e poco meno di 10mila euro all’anno.

E sarebbe andata ancora peggio se nel 2006 tutta la quota statale, ovvero 4,7 milioni di euro, non fosse stata completamente destinata a progetti contro la fame nel mondo. Evidentemente la beneficenza va di moda solo negli spot. Secondo la sezione di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato della Corte dei Conti dal 2001 al 2006 lo Stato italiano ha elargito 272 milioni di euro grazie all’8x1000 degli italiani. Ma se si vanno a guardare le aree di intervento, le differenze sono enormi: 179 milioni (il 66%) sono serviti per finanziare progetti di conservazione di beni culturali; 59 milioni (il 22%) per affrontare calamità naturali; 22 milioni (l’8%) per l’assistenza ai rifugiati; solo il 4% è andato a progetti contro la fame nel mondo.

Una scelta difficile da spiegare, a meno che non si entri nel dettaglio e s’intuiscano alcuni meccanismi che governano la classe politica italiana. Se si scorrono i progetti finanziati nei sei anni presi in esame, si scopre che il 40% circa ha riguardato il restauro di chiese, abbazie, conventi e parrocchie. Un aspetto che non è sfuggito alla Corte che, in adunanza pubblica, ha chiesto conto alla rappresentante del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali di tanti finanziamenti a enti religiosi. La risposta è stata che il patrimonio artistico, culturale, storico e architettonico degli enti religiosi in Italia è di grande eccellenza. Vero, ma la Corte non ha potuto che richiamare alle norme che regolano la distribuzione dell’8x1000 e che parlano di bilanciamento nella scelta dei progetti e di urgenza degli stessi.

La disparità di trattamento, invece, è evidente. Tanto più se si tiene conto di altri dati. I numeri parlano da soli: i 315 milioni di euro attribuiti allo Stato dal 2001 al 2007 impallidiscono di fronte ai 6.546 milioni ricevuti dalla Chiesa Cattolica. È il ritorno dello spot televisivo? I creativi sono bravi, ma non così tanto. A meno che non si voglia annoverare in questa categoria (e il personaggio di sicuro lo merita) anche l’attuale ministro delle Finanze Giulio Tremonti. È sua l’idea del meccanismo di redistribuzione che tanti mal di pancia fa venire ai laici che siedono in Parlamento ma non solo.

Non tutti gli italiani dichiarano a chi deve andare il loro 8x1000. Solo il 40% lo fa scegliendo tra Stato, Chiesa Cattolica, Valdesi, Luterani, Comunità ebraica, Avventisti o Assembleari. E il restante 60%? In altri Paesi, dove la donazione deve rispecchiare una volontà esplicita del contribuente, questa quota rimane allo Stato e quindi a disposizione di tutti. In Italia viene invece ridistribuita secondo le proporzioni del 40%, dove i cattolici vanno forte. Alla fine circa il 90% dell’intero gettito va alla Chiesa. Si tratta di quasi un miliardo di euro all’anno, 991 milioni nel 2007.

E pensare che quando nacque l’8x1000, la sua funzione era quella di sostituire la congrua per il pagamento dello stipendio ai sacerdoti. Lo Stato era anche disposto a mettere di tasca propria il denaro necessario per arrivare alla cifra di 407 milioni di euro nel caso i fondi fossero risultati insufficienti. Oggi gli stipendi dei preti rappresentano un terzo dell’8x1000 che va alla Chiesa, ma nessuno ha mai osato mettere in discussione la cifra, nemmeno la commissione bilaterale italo-vaticana che aveva il compito di rivedere le quote nel caso il gettito fosse stato eccessivo.

Del fiume di denaro che va alla Chiesa Cattolica, la Cei destina il 20% per opere caritatevoli, il 35% per pagare gli stipendi dei 38mila sacerdoti italiani e il resto, circa mezzo miliardo di euro, viene ufficialmente utilizzato per non meglio precisate "esigenze di culto", "catechesi" e "gestione del patrimonio immobiliare". Forse anche per questo lo slogan scelto dai Valdesi per un loro spot radiofonico di qualche tempo fa era: "Molte scuole, nessuna chiesa". La pubblicità in questione è stata vittima di una sorta di censura: per mesi non è stata mandata in onda. Non è l’unica disparità che lamentano le altre confessioni religiose.

Diversamente dai cattolici, infatti, Valdesi, Luterani, Comunità Ebraiche, Assembleari e Avventisti ottengono i fondi (volontariamente sottoscritti dagli italiani) solo dopo tre anni. Alla Cei, invece, lo Stato versa un anticipo del 90% sull’introito dell’anno successivo. Le vie del Signore, in alcuni casi, si fanno scorciatoie. Ma le disparità tra religioni diverse non sono le uniche che si possono riscontrare tra i finanziamenti statali dell’8x1000.

Nonostante i criteri di scelta dicano che, per finanziare i progetti, è necessario tener conto di vari fattori, tra cui anche quello della maggiore o minore popolazione presente sul territorio su cui insiste il progetto, ci sono regioni che paiono baciate dalla fortuna. In sei anni all’Abruzzo sono andati 13 milioni di euro, quanto la Sicilia e la Toscana, e quattro volte l’Umbria (3 milioni di euro). E che dire delle Marche (22 milioni di euro), che ha ricevuto più del doppio di una regione come il Piemonte? Capire perché questo accade è praticamente impossibile.

Il Dipartimento per il coordinamento amministrativo della Presidenza del Consiglio, che si occupa della distribuzione dei fondi, dichiara di aver tenuto conto dei criteri scelti dalla Presidenza, ma anche "della commissione tecnica di valutazione", dei "pareri non vincolanti delle Camere", di imprecisate "indicazioni arrivate da autorità politiche" e dei suggerimenti delle "commissioni parlamentari". Come dire: di tutti. Il risultato è stata la solita guerra tra lobby, che però ha provocato un effetto perverso: l’enorme frammentazione dei finanziamenti.

Se ognuno vuole la sua fetta di torta, per quanto piccola, l’esito è scontato: l’8x1000 si perde in una serie infinita di rigagnoli. Il 78% dei finanziamenti erogati, ovvero tre su quattro, è inferiore a 500.000 euro. Quasi la metà (43,22%) è compreso tra i 100 e i 500 mila euro. Chi dovrebbe evitare tutto questo è la Presidenza del Consiglio. Per legge dovrebbe essere il filtro che dà unitarietà e razionalità agli interventi, ma non accade.

La Corte rileva che i ministeri si rivolgono direttamente al dicastero delle Finanze per i progetti. Questo ha un ulteriore conseguenza: se si elimina la responsabilità della Presidenza del consiglio, chi controlla gli esiti dei lavori? Il regolamento stabilisce che, passati 21 mesi, se questi non sono iniziati, il finanziamento viene revocato. Sarebbe dovuto accadere per esempio per la Chiesa della Martorana di Palermo, per il Complesso di Santa Margherita Nuova in Procida o per la Chiesa di santa Prudenziana a Roma. Non è avvenuto.

Di fronte a questi risultati non stupisce la disaffezione dei cittadini. Nel 2004 il 10,28% dei contribuenti aveva affidato il suo 8x1000 allo Stato. La percentuale è scesa all’8,65% nel 2005, all’8,38% nel 2006 e al 7,74% nel 2007. Forse avranno contribuito le leggi che in questi anni hanno decurtato la quota statale senza tener minimamente conto delle finalità per cui era stato istituito l’8x1000. Nel 2001 sono stati prelevati 77 milioni di euro per finanziare la proroga della missione dei militari italiani in Albania e nel 2004 il governo Berlusconi ha deciso una decurtazione di 80 milioni di euro anche negli anni successivi per sostenere la missione italiana in Iraq. Le decurtazioni dal 2001 al 2007 sono ammontate a 353 milioni di euro, più dei 315 milioni rimasti nel fondo 8x1000. Siamo lontani anni luce dai bambini dello spot in tv.

Giustizia: Perugia; la morte di Bianzino non si può archiviare

di Emanuele Giordana

 

Il Manifesto, 4 agosto 2008

 

Come morì Aldo Bianzino, l’ebanista di Pietralunga entrato in perfetto stato di salute in carcere il 12 ottobre dell’anno scorso e uscito senza vita dalla casa circondariale di Perugia due giorni dopo? La domanda, cui la richiesta di archiviazione del pm Giuseppe Pietrazzini, sembrava aver dato una risposta definitiva con la richiesta di archiviazione, rimbalza adesso nuovamente su una vicenda sin dall’inizio apparsa oscura e piena di misteri. Il gip Massimo Ricciarelli, cui diverso tempo fa i famigliari presentarono opposizione in sede civile, ha deciso di accogliere adesso anche l’opposizione alla richiesta di archiviazione presentata in luglio dall’avvocato dei genitori di Aldo - Giuseppe e Maura - e di Roberta Radici, la compagna di Bianzino con lui arrestata e poi rilasciata senza che nemmeno le fosse stato detto, se non all’uscita dal carcere, che Aldo era morto.

Si deve alla caparbietà dei famigliari dunque se il caso non si chiude in uno scaffale degli uffici giudiziari perugini e se le eccezioni sollevate dal legale, l’avvocato Massimo Zaganelli, ricostruiscono un percorso di dubbi e interrogativi non ancora sciolti che il magistrato ha evidentemente considerato validi, quantomeno a non far diventare la storia di Aldo un semplice faldone di carte polverose. La ricostruzione della parte civile mette in fila tutte le contraddizioni di quelle terribili ore a cominciare dalla mattina di domenica 14 ottobre quando Aldo è rinvenuto, inanimato, sulla branda superiore del suo letto. I suoi indumenti si trovano, ordinati, su quella inferiore. La finestra della cella è aperta seppure sia ottobre inoltrato e Aldo indossi solo una maglietta a maniche corte. Per il resto è nudo. Il corpo viene prelevato dagli agenti, trasportato subito fuori della cella e deposto sul pavimento del corridoio dell’infermeria, sita a pochi metri. Viene innalzato un lenzuolo così che gli altri detenuti nulla possono vedere. Si tenta la rianimazione, effettuando il massaggio cardiaco sul corpo inanimato. Uno dei medici dirà che "non so spiegarmi per quale motivo il detenuto sia stato portato sul pianerottolo davanti alla porta dell’infermeria ancora chiusa poiché (in altri casi) il nostro intervento avveniva direttamente in cella".

Le indagini riveleranno "lesioni viscerali di indubbia natura traumatica (lacerazione del fegato) e a livello cerebrale una vasta soffusione emorragica subpiale, ritenuta al momento di origine parimenti traumatica". Ma poi le ricerche si esauriscono con l’acquisizione dei filmati estratti dalle videocamere dell’istituto di pena mentre viene aperto procedimento penale nei confronti di una guardia per omissione di soccorso. La richiesta di archiviazione per il reato di omicidio viene formulata dal pm nel febbraio scorso con la conclusione che Aldo è morto non per trauma ma per un aneurisma cerebrale; la lesione epatica viene ritenuta estranea all’evento letale facendo escludere " l’esistenza di aggressioni del Bianzino". Motivazioni "assertive e generiche" che, secondo i legali della famiglia, sono "insostenibili" e frutto di un’"istruttoria lacunosa". Valga per tutto una perizia medico legale secondo cui "la lacerazione epatica deve essere ritenuta conseguenza di un valido trauma occorso in vita e certamente non può essere ascrivibile al massaggio cardiaco, in riferimento al quale vi è prova certa che avvenne a cuore fermo".

Il commento, che Roberta Radici ha affidato al quotidiano La Nazione, è lapidario: "Una scheggia di luce per il mio piccolo Rudra", il figlio di Aldo e Roberta rimasto orfano del padre a soli 13 anni. Nessuno in famiglia si è mai arreso all’archiviazione: non gli altri due figli, Aruna Prem ed Elia con la madre Gioia (che hanno presentato l’altra istanza di opposizione), né i genitori e il fratello di Aldo. Il padre, Giuseppe, domenica scorsa è salito sul palco del Goa Boa, il festival per i diritti umani organizzato dalla Tavola della pace a Genova: di fronte a 15 mila persone, convenute anche per il concerto di Manu Chao e quello di Tonino Carotone, Bianzino ha ricordato il valore anche civile della difesa dei diritti umani. Aveva rivolto un suo personale appello al giudice perché non archiviasse il caso. Appello accolto.

Giustizia: grazia a Contrada... ma quali "ragioni umanitarie"?

di Marco Travaglio

 

www.centomovimenti.com, 4 agosto 2008

 

Sulle "ragioni umanitarie di eccezionale urgenza" che hanno indotto il cosiddetto ministro della Giustizia Clemente Mastella a istruire immediatamente la pratica per la grazia a Bruno Contrada, condannato definitivamente sette mesi fa a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, bastano le considerazioni di Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo: "Il giudice di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere si è pronunciato il 12 dicembre contro il differimento della pena del Contrada poiché le patologie dello stesso potrebbero essere curate in carcere o in apposite strutture esterne. Se peraltro tutti gli affetti di patologie come il diabete dovessero avanzare domanda di grazia e ottenerla in tempi così rapidi, il sovraffollamento delle carceri sarebbe rapidamente risolto".

Se poi Contrada non avesse avviato lo sciopero della fame, ma avesse continuato a nutrirsi, le sue condizioni di salute sarebbero senz’altro migliori. Il detenuto malato dev’essere curato, nell’infermeria del carcere o in ospedale, secondo le leggi vigenti, non essendo la grazia una terapia anti-diabete.

Quanto alle ragioni giuridiche di un’eventuale clemenza, sono ancor più deboli di quelle umanitarie. Mai è stato graziato un personaggio di quel calibro condannato per mafia. E mai è stato graziato un condannato a distanza così ravvicinata dalla sua condanna (Contrada ha scontato 7 mesi dei 10 anni previsti). Si è molto discusso, a proposito di Adriano Sofri, se il candidato alla grazia debba almeno chiederla o possa riceverla d’ufficio, se debba accettare la sentenza o la possa rifiutare: ma, se anche prevalesse la seconda tesi, sarebbe ben strano graziare un signore, stipendiato per una vita dallo Stato, che ha dipinto i suoi giudici come strumenti in mano alla mafia per condannare un nemico della mafia, giudici al servizio di "un manipolo di manigoldi, di criminali, di pendagli da forca che hanno inventato le cose più assurde mettendosi d’accordo". E tuttora chiede la revisione del processo. Graziarlo addirittura prima dell’eventuale revisione significherebbe usare impropriamente la clemenza per ribaltare il verdetto della Cassazione: un’invasione di campo del potere politico in quello giudiziario.

Ultimo punto: sollecitata per un parere dal giudice di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, la Procura di Palermo ha risposto che Contrada non risulta aver mai interrotto i suoi rapporti con Cosa Nostra, ragion per cui si ritiene che potrebbe - una volta libero - riallacciarli.

Restano da esaminare le possibili ragioni "politiche" di tanta fretta. Ragioni che risalgono alle sua lunga e controversa carriera di poliziotto e agente segreto alle dipendenze dello Stato, ma al servizio dell’Antistato.

Già capo della squadra mobile e della Criminalpol di Palermo, già numero tre del Sisde (alla guida del dipartimento Criminalità organizzata) fino al Natale del 1992, quando fu arrestato, Contrada è indicato come trait d’union fra Stato e mafia non solo da una ventina di mafiosi pentiti, ma pure da una gran quantità di autorevolissimi testimoni. A cominciare dai colleghi di Giovanni Falcone, che raccontano al diffidenza che il giudice nutriva nei confronti di "u Dutturi": i giudici Del Ponte, Caponnetto, Almerighi, Vito D’Ambrosio, Ayala. E poi Laura Cassarà, vedova di Ninni (uno dei colleghi di Contrada alla Questura di Palermo assassinati dalla mafia mentre lui colludeva con la mafia).

Tutti a ripetere davanti ai giudici di Palermo che Contrada passava informazioni a Cosa Nostra, incontrando anche personalmente alcuni boss, come Rosario Riccobono e Calogero Musso. Nelle sentenze succedutesi in 15 anni, si legge che Contrada concesse la patente ai boss Stefano Bontate e Giuseppe Greco; che agevolò la latitanza di Riina e la fuga di Salvatore Inzerillo e John Gambino; che intratteneva rapporti privilegiati con Michele e Salvatore Greco; che spifferava segreti d’indagine ai mafiosi in cambio di favori e regali (come i 10 milioni di lire accantonati dal bilancio di Cosa Nostra, nel Natale del 1981, per acquistare un’auto a un’amante del superpoliziotto); che ha portato al processo falsi testimoni a sua difesa.

Decisivo il caso di Oliviero Tognoli, l’imprenditore bresciano arrestato in Svizzera nel 1988 come riciclatore della mafia. Secondo Carla Del Ponte, che lo interrogò a Lugano insieme a Falcone, Tognoli ammise che a farlo fuggire dall’Italia era stato Contrada, anche se, terrorizzato da quel nome, rifiutò di metterlo a verbale. Poi, in un successivo interrogatorio, ritrattò. Quattro mesi dopo, Cosa Nostra tentò di assassinare Falcone e la Del Ponte con la bomba all’Addaura. Nemmeno Borsellino si fidava di Contrada. E nemmeno Boris Giuliano: finì anche lui morto ammazzato. Il che spiega, forse, lo sconcerto dei familiari delle vittime della mafia all’idea che lo Stato, dopo aver speso 15 anni per condannare Contrada, impieghi 7 mesi per liberarlo.

Ma c’è un ultimo capitolo, che sfugge alle sentenze: uno dei tanti tasselli che compongono il mosaico del "non detto", o dell’ "indicibile" sulla strage di via d’Amelio, dove morì Borsellino con gli uomini della sua scorta (ancora oggetto di indagini della Procura di Caltanissetta, che pure ha archiviato la posizione di Contrada). Quel pomeriggio del 19 luglio ‘92 Contrada è in gita in barca al largo di Palermo con gli amici Gianni Valentino (un commerciante in contatto col boss Raffaele Ganci) e Lorenzo Narracci (funzionario del Sisde).

Racconterà Contrada che, dopo pranzo, Valentino riceve una telefonata della figlia "che lo avvertiva del fatto che a Palermo era scoppiata una bomba e comunque c’era stato un attentato. Subito dopo il Narracci, credo con il suo cellulare, ma non escludo che possa anche aver usato il mio, ha chiamato il centro Sisde di Palermo per informazioni più precise". Appreso che la bomba è esplosa in via d’Amelio, dove abita la madre di Borsellino, Contrada si fa accompagnare a riva, passa da casa e, in serata, giunge in via d’Amelio.

Ma gli orari - ricostruiti dal consulente tecnico dei magistrati, Gioacchino Genchi - non tornano. L’ora esatta della strage è stata fissata dall’Osservatorio geosismico alle 16, 58 minuti e 20 secondi. Alle 17 in punto, cioè 100 secondi dopo l’esplosione, Contrada chiama dal suo cellulare il centro Sisde di via Roma. Ma, fra lo scoppio e la chiamata, c’è almeno un’altra telefonata: quella che ha avvertito Valentino dell’esplosione. Dunque, in 100 secondi, accadono le seguenti cose: la bomba sventra via d’Amelio; un misterioso informatore (Contrada dice la figlia dell’amico) afferra la cornetta di un telefono fisso (dunque non identificabile dai tabulati), forma il numero di Valentino e l’avverte dell’accaduto; Valentino informa Contrada e gli altri sulla barca; Contrada afferra a sua volta il cellulare, compone il numero del Sisde e ottiene la risposta dagli efficientissimi agenti presenti negli uffici solitamente chiusi di domenica, ma tutti presenti proprio quella domenica. Tutto in un minuto e 40 secondi. Misteri su misteri. Come poteva la figlia di Valentino sapere, a pochi secondi dal botto, che - parola di Contrada - "c’era stato un attentato"? Le prime volanti della polizia giunsero sul posto 10-15 minuti dopo lo scoppio.

E come potevano, al centro operativo Sisde, sapere che era esplosa una bomba in via D’Amelio già un istante dopo lo scoppio? Le prime notizie confuse sull’attentato sono delle 17.30. Escludendo che la figlia di Valentino e gli uomini del Sisde siano dei veggenti, e ricordando i rapporti del commerciante con i Ganci, viene il dubbio che l’informazione in tempo reale l’abbia data chi per motivi - diciamo così - professionali, ne sapeva molto di più. Qualcuno che magari si trovava appostato in via D’Amelio, o nelle vicinanze, in un ottimo punto di osservazione (magari il Monte Pellegrino, dove sorge il castello Utveggio, sede di misteriosi uffici del Sisde in contatto con un mafioso coinvolto nella strage e poi frettolosamente chiusi). E attendeva il buon esito dell’attentato per poi comunicarlo in tempo reale a chi di dovere.

Forse, prima di parlare di grazia a Contrada, si dovrebbe almeno pretendere che dica la verità su quel giorno. Altrimenti qualcuno potrebbe sospettare - con i parenti delle vittime - che lo si voglia liberare prima che dica la verità.

Piemonte: 900 mila €, per contrastare devianza e criminalità

 

Dire, 4 agosto 2008

 

La Giunta regionale ha approvato il bando per finanziare progetti a favore di ex detenuti e beneficiari dell’indulto. Progetti specifici per donne detenute, stranieri, sex-offenders, persone con problemi psichiatrici.

La Giunta regionale del Piemonte, su proposta dell’assessore al Welfare, Teresa Angela Migliasso, ha approvato il bando per l’assegnazione di contributi destinati a finanziare progetti di contrasto alla devianza e alla criminalità e a favore delle persone in esecuzione penale ed ex detenuti. Le risorse disponibili, stanziate dagli assessorati al Welfare, al turismo e sport, alla cultura e al commercio, ammontano a 925.000 euro. Gli interventi dovranno prevedere strategie di prevenzione e di sensibilizzazione della popolazione sulle tematiche della legalità, della devianza e della pena; azioni di miglioramento delle condizioni di vita durante la detenzione attraverso l’offerta di opportunità formative e lavorative finalizzate al reinserimento e alla futura autonomia, iniziative culturali e sportive; iniziative di sostegno e accompagnamento alle persone beneficiarie del provvedimento dell’indulto o in uscita dal carcere. Sono previsti inoltre progetti specifici a favore delle donne detenute e dei bambini presenti negli Istituti penitenziari e per particolari fasce di popolazione in esecuzione penale, stranieri, sex-offenders, tossicodipendenti, persone con problemi psichiatrici.

Le iniziative dovranno essere realizzate attraverso la collaborazione fra enti locali, enti pubblici, amministrazione penitenziaria e altri soggetti funzionali all’attuazione degli interventi, quali agenzie formative, associazioni culturali, sportive e di volontariato, cooperative, cooperative sociali e loro consorzi. La partnership deve obbligatoriamente comprendere il Gruppo operativo locale del territorio di appartenenza e, per i progetti che si attuano all’interno degli istituti penitenziari, la direzione dell’Istituto. I progetti devono essere presentati alla Direzione Politiche Sociali (Corso Stati Uniti 1 –Torino) entro il 10 ottobre 2008.

"Interventi in questo settore - dichiara l’assessore Migliasso - costituiscono ormai da anni espressione di una progettualità in rete tra le diverse realtà istituzionali del territorio, il mondo del lavoro e del volontariato, che ha portato alla costituzione dei cosiddetti Gol (gruppi operativi locali), per garantire comunicazione e coordinamento tra le diverse iniziative. Il successo delle proposte sinora realizzate dà vigore a un costante e crescente impegno a favore di cittadini che vivono una condizione di vita difficile. Costruire politiche di integrazione si configura, da un lato, come rinuncia alla sola repressione penale dei comportamenti, dall’altro come un contributo significativo alla ‘difesa sociale’, attraverso il contenimento del rischio di recidiva".

Sulmona: quei politici in processione per incontrare Del Turco

di Attilio Bolzoni

 

La Repubblica, 4 agosto 2008

 

Era conosciuta come la prigione più infame, quella dei detenuti che si suicidavano per disperazione. Era la fortezza inespugnabile dei 41 bis di mafia e ‘ndrangheta, l’ultimo ospite famoso il figlio di Totò Riina da Corleone. Ma da quando c’è lui una porta si spalanca sempre nel penitenziario di Sulmona. Da quando c’è Ottaviano Del Turco è una processione che non si ferma mai.

Fanno la fila per incontrarlo gli uomini politici, i suoi amici di sempre. Ce ne sono andati undici in diciannove giorni. In pellegrinaggio per portare "un saluto a Ottaviano". Lui legge Hemingway e Silone, dipinge su tela la sua cella e le montagne dell’Abruzzo, con gli altri ospiti del carcere di Sulmona non parla mai. E, soprattutto, Ottaviano Del Turco va sempre "a colloquio".

Se si contano le visite dei figli Guido e Manuela, della moglie Cristina, del fratello Alfiere e del sindaco di Collelongo Angelo Salucci, oggi 2 agosto - l’ex governatore è stato arrestato il 14 luglio con l’accusa di avere intascato quasi 6 milioni di mazzette in cambio di delibere sanitarie pilotate - il numero delle visite ricevute sale a sedici. Quasi una al giorno. Otto sono targate centrodestra. Tre centrosinistra. Un record per il sistema carcerario italiano: è la prima volta che un detenuto riceve così tante attenzioni e in così poco tempo in una prigione dello Stato. Un record dei record per il "supercarcere" di Sulmona, blocchi di cemento armato trasformati in camminatoi in mezzo alla magnifica campagna ai piedi del Gran Sasso.

Sui libroni della "matricola" i nomi dei visitatori al detenuto eccellente Ottaviano Del Turco sono segnati fin dal primo giorno dal suo ingresso. Quando l’ex governatore ed ex presidente della commissione parlamentare antimafia era ancora in attesa del primo interrogatorio di garanzia nella sua cella, un faccia a faccia dove si è difeso attaccando: "Sono vittima di una vendetta, di una ritorsione". Quando ancora neanche i suoi legali di fiducia per legge potevano incontrarlo.

Visitatore numero 1 del 15 luglio 2008: Pierluigi Mantini, deputato del Pd e segretario della commissione Giustizia della Camera. Visitatore numero 2 del 15 luglio 2008: il senatore Marcello Pera. È ancora tecnicamente un detenuto in "isolamento diurno e notturno" quando i quotidiani pubblicano le sue prime dichiarazioni. Da governatore ancora in carica: "Oggi avrei dovuto partecipare alla conferenza delle Regioni a Roma". Da neo detenuto: "Questa è una comunità che non va dimenticata". Da studioso: "Aspetto con ansia i dieci libri che ho chiesto, ancora non me li hanno consegnati".

Colloqui dietro le sbarre. Anche il giorno dopo, il 16 di luglio. Si presentano a Sulmona i parlamentari del Pdl Renato Farina e Giancarlo Lehener, quest’ultimo vecchio compagno di Ottaviano nel Psi. Il primo si spaventa quando non trova Del Turco nella sua cella, ha un attimo di panico, pensa al peggio. Ma il governatore è "all’aria", torna dopo pochi minuti. Il secondo, avversario di Ottaviano nel Psi quando Craxi era mattatore della politica, gli strappa una promessa: "Mi ha detto che quando uscirà da lì andremo tutti e due ad Hammamet a portare un garofano sulla tomba di Bettino".

Ogni mercoledì e ogni sabato - come tutti gli altri detenuti non sottoposti a regime carcerario speciale - l’ex governatore ha ricevuto i suoi familiari. Il 19 e il 23 luglio, il 26, il 30 luglio e ieri 2 agosto. Il 21 luglio il cancello di ferro di Sulmona si è aperto però un’altra volta. Era il giorno dopo la prima domenica in carcere per Ottaviano Del Turco. "È stata una domenica difficile", si è sfogato l’ex governatore con la deputata del Pdl Melania De Nichilo Rizzoli. "Ci siamo abbracciati attraverso le sbarre", ha raccontato lei. Poi ha fatto sapere dove viveva da una settimana il suo amico Ottaviano. Una stanza di tre metri per due, un letto, un piccolo armadietto, la televisione e il bagno.

"In Parlamento cercate di fare più leggi per le carceri", è il messaggio che fa filtrare fuori da Sulmona l’ex governatore. Ha già perso qualche chilo (sono sette ieri, secondo i figli che sono andati a trovarlo), non sta bene in salute, l’umore è pessimo. La sua amica Melania se n’è andata da Sulmona e si è data subito da fare "per non lasciare da solo Ottaviano", ha istituito in Parlamento una sorta di punto di raccolta di messaggi da inviare in carcere, è diventata punto di riferimento per le visite dei deputati. Il 25 luglio è arrivato a Sulmona l’onorevole del Pdl Giuliano Cazzola, vicepresidente della commissione Lavoro della Camera. Ha incontrato Del Turco e gli ha consegnato quattro bigliettini, quattro messaggi di solidarietà. Il primo del ministro Renato Brunetta, il secondo dell’ex ministro Pierluigi Bersani, il terzo di Livia Turco, il quarto di Margherita Boniver. Con Cazzola, la mattina del 25 luglio, è entrata in carcere anche Lella Golfo, presidente della fondazione Marisa Belisario.

Era sera - siamo sempre al 25 luglio - quando un agente di polizia penitenziaria ha avvisato l’ex governatore che c’era qualcuno che gli voleva parlare. L’orario per un "colloquio" era decisamente insolito, qualche minuto dopo le 20. Al portone di ferro del supercarcere di Sulmona ha appena bussato l’ex presidente del Senato Franco Marini. Abruzzese di Avezzano, Marini si è presentato al vecchio amico sindacalista insieme al senatore del Partito democratico Giovanni Legnini, avvocato, socio di studio di Marco Femminella, legale di fiducia di un altro degli imputati - Camillo Cesarone - scivolato nello scandalo della Sanità.

Due giorni dopo la cella del detenuto speciale di Sulmona si è riaperta per un’altra visita ancora. È Maurizio Scelli questa volta a salutarlo da vicino, l’ex presidente della Croce Rossa che proprio in queste ore è uno dei candidati più accreditati nella corsa alla poltrona di governatore dell’Abruzzo dopo le dimissioni di Ottaviano Del Turco.

L’ultimo "colloquio" noto risale a tre giorni fa, al 31 luglio. Il visitatore numero 11 è stato l’europarlamentare del Pdl Giuseppe Gargani. Ha portato a Sulmona il "saluto" di un gruppo di colleghi socialisti di Strasburgo. Poi l’ex governatore - almeno per quanto ne sappiamo - non ha visto più nessuno al di fuori dei suoi familiari. Nella sua cella c’è una busta piene di lettere. Ne riceve una ventina al giorno. Le legge in attesa del 7 agosto, il giorno in cui il suo destino sarà deciso dal Tribunale del riesame. Poi ci sono i bigliettini dei suoi colleghi del Palazzo. Il primo è stato quello di Silvio Berlusconi. Poi gli ha scritto pure Piero Fassino. E il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani. E anche altri quindici uomini politici. Chi ha materialmente consegnato a Del Turco i quindici bigliettini, per il momento preferisce però non divulgare i loro nomi.

Avellino: appalto per lavori nel carcere, i lavoratori "in nero"

 

La Repubblica, 4 agosto 2008

 

Un cantiere fuorilegge, in un carcere. Un appalto del ministero di Giustizia, da sei milioni di euro. Nel penitenziario di Avellino, Bellizzi Irpino, per mesi venti operai hanno lavorato in nero, praticamente per lo Stato, per conto di una ditta di costruzioni vincitrice di una gara d’appalto. Tutto sotto gli occhi di ignari agenti di polizia e funzionari. Gli operai in nero hanno anche lasciato i loro documenti all’ingresso per superare la porta carraia della casa circondariale e saliere sull’impalcatura. Questi registri, ora, sono al vaglio degli ispettori del lavoro.

Non solo: quando uno degli operai ha denunciato al sindacato le anomalie è stato anche licenziato. Lunga la lista delle violazioni riscontrate poi dall’ispettorato durante i controlli nel carcere. Non solo lavoro nero, ma anche l’omissione del versamento dei contributi assicurativi e previdenziali a Inps e Inail, la mancata applicazione del contratto di lavoro e la mancata corresponsione degli oneri per il trattamento di fine rapporto. Tutte irregolarità celate, almeno fino al blitz degli ispettori, attraverso il sistema dei subappalti.

Oggetto dell’appalto pubblico l’ampliamento degli uffici e delle celle del penitenziario, che oggi ospita quattrocento detenuti. Ad aggiudicarsi i lavori una ditta di Roma, che ha poi affidato ad un’impresa napoletana l’esecuzione dell’opera. L’azione degli ispettori di Avellino è scattata a seguito di una denuncia da parte del delegato di cantiere della Fillea Cgil, A. C., poi licenziato. "Ho subito umiliazioni e intimidazioni, solo perché volevo che fossero rispettati i miei diritti e quelli degli altri miei colleghi - racconta l’operaio - mi lamentavo spesso con il responsabile del cantiere per la mancanza di alcune norme sulla sicurezza e per tutta risposta venivo etichettato come "il sindacalista", quello che creava problemi. Per punizione mi hanno costretto ad occuparmi solo delle pulizie. Sapevo che era un appalto del ministero e mi meravigliava che nessuno venisse a controllare come tutti quegli operai in nero entrassero tranquillamente in carcere. Poco dopo essermi rivolto all’ispettorato sono stato licenziato".

Dura la posizione del sindacato in merito alla vicenda. "Ciò che è successo è un fatto gravissimo. E ci siamo presi l’onere della denuncia. Non si possono barattare posti di lavoro - spiega Antonio Famiglietti, segretario della sezione di Avellino della Fillea - con la complicità verso chi non rispetta le leggi e costringe gli operai a lavorare in nero o ad essere sottopagati. Spero che l’ampliamento del carcere serva a creare qualche cella anche per imprenditori disonesti, che lucrano sulla pelle dei lavoratori e che non rispettano le leggi. Non possiamo accettare che in casa del ministero della Giustizia, deputato a prevenire i reati, si compiano tali azioni in barba alla legge". La direzione del carcere, dal canto suo, precisa di essere estranea alla vicenda dell’appalto, gestita direttamente dal ministero. Questo caso in Irpinia segue altre irregolarità riscontrate in un altro appalto pubblico, sempre nel settore edile. Una vicenda che riguarda un cantiere dell’Inps dove furono riscontrate violazioni analoghe.

Catania: detenuto violentato da mafiosi perché ritenuto gay

 

La Stampa, 4 agosto 2008

 

"Scrivere poesie è da arruso, da finocchio, e così meriti di essere sodomizzato". Detto fatto. Un gruppo di otto mafiosi ha punito l’affiliato "scrittore di versi" con violenza di gruppo su un ragazzo, peraltro anche lui membro del clan , per il solo fatto che scriveva poesie. Il tutto è avvenuto in un carcere, Piazza Lanza a Catania, oltre due anni fa, ma solo oggi l’avvocato del giovane violentato ha deciso di renderlo pubblico davanti alle telecamere di Klauscondicio, la trasmissione di Klaus Davi su You Tube.

A parlare al massmediologo è Antonio Fiumefreddo, noto penalista, ma anche sovrintendente del Teatro Bellini di Catania. "Ho deciso di rendere pubblico il fatto dopo la denuncia del giudice Antonio Ingroia, che ha rivelato come i boss, anche solo sospettati di omosessualità, vivano in un clima di terrore. Ingroia ha ricordato il caso di Johnny D’Amato, boss mafioso usa, assassinato perché gay. Ma non è il solo caso. Io ne so qualcosa visto che nella mia carriera ho difeso un ventenne indagato per associazione mafiosa e detenuto nel carcere catanese di Piazza Lanza. Il ragazzo - racconta Fiumefreddo - scriveva poesie e aveva modi che potremmo definire effeminati. Non so nemmeno se fosse omosessuale, ma per il suo modo di essere, per la sensibilità artistica e le sue poesie d’amore, venne ritenuto dagli altri detenuti omosessuale e venne trattato in carcere come tale. Fu violentato da un gruppo di otto detenuti, tutti in carcere per gli stessi reati, e fu costretto al ricovero in infermeria, dove gli diedero nove punti di sutura all’ano.

Oggi - rivela a Klaus Davi l’avvocato Fiumefreddo - il ragazzo è ancora in carcere, ma per quell’episodio non ci fu alcuna conseguenza o punizione per i suoi aggressori".

Come è possibile, ha incalzato Davi, che simili reati restino impuniti? "Spesso - ha dichiarato Fiumefreddo - il tutto si riduce ad una segnalazione con una circolare interna al carcere. L’episodio raccontato non è l’unico, credo che sia accaduto anche molte altre volte. Di queste cose non si parla. Sono storie che si mantengono nella sfera molto intima ma che gli avvocati, i magistrati e gli operatori delle carcerari conoscono molto bene".

Dura la condanna dell’Arcigay: "È stupefacente che si venga a conoscenza dopo due anni che un ragazzo appartenente ad un clan mafioso, sia stato stuprato in carcere da altri appartenenti al clan perché ritenuto omosessuale. Chiediamo immediati ragguagli alle autorità competenti", scrivono Aurelio Mancuso, presidente nazionale Arcigay, e Paolo Patanè, presidente Arcigay Sicilia. "Il giovane è ancora rinchiuso nel carcere catanese. Chiediamo di conoscere le sue attuali condizioni di vita e quali siano le misure messe in atto per la sua protezione".

Arcigay "che si batte per la libertà e la democrazia ed è impegnata soprattutto nel Sud nel paese, affinché i gay possano vivere una vita dignitosa e tutelata anche dalle violenze mafiose, appartiene alla rete Libera e da tempo denuncia un clima diffuso d’omofobia, di cui ogni genere di mafia ha sempre alimentato, anche attraverso assassini e violenze di suoi affiliati scoperti o desunti omosessuali.

Nelle prossime ore ci attiveremo a livello nazionale e locale, per conoscere la reale portata della vicenda e sollecitare una immediata inchiesta sui fatti e sui possibili responsabili".

Due settimane fa, Antonio Ingroia, sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, invitato alla stessa trasmissione di Klaus Davi, dichiarò due settimane fa che "di boss mafiosi e gay ce ne sono, eccome, ma si nascondono e non escono allo scoperto. Sono ben lontani dal fare outing", disse il giudice da molti indicato come erede di Paolo Borsellino. "Questi boss mafiosi omosessuali non si sono mai dichiarati per un semplice motivo: hanno paura di essere estromessi dall’organizzazione. Se l’essere gay costituisce ancora un tabù per la società italiana, figuriamoci in una società arcaica come quella mafiosa. Perciò questi boss vivono la loro omosessualità clandestinamente e con paura perché, se scoperti, rischiano di essere estromessi. Diverso il discorso per i mafiosi americani. Nelle nuove generazioni, più aperte, come la mafia italo-americana, c’è una maggiore tolleranza verso l’omosessualità; e quindi ci sono anche boss gay più palesi".

Reggio Emilia: evade detenuto romeno malato di tubercolosi

 

Ansa, 4 agosto 2008

 

Svanito nel nulla un romeno di 46 anni, condannato per un furto in un bar che, ospitato temporaneamente nell’Ospedale di Santa Maria Nuova in quanto affetto da tubercolosi, ieri sera verso le 19 è uscito dalla sua stanza, ha rotto il vetro di una finestra e si è calato dal primo piano fino al cortile interno della palazzina che ospita il Reparto Malattie Infettive. Immediatamente è scattato l’allarme, in città e in provincia. Polizia e Carabinieri stanno cercando l’uomo, alto un metro e 80, magro, stempiato e con pizzetto. Al momento della fuga indossava una maglia bianca e pantaloncini corti rossi.

Sorrento: multe a mendicanti, posteggiatori, artisti di strada

di Massimiliano D’Esposito

 

Il Mattino, 4 agosto 2008

 

Linea dura contro questuanti e "posteggiatori". In vigore l’ordinanza del sindaco Marco Fiorentino sul divieto di accattonaggio e una serie di limitazioni per i musicisti di strada. Chi verrà sorpreso a mendicare, oltre alla confisca del denaro proveniente dall’illecita attività, sarà sottoposto ad una sanzione pecuniaria da 25 a 500 euro.

Dopo Venezia, Padova, Verona, Alassio, Modena e Sanremo anche Sorrento adotta provvedimenti che si rifanno alla legge 125 del 24 luglio scorso per la "sicurezza e il decoro" delle città. L’ordinanza, coordinata con il comandante della polizia municipale Antonio Marcia, vieta di mendicare nelle zone del centro storico, sul corso Italia e in via degli Aranci. Le restrizioni interessano anche le aree in prossimità del cimitero comunale, le case di cura e di riposo, le fermate degli autobus.

L’accattonaggio è vietato anche nel raggio di 100 metri dagli incroci. La stessa ordinanza impone anche una serie di restrizioni per i suonatori ambulanti: possono esibirsi solo dalle & alle 14 e dalle 15 alle 20 nelle strade cittadine dopo aver ottenuto una specifica autorizzazione amministrativa. Le loro performance non possono durare più di 5 minuti dopodiché sono tenuti a spostarsi almeno di 500 metri. Anche su questo fronte la mancata osservanza delle disposizioni farà scattare una sanzione amministrativa da 25 a 500 euro.

"Il duplice provvedimento mira a disciplinare un fenomeno in preoccupante aumento - sottolinea il sindaco Fiorentino - gestito da vere è proprie organizzazioni che spesso accompagnano in zona gruppi di persone che si dedicano all’accattonaggio. L’iniziativa è stata suggerita anche dalle ripetute segnalazioni pervenute dai cittadini, dalle associazioni di categoria degli albergatori e dei commercianti che vedono in questa attività un danno per l’immagine della città, anche perché i turisti sono i soggetti più vulnerabili in quanto particolarmente sensibili alle richieste di elemosina".

L’ordinanza sindacale ha anche lo scopo di evitare inutili dispendi di energie da parte degli agenti della polizia municipale. "Ogni volta che operavano un fermo - aggiunge ancora il primo cittadino di Sorrento -almeno due vigili urbani erano impegnati per una intera giornata, al di là dell’orario di lavoro, per seguire l’iter per il riconoscimento e l’allontanamento della persona fermata. Ora, invece, contiamo di riuscire ad arginare il fenomeno grazie all’introduzione della confisca dei proventi dell’accattonaggio ed alle pesanti sanzioni amministrative che abbiamo stabilito". La nuova ordinanza non si applica a chi viene sorpreso a sfruttare minori per elemosinare in quanto in questi casi scatta la denuncia penale.

Immigrazione: sbarchi; in migliaia pronti a partire dalla Libia

 

La Repubblica, 4 agosto 2008

 

L’onda degli sbarchi a Lampedusa non si arresta, complice il mare tranquillo e le belle giornate. Da stamane sono quasi 200 i migranti soccorsi nelle acque al largo dell’isola siciliana, nel pomeriggio ne sono stati avvistati altrettanti a bordo di altre carrette del mare. E il flusso è destinato ad aumentare ancora di più. Tutte le testimonianze raccontano di migliaia di persone pronte a lasciare le coste della Libia per raggiungere l’Italia: "Sono stato rinchiuso per due settimane insieme ad altre centinaia di persone in un capannone sulla costa libica prima di poter salire su un gommone", ha raccontato un nigeriano arrivato stamattina sull’isola siciliana.

Insieme a lui, altri 43 nigeriani, tra cui 17 donne, che sono stati scortati in porto stamane dalle motovedette della Guardia costiera. Altri 127 immigrati, compresi un bambino e 27 donne di cui una incinta, erano invece stipati su un gommone di 10 metri alla deriva, senza più benzina, intercettato a 70 miglia dall’isola. Nel tardo pomeriggio, un peschereccio ha avvistato altri due barconi nel canale di Sicilia, diretti verso Lampedusa. Complessivamente trasportano altri 180 clandestini.

Appena sbarcati i clandestini sono stati indirizzati al centro di prima accoglienza dell’isola che, dopo il trasferimento dei giorni scorsi di 900 migranti verso altri centri di soccorso, ospita al momento 911 extracomunitari (ancora troppi rispetto agli 850 che può contenere). Saranno rifocillati e censiti con la collaborazione dei traduttori; entro tre giorni, assicurano le autorità dell’isola, i migranti saranno indirizzati verso altri centri di raccolta.

Nel frattempo si registra quasi ogni giorno la fuga di extracomunitari dalla struttura. Ieri sera i carabinieri hanno fermato una decina di migranti che avevano eluso la sorveglianza. Quattro giorni fa, sempre a Lampedusa sbarcarono in dodici ore ben 906 clandestini. Il centro di accoglienza arrivò ad accogliere oltre 1.500 immigrati: una vera e propria emergenza umanitaria.

Ieri la senatrice della Lega, Angela Maraventano, che è anche vice sindaco di Lampedusa, ha messo in atto una protesta, all’indirizzo del leader libico Gheddafi, per bloccare gli sbarchi: per sei ore ha fatto uno sciopero della fame a bordo di una barchetta posizionata all’ingresso del porto dell’isola. Poi è tornata indietro dicendo di aver ricevuto rassicurazioni dal ministro Maroni "che saranno rispettati i patti fra il governo libico e quello italiano per il pattugliamento congiunto in mare".

Immigrazione: piccole imprese e artigiani; chiediamo lavoratori

 

Corriere della Sera, 4 agosto 2008

 

Le piccole imprese: sono operai irregolari, ma già lavorano nelle nostre ditte. Subito un nuovo decreto flussi. Marco Accornero (Unione Artigiani): "Vogliamo far lavorare questa gente alla luce del sole. Senza sentirci fuorilegge".

Immigrazione: i piccoli imprenditori milanesi tornano all’attacco. E chiedono la possibilità di regolarizzare i 35 mila clandestini che - in stragrande maggioranza - lavorano già in fabbriche, laboratori e cantieri. "Abbiamo chiesto di poter mettere in regola manodopera per noi preziosissima - dicono in sostanza i sciur Brambilla che operano intorno al capoluogo lombardo -. Ma sappiamo già che l’80 per cento delle domande sarà rigettato. Lasciateci lavorare: il governo vari un nuovo decreto flussi".

Milano è in testa alla classifica delle province per numero di richieste di regolarizzazione: 78.764. Di queste, 44 mila domande riguardano badanti mentre le restanti 35 mila appartengono a lavoratori di tutti gli altri settori. I posti disponibili sono 6.142. Il che significa che l’83 per cento delle richieste resterà deluso, n grosso delle domande è stato vagliato, tanto che 4516 nulla osta sono già stati inviati, pari al 74 per cento del totale. Per le badanti il governo ha promesso un occhio di riguardo. Si parla di un secondo decreto flussi a cui ammettere le domande già inoltrate a dicembre. Nessuna concessione, invece, per muratori, manovali, operai.

Ma i piccoli imprenditori di Milano e hinterland non si arrendono. I più preoccupati sono gli artigiani, che avevano già sollevato il problema qualche mese fa. "Le nostre sono piccole attività che operano in settori in cui la manodopera straniera è diventata indispensabile. Sulle 12 mila domande di regolarizzazione che abbiamo presentato ci sono scritti i nostri nomi e i nostri indirizzi. Vogliamo far lavorare questa gente alla luce del sole. Senza sentirci fuorilegge", lancia un appello Marco Accornero, segretario generale dell’Unione artigiani di Milano. "Molti dei nostri associati saranno posti di fronte a un bivio. O chiudere l’azienda. O far lavorare in nero i dipendenti clandestini. Non chiedeteci di lasciare affondare le attività a cui abbiamo dedicato una vita", continua Accornero. Che aggiunge: "Un muratore non vale meno di una badante. Si sottopongano pure le richieste di regolarizzazione a un vaglio rigorosissimo. Ma non si boccino a priori".

Chi dà lavoro a uno straniero senza permesso di soggiorno rischia da tre mesi a un anno e 5.000 euro di ammenda. "Queste sanzioni esistevano già, non sono state introdotte dal decreto sicurezza", precisa Ennio Codini, docente di Diritto alla Cattolica. Di fatto le sentenze di condanna a carico delle imprese sono pochissime. Rarissime quelle che riguardano le famiglie. Certo è che negli ultimi anni si è allargato il divario tra il ingressi previsti con i flussi e le richieste di famiglie e imprese. "Il risultato è che i clandestini aumentano al ritmo di 150 mila l’anno - fa il punto Codini -. Siamo tra i Paesi industrializzati con le più alte concentrazioni di clandestini sul territorio. A oggi si parla di 6-700 mila persone". Vie d’uscita? "Si potrebbero legare i flussi all’occupabilità, invece che al contratto di lavoro. D’altra parte la chiamata dello straniero dall’estero è una finzione. E allora meglio fare entrare chi ha i curriculum più adeguati alle esigenze del sistema produttivo".

Droghe: se i genitori impongono l’esame tossicologico ai figli

di Gabriella De Matteis

 

La Repubblica, 4 agosto 2008

 

Genitori al Policlinico per verificare se i figli fanno uso di sostanze stupefacenti. In un mese almeno dieci i genitori chiedono agli esperti del laboratorio di tossicologia di poter sottoporre ad analisi i propri figli. Il professor Candela: "Vogliono convincerli a non farne uso".

Al laboratorio di tossicologia forense dell’università di Bari arrivano per accompagnare i figli. E con un unico obiettivo: quello di capire, se durante il fine settimana, abbiano assunto sostanze stupefacenti. Il numero dei genitori di ragazzi adolescenti che si rivolge alla struttura specializzata è in costante aumento, almeno rispetto al passato quando il consumo di droga, nelle famiglie benestanti o senza apparenti problemi, costituiva un problema.

I dati sono emblematici. In un mese sono almeno dieci i genitori che chiedono agli esperti del laboratorio di tossicologia al Policlinico di poter sottoporre ad analisi i propri figli. Un numero impensabile anche nel passato più recente. Una tendenza nuova, spia di un problema, il consumo di droga, oramai molto esteso anche tra gli studenti.

Perché a rivolgersi al laboratorio dell’ateneo di Bari non sono i genitori di tossicodipendenti, di giovani finiti nel tunnel di droghe pesanti, come l’eroina. Ma sono i padri o le madri di ragazzi, spesso studenti, consumatori occasionali di sostanze stupefacenti, come la cocaina o l’ecstasy. Adolescenti che, raccontano i casi registrati al Policlinico, prendono la droga soprattutto durante il fine settimana, nei locali notturni, nei più tradizionali punti di ritrovo.

La polvere bianca o le pasticche sono tra le sostanze stupefacenti più gettonate tra i ragazzi, spesso minorenni, altre volte appena diciottenni. E vengono consumate per lo "sballo" del sabato sera. Non è un caso che gli esperti del laboratorio di tossicologia consiglino ai genitori di accompagnare i propri figli nei primi giorni della settimana quando della droga, assunta durante il weekend, c’è ancora traccia.

Il tempo di permanenza della droga nel corpo umano varia infatti a seconda del tipo di sostanza stupefacente, è molto più lungo per la marijuana o l’hascisc, più breve invece per le altre droghe, come la cocaina o l’ecstasy. I giovani che nel laboratorio di tossicologia vengono sottoposti ad analisi, dopo essere stati accompagnati dai genitori, sono quasi tutti minorenni. In questo caso a dare il consenso perché vengano effettuati gli esami è il padre e la madre. Meno frequenti le storie di ragazzi maggiorenni che, sotto la pressione della famiglia, decidono di fare le analisi per verificare la concentrazione nell’organismo di sostanze stupefacenti.

Tra coloro che hanno scelto di intraprendere questa via per sapere se i figli siano tra i consumatori occasionali di droghe ci sono padri e madri di tutte le estrazioni sociali, professionisti, ma non solo, che arrivano al Policlinico grazie ad un passaparola, dopo essersi informati tra amici con gli stessi problemi. "È come se i genitori scegliessero di stipulare un contratto con i propri figli per convincerli a non fare uso di sostanze stupefacenti" afferma Roberto Gagliano Candela, responsabile del laboratorio di tossicologia forense.

Droghe: coltivatori di marijuana? no, amanti dei pappagalli...

 

Fuoriluogo, 4 agosto 2008

 

In provincia di Bologna il caso di due giovani arrestati per il reato di coltivazione di marijuana. Si tratta di una coppia di incensurati con un figlio di circa 1 anno e mezzo che, dopo aver subito la perquisizione della loro abitazione sono stati tratti in arresto e tradotti alla Dozza di Bologna. Qui, sono rimasti per qualche giorno, lei, naturalmente è finita dentro con il suo bambino. Di ieri la scarcerazione richiesta dal pm e la fine, almeno per l’ipotesi di coltivazione, dell’incubo.

Il caso dei due giovani incensurati, residenti a Granarolo dell’Emilia, e arrestati lo scorso 28 luglio con l’accusa di coltivazione di marijuana, ai sensi dell’art. 73, comma 1 e 1bis del D.P.R. 309/90, così modificato dalla legge Fini - Giovanardi, si è concluso questa mattina con la scarcerazione dei due indagati. La perizia tossicologica, disposta dal pm, ha avuto esito negativo e, la pianta incriminata, risulta essere canapa sativa, canapa cioè priva di principio attivo e utilizzata per scopi puramente industriali.

Lui, Matteo Accogli, nativo di Lecce, responsabile di magazzino di un’importante multinazionale, e lei, Elena Cibin, genitori di un bambino di appena 1 anno e mezzo, avevano riferito ai carabinieri di non sapere nulla di quelle piante rinvenute a pochi metri dalla loro abitazione (128 in totale).

Immediatamente, l’Accogli sosteneva che, verosimilmente, quelle piante erano cresciute dopo che, per ben sei mesi, aveva distribuito ai suoi dieci pappagalli, un tipo di mangime industriale contenente tra l’altro semi di canapa sativa, particolare, questo, che non ha convinto il giudice per le indagini preliminari, dott. Gamberoni, che ha irrogato la misura degli arresti domiciliari per entrambi.

L’avv. Maria Pia Scarciglia del foro di Lecce, difensore di fiducia congiuntamente all’avv. Rossano Parasido del foro di Bologna, chiarisce i termini della vicenda adducendo l’assenza ab origine dei gravi indizi di colpevolezza che hanno portato all’applicazione di una misura custodiale affittiva, premesso che, non vi era la prova positiva, della presenza o meno di sostanza stupefacente nelle piante sequestrate.

Ma ciò che rende ancor più singolare la vicenda è la presenza di "quei semi" contenuti nel mangime per i pappagalli. Tanta paura e enorme stupore, dunque, per la giovane coppia che mai avrebbe immaginato che il loro amore per quei pappagalli avrebbe avuto un simile epilogo. Prende posizione su tale vicenda anche la Federconsumatori Puglia che sta valutando la possibilità di un’azione nei confronti della ditta produttrice del mangime.

"La direttiva 2002/02/CEE, relativa alla circolazione dei mangimi per animali" dichiara l’avv. Antonio Spagnolo, consulente legale dell’Associazione di consumatori, "prevede all’art. 5, ai fini della tracciabilità delle materie prime e per garantire la salute degli animali e dell’uomo, un preciso obbligo di indicare, anche per i mangimi per animali familiari, l’elenco delle materie prime con indicazione della quantità contenuta o enumerazione delle materie prime in ordine di peso decrescente. Ma niente di tutto questo è precisato sulla confezione del mangime in questione. È nostra intenzione, anche alla luce di quanto accaduto, ottenere uno "specifico obbligo informativo" che valga per tutte la ditte produttrici di mangimi in cui siano contenuti semi di canapa ed in questo caso, non a tutela della salute dei nostri amici animali, ma delle possibili conseguenze personali derivanti da un inconsapevole spargimento di detti semi".

Droghe: Radicali Torino; un tavolo per interventi socio-sanitari

 

Agenzia Radicale, 4 agosto 2008

 

Dichiarazione di Domenico Massano (Giunta di Segreteria Associazione radicale Adelaide Aglietta) e Giulio Manfredi (Giunta di Segreteria di Radicali Italiani): Il Sindaco Chiamparino ha dichiarato che l’intervento dei militari è "un’operazione demagogica" che non risolverà il problema sicurezza. Pur condividendo questa dichiarazione, dobbiamo ricordargli come l’immobilismo della sua amministrazione abbia di fatto posto i presupposti del crescente degrado di alcune zone della città (in particolare Parco Stura), e dell’esasperazione dei cittadini residenti.

Se la nuova dichiarazione del Sindaco è accompagnata da una consapevolezza reale della situazione e non rappresenta l’ulteriore spot demagogico, lo invitiamo ad attivarsi immediatamente perché l’intervento dei militari sia quantomeno integrato e coordinato con quello dei servizi socio-sanitari.

Signor Sindaco convochi immediatamente un tavolo di lavoro a cui oltre al Prefetto ed ai responsabili delle forze dell’ordine si siedano anche i responsabili dei servizi socio-sanitari operanti sul territorio ed i rappresentanti dei cittadini, per definire una strategia di intervento realmente efficace, capace di definire le diverse misure da adottare urgentemente e di prevedere le possibili evoluzioni degli scenari cittadini. Basta parlare di emergenze e piangere morti diversamente evitabili.

Argentina: depenalizzare consumo e combattere narcotraffico

di Rosa a Marca

 

Notiziario Aduc, 4 agosto 2008

 

Con l’aiuto di Ong specializzate, il governo argentino sta mettendo a punto un progetto per depenalizzare l’uso personale di droghe e combattere narcotraffico e lavaggio di danaro sporco. Dovrebbe essere pronto entro fine anno, ha comunicato il ministro della Giustizia, Anibal Fernandez, il 30 luglio.

"Non mi piace che si condanni come criminale chi ha una dipendenza. A essere condannati devono essere quelli che vendono la sostanza", aveva detto il giorno prima la presidente Cristina Kirchner, presentando un’indagine nazionale sul consumo di stupefacenti, alcol e tabacco.

Secondo quest’indagine, che suddivide i dati per regioni, il problema maggiore in Argentina è l’alcol, consumato dal 76% della popolazione, e che compare nei delitti, negli incidenti stradali e nei decessi molto più spesso delle droghe illegali. L’inchiesta è stata condotta nel 2008 in tutto il territorio, e ha coinvolto 51.162 persone residenti in località con più di 5.000 abitanti, un campione rappresentativo del 96% della popolazione.

Tra gli intervistati, il 9,9% degli uomini e il 4,9% delle donne hanno ammesso d’avere consumato marijuana qualche volta, una quota che sale rispettivamente al 24,5% e al 15,6% a Buenos Aires, dove vivono 2,7 milioni di persone. Il 4,8% degli abitanti della capitale assume cocaina, contro una media nazionale del 2%. Poi c’è il "paco", il derivato a basso costo della cocaina, che fa strage nei luoghi in cui le bande di narcotrafficanti dettano legge. L’Argentina è anche Paese di transito e traffico di droghe tra Europa e Stati Uniti.

In Argentina il possesso di droghe è considerato un reato, anche se in quantità minime per uso personale, e la maggioranza delle cause giudiziarie riguardano i consumatori, benché la tendenza sia ad archiviare le pratiche o ad avviare i drogati in centri di recupero. Il ministro ha sostenuto che il Governo sta "cercando una norma moderna, intelligente e che dia al magistrato la responsabilità di risolvere la problematica in base a ciò che si sta presentando".

L’idea è d’applicare "una politica di trattamento quando si tratta di consumo, e una forte politica di repressione contro tutte le forme di collocazione di prodotti e sostanze illegali e di lavaggio di denaro da narcotraffico", ha spiegato il ministro.

Un comitato scientifico di esperti, coordinato dalla procuratrice Monica Cunarro, lavora al progetto da tre anni e fornisce consulenza al Governo. "È necessario abbandonare l’approccio criminalizzante. Le politiche delle droghe devono tornare nell’ambito della salute dal quale non sarebbero mai dovute uscire", sostiene Ricardo Paveto, segretario dell’Associazione per la riduzione del danno (Arda).

Secondo lui, "la criminalizzazione dell’utente si sostanzia in un immaginario di pericolosità sociale del consumatore di droghe, malgrado che, statisticamente, delle 400.000 persone detenute dal 1989 per possesso per consumo personale, il 90% non avesse precedenti penali e lavorasse o studiasse". Da parte sua, Graciela Touzè, di Asociacion Civil Interscambios, vede con favore una revisione delle politiche e della legislazione in materia di droghe. "Occorre riesaminare i risultati della legge sulle droghe che da vent’anni penalizza il possesso per consumo senza che, come è evidente, abbia condotto alla riduzione dell’abuso di droghe".

Francia: l'ennesima rivolta in centro detenzione per immigrati

 

Notiziario Aduc, 4 agosto 2008

 

Il Centro di Detenzione Amministrativa (Cra) di Mesnil-Amelot, nella Seine-et-Marne, è stato teatro di incidenti ieri nel tardo pomeriggio, quando davanti alla struttura si svolgeva una manifestazione di sostegno ai sans papiers detenuti. Dall’interno dell’edificio è stato dato fuoco a alcuni materassi: la polizia penitenziaria ha spento l’incendio rapidamente, ma i migranti denunciano di essere stati picchiati brutalmente.

Le autorità accusano una ventina di manifestanti, appartenenti all’associazione Sos Sans-Papiers di avere incitato i detenuti alla rivolta, ma gli organizzatori replicano di aver indetto semplicemente una manifestazione pacifica, e che la rivolta è conseguenza naturale del comportamento della polizia. Da giorni nel centro è in corso uno sciopero della fame illimitato, per protestare contro le condizioni di vita nella struttura e per chiedere la liberazione dei migranti rinchiusi, per la maggior parte lavoratori presenti in Francia da molti anni, ma senza regolari documenti di soggiorno.

Russia: è morto Solgenitsyn, lo scrittore di "Arcipelago Gulag"

 

Ansa, 4 agosto 2008

 

Lo scrittore russo Alexander Solgenitsyn, esponente del dissenso nei confronti del regime sovietico, è deceduto domenica sera all’età di 89 anni, colpito da un infarto nella sua abitazione moscovita. Solgenitsyn - che ha vissuto in Svizzera per due anni durante il periodo dell’esilio - fu insignito nel 1970 del Premio Nobel per la letteratura: tra i sui titoli più noti figurano "Una giornata di Ivan Denisovic" (1962) e "Arcipelago Gulag" (a partire dal 1973).

Attraverso queste due opere, Solgenitsyn ha fatto conoscere al mondo la realtà della vita quotidiana nei campi di concentramento staliniani, in cui lo scrittore fu detenuto per un decennio a partire dal 1945, con l’accusa di aver criticato Stalin in una lettera inviata a un amico.

Oltre alla propria esperienza personale, in "Arcipelago Gulag" Solgenitsyn sfruttò inoltre le testimonianze di altri ex prigionieri ed effettuò ricerche sulla storia del sistema penale sovietico. A causa della popolarità conquistata in occidente, Solgenitsyn diventò inviso al regime sovietico: il 13 febbraio del 1974 fu espulso dall’Unione Sovietica e privato della cittadinanza russa.

Due giorni più tardi, passando per la Germania, Alexander Solgenitsyn giunge in Svizzera, dove fu accolto con grande entusiasmo. Lo scrittore, che conosceva la lingua tedesca, affermò in un’intervista di apprezzare assai la democrazia elvetica e il suo ruolo discreto sulla scena internazionale.

Nel 1976, Solgenitsyn e i famigliari decisero di trasferirsi negli Stati Uniti, a Cavendisch (Vermont), accogliendo un invito dell’università di Stanford. L’8 giugno 1978 gli venne conferita una laurea ad honorem in letteratura dalla Harvard University. Nei successivi diciassette anni - oltre a portare in tutto il mondo la sua testimonianza di dissidente - Solgenitsyn ha lavorato al suo ciclo di romanzi storici "La ruota rossa" completati nel 1992; egli portò inoltre a termine numerosi lavori più brevi.

Alla fine dell’Unione Sovietica, il presidente Boris Eltsin restituì a Solgenitsyn la nazionalità russa. Egli ritornò però in patria soltanto nel 1994, insieme alla moglie. Nelle sue ultime opere, lo scrittore ha criticato il potere dei nuovi oligarchi e la decadenza della Russia, appoggiando senza remore la chiesa ortodossa.

In particolare, in opposizione al nazionalismo estremo, egli ha difeso un patriottismo moderato e autocritico: "Era un nazionalista moderato ma intransigente sugli aspetti essenziali, favorevole all’indipendenza di tutti i territori che non volevano essere russi", ha spiegato Georges Nivat, professore di letteratura russa all’Università di Ginevra e suo traduttore.

Seychelles: italiano liberato dopo un anno; mi hanno seviziato

 

La Stampa, 4 agosto 2008

 

Il primo caffè da uomo libero è al bar del terminal 1 dell’aeroporto di Malpensa, alle 18,20 di ieri. "Finalmente in Italia. Finalmente via da quell’inferno maledetto" dice. Telefonata rapida a nonna Bianca: "Tutto bene, tra poco sono lì". E poi uno sfogo fatto di lacrime e silenzi.

Capelli lunghi legati in una treccia, pizzetto, T-shirt, jeans e sandali neri: eccolo qui Federico Boux, 33 anni domani, il ragazzo torinese arrestato un anno fa alle Seychelles dove si era trasferito con la famiglia. Un anno di galera, durissima. Pestaggi, vessazioni. E tutto per 6 dosi di eroina, trovate nella sua automobile.

"Droga non mia" ripete come in una litania, raccontando una storia che ha il sapore della congiura. Due anni in attesa di un processo che non veniva mai. Poi, il suo avvocato di Torino, Domenico Peila, ha giocato d’astuzia. E alla fine Federico è finito in un’aula di tribunale.

Ovviamente c’è stata la condanna, ma a tempo di record è arrivata anche l’espulsione. Tre anni per la droga e poi subito via: imbarcato sul volo in partenza ieri mattina da Mahè che, dopo 9 ore di volo, è atterrato in Italia. Milano. Casa.

 

Federico, la prima domanda è ovvia: ma quella droga era sua?

"Ma cosa dice? Io non ho mai usato stupefacenti. Mi hanno incastrato per togliermi di mezzo, per una complicata storia di interessi ed affari. Insomma: togliendo di mezzo me hanno tolto di mezzo anche i miei genitori".

 

Vuole raccontarla?

"Ci eravamo trasferiti laggiù per lavoro. Avevamo un ristorante in società con un altro. I miei genitori ci hanno rimesso un sacco di soldi perché sono stati incastrati da quel tipo. E adesso sono in causa con lui".

 

Scusi, ma lei non ha mai sospettato nulla, non ha mai temuto nulla?

"E come no. Mia madre, Oriella, me lo ha detto mille volte di stare attento. Ma chi andava a pensare una cosa così".

 

E in carcere com’è stata? Le fotografie mandate con il telefonino la mostravano piena di lividi. L’hanno picchiata?

"Tante volte. Il carcere laggiù è durissimo: vivi in una condizione difficile. Con gente che non ha nulla da perdere".

 

Era con altri italiani?

"No, nel mio braccio non c’erano. I detenuti erano soltanto sei, tutti stranieri. Gli altri, però, erano tutti grossi trafficanti di droga. Tutta gente che è stata fermata con chili di stupefacente. Eroina, immagino. Roba pesante, per cui si rischiano anche trent’anni di reclusione laggiù".

 

E lei che c’entrava con quelli?

"Io? Niente di niente: e sono stato trattato come il peggiore dei delinquenti per una cosa che non ho mai fatto".

 

Com’era la sua cella?

"Guardi al mia cella era due metri per uno e mezzo. Un buco. Luce accesa tutto il giorno, e niente possibilità di respirare un po’ aria. Stare sempre lì dentro ti senti impazzire".

 

E le condizioni di vita?

"Indescrivibili. Pensi che nel braccio dov’ero rinchiuso non c’era neanche il bagno. Se avevi bisogno dovevi chiedere agli agenti di custodia di farti uscire. Ma lo sa quante volte quella porta, nonostante le mie insistenze, non è stata aperta? Una quantità infinita".

 

Tante botte?

"Ne ho prese tantissime, e pure molto spesso". I giornali delle Seychelles parlavano di violenza dei poliziotti in carcere.

 

Lei è mai stato picchiato da loro?

"Sì, purtroppo ho preso le botte anche da loro. Una volta o due, ma eravamo all’inizio della detenzione. Poi è accaduto anche dell’altro".

 

Cioè?

"Una volta, durante un trasferimento in auto, abbiamo avuto un incidente. Mi sono fracassato un dito, mi sono fatto male alla testa. Guarire è stato una tragedia".

 

E con gli altri detenuti?

"Sono stato picchiato da uno che era grosso, molto grosso. Ho provato a resistere. A cercare di fermarlo, ma quello mi ha fatto a pezzi. Ne ho subite di tutti i colori".

 

E non ha mai avuto paura di non uscire mai più da quell’inferno?

Scoppia a piangere adesso Federico. "Paura? Tutti i giorni che Dio mandava in terra ho avuto il terrore di non potermene andare da lì. Tutti i giorni ho pregato che accadesse il miracolo, che le porte del carcere si aprissero".

 

Qualcuno le è stato vicino?

"Mia madre, Oriella, sempre. Dalle Seychelles andava e veniva in continuazione. Non aveva più la residenza, perché avevamo perso l’attività, ma ha fatto i salti mortali per farsi fare i permessi di soggiorno turistici. E poi mio padre, Ezio. Verso la fine anche i poliziotti del carcere mi erano vicini, anche le istituzioni e il Console onorario. Tutti, insomma".

 

Che farà adesso?

"Adesso voglio soltanto dimenticare tutte le cose brutte che ho visto e che mi hanno fatto. Voglio portare in Italia la mia compagna, la sua bimba, e rifarmi qui una vita con loro. Soltanto questo. Niente altro".

 

Ma lei è sempre convinto che si è trattato di un complotto, una trappola quella che l’ha fatta finire in galera laggiù?

"Sempre. E lo dimostrerò".

Iraq: 2 soldati Usa incriminati per omicidio detenuto iracheno

 

Associated Press, 4 agosto 2008

 

Due soldati statunitensi sono stati accusati di aver ucciso un detenuto iracheno e aver mentito a riguardo. Lo ha annunciato l’esercito Usa. Una nota ha indicato che il sergente maggiore Hal M. Warner e il primo tenente Michael C. Behenna dovranno entrambi rispondere di omicidio premeditato, aggressione, falsa dichiarazione ufficiale e intralcio alla giustizia. Warner dovrà rispondere inoltre di favoreggiamento dopo i fatti. Inizialmente si riteneva che il detenuto Ali Mansour Mohammed non si trovasse più in custodia Usa dal 16 maggio. Per entrambi i militari, ha chiarito la nota, c’è la presunzione di innocenza. Un’udienza Articolo 32 (il corrispondente militare del Gran Giurì) per Warner inizierà il 15 agosto in una base Usa a nord di Baghdad. Non è stata ancora decisa la data per Behenna.

 

 

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