Rassegna stampa 19 agosto

 

Giustizia: detenuti a pulire le strade? una trovata pubblicitaria

 

Il Velino, 19 agosto 2008

 

"L’iniziativa che si è svolta a Ferragosto è l’ennesima boutade di metà estate, certamente inutile per risolvere le vere emergenze carcerarie. Il ministro Alfano mette in pratica, in questo modo, quello che tempo fa era l’auspicio dell’attuale Presidente della Camera".

È quanto dichiara il Segretario Generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp) Leo Beneduci che commenta il piano messo in atto giorni fa dal ministro della Giustizia, e che ha consentito a 50 detenuti delle carceri milanesi di lavorare per ripulire le strade della Brianza.

"Trovate pubblicitarie del genere - spiega Beneduci - non fanno altro che prendere per il naso chi nel lavoro rieducativo dei detenuti ci crede veramente, e che da anni s’impegna per portare a casa risultati provvidenziali. Non tutti sanno - aggiunge il segretario generale dell’Osapp - che il lavoro esterno in attività socialmente utili è un’esperienza che non si affaccia adesso nel quadro variegato delle iniziative di recupero del detenuto, e se finora non ha dato i risultati previsti qualcosa vorrà pur dire. Tra l’altro il lavoro, così inteso - spiega Beneduci -, non ci risulta che possa assurgere a finalità di rieducazione: proprio per il fatto che il più delle volte la persona detenuta utilizza questa possibilità come alternativa al nulla offerto in carcere. La dignità - secondo l’Osapp - deve essere necessariamente collegata con la consapevolezza del lavoro".

"Qui - spiega Beneduci - abbiamo una persona che, controllata da un poliziotto penitenziario, compie dei lavori senza che ci sia il benché minimo collegamento tra l’attività svolta e la responsabilità del risultato raggiunto. E in più queste iniziative non risolvono il problema del sovraffollamento. Con una prospettiva - continua il segretario - che conta 56 mila detenuti entro la fine di settembre, 61 mila entro l’anno, il ministro della Giustizia Alfano e il neo capo del dipartimento rischiano di prendere il solito abbaglio di chi profetizza effetti rivoluzionari per mezzo d’iniziative ormai superate, fallimentari e ancorché costose.

Se queste sono le politiche da mettere in campo per risolvere l’annosa questione delle carceri - lamenta l’Osapp -, come sindacato rappresentativo, il secondo della categoria, ci sentiamo di manifestare tutto il nostro rammarico per una politica della Giustizia annunciata come radicale, ma che dimostra invece quanto ci sia bisogno di chiarezza d’intenti. Ci chiediamo - conclude - quale sarà la prossima mossa inaspettata. Magari il braccialetto elettronico?".

Giustizia: Radicali; educatori carcerari, manca 60% organico

 

Agenzia Radicale, 19 agosto 2008

 

Che fine hanno fatto gli educatori penitenziari che hanno vinto il concorso? I deputati Radicali/Pd chiedono al Ministro Alfano di chiamare subito in servizio i vincitori per coprire le preoccupanti carenze di organico.

I deputati Radicali/Pd (Rita Bernardini, Maurizio Turco, Marco Beltrandi, Maria Antonietta Farina Coscioni, Elisabetta Zamparutti e Matteo Mecacci) che il giorno di Ferragosto hanno partecipato alle visite nelle carceri italiane organizzate da Radicali Italiani, hanno rivolto un’interrogazione urgente al Ministro della Giustizia per sapere in quali tempi intenda chiamare in servizio i vincitori e gli idonei del concorso bandito nel 2003 e che ha concluso il suo iter nel giugno di quest’anno.

Nell’interrogazione i deputati radicali citano i dati di 44 Istituti Penitenziari monitorati il 14 agosto, dove a fronte di una pianta organica che prevede 364 educatori, ne sono stati effettivamente assegnati 159, cioè il 43,7% di quanti ne servirebbero. Ancora più impressionante - ad avviso dei deputati radicali - è il dato che si riferisce agli istituti che ospitano minorenni e che si presume dovrebbero essere più impegnati nel lavoro volto al reinserimento sociale dei ragazzi detenuti: su 7 Istituti che hanno risposto al questionario sono solo 35 gli educatori assegnati a fronte di un’esigenza di organico pari a 71 educatori.

Quanto al concorso richiamato nell’interrogazione, si ricorda che nel 2003 e precisamente con Pdg 21 novembre 2003 venne bandito un concorso pubblico per esami per la copertura di 397 posti nell’area C, posizione economica C1, profilo professionale di educatore pubblicato sulla G.U. n. 30 del 16.04.2004 e che dopo un lunghissimo iter procedurale, durato ben quattro anni, il suddetto concorso si è concluso il 13 giugno 2008.

Bernardini, Turco, Farina Coscioni, Beltrandi, Zamparutti e Mecacci sottolineano inoltre come ulteriori ritardi nella chiamata in servizio dei vincitori del concorso da un lato lederebbero le legittime aspettative di quanti attendono delle risposte per poter programmare in maniera più compiuta il proprio futuro e dall’altro striderebbero con l’attuazione della Costituzione e mortificherebbero la richiesta di sicurezza della società; è noto, infatti, che ove durante il periodo della detenzione si attuino programmi di reinserimento per i detenuti il fenomeno della recidiva si riduce drasticamente, elevando così concretamente la sicurezza dei cittadini.

Giustizia: un Comitato femminile per abolizione dell’ergastolo

 

Ristretti Orizzonti, 19 agosto 2008

 

Lettera a Carmelo Musumeci, ergastolano detenuto a Spoleto

"Una donna che corre con i lupi" per sostenere la lotta per l’abolizione dell’ergastolo ha un idea: ognuno di voi ha sicuramente una mamma, una fidanzata, una moglie, una sorella, un’amica, una conoscente. Possiamo creare un movimento, un comitato di donne che sostengono le vostre lotte per chiedere la certezza della vostra pena.

Possiamo rendere "visibile" fuori la vostra lotta "dentro". Possiamo aiutarvi a costruire un futuro. La violenza per una volta, facciamola a noi stessi imponendoci di non vedere tutto quello che non và come insormontabile! Possiamo sfilare per voi con un cartello che ricordi cosa dice l’articolo 27 della Costituzione indossando una maglietta con scritto "Mai dire mai".

Possiamo anche andare a chiedere udienza al Presidente della Repubblica come tutore e custode della Costituzione che dice che la pena ha una funzione rieducativa. Possiamo, creare un gruppo che sostenga tutte nei momenti di sconforto e di solitudine, quelli in cui è più difficile avere speranza e assieme anche trovare soluzioni per problemi pratici, legali o di altro genere: perché l’unione è forza. Se non avete speranza, cercatela innanzi tutto dentro di voi e poi fuori di voi.

 

Clare Holme

 

La risposta di Carmelo Musumeci

Non abbiamo bisogno di idee, abbiamo bisogno di fatti: che aspetti a realizzare la tua idea? La solidarietà è azione. Basta poco. Un programma: sostenere la campagna contro l’abolizione dell’ergastolo e le iniziative dentro degli ergastolani in lotta. Un indirizzo, sia postale che elettronico, un numero di telefono, un euro di adesione per spese finanziarie e l’impegno di partecipare a tutte le iniziative del movimento "Donne che corrono con gli ergastolani". La voce si spargerà nelle carceri e ti assicuro già da adesso che molte nonne, mamme, mogli, sorelle, figlie, donne comuni aderiranno. Puoi coordinarti con l’Associazione Pantagruel, che ci rappresenta. Che aspetti?

 

Carmelo Musumeci, dal carcere di Spoleto

 

L’appello di Clare

Un Comitato femminile di sostegno alla protesta degli ergastolani: questa proposta è per tutte voi signore e signorine che vi chiedete cosa si può fare, come si possa sostenere la lotta di chi chiede l’abolizione dell’ergastolo... ecco un’idea!

Uniamoci in un Comitato che renda visibile "fuori" la protesta di chi sta "dentro"! Penso a tante donne - mogli, figlie, sorelle, mamme, fidanzate e amiche e conoscenti di ergastolani - che magari organizzi una marcia - in bianco ragazze? - o un raduno in concomitanza della protesta che tra qualche tempo avrà luogo nelle carceri.

Un messaggio semplice, legale e diretto: ribadire quello che sta scritto nell’articolo 27 della costituzione italiana ovvero che le pene devono avere fini riabilitativi - che l’ergastolo non ha di certo! Se credete come me che sia una lotta giusta e che l’affetto, l’amore e l’amicizia passino anche attraverso l’azione, allora mettiamoci in rete! La mia mail è clareholme@yahoo.it e il mio indirizzo e telefono sono reperibili dall’Associazione Pantagruel di Firenze. Ciao a tutte! Confido nella vostra capacità di amare forte.

 

Clare Holme

Giustizia: Alì… quando il corpo diventa il luogo della rivolta

di Paolo Persichetti

 

Liberazione, 19 agosto 2008

 

La vicenda di Alì Jubury, il detenuto iracheno quarantaduenne morto lunedì scorso a causa di uno sciopero della fame intrapreso per protesta contro una condanna che considerava ingiusta, è una di quelle notizie che troviamo confinate nelle brevi dei grandi quotidiani nazionali o che al massimo riempiono lo spazio di un articolo della stampa locale. Vite che scivolano via nell’indifferenza generale, sospiri persi nelle distrazioni di una estate afosa. Le cronache ci dicono che si trattava probabilmente di una persona sorpassata dagli eventi, triturata dai meccanismi di un dispositivo burocratico-punitivo che non riabilita ma macera le esistenze, soprattutto quando sono fragili.

Arrestato a Milano, rinchiuso a san Vittore, subito dopo la condanna di primo grado gli è toccato il destino dei tanti stranieri ospiti delle nostre carceri: lo sfollamento. I grandi carceri giudiziari funzionano così. I detenuti appena condannati vanno via per lasciare posto ai "nuovi giunti". Qualcuno ce la fa a restare perché c’è sempre una piccola sezione penale pronta ad accogliere i raccomandati, quelli che hanno un mestiere utile al carcere (muratori, idraulici, elettricisti) e gli asserviti alla custodia. I residenti finiscono nei "penali" della città, se esistono, o nelle carceri della provincia. I più sfigati vengono distribuiti nella regione. Una norma del regolamento penitenziario salvaguarda il diritto di prossimità al luogo di residenza dei familiari, l’istituto di assegnazione non deve distare oltre i 300 chilometri. Così c’è scritto… Il criterio non vale per le categorie speciali, come i detenuti in 41 bis, gli Eiv.

Gli stranieri (una volta si diceva "forestieri", parola migliore che indica soltanto la provenienza da fuori, non l’estraneità, la diversità), che nella stragrande maggioranza dei casi sono soli, vengono sbattuti, "tradotti" (altro termine della burocrazia penitenziaria) nei quattro angoli del paese. Da una città del Nord a causa di uno sfollamento si può arrivare anche in Sicilia. Jubury era finito a Vasto, sul litorale abruzzese. Condannato a un anno e tre mesi era rimasto in carcere.

Non risulta che avesse recidive, non aveva altre condanne e si protestava innocente per quella che aveva subito. Secondo la legge avrebbe potuto essere fuori. Per gli incensurati che incorrono in pene inferiori ai due anni è prevista la condizionale. Il pacchetto sicurezza, che per alcuni reati detti di "particolare allarme sociale" modifica questa norma, è stato approvato solo più tardi. Jubury deve essere incappato in un giudice che ha anticipato i tempi, uno di quelli che annusano con particolare solerzia la direzione del vento. Sicuramente non aveva avvocato, non poteva permettersene uno bravo. Avrà avuto un legale assegnato d’ufficio che senza parcella non si è minimamente interessato al suo caso. Per lui nessuna misura alternativa.

Se sei straniero non vale. È più facile che ti condannino perché su di te pesa un pregiudizio sfavorevole. Magari ti manca il permesso di soggiorno e hai una residenza al nero che non puoi certificare. Allora non ti resta che accettare il carcere e aspettare che passi. Potresti fare una richiesta di rimessa in libertà, ma non lo sai, non parli bene la lingua, non conosci le leggi, ti chiedono solo di rispettarle. Hai solo doveri ma non diritti. Magari sei sfortunato e non incontri nessuno che vuole o può aiutarti.

Nessuno che si sofferma a parlarti, che ti chiede da dove vieni, perché sei lì. Sei solo un paria, uno dei tanti buttati in fondo a una cella. Non capisci cosa succede e perché ce l’hanno tanto con te che volevi solamente vivere, mangiare, vestirti, avere una donna, dei figli. No, per te non vale. Allora ti monta la rabbia, una rabbia che ti torce le budella, ti prende lo stomaco, ti fa digrignare i denti. Vorresti urlare al mondo quell’assurda situazione, ma oltre le mura del carcere c’è solo campagna. Una bella campagna che ti ricorda la tua terra.

Gli alberi da frutto, gli ulivi. Ricordi quando eri bambino e correvi tra i campi di grano. Invece ora apri gli occhi e vedi solo sbarre e cemento mentre la vita scorre ritmata dal rumore di grosse chiavi d’ottone. Fuori non c’è nessuno, solo il vento. La rabbia allora fa il cammino inverso, ritorna in te, s’impadronisce del tuo corpo, lo usa come un’arma. Tu diventi il luogo della lotta, lo strumento della protesta. Non hai altro. Hai solo quel corpo e lo usi.

Un filosofo che conosce quelle parole che tu non sai la chiama la "nuda vita". Tu fai della nuda vita il mezzo della rivolta. Non accetti quel che succede. Smetti di mangiare. I primi giorni senti freddo, tanto freddo. Brividi atroci lacerano le tue ossa, la notte il cuore batte fortissimo, ti prende l’affanno. Poi senti come una febbre che ti brucia la pelle. Il corpo divora se stesso. Il tuo peso precipita ma tu già non senti più il morso della fame. Lo stomaco si è chiuso, le forze mancano, ma basta stare fermi e coperti. Le ore passano nel dormiveglia. Ormai sei nella vertigine e non sai più tornare indietro.

Dicono che sia un mezzo di lotta nonviolenta. Che fesseria! Non c’è forma più violenta di uno sciopero della fame, di un corpo che divora se stesso. Autofagia. Altri si mutilano, si tagliano a fettine. Sfregiano la propria pelle con idelebili cicatrici. Rughe che parlano di dolore. Piaghe vive, zampilli di sangue che sporcano i muri tra urla eccitate e fuggi fuggi generale. Un modo di richiamare l’attenzione, segno di fragilità, di disperata voglia di comunicare senza avere gli strumenti giusti per farlo. Nel 2007 (fonte Antigone) gli atti di autolesionismo recensiti sono stati 3.687. Circa duemila in meno del 2004, grazie agli effetti dell’indulto. Comunque l’8,14% della popolazione detenuta. La triste storia di Alì Jubury insieme a queste cifre ci dice che il carcere è il problema, non la soluzione.

Orvieto: trasferito direttore di carcere, dopo molte polemiche

 

Il Centro, 19 agosto 2008

 

Destinazione: la Casa Circondariale di Frosinone, sede del nuovo incarico. Donato era al vertice dell’istituto orvietano da oltre 25 anni. Trasferito il direttore del carcere. Il provvedimento ministeriale è arrivato puntuale lo scorso 13 agosto, al termine dell’indagine ispettiva avviata sui disordini lamentati dai sindacati, nel mese di maggio, all’interno della casa di reclusione orvietana. Giuseppe Donato avrebbe già lasciato la struttura. Destinazione: la casa circondariale di Frosinone, sede del nuovo incarico. Donato era al vertice dell’istituto orvietano da oltre 25 anni.

La sua direzione è stato oggetto in questi ultimi mesi di feroci critiche da parte dei sindacati che lo hanno incolpato di una gestione troppo lassista e di eccessiva condiscendenza nei confronti dei detenuti, a scapito della tranquillità della polizia penitenziaria. Ultimamente, penitenziaria e direttore erano arrivati ai "ferri corti" e c’erano pendenti una quarantina di richieste di "distacco" da parte del personale al provveditorato regionale.

Ora le richieste di trasferimento sarebbero tutte rientrate, come conferma il dirigente regionale dell’Osapp, Simone Fanti, che esprime grande soddisfazione per la decisione del ministero. "Il provvedimento recepisce le nostre richieste non possiamo che essere molto soddisfatti". Il trasferimento di Donato per Fanti è "una cosa essenziale per continuare a lavorare serenamente al carcere di Orvieto". Per la struttura che sarà retta temporaneamente dal direttore della casa circondariale di Terni, Francesco Dell’Aira, non è stato nominato ancora un nuovo dirigente.

Sassari: "San Sebastiano", un rudere da museo archeologico

di Guido Melis (Deputato del Partito Democratico)

 

La Nuova Sardegna, 19 agosto 2008

 

La mattina di Ferragosto, con una piccola delegazione del partito radicale e delle associazioni di volontariato, ho visitato da parlamentare le carceri di San Sebastiano. Ci sono in Italia, al momento, 55 mila carcerati, quando, superando i posti letto previsti, ce ne potrebbero essere al massimo 43 mila. La gran parte delle carceri sono vecchi edifici, inadatti, strutturalmente superati, concepiti quando la pena doveva essere afflizione e non, come vuole la Costituzione, anche recupero sociale ed umano del condannato.

Il carcere di San Sebastiano a Sassari, ad esempio, progettato a cavallo dell’unità d’Italia, fu inaugurato - attesta Enrico Costa - nel 1871: 137 anni fa, all’epoca delle carrozze e della illuminazione a gas. Allora, certo, era un gioiello di edilizia carceraria; adesso è un rudere da museo archeologico, con l’intero secondo piano inagibile per minaccia di crolli e le celle - per lo più fatiscenti nonostante i vari restauri succedutisi negli anni - concepite come squallidi dormitori, pochi metri quadri per 4-5 detenuti, muri scrostati, bagno alla turca, poca luce, le bottigliette d’acqua tenute fresche dentro calzini bagnati (solo il reparto femminile ha un frigorifero), nessuna possibilità di lavorare, né di imparare un mestiere (il candeliere dei carcerati, presentato l’altro giorno, è stata solo una rara eccezione), con un personale di custodia lodevole per abnegazione ma perennemente sotto organico (ultimo concorso nel 1993), poche educatrici (tre per Sassari e Alghero), in alcune celle invasioni di formiche ecc. Si attende - mi dicono - il completamento del nuovo carcere in zona Bancali, alla periferia della città: ma i lavori languono e, nell’ipotesi più ottimistica, si parla del 2011.

La verità è che, dopo il can can dell’indulto, tutto è tornato come prima. Non solo l’indulto (non accompagnato da un’amnistia e da un organico piano di riforme) è fallito, come dimostrano da sole le cifre dei detenuti; non solo si procede scriteriatamente a penalizzare, invece che a depenalizzare, riempiendo le celle di ragazze e ragazzi che, responsabili di piccoli reati, alla scuola del carcere naturalmente diventano quei delinquenti finiti che magari ancora non sono.

Si fa di peggio: si tagliano con la pre-finanziaria di luglio i fondi per l’edilizia carceraria, si penalizza il reclutamento degli agenti di custodia (turni dalle 6 alle 12, per poi tornare in servizio dalla mezzanotte all’alba; e tutto pagati meno di un vigile urbano), si chiude la porta alle riforme e si arriva a minacciare la stessa legge Gozzini, che negli anni scorsi ebbe almeno il merito di ridare una parvenza di civiltà a un ordinamento penitenziario di stampo medievale. È la solita politica della destra, del resto, in questo come in altri settori: sicurezza vuol dire repressione, colpire nel mucchio, aggravare le pene, magari - come pure si sta facendo - trasformare in delinquenti gli extra-comunitari e persino i comunitari non in regola col permesso di soggiorno (inventando una norma che farebbe inorridire Cesare Beccaria, per cui - a parità di reato - se sei straniero paghi di più).

Nessuno guarda al di là del proprio naso: serve a qualcosa riempire le carceri di tossici? Serve tenere dentro con gli altri dei soggetti non in sé, che si producono lesioni anche gravi, in una follia auto distruttrice che andrebbe piuttosto curata dai medici? Serve rinchiudere nella stessa cella detenuti in attesa di giudizio (dunque virtualmente innocenti) con condannati più volte recidivi?

E che conseguenze avranno su quelle menti il degrado dei luoghi, l’umiliazione della promiscuità forzata, la scarsa pulizia, la disperazione di quelle celle? Ci sono in Sardegna (dati al 30 giugno) 12 carceri, 1888 detenuti (51 donne), di cui solo 991 condannati (797 sono imputati). Non tutti gli edifici sono come San Sebastiano, ma molti (li visiteremo nei prossimi mesi) gli assomigliano.

Mi domando (domando al ministro Alfano, che in questi giorni si è esibito in dichiarazioni rassicuranti): è o no un’emergenza la questione carceri? E con quali fondi, sottratti alla voracità del ministro Tremonti, la si intende affrontare? Sono domande alle quali un paese che si proclama la culla della civiltà del diritto dovrebbe una volta o l’altra rispondere.

San Gimignano: visita di parlamentari, struttura "promossa"

 

Agi, 19 agosto 2008

 

Una giornata di mobilitazione all’interno del carcere di Ranza a San Gimignano per verificare le situazioni di criticità e osservare le condizioni di vita dei detenuti. È quella che ha visto protagonisti i deputati del Pd, Susanna Cenni e Gianni Cuperlo. L’iniziativa, promossa da Radicali Italiani, si è svolta in molte altre carceri italiane ed ha visto la mobilitazione di parlamentari, consiglieri e amministratori locali sia del Pd che del Pdl.

"Si è trattato - ha sottolineato Cenni - di una visita utile ed importante. Siamo stati accolti con molta disponibilità da parte del direttore del Carcere, che mi è sembrato motivato nello svolgere la sua attività. Nella struttura ci sono da risolvere alcuni problemi, come l’approvvigionamento idrico o la carenza di personale, che cercheremo di affrontare come parlamentari di questo territorio.

Già Franco Ceccuzzi, nella scorsa legislatura, ha tenuto accesa l’attenzione sul carcere di Ranza e tutti noi continueremo a vigilare, cercando di intervenire per eliminare i fattori di criticità. Mi sembra, comunque, una struttura con un buon livello di vivibilità e di gestione. Serviranno risorse per finanziare le attività, per alzare la qualità della vita di chi vive e lavora in queste strutture e anche su questo la nostra attività parlamentare proseguirà". "Abbiamo aderito volentieri a questa iniziativa - ha detto Cuperlo - visitando un carcere, come quello di San Gimignano, che presenta alcuni problemi, primo fra tutti la carenza dell’organico, ma che resta nel complesso una buona struttura. La mia sensazione è stata quella di trovare un personale molto qualificato, con elevato senso di responsabilità.

Credo che i colleghi che hanno visitato altre carceri si siano trovati di fronte a problemi di ben altro spessore a cominciare dal problema del sovraffollamento, che qui a San Gimignano, per esempio, non abbiamo riscontrato. Faremo in modo che, anche nell’attività parlamentare dei prossimi mesi, ci sia una costante attenzione su queste tematiche".

Roma: tabaccaio spara ai ladri, ucciso un romeno di 22 anni

 

Ansa, 19 agosto 2008

 

Sorprende i ladri nella sua tabaccheria, spara e uccide un romeno. È successo la notte scorsa ad Aprilia, non distante da Roma. Il ladro, in compagnia di altri due complici, era riuscito ad entrare nel negozio ma il commerciante che abita nell’appartamento sopra la bottega, Davide Marini di 44 anni, è stato risvegliato dal sistema d’allarme ed è sceso in strada imbracciando un fucile. Un colpo e un ladro è finito a terra, lungo la strada accanto alle stecche di sigarette che voleva rubare. Caccia ai complici della vittima sono riusciti a fuggire.

"Quando si è accorto che sotto, in negozio, c’erano i ladri - ricorda la figlia 18enne del tabaccaio - mio padre si è affacciato al balcone gridando, ma quelli ci hanno minacciati di non scendere se no ci avrebbero ammazzato. Mio padre non ci ha più visto: è sceso con il fucile". Sul marciapiedi, accanto al cadavere del rapinatore, un romeno di 22 anni, i carabinieri hanno trovato tre sacchi di sigarette abbandonati dai ladri durante la fuga.

"Se ha sparato non aveva altra scelta", dicono gli altri commercianti di via Fossignano. In passato la tabaccheria aveva subito diversi furti, come pure altri negozi nella zona. La gente che stamane si è riunita davanti al negozio, difende l’uomo che ha aperto il fuoco: "Siamo esasperati". Davide Marini è chiuso nella caserma dei carabinieri di Aprilia in stato di fermo. Utili alle indagini saranno le riprese di una telecamera a circuito chiuso installata vicino alla tabaccheria rapinata.

Immigrazione: se condanna è estinta sì al permesso soggiorno

di Alessandro Galimberti

 

Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2008

 

Oltre al decorso del tempo vanno considerati elementi di fatto da cui far derivare il giudizio sulla pericolosità. Lo straniero che, dopo aver patteggiato una pena entro la condizionale, non commette reati per almeno 5 anni, ha diritto ad ottenere (o riottenere) il permesso di soggiorno.

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato (Sesta sezione giurisdizionale, sentenza 3902/08) annullando la decisione del Tar Lombardia (Brescia, sezione L 821/2002) sul caso di un immigrato sorpreso 13 anni fa a rubare una tuta da ginnastica in un centro commerciale. L’uomo, allora, se l’era cavata con patteggiamento e pena sospesa, ma con l’inevitabile coda dei decreti di prefetto e questore per la revoca del permesso di soggiorno, e l’ordine di espulsione dall’Italia. L’anno successivo il questore gli aveva negato l’istanza di regolarizzazione del permesso di soggiorno.

Nel 2002 l’immigrato, nel frattempo tornato a vivere e lavorare in Italia (dove aveva acceso anche un mutuo per l’acquisto di casa per la famiglia) aveva chiesto l’annullamento di tutti i provvedimenti amministrativi a suo carico, ottenendo però la risposta negativa del Tar Brescia.

Il Consiglio di Stato ha censurato in più punti la sentenza di primo grado, annullandola insieme ai decreti di prefetto e questore e ordinando loro di regolarizzare la posizione del ricorrente.

La questione, secondo i giudici, sta nell’equivalenza degli effetti giuridici tra la "riabilitazione" (articolo 178 codice penale) e l’estinzione del reato, quando il patteggiarne non ne commetta altri nei 5 anni successivi (articolo 445 cpp). La prima consente infatti di ottenere di diritto la regolarizzazione del rapporto di lavoro (articolo 1 legge 222/2002), perché fa espressamente salvi gli effetti della "riabilitazione" dai casi di diniego della regolarizzazione stessa.

Il Consiglio di Stato ha condiviso l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’estinzione della condanna patteggiata, dopo 5 anni di "buona condotta", è equivalente alla riabilitazione: "Una volta realizzatasi la condizione (del decorso quinquennale, ndr) non v’è più interesse giuridicamente apprezzabile ad ottenere la riabilitazione" (Cassazione penale IV, 534/1999).

A favore dell’immigrato "bresciano", quindi, deponevano circostanze di fatto e di diritto che il Tar Lombardia non aveva considerato: l’estinzione della pena, innanzitutto, ma anche la modesta gravità del reato commesso, il fatto che l’imputato non abbia mai più reiterato, e non ultimo l’inserimento stabile dello stesso nella struttura sociale italiana, come dimostra l’attività lavorativa e l’impegno finanziario per l’acquisto di una casa di residenza.

A margine della sentenza, c’è da notare che la novella all’articolo 235 del codice penale (Dl 112/2008) non avrebbe inciso diversamente in questo caso: il limite di pena per l’espulsione è rimasto a 2 anni.

Torino: rivolta all’ex Cpt, ferito un agente; la polizia protesta

 

La Repubblica, 19 agosto 2008

 

Materassi e tavoli di legno incendiati, oggetti scagliati contro le forze dell’ordine e un agente contuso. È il bilancio dell’ultima rivolta al Cie, l’ex Cpt di corso Brunelleschi. La prima per gli alpini della Taurinense. L’ennesima per quei poliziotti che ora annunciano proteste clamorose e valutano la possibilità di indire uno "sciopero bianco".

La tensione è esplosa domenica notte, attorno alla mezza, quando un giovane straniero, sedicente marocchino, ha dato in escandescenze mentre attendeva di entrare nella sala medica. Trasferito nei giorni scorsi a Torino da Modena, dove pare si fosse già reso protagonista di episodi simili, il nordafricano avrebbe incominciato ad inveire contro il personale. Gli altri immigrati, a questo punto, avrebbero colto la palla al balzo, sfruttando la confusione venutasi a creare per dare il via a tumulti che per essere sedati hanno richiesto l’intervento di numerosi poliziotti, carabinieri, alpini e vigili del fuoco.

Gli immigrati, dopo aver colpito gli uomini delle forze dell’ordine con un fitto lancio di oggetti, si sono barricati nei moduli abitativi e, rispettando un copione ormai consolidato, hanno tentato, invano, di incendiare i materassi fatti di un materiale ignifugo. La rabbia degli stranieri (57 in tutto), si è allora concentrata sui tavoli di legno della sala mensa, dati alle fiamme. L’intervento degli uomini delle forze dell’ordine ha evitato il peggio e, dopo circa un’ora, la situazione è tornata alla calma.

Durante i tumulti, un poliziotto è rimasto contuso. E mentre la Lega, attraverso l’onorevole Allasia, sostiene che "questi comportamenti non possono più essere tollerati", il Sap si rivolge direttamente a Maroni e paventa proteste "clamorose". "Abbiamo chiesto da tempo al ministro dell’Interno di rinforzare l’organico in forza alla struttura - ha detto Massimo Montebove, portavoce nazionale - si è preferito invece, impiegare la Taurinense e lasciare fuori i poliziotti e i carabinieri, salvo poi richiedere il loro aiuto per sedare risse e risolvere problemi. A queste condizioni non ci stiamo più.

O arrivano risposte concrete, o altrimenti le forze dell’ordine e la polizia di Stato sono pronte a mettere in pratica forme di protesta anche clamorose". I poliziotti, in particolare, stanno valutando due possibilità. "Potremmo mobilitarci con presidi fissi di colleghi fuori servizio davanti ai Cie, ma anche mettere in pratica uno sciopero bianco. In pratica, i poliziotti si atterrebbero alla rigorosa esecuzione degli ordini di servizio. Senza fare nulla in più. E i cittadini se ne accorgerebbero subito. Perché se possono dire di sentirsi sicuri, è grazie al buonsenso degli agenti che quotidianamente fanno più di quello per cui sono pagati".

Tornando alla rivolta, anche questa volta i siti web dell’anarchia torinese hanno lanciato la notizia. E la versione dei fatti, come al solito, contrasta con quella ufficiale. "Un detenuto dell’area rossa - hanno scritto - ha fatto notare che gli sono stati dati farmaci sbagliati. La discussione tra i due si è accesa, al che la crocerossina ha ordinato a tutti di mettersi in fila e di andare in infermeria per prendere la terapia. Il primo ad entrare è stato il ragazzo che si era lamentato, ma quando è uscito non riusciva a camminare perché i poliziotti lo hanno picchiato. I detenuti hanno iniziato ad urlare e a bruciare tutto".

Immigrazione: viaggio in Centro d’accoglienza di Lampedusa

di Giuliana Sgrena

 

Il Manifesto, 19 agosto 2008

 

Visita al Centro di accoglienza gestito da due cooperative. Non è più il lager della Misericordia, ma per i profughi il futuro è sempre più a rischio. Anche di espulsione.

Cristina, dice di chiamarsi così la donna che sta allattando la sua bambina, Sara, di appena sette mesi. Cristina è arrivata a Lampedusa con il marito e la figlia dal Ghana, su una imbarcazione di fortuna. Lei non parla, ma ce lo spiega un giovane ragazzo, sveglio e con molta comunicativa, anche lui ghanese, che insieme a Cristina e altri africani è sbarcato nei giorni scorsi a Lampedusa dopo una traversata avventurosa.

Ci troviamo all’interno del Centro soccorso e prima accoglienza (Cspa) dove siamo entrati senza grandi iter burocratici. Questa è la prima sorpresa, anche se dovrebbe essere la normalità: il Cspa è aperto ai giornalisti. Si entra, si può parlare con i migranti e con i lavoratori, si possono riprendere immagini evitando i primi piani che renderebbero riconoscibili gli "ospiti" del centro. Visti i tempi che corrono - con le nuove leggi anti-immigrati - un minimo di discrezione ci sembra assolutamente dovuto a queste persone indifese e smarrite.

 

Domande senza risposta

 

Appena toccano terra sui loro visi si vede la gioia per aver raggiunto l’obiettivo: l’altra sponda del Mediterraneo. Ma poi cominciano le difficoltà, enormi, per restarci e nei loro occhi si intuiscono tanti interrogativi che non riescono nemmeno a formulare. Che cosa ti aspetti dall’Italia, cosa desideri? chiediamo. La risposta è sempre la stessa: "un lavoro, un lavoro qualsiasi". Dietro quella risposta vi è tutta la dignità di chi vuole sopravvivere con i propri mezzi, un lavoro onesto per costruire un futuro con le proprie mani. Nessuno ti chiede nulla: né un aiuto, né un’informazione. È la difficoltà di articolare una domanda o la paura della risposta? Certo avranno molte curiosità: somali e eritrei (la maggior parte dei nuovi arrivati) finora, nel loro paese, avevano sentito parlare dell’Italia soprattutto per il passato coloniale o per i più recenti interventi militari. Forse l’Italia è invece un paese come un altro per coloro che arrivano dalla Nigeria (dove l’Eni peraltro estrae petrolio), Ghana e altre regioni dall’Africa sub sahariana. Ormai sembrano essersi esauriti gli arrivi dal Maghreb, a parte gli algerini che approdano sulle più vicine coste sarde e i marocchini che vanno in Spagna.

Eppure una volta arrivavano anche qui. Alcuni migranti a volte sono anche riusciti a fuggire dal Cspa, pochi per la verità, ed è forse stata la curiosità a spingerli a superare le inferriate più che la possibilità reale di una fuga su un’isola così piccola e deserta. In paese raccontano che quando i migranti sbarcano senza essere intercettati sono loro stessi a chiedere del centro di accoglienza. E raccontano anche di quei quattro maghrebini scappati e riacciuffati in un bar della centrale via Roma. All’arrivo dei carabinieri erano tranquillamente seduti a un tavolino sul marciapiede davanti al bar e si sono lamentati perché non avevano ancora preso il caffè, appena ordinato. Pare abbiano convinto i carabinieri ad aspettare che lo bevessero. Forse ne avranno approfittato anche i carabinieri. Chissà se la storia è vera. Ma anche se non lo fosse dà l’idea di come sono visti i migranti dai lampedusani e persino da alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine.

Certo non si può generalizzare ma non siamo più ai tempi del lager gestito dalla contestatissima Misericordia che si trovava vicino all’aeroporto e poteva rinchiudere meno di 200 profughi. Una realtà efficacemente descritta, nel suo reportage per l’Espresso, da Roberto Gatti, che si era finto migrante kurdo per poter entrare nel centro di accoglienza. Sicuramente il clamore suscitato da quella denuncia ha contribuito a far cambiare le cose.

Dal 1 giugno 2007 il Cspa, che ora è ospitato in nuovi edifici in una zona isolata, è gestito dalla Lampedusa accoglienza, una società consortile formata da due cooperative, Sisifo e Bluecoop, della Lega delle cooperative. La società ha vinto la gara di appalto abbassando i costi del 30 per cento rispetto alla gestione della Misericordia ma ha migliorato di molto i servizi, anche secondo le testimonianze di chi aveva avuto modo di visitare il vecchio centro.

Una scelta difficile

La scelta della Lega delle cooperative di impegnarsi su un terreno così spinoso per la sinistra come la gestione dei Cpt non è passata facilmente neanche all’interno della Lega, ammette Cono Galipò, amministratore delegato della Lampedusa accoglienza, sostenitore di questa nuova "filosofia" nell’approccio al tema dell’immigrazione che, almeno finché non sarà trovata un’alternativa ai Cpt, punta sull’umanizzarne la gestione. Una polemica giustificata anche dal precedente poco edificante del Cpt (ora Cie, centro identificazione e espulsione) di Gradisca, gestito per l’appunto in consorzio dalla cooperativa rossa Enghera.

Galipò ci spiega anche un suo progetto di formazione dei giovani per evitare, come succede ora, che 3.000 minori arrivati nel nostro paese spariscano, ogni anno. Dove finiscano non si sa, nelle migliore delle ipotesi andranno ad alimentare il mercato nero del lavoro. Un progetto che la Lega delle cooperative potrebbe realizzare, se la legislazione lo permettesse.

Prima ancora di arrivare al termine della vallata dove si trova il Cspa avevamo osservato il complesso di tre lunghi edifici a due piani - container coibentati - dall’alto e l’impressione era stata quella di un alveare dove molte persone giravano a vuoto.

Quello era uno dei giorni di maggior affollamento del centro dovuto ai numerosi arrivi favoriti dalla condizione del mare. Ma i carabinieri stavano già caricando su autobus i migranti candidati al trasferimento in altri centri. Il turnover organizzato dal Ministero degli interni è continuo: ogni notte nuovi sbarchi e di giorno i trasferimenti via aereo. Si tratta di una pratica consolidata tanto che gli abitanti dell’isola e i turisti non si accorgono di nulla, raramente si incontra qualche bus che trasporta i migranti, tutti con maglietta bianca, all’aeroporto.

Al Cspa di Lampedusa i migranti dovrebbero rimanere solo 36 ore in transito ma i tempi si allungano a una media attuale di circa 7 giorni. Qui ci sono 850 posti letto ma nei giorni scorsi "siamo arrivati a 1.200-1.300 e un giorno persino a 1.650 ospiti", spiegano i dirigenti del Cspa. In questi casi viene usata anche l’infermeria e i corridoi dove si stendono i materassini in gommapiuma azzurri. Ma quando all’interno lo spazio è esaurito si dorme all’aperto, anzi i migranti preferiscono mettersi fuori, per molti di loro è un’abitudine e il clima ma soprattutto il cielo di Lampedusa non ha nulla da invidiare a quello africano.

Eppure, anche nei momenti di maggiore affluenza non ci sono stati particolari problemi, i magazzini sono sempre stracolmi di merci e in grado di far fronte a qualsiasi emergenza. Tanto meno ci sono stati problemi per la popolazione, il turismo non ha subito nessun calo se non quello fisiologico dovuto però all’impoverimento degli italiani e non agli sbarchi.

Gli unici preoccupati sembrano il sindaco e la sua vice che diffondono voci allarmistiche (la senatrice leghista Angela Maraventano lancia accuse contro Gheddafi e contro il leader libico ha anche fatto uno sciopero della fame durato ben 6 ore!) evidentemente per "monetizzare" la questione immigrazione oltre che per fornire alla politica governativa lo spauracchio dell’emergenza immigrati per giustificare le misure razziste. Ma senza immigrati l’isola di Lampedusa sarebbe presto dimenticata.

Spesso si sentono volteggiare elicotteri dei carabinieri che pattugliano le coste. Quando avvistano dei natanti sono le motovedette della guardia costiera a scortarle in porto. Al momento dello sbarco sono già pronti i bus inviati dal Cspa per il trasporto al centro. Al porto non si fermano più, se qualcuno sta male intervengono i Medici senza frontiere che qui hanno una loro équipe. All’arrivo al Cspa il primo controllo riguarda la presenza di malattie infettive: la più diffusa è la scabbia. Chi è infettato viene subito isolato.

Per gli altri si procede alla identificazione con foto, numero, impronte digitali e nazionalità. I nomi sono quelli dichiarati dai migranti, una verifica è impossibile. Viene anche distribuito un kit: tuta, magliette, scarpe, materiale igienico, lenzuola usa e getta, asciugamani, una scheda telefonica da 5 euro. Le famiglie vengono ospitate in un compound a parte, in un altro le donne, poi i minori e separati da una cancellata i maschi maggiorenni, che sono tutti comunque prevalentemente giovani. Le donne e i minori varcano il cancello dei maschi per andare in mensa dove oltre al cibo e l’acqua minerale (4 litri al giorno) vengono distribuite anche 5 sigarette a pasto.

Per le donne, numerose così come i bambini per i quali è stato allestito un piccolo parco giochi, è previsto un test di gravidanza: spesso sono incinta e in questo caso occorre segnalarlo al centro dove saranno inviate per prevedere un trattamento particolare, molte di loro provengono dalla Somalia dove è diffusissima l’infibulazione che comporta spesso gravi problemi durante il parto, e non solo. Nel Cpsa di Lampedusa, dove ora lavorano due medici, disponibili 24 ore su 24, sono in arrivo altri quattro specialisti: due ginecologi, un dermatologo e un infettivologo.

 

In fuga dalla guerra

 

All’interno del recinto che ospita il Cspa vi sono anche rappresentanze della Croce rossa, dell’Organizzazione internazionale migrazioni e dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati. Tra i profughi che arrivano da zone devastate dalla guerra e dalla violenza è evidente che molti avanzeranno la richiesta di diritto di asilo. E come si può negare tale diritto a chi è partito da Mogadiscio, ancora devastata dai combattimenti, ha attraversato il deserto su un camioncino e poi dalla Libia si è imbarcato su un mezzo poco sicuro ma ha avuto la fortuna di non finire sul fondo del mare e di sbarcare a Lampedusa?

Dopo quasi vent’anni di guerra in Somalia, dove rischi la vita solo uscendo di casa, cosa può esserci di peggio? E come non considerare la responsabilità degli eserciti occidentali e prima ancora della corruzione di governi che hanno contribuito a creare quella situazione? L’esempio della Somalia si può estendere a molte altre situazioni.

Basterebbe che i nostri governanti avessero il coraggio di guardare queste persone negli occhi per convincersi a cambiare politica. Ma questo coraggio non ce l’hanno. E invece le persone, i civili, che lavorano a contatto con loro - sono un’ottantina, la maggioranza di Lampedusa - questa sensibilità o umanità ce l’hanno, si vede dal rapporto che si instaura con loro, con i giovani, con le donne, con i bambini.

Anche se sono costretti a lavorare a tutte le ore, di giorno e di notte. Ma anche tra le forze dell’ordine c’è chi ha sfidato e continua a sfidare il mare per portare in salvo questi sfortunati. Anche per loro lavorare in queste condizioni, con lo stesso stipendio di chi sta in un ufficio o a cercare prostitute dove non ci sono, può persino diventare un punto di onore.

Se si guardano negli occhi queste persone che non ti chiedono nemmeno di avere il bene più prezioso per un essere umano che è la libertà, ma si accontentano di stare dietro i cancelli di un Cspa, ci vuole più coraggio a maltrattarle che a rispettarle.

Immigrazione: Roma; lungo il Tevere, a caccia di clandestini

di Fabio Di Chio

 

Il Tempo, 19 agosto 2008

 

Ci penseranno i soldati a scongiurare il sorgere di altre baraccopoli, sorte dopo gli sgomberi lungo gli argini del Tevere e dell’Aniene, fiumi simbolo di Roma nel mondo, amatissimi dai romani, di nuovo assediati da clandestini e delinquenti che sfuggono al censimento volontario che la Croce Rossa sta realizzando nei campi nomadi regolari e abusivi della Capitale.

Da oggi la presenza dello Stato, avvertita nelle periferie e nelle strade centrali della città eterna, grazie al recupero di carabinieri e polizia sottratti ai noiosi piantoni con l’invio di più di mille militari dell’esercito a Roma, farà sentire il fiato sul collo agli imboscati che si nascondono nella fitta vegetazione rendendo di nuovo insicure le sponde dei fiumi con capanne di stracci e di bandoni che tornano a spuntare persino nei tratti controllati dalle telecamere. Baracche visibili nel tratto nei pressi del viadotto della Magliana, poco distante dalla pista ciclabile dove un

anno fa il dirigente ospedaliero sessantenne Luigi Moriccioli fu massacrato per un cellulare da un rumeno insieme ad un complice minorenne sono state segnalate proprio dai ciclisti all’associazione www.biciroma.it del presidente Fausto Bonafaccia. Ma gli avvistamenti si moltiplicano da un capo all’altro d Roma anche nei parchi pubblici da Villa Pamphili al parco degli Acquedotti, o lungo la via Laurentina a due passi dall’Eur, zone conosciute o almeno orecchiate anche da chi vive a centinaia di chilometri da Roma.

Da stamattina pattuglie miste composte da agenti di polizia e militari controlleranno le zone adiacenti al Tevere e altri sei snodi ferroviari della capitale che si aggiungono agli altri undici già presidiati.

Dalle 8 alle 20 e se necessario anche la notte i poliziotti, in bici e a cavallo, e i militari, a piedi e seguiti da un mezzo, controlleranno le piste ciclabili che costeggiano il Tevere e le zone adiacenti al fiume. Sono tre, è stato spiegato nel corso di una conferenza stampa in Questura, le aree che verranno presidiate: le parti a nord e sud del Tevere e l’Aniene. In particolare da ponte di Spinaceto a Sublicio, da ponte Flaminio a Castel Giubileo e da ponte Salario fino al Gra. Ogni area sarà controllata da una pattuglia mista composta da tre militari e un poliziotto.

Sempre da oggi verranno controllati altri sei snodi ferroviari di Roma: Magliana, Laurentina, Trastevere, Ostiense, Tiburti-na e Prima Porta. Questi si aggiungono agli altri undici snodi di scambio già presidiati dalle forze dell’ordine (ponte Mammolo, Ostia Lido, Capannelle, Anagnina, Battistini, La Storta, Saxa Rubra, Labaro, Tor Di Quinto, Ponte delle Valli). Nel corso dei controlli fatti finora nelle stazioni sono state in tutto 450 le persone identificate e due quelle arrestate.

Genova: aggressione razzista, 13 picchiano giovane angolano

di Massimo Calandri

 

La Repubblica, 19 agosto 2008

 

"Sporco negro, puzzi". Prima insultato e poi picchiato a sangue dal branco razzista all’uscita dalla discoteca. La vittima è uno studente universitario di origine angolana, Assunçao Bonvindo Mutemba, 24 anni, figlio di un funzionario ministeriale del paese africano, iscritto alla facoltà di Economia e Commercio di Genova. Lo avrebbero aggredito venerdì notte tredici persone: il ragazzo è stato ascoltato a lungo ieri pomeriggio dagli investigatori della Digos, che hanno giudicato "attendibile" la ricostruzione dei fatti.

È stata aperta un’inchiesta per violenza privata e lesioni, aggravate dalla discriminazione razziale: i poliziotti stanno ora esaminando il filmato delle telecamere a circuito chiuso della stazione ferroviaria del quartiere di Nervi, che dista pochi metri dal luogo del pestaggio. Tra gli assalitori, sostengono alcuni testimoni interrogati a verbale, ci sarebbero dei simpatizzanti di un locale circolo di Forza Nuova. La Digos non ha trovato riscontri in tal senso, l’organizzazione smentisce seccamente.

"È stato drammatico. Umiliante". Lo studente era in compagnia di una giovane genovese quando, lasciando il locale notturno sul lungomare, è stato improvvisamente circondato da un gruppo di sconosciuti. "Credo volessero vendicarsi di un altro straniero, uno dell’Europa dell’Est, con cui avevano litigato all’interno della discoteca. Lo aspettavano, quello non usciva più. Quando mi hanno visto, se la sono presa con me. Hanno cominciato a riempirmi di parolacce".

Sporco negro. Puzzi. Scimmia. Torna in Africa. Ti ammazziamo. Assunçao non reagisce, cerca solo di farsi largo e di allontanarsi il più rapidamente possibile. Non glielo permettono, il cerchio di stringe e cominciano i primi spintoni. A quel punto è la ragazza che si trova con lui a rispondere per le rime. A gridare di lasciarlo in pace. A mettersi a chiedere aiuto. Dura tutto un paio di minuti, ma sembra un’eternità. Calci, pugni. Lo straniero prova a difendersi ma soccombe.

"Sono arrivati colpi da tutte le parti, non vedevo più nulla: cercavo solo di resistere, di non cadere a terra. E nelle orecchie mi rimbombavano gli insulti". Quando qualcuno dalla discoteca esce per soccorrerlo - i buttafuori, particolarmente robusti, sono anche loro di origine africana - il branco fugge e si disperde. Scappano in direzione della stazione, la telecamera forse li riprende. "Qualcuno di loro aveva la testa rasata. Ma non mi sembra di avere visto tatuaggi o simboli particolari".

La polizia ritiene che si tratti di un gruppo di balordi, senza particolari connotazioni politiche. Di simpatie per l’estrema destra avrebbero parlato persone che hanno assistito all’aggressione, e che sostengono di aver riconosciuto alcuni presunti frequentatori di un vecchio circolo di Forza Nuova del quartiere, chiuso però da diverso tempo.

Immigrazione: imam arrestato, per l’estradizione in Marocco

 

Reuters, 19 agosto 2008

 

L’imam di Varese è stato arrestato nel fine settimana dalla Digos per essere estradato in Marocco, dov’è accusato di terrorismo, secondo quanto rende noto la Questura varesina, a pochi giorni da alcune sue dichiarazioni in cui ribadiva la propria innocenza.

"Nella serata di sabato 16 agosto, presso la sua abitazione di Malnate, personale della Digos di Varese ha tratto in arresto Abdelmajid Zergout (alias Abou al Barà) - nato a Safi, Marocco, il 9-4-1965 - imam della moschea di Varese", si legge in una nota. "A carico dello straniero - prosegue la nota - pendeva un mandato di arresto ai fini estradizionali verso il Marocco... per i reati di terrorismo", emesso il 31 luglio 2008 a Rabat. La Questura precisa che il Marocco accusa Zergout di "aver partecipato ad atti di terrorismo".

A pochi giorni dall’arresto, l’imam aveva ribadito in un’intervista video diffusa sul sito www.youreporter.it la sua innocenza, e di ritenere ingiusta l’estradizione nel paese nordafricano. "Una grande ingiustizia, essere giudicato in un tribunale, poi assolto, poi essere estradato così; veramente, nessuna legge può giustificare questo", ha detto Zagout.

Rispondendo al giornalista che gli chiedeva se avesse mai compiuto atti violenti contro persone o cose, l’imam dichiarato: "io non posso perché la mia religione non tollererà queste cose, assolutamente". Per l’avvocato dell’imam, Luca Bauccio, "l’accusa nei confronti di Zergout è stata fabbricata ad hoc nei confronti di un innocente che da dieci anni non mette piede in Marocco". Il difensore ha aggiunto che Zergout è detenuto nel carcere di Varese, in uno stato d’animo "sorpreso" e "rassegnato" perché, ha affermato il legale, "questo è il modo di operare di un Paese (il Marocco) che agisce fuori da ogni controllo proprio di uno Stato di diritto".

Durante l’intervista, Zargout aveva confessato di aver paura di essere torturato in Marocco "anche se non hanno nulla contro di me formalmente" e "di lasciare ... i miei figli senza che nessuno si prenda cura di loro, soprattutto senza aver commesso o fatto qualcosa che merita questo". "Nel mondo islamico, c’è questa fobia contro l’Islam, soprattutto le moschee, i centri islamici che non sono sottomessi ai poteri di certi governi", ha aggiunto.

Zergout e altri due marocchini, accusati come lui di associazione a delinquere finalizzata al terrorismo internazionale, erano stati assolti il 24 maggio 2007 dai giudici della prima Corte d’Assise di Milano. Zergout, Abdelillah El Kaflaoui e Mohammed Raouiane erano stati accusati di aver costituito a Varese una cellula del Gicm (Gruppo islamico combattente marocchino) responsabile tra l’altro dell’attentato che causò la morte di oltre 40 persone a Casablanca, in Marocco, nel 2003.

 

 

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