Rassegna stampa 11 agosto

 

Giustizia: i decessi sul lavoro e nella strada non fanno paura

di Ilvo Diamanti

 

La Repubblica, 11 agosto 2008

 

Siamo una società insicura, tanto abituata a sentirsi tale da non farci neppure caso. Insicura per default. Abbiamo molte paure che tracimano in un unico bacino, nel quale si deposita un sentimento inquieto. Una paura di fondo. Che ci accompagna dovunque. Non ci lascia mai soli. Anche se non ne siamo consapevoli. Eppure non tutte le paure sono uguali, hanno la stessa dignità, la stessa audience e la stessa evidenza mediatica. Il medesimo impatto politico. Quando si parla di "paura", per esempio, oggi pensiamo immediatamente all’incolumità personale.

E quando pensiamo alla incolumità personale pensiamo immediatamente alla criminalità, comune ed eccezionale, che ci minaccia dovunque. Da vicino. Noi, i nostri cari, le nostre abitazioni. Ladri, aggressori, violentatori, rapinatori, pedofili. Perlopiù, stranieri, immigrati e zingari. Gli "altri" per definizione. Siamo eterofobi. Temiamo di essere insidiati, che i nostri figli e i nostri familiari vengano aggrediti. Dagli altri. Per questo gran parte degli italiani guarda con favore all’impiego sul territorio di esercito, polizia, ronde padane e democratiche. Tutto quanto renda "visibile" la sorveglianza sulla nostra incolumità. Sulla nostra sicurezza. A prescindere dall’efficacia che realmente sono in grado di garantire.

Preoccupano di meno, invece, altri rischi che incombono sulla nostra vita. E sulla nostra morte. Gli infortuni sul lavoro. Gli incidenti che avvengono sulla strada. Per non parlare di quelli domestici. I quali avvengono, cioè, tra le mura delle nostre abitazioni. Eventi tragici che ricevono, perlopiù, evidenza minore sui media. Salvo che in situazioni molto particolari.

L’esplosione alla Thyssen Krupp, che ha provocato la morte di 7 operai. Oppure l’incidente (auto)stradale in cui, qualche giorno fa, sono decedute 7 persone presso Treviso. O, ancora, quello di cui è stato vittima Andrea Pininfarina. Imprenditore di grande qualità manageriale (e, ancor prima, umana), alla guida di una grande azienda legata all’industria dell’auto.

Casi eccezionali, per le proporzioni dell’evento o per la specifica identità della vittima. Mentre, in generale, all’emozione del momento subentra, rapida, la rimozione. Un sentimento di sottile fastidio, non dichiarato e neppure ammesso. Quasi che quegli avvenimenti non ci coinvolgessero in modo diretto. Eppure, ogni giorno in Italia (dati Istat per ACI) si verificano oltre 600 incidenti che causano la morte di circa 15 persone e il ferimento di 800. Nel complesso, in media, ogni anno, sulle strade, decedono circa 5mila persone, mentre 300mila subiscono traumi e lesioni di diversa gravità.

Quanto agli incidenti sul lavoro (fonte Inail), provocano circa 1000 morti ogni anno. Nel 2008, fino ad oggi, oltre 400 persone sono morte di lavoro, mentre 11mila sono rimaste ferite o invalide. Come ha rammentato di recente il Censis, rispetto agli omicidi, i morti sul lavoro sono quasi il doppio e i decessi sulle strade otto volte di più. Tuttavia, il grado di visibilità offerto dai media è inverso rispetto alla misura di questi tipi di episodi.

Non c’è paragone. Vuoi mettere i delitti di Cogne e Perugia? La tragica aggressione avvenuta nel quartiere romano della Storta? Fa eccezione la saga delle "morti del sabato sera". Un serial che si ripete, perché evoca altri scenari, più attraenti. La gioventù bruciata dai rave tossici consumati nelle discoteche o in altri luoghi di perdizione. Ma, per il resto, è un basso continuo. Da cui si stacca qualche onda episodica, destinata a venire riassorbita da un solido senso di abitudine.

Il fatto è che le morti sul lavoro e, ancor più, sulle strade incombono su di noi. Sui nostri familiari. Perché i luoghi di lavoro ma, soprattutto, le strade, in Italia, sono fra gli ambienti più insicuri d’Europa. Lavorare è pericoloso. Da noi più che altrove. Per diverse ragioni, per diverse cause. Per colpa dei contesti. Le aziende, i luoghi di lavoro, dove il rispetto delle regole e delle condizioni di sicurezza è spesso disatteso. E gli stessi lavoratori, talora, le disattendono. Perché costretti. Ma anche per abitudine e imprudenza routinaria.

(Molte vittime, peraltro, sono lavoratori autonomi). Circolare è altrettanto - forse più - pericoloso. Di nuovo: per lo stato della nostra rete viaria. E per la generale e generalizzata tendenza a bypassare le regole. D’altronde, chi si sentirebbe "colpevole", peggio, un criminale per aver parcheggiato in doppia fila o per aver attraversato col rosso? Colpa dello Stato. Lo stesso che ci costringe a "evadere" le tasse. Per legittima difesa.

Non fanno paura, i luoghi di lavoro, agli italiani, quanto le proprie case. Dove temono di venire aggrediti e derubati dagli "altri". (Ma la maggior parte delle aggressioni e delle violenze avvengono per mano di familiari e vicini di casa). Egualmente per quel che riguarda le strade: sono più preoccupati quando le attraversano da soli, a piedi, magari a tarda ora, piuttosto che in auto o in moto. A grande velocità.

È probabile che questo orientamento rifletta una consolidata definizione dei fattori di rischio. Morire per il lavoro lascia, ogni volta, un vuoto incolmabile. Però, in fondo, è "socialmente" sopportato. Nonostante la reazione costante di molte autorevoli voci (per prima quella del Presidente della Repubblica). Perché il lavoro è necessità, ma anche virtù e valore. Mezzo per vivere e ragione di vita. Per questo, morire sul lavoro, è doloroso. Un abisso. Ma ha "senso". Come un male incurabile.

Morire o ammazzare altre persone sulle strade. Ha meno "senso". Però è accettato. Non quando ci tocca di persona, ovviamente. Ma quando ne sentiamo gli echi sui media. Ce ne facciamo una ragione. Perché viaggiare in auto o in moto comporta rischi calcolati. Accentuati dalla diffusa e regolare "irregolarità". Quelli che viaggiano senza cinture, quelli che telefonano alla guida, quelli che se ne sbattono dei limiti di velocità, quelli che fanno zig-zag su strade e autostrade, per superare chi sta di fronte. Non sono considerati "criminali". Ciò che fanno non è ritenuto un atto "criminoso".

Nessuno, di conseguenza, invoca le camicie verdi a presidiare i luoghi di lavoro, per assicurare il rispetto delle norme di sicurezza. Per controllare e denunciare imprenditori o lavoratori "non in regola". E nessuno invoca l’intervento dell’esercito sulle strade a scoraggiare comportamenti criminosi (che, d’altronde, non sono considerati tali).

Morire sul lavoro o sulle strade non fa spettacolo e non sposta voti. Non favorisce il governo né l’opposizione. Né la destra né la sinistra. Perché al centro di questi reati, di queste trasgressioni non sono gli altri. Siamo noi, i nostri valori, le nostre abitudini, i nostri stili di vita. Per cui, facciamoci coraggio: nei cantieri e sulle strade vi saranno ancora vittime. Troppe. Accompagnate da molto dolore, un po’ di rabbia e tanta rassegnazione.

Giustizia: slalom dei sindaci, tra nuovi poteri e limiti di legge

 

Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2008

 

La "corsa all’ordinanza" dei sindaci, dopo i poteri conferiti dal decreto Maroni, ancora non si è vista. Ma siamo ad agosto ed è anche probabile che qualche prudenza ci sarà pure stata. Per ora. Giusto il tempo di capire quali sono i reali nuovi binari da seguire per la definizione degli interventi. Il ministro ha invocato uno sforzo di fantasia e ha parlato di "sicurezza creativa".

Non è una questione di originalità: è proprio complicato, piuttosto, dettare disposizioni senza violare codici e leggi. Il cittadino riottoso e tignoso può impugnare l’ordinanza del sindaco al Tar e lo stesso prefetto, che il primo cittadino deve informare in via preventiva, non starà a guardare. La tentazione di decidere, però, è troppo forte.

La suscita lo stesso decreto, quando tratteggia gli scenari dove "il sindaco interviene per prevenire e contrastare". Spaccio di stupefacenti, accattonaggio, prostituzione, violenza legata all’alcolismo; occupazione abusiva di immobili, commercio ambulante illegale e tutto ciò che lede "il decoro urbano" ma anche "la pubblica decenza".

Proprio quelle situazioni denunciate finora dai primi cittadini costretti, a loro dire, a essere impotenti e "con le mani legate". Adesso, stando alle dichiarazioni di tutti, non sarebbe più così. C’è da sperare, però, che nessun sindaco, per esempio, si immagini di fare indagini di polizia giudiziaria per scovare gli spacciatori locali. È un compito esclusivo delle forze dell’ordine e sarebbe una sciagura se cominciassero interferenze e duplicazioni - già abbondano tra le attività di Polizia, Carabinieri e Finanza - con le iniziative comunali.

Il potere di ordinanza, del resto, è da sempre in capo ai responsabili delle amministrazioni comunali e sono stati soprattutto i sindaci leghisti, da oltre dieci anni a questa parte, a non restare con le mani in mano. Ora, però, ogni singola decisione passerà ai raggi x, perché le attese sono forti ma i rischi di autogol alti. Per problemi politici, o di buon senso, prima ancora di quelli formali.

A Voghera il sindaco Aurelio Tornarli precisa che è allo studio "un pacchetto sicurezza" e non "singoli provvedimenti": getta così acqua sul fuoco delle polemiche sollevate dall’ordinanza, annunciata ma non ancora approvata, che vieta di riunirsi sulle panchine dopo le 23. A Roma Gianni Alemanno ha anticipato un provvedimento "anti-rovistaggio" nei cassonetti dell’immondizia e poi ha dovuto sospendere tutto dopo le proteste della Comunità di Sant’Egidio.

Ma non è escluso che lo Stato possa essere d’ausilio proprio con le iniziative locali. A Rimini il questore Antonio Pezzano ha ripristinato il ricorso al foglio di via per allontanare le lucciole. Il sindaco, Alberto Ravaioli, ha fatto i complimenti al questore: "Ha trovato la via per agire efficacemente nel rispetto della legge" ha detto Ravaioli. La scelta del questore ricalca una proposta del senatore Filippo Borselli (Pdl), che ha telefonato a Maroni e gli ha chiesto di fare una circolare a tutte le questure. Non è detto, insomma, che le soluzioni passino per il criterio della "sicurezza creativa".

Giustizia: agosto, va di moda il "bon ton" dei sindaci-sceriffo

 

Italia Oggi, 11 agosto 2008

 

Il bon ton entra nelle ordinanze dei sindaci. Dall’imbrattamento dei muri al rispetto degli orari di apertura dei pubblici esercizi, dal recupero degli immobili dismessi al divieto di consumo di bevande alcoliche in zone circoscritte della città. Sono questi i primi interventi, all’indomani del Decreto "Maroni", approvato in conferenza Stato-Regioni il 5 agosto scorso messi in campo dai comuni per garantire una maggiore sicurezza ai propri cittadini.

Da una prima ricognizione, l’ambito di intervento preferito, nella maggior parte dei casi, è il decoro urbano. E l’obiettivo sarà ottenuto prevedendo in caso di violazione delle norme sanzioni molto elevate. Come, ad esempio, per Verona: chiunque sarà beccato a imbrattare i muri dei palazzi sarà multato con 500 euro, lo stesso importo di chi si ferma a contrattare con le prostitute. L’esigenza di sicurezza dunque fa il paio, nei comuni italiani, in una maggiore disciplina dei propri abitanti.

Il Decreto sicurezza. Il decreto approvato dalla conferenza stato-regioni si compone di due articoli e fissa le nozioni di incolumità pubblica e sicurezza urbana nonché gli interventi del sindaco. Ambito di intervento ampliato dalla legge 125/08 che ha concesso ai sindaci la possibilità di prevedere le ordinanze contingibili e urgenti per casi maggiori rispetto al passato e la possibilità di far leva sugli importi delle sanzioni. In questa forma di ordinanze, dunque, trovano spazio temi che in passato erano sì presenti in regolamenti comunali o in delibere ma che restavano sulla carta. Molti comuni infatti stanno compiendo un’opera di trasferimento dai regolamenti alle ordinanze modificando al rialzo gli importi delle sanzioni.

I Comuni. Una vera e propria corsa all’ordinanza è quella di molti comuni italiani, tanto che l’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni ha avviato la raccolta delle ordinanze in una banca dati telematica. I primi cittadini sono intervenuti a regolamentare in prevalenza aspetti legati al rispetto degli orari dei pubblici esercizi o del fenomeno della prostituzione ma anche aspetti più legati a una convivenza più rispettosa tra gli stessi abitanti. Ecco quindi che trovano spazio anche misure, per così dire "curiose" come quelle stabilite dal comune di Rimini che vieta di "attaccarsi ai pali" o l’ordinanza allo studio del comune di Trieste che promette multe salata per i cani maleducati.

Giustizia: Ionta; ergastolani hanno diritto a ritorno in libertà

 

Comunicato stampa, 11 agosto 2008

 

Il saluto del nuovo Capo del Dap al personale dell’Amministrazione Penitenziaria: "Ho assunto, da pochi giorni, l’incarico di capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Consapevole della difficoltà del compito: con dedizione e impegno onorerò la fiducia che il Governo e il Ministro della Giustizia hanno riposto in me.

Il mio proposito, la mia prospettiva, la mia priorità saranno quelli di confermare e validare la dignità del sistema. Ciò vale tanto per gli operatori che per le persone, temporaneamente, detenute. Poiché per me le parole sono importanti, parlerò sempre di persone detenute e non di detenuti, volendo segnalare che anche le persone condannate all’ergastolo hanno il diritto di pensare alla propria condizione come transitoria e destinata a farli, a tempo debito, tornare alla dignità di uomini liberi. È mia intenzione, a partire dal 2009, fissare una data precisa per la festa della Polizia Penitenziaria, individuando una ricorrenza particolarmente significativa per tutto il Dipartimento. Auguro buon lavoro a me e a tutti voi sicuro della vostra collaborazione. E buon Ferragosto".

 

Franco Ionta

Giustizia: Sappe; per carcere urgono provvedimenti deflattivi

 

Il Velino, 11 agosto 2008

 

"Il saluto del nuovo capo dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta al personale di Polizia Penitenziaria è certamente positivo e apprezzabile, così come l’impegno a definire dal prossimo anno una data in cui celebrare ogni anno la Festa nazionale della Polizia Penitenziaria". È il commento e l’auspicio di Donato Capece, segretario generale del sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, l’organizzazione più rappresentativa del personale con dodicimila iscritti, al messaggio che il capo dell’Amministrazione penitenziaria Franco Ionta ha formulato a tutto il personale dell’Amministrazione Penitenziaria.

"Certo è che sono state messe in cantiere, nel recente passato, importanti e strutturali riforme che riguardano il Corpo di Polizia Penitenziaria che ci auguriamo trovino il definitivo compimento con il capo Dap Ionta. Mi riferisco, in particolare, - aggiunge - ai progetti che prevedono l’affidamento al Corpo dei controlli sulle misure alternative alla detenzione e sull’esecuzione penale esterna, le riforme del Gruppo Operativo Mobile e dell’Ufficio per la Sicurezza Personale e per la Vigilanza (Uspev) oltre ad una serie di interventi mirati per quanto concerne il potenziamento degli organici del Corpo e per arrivare ad istituire finalmente la Direzione generale del Corpo di Polizia Penitenziaria nell’ambito del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria".

"Senza tralasciare - aggiunge Capece - un dato estremamente critico ed in costante aumento, come il sovraffollamento dei detenuti, rispetto al quale necessitano urgenti provvedimenti deflattivi. Il nostro auspicio è, quindi, che il nuovo Capo Dipartimento Franco Ionta, al quale rinnoviamo il nostro benvenuto nell’Amministrazione Penitenziaria, prosegua nel portare a compimento definitivo queste importanti riforme ed incontri quanto prima il Sindacato più rappresentativo della Polizia penitenziaria, che mi onoro di guidare, per definire linee di intervento sinergiche su queste priorità".

Giustizia: quelle carceri speciali per "inclini alla delinquenza"

di Francesco Caruso

 

Liberazione, 11 agosto 2008

 

Carceri speciali per innocenti che però sono inclini alla delinquenza... lettera aperta a Ottaviano Del Turco sulle "Case di Lavoro": una è nel carcere di Sulmona, dove lui è detenuto.

Gentilissimo Ottaviano Del Turco, mi permetto di disturbarla semplicemente per chiederle di intercedere presso la pleteora di politicanti, parlamentari e portaborse che da giorni si recano in pellegrinaggio presso la Sua cella per esprimerle solidarietà e vicinanza in questo momento difficile della Sua vita, affinché li esorti a volgere anche solo per un breve istante lo sguardo oltre le sbarre della sua cella.

Comprendo che a muovere siffatte persone oltre i cancelli di quelle discariche umane e sociali che oggi sono le carceri in Italia, tra le quali primeggia la prigione di Sulmona, è solo un sentimento di solidarietà di classe e di casta: in questi anni infatti nessuno mai di costoro si è preoccupato delle drammatiche condizioni di vita nelle prigioni oramai ritornate sovraffollate, della violenza di una restrizione della libertà accompagnata dalla negazione dei diritti fondamentali dell’uomo, della violazione sistematica dell’art. 27 della Costituzione, della morte di Francesco Vedruccio, Luigi D’Aloisio, Cosimo Tramacere, Luigi Acquaviva, Guido Cecola, Diego Aleci, Francesco Di Piazza, Camillo Valentino, Antonio Miccoli, Nunzio Gallo e degli altri detenuti morti suicidi in questi anni nella prigione di Sulmona.

A lor signori, che invocano pene più severe e carcere per tutti i poveri disgraziati, mentre piangono lacrime di coccodrillo quando a finire dietro le sbarre è qualcuno di essi trovato non certo a taccheggiare in un supermercato ma con in tasca qualche tangente di vari milioni di euro, Lei oggi ha la possibilità di spiegare il valore del garantismo, inteso non come immunità e impunità per i ricchi e i potenti ma tutela delle libertà di tutti, in primo luogo per gli ultimi, i disgraziati, i deboli e i dimenticati della società.

Del resto ho appreso della sua scelta di soprannominarsi Antonio Gramsci: nessuno può negarle la libertà di autonominarsi come meglio crede, tuttavia mi permetto di rammentarle che il comunista Antonio Gramsci trascorse 13 anni in prigione non sulla base dell’accusa di essersi intascato mazzette o tangenti, ma per le sue battaglie e i suoi ideali di uguaglianza e giustizia sociale. Proprio in nome di questi valori, sempre più calpestati dalla violenza della tracotante rivoluzione passiva, li inviti per una volta ad oltrepassare i cancelli, a varcare i confini degli inferi, a penetrare in quei buchi neri della democrazia che sono a pochi metri dalla sua cella.

Li esorti, dopo aver discusso con lei, a salire al secondo piano della prigione, dove troveranno un centinaio di persone incarcerate senza aver commesso alcun reato specifico, rinchiuse in una cella semplicemente perché a sessant’anni dalla caduta del fascismo nessun governo si è mai preoccupato di chiudere queste sezioni speciali inventate dal regime di Mussolini per "soggetti e personalità inclini alla marginalità e alla delinquenza", misura di sicurezza preventiva che non esiste in nessun paese democratico, eppure in Italia, nello specifico proprio a Sulmona e in altre 5 prigioni, continuano ad essere internate persone in queste sezioni speciali chiamate da allora eufemisticamente "case-lavoro", null’altro che reparti di detenzione nei quali finiscono solo i disgraziati che non hanno una famiglia e un avvocato.

Non conoscono nemmeno quanti anni devono restare, poiché non c’è alcuna pena da scontare ma solo, di proroga in proroga, il rischio di trovarsi affibbiati un ergastolo "bianco". Tra le sbarre troverà un vecchietto di nome Antonio, che negli anni novanta per arrotondare la pensione vendeva le sigarette di contrabbando: fermato e denunciato cinque, sei, sette volte, continuò per anni a venderle, poi scomparse il contrabbando, ma per la burocrazia giudiziaria era ormai una personalità incline a delinquere e quindi rinchiuso di proroga in proroga da ormai quasi 10 anni. Dieci anni per una Marlboro di contrabbando. Poche celle più avanti troverà Luigino, pluri-pregiudicato per truffa: a differenza di una parte consistente della classe politica e imprenditoriale del mezzogiorno, Luigino non ha mai fatto sparire nelle sue tasche svariati miliardi di finanziamenti europei, ma più semplicemente si presentava in tonaca nei ristoranti per sfamarsi e poi spedire il conto presso ignare parrocchie. Anche lui, dopo svariate denunce, è rinchiuso e internato da anni nella casa-lavoro.

Carissimo Ottaviano Del Turco, le confesso che dietro le sbarre nelle quali lei oggi è recluso, io sono stato un mucchio di volte, non per parlare con qualche detenuto eccellente come fanno le decine di deputati e senatori che si alternano in questi giorni alle porte della prigione di Sulmona, ma per conoscere e denunciare questi buchi neri della democrazia: ricordi a lor signori che il potere ispettivo nelle carceri per i parlamentari è stato promulgato per questo motivo e non certo come un ulteriore privilegio grazie al quale poter incontrare, chiacchierare e consegnare pizzini a colleghi e amici finiti in prigione.

Li inviti quindi a fare il loro dovere, a misurare lo stato di salute della nostra democrazia che, come diceva Tocquiville, "lo si comprende non dal grado di sfarzosità delle aule parlamentari ma dalla vivibilità dei tuguri più bui delle prigioni". Devono fare solo pochi scalini. E chissà se troveranno poi, tra un lodo Alfano e un altro decreto per l’impunità ad personam, tempo e modo in parlamento di legiferare un provvedimento per la chiusura di questi buchi neri della democrazia nostrana, se troveranno tempo e modo di preoccuparsi non solo delle sorti giudiziarie di Silvio e Ottaviano, ma anche dei tanti Antonio e Luigino della nostra società.

Giustizia: e se Del Turco fosse innocente, quale risarcimento?

di Pierluigi Battista

 

Corriere della Sera, 11 agosto 2008

 

Purtroppo il caso non rientra nelle competenze antifannulloni del ministro Brunetta, ma quale istanza di giustizia si dovrà invocare per risarcire le quarantotto ore di ritardo con cui Ottaviano Del Turco, causa introvabilità del Gip, verrà trasferito agli arresti domiciliari dopo aver trascorso in carcere quasi un mese?

Cosa volete che siano quarantotto ore di prigione in più per un essere umano prelevato dalla sua casa all’alba, come il peggiore dei malfattori? O non avrebbe senso domandarsi, come con solitario coraggio fece Enzo Biagi dopo l’arresto di Enzo Tortora, quale immagine arcigna e feroce avrebbe dato di sé la giustizia italiana se Del Turco fosse "innocente"?

Aspettare la sentenza definitiva per avvalorare la presunzione di innocenza costituzionalmente stabilita? Ma la sentenza di colpevolezza non è stata idealmente seguita, se le conseguenze umane e politiche dell’arresto di Del Turco hanno già prodotto tutti i loro effetti? Quanta ipocrisia è racchiusa in locuzioni logore come "aspettiamo fiduciosi che l’inchiesta faccia il suo corso", "confidiamo sulla magistratura perché sia fatta piena luce", se poi la giunta abruzzese decapitata con tanto clamore non verrebbe restituita a nuova vita nemmeno se l’innocenza di Del Turco risultasse confortata da una sentenza definitiva? E la reputazione pubblica di Del Turco non è già stata compromessa, anzi disintegrata a prescindere dall’esito dell’eventuale processo che ne dovesse conclamare l’innocenza? E se Del Turco risultasse "innocente", entrerebbe in funzione un tribunale dell’opinione pubblica in grado di ravvisare nella vicenda del deposto presidente democratico della Regione Abruzzo un esempio di macroscopica persecuzione politica? Oppure è inopportuno, incauto, irrispettoso soltanto accennare all’idea che la magistratura italiana si faccia strumento di una persecuzione politica?

Aspettiamo fiduciosi e ottimisti, per carità. Ma quanto bisognerà attendere prima di una risposta sensata all’interrogativo sollevato da un giornalista attento e informato come Francesco La Licata che sulla Stampa si è chiesto come mai il grande accusatore di Del Turco, così premuroso nel fotografare le banconote tangentizie da consegnare personalmente al presidente della Regione Abruzzo, si sia regolarmente attivato per spegnere il sempre acceso registratore proprio nel momento cruciale della consegna del malloppo? Anzi, delle molteplici consegne del malloppo? Sempre: mai una volta ha pensato che per incastrare il

(presunto) corrotto, il (presunto) corruttore pentito avrebbe avuto in quelle mancate registrazioni un’arma formidabile per dimostrare l’inconfutabile colpevolezza di Del Turco? Aspettiamo fiduciosi e ottimisti, beninteso. Ma quando ci spiegheranno in modo plausibile dove sono andati a finire i proventi di quei pagamenti illeciti (qualche milione di euro, par di capire), visto che tutte le ipotesi di una loro destinazione nell’acquisto di immobili romani da parte di Del Turco e famiglia si sono rivelate inconcludenti? Possono fare come più aggrada loro, i magistrati italiani che hanno disposto la clamorosa carcerazione di Del Turco? E se Del Turco fosse "innocente"? Ma l’innocenza, in Italia, è ancora un optional, malgrado la Costituzione?

Giustizia: concessi arresti domiciliari ad Ottaviano Del Turco

 

Corriere della Sera, 11 agosto 2008

 

Arresti domiciliari per l’ex presidente della Giunta regionale d’Abruzzo, Ottaviano Del Turco, in carcere a Sulmona da 28 giorni nell’ambito dell’inchiesta su presunte tangenti nella sanità abruzzese. Stessa cosa per gli altri indagati ancora in carcere dal 14 luglio scorso: l’ex segretario generale della Presidenza della Giunta, Lamberto Quarta, l’ex capogruppo del Pd, Camillo Cesarone, l’ex assessore alle Attività Produttive, Antonio Boschetti (Pd), l’ex manager della Asl di Chieti Luigi Conga e l’ex amministratore delegato della Humangest, Gianluca Zelli.

La decisione è del Gip Maria Michela Di Fine che si è pronunciata così sulle richieste della Procura. Giancarlo Masciarelli resta ai domiciliari mentre per Angelo Bucciarelli, segretario dell’ex assessore regionale alla Sanità Bernardo Mazzocca c’è l’obbligo di dimora a Vasto (Chieti). A quest’ultimo, invece, rimane l’obbligo di dimora a Caramanico (Pescara). Vito Domenici, assessore alla Sanità nella precedente Giunta regionale di centrodestra, l’unico per il quale la Procura non ha formulato alcuna richiesta, resta ai domiciliari.

Roma: Spriano; serve un "accompagnamento" per i detenuti

 

 

Radio Vaticana, 11 agosto 2008

 

Portare la speranza nelle carceri, con sentimenti di amore e condivisione: l’esperienza di don Sandro Spriano, responsabile dell’Area Carceri della Caritas di Roma.

Accompagnare il detenuto in un percorso di riscoperta della bellezza della vita e della dignità della persona: è l’impegno portato avanti con passione dai volontari della Caritas diocesana di Roma nel carcere di Rebibbia. A guidare questo gruppo, formato da circa cento persone, è don Sandro Spriano, responsabile dell’Area Carceri della Caritas di Roma, che al microfono di Alessandro Gisotti racconta la sua esperienza.

"Il carcere è un luogo dove sicuramente parlare di speranza non può essere un gioco diplomatico, nemmeno un gioco di parole. Noi riteniamo che sia da mettere in atto - e cerchiamo di farlo nel nostro piccolo - un accompagnamento delle persone. Allora, quando ci si accompagna in questa storia di vita dura del carcere, la vita delle due persone - del detenuto e del volontario - si mescola… nel racconto, nella riconoscenza delle esperienze. Questo è uno degli interrogativi che si pone nell’animo di ambedue i soggetti: la voglia di provare a mettere in comune, così che l’esperienza dell’altro possa diventare la mia e io possa capire che forse posso trovare delle modalità diverse di vita. Posso trovare quella felicità che non ho trovato nelle scelte devianti che ho fatto".

 

Cosa invece dà questa esperienza ai ragazzi volontari che lei coordina? Quale insegnamento, quale ricchezza?

Io credo che dia moltissimo, perché la risposta di queste persone è davvero sempre meravigliata: scopro che c’è un modo di vivere diverso; scopro che la mia vita ha più senso. Si scopre che la vita è la relazione con l’altro, che per me è la sostanza del Vangelo. Ma anche tra i miei volontari, quelli che non hanno una fede così provata, trovano che la relazione con la persona diventa la sostanza della vita.

 

C’è tra le tante storie di vita di donne e di uomini, che lei ha incontrato e che incontra, una che può rappresentare un po’ al meglio, sintetizzare il significato di questa esperienza?

Io per esempio sto ospitando, come faccio ormai da molti anni, in questo momento, un ragazzo giovane di 30 anni, che ha fatto tanti anni di carcere, che sta pagando per un omicidio, e che non aveva mai assaporato, per mille motivi e mille condizioni negative della sua vita, l’esperienza dell’affettività di una famiglia. L’esperienza di qualcuno che si interessasse dei suoi problemi in maniera seria. Vedo che questa è l’unica strada percorribile per poter far sì che lui non scelga più un modo di vivere sbagliato contro l’umanità. Forse dovremmo tutti, soprattutto noi cristiani, immaginare che queste persone in carcere hanno bisogno della nostra compagnia, altrimenti si perdono.

Roma: trans aggredito chiede aiuto; clandestino, lo arrestano

 

www.gaynews.it, 11 agosto 2008

 

Calci e pugni per sfondare la porta di un monolocale. Per aggredire un transessuale brasiliano che, terrorizzato, chiama i carabinieri e chiede aiuto. Sotto choc, il viado forse non si ricorda di essere un clandestino già identificato e con ben tre decreti di espulsione, che ha ignorato. Risultato: da vittima dell’aggressione, a detenuto. Scattano le manette e il trans, come prevede la legge Bossi-Fini, finisce a Regina Coeli.

Sabato, zona Due Ponti, periferia nord di Roma. Al 112 arriva la telefonata concitata del brasiliano: "Aiuto, c’è un uomo che sta cercando di sfondare la porta del mio appartamento ". I militari accorrono, lo salvano appena in tempo. Bloccano l’uomo che, come una furia, tenta di entrare nel piccolo locale. E cominciano a controllare i documenti di tutti e due. Le verifiche durano poco. E il transessuale finisce in cella: "Non si poteva fare altrimenti, di fronte a un clandestino già espulso: aveva quei decreti di espulsione sulle spalle".

Una vicenda che ha scatenato i Radicali. Ma dalla Prefettura, almeno per il momento, non cedono: è stato fatto notare che in questo caso non ci sarebbero gli estremi per poter concedere alla vittima un "permesso di giustizia" come quello dato a "Paola", il trans clandestino che a Milano, la settimana scorsa, con la sua testimonianza ha consentito alla polizia di catturare gli assassini del "collega". Qui - viene fatto osservare da Palazzo Valentini - di mezzo non c’è una collaborazione con i magistrati che consente di smascherare i responsabili di un grave delitto.

Per i carabinieri, dietro all’episodio c’è una storia di affitti abusivi. Sul pianerottolo, a scagliarsi contro il brasiliano, è un romano di 42 anni: ogni mese incassa 700 euro di affitto, in nero. Lui non è il padrone di casa, ma l’affittuario "ufficiale" del monolocale in una palazzina-alveare di largo Sperlonga, zona nella quale da tempo gli abitanti denunciano degrado e gravi carenze nella sicurezza. Sabato il quarantenne pretendeva dal trans una prestazione sessuale. E quando non gli ha aperto, è andato su tutte le furie.

Poi, l’arrivo dei carabinieri della compagnia Trionfale, l’arresto e le denunce. L’aggressore deve rispondere di danneggiamento e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Stessa accusa, quest’ultima, contestata all’amministratore della società a cui è intestata l’abitazione, che verrà sequestrata nei prossimi giorni.

Avellino: progetto di formazione in apicoltura per i detenuti

 

Il Mattino, 11 agosto 2008

 

"Papillon", come il titolo del famoso film che tratta di una rocambolesca evasione, è questo il nome che i detenuti del carcere di Sant’Angelo dei Lombardi hanno dato al progetto che li vede impegnati nella produzione e trasformazione del miele e dei suoi derivati. Un’iniziativa assolutamente originale, unica nei penitenziari italiani che attuano progetti di lavoro per il reinserimento sociale dei detenuti.

Il progetto è nato nel 2006 da un’idea della direzione in collaborazione con i tecnici apistici Giuseppe Cefalo ed Alessandro Sciarrillo, che affiancano i detenuti nella gestione di circa 50 alveari collocati tra le mura del carcere. "La finalità dell’iniziativa - spiega il direttore dell’istituto detentivo, Massimiliano Forgione - è quella di impiegare attivamente la propensione al lavoro dei detenuti in un’attività che, oltre a permettere di arricchire il bagaglio delle conoscenze personali dei partecipanti, consente di stimolarne il senso della socializzazione e del confronto".

In pochi anni si è passati dalla semplice produzione e raccolta del miele (oggi si producono le pregiate qualità "Sulla" e "Millefiori") alla più ricercata e apprezzata produzione dei derivati. Quest’anno, infatti, è iniziata in via sperimentale, grazie all’utilizzo di tecniche e di materiali di tipo professionale, che aggiungono all’intero progetto un tocco di innovazione assolutamente rilevante, la produzione di gelatina reale e della propoli.

Da questi prodotti, poi, grazie alla collaborazione di un laboratorio milanese, specializzato nella produzione biologica di cosmetici e medicinali, con l’etichetta "Papillon" (un’ape trattenuta dalle sbarre) escono: soluzione e spray inalante di propoli; biocrema per le mani; vari tipi di bagno doccia, di saponette e di shampoo; sapone detergente per l’igiene intima al propoli e petali di rosa; lozione tonica al miele ed ippocastano; latte detergente al miele. Tutte specialità destinate al circuito carcerario nazionale, non essendo ancora possibile la loro commercializzazione all’esterno.

Modena: liberò D’Agostino, indagine ministeriale sul giudice

 

La Gazzetta di Modena, 11 agosto 2008

 

"D’Agostino mi pareva stanco di stare in carcere. Cercava conforto spirituale, frequentava la Caritas come volontario. Tutti segni che mi avevano indotto a sperare bene del soggetto. E invece..." Parla il giudice Angelo Martinelli, il magistrato di sorveglianza di Modena. È il giudice che ha concesso di lavorare a Pescara all’ex camorrista Michelangelo D’Agostino, lo stesso che durante un litigio ha ucciso il suo datore di lavoro.

Il ministro Angelino Alfano ha annunciato ieri di aver assegnato un incarico ispettivo sul caso a due collaboratori di fiducia del Ministero di Grazia e Giustizia: il capo di gabinetto Settembrino Nebbioso e il capo dell’ispettorato generale Arcibaldo Miller. "Valuterò con grande attenzione quanto emergerà, nel pieno rispetto delle mie facoltà di ispezione e controllo, previste dalla Costituzione", ha chiarito il ministro. E intanto la famiglia del balneatore Mario Pagliari, la vittima dell’ex camorrista Michelangelo D’Agostino, ha fatto sapere che non accetta le scuse del giudice Martinelli fatte pubblicamente alcuni giorni fa.

 

Giudice Martinelli, cosa accadrà adesso?

"Il ministro ha la facoltà di esercitare i suoi diritti verso i magistrati che commettono errori. È una sua attività discrezionale: può indagare tutte le volte e coi modi che ritiene opportuno. Può utilizzare documenti, testimoni e persino svolgere ispezioni nel mio ufficio. Al termine degli accertamenti, potrebbe anche proporre una sanzione disciplinare contro di me".

 

Lei non si è nascosto dietro un dito. Ha ammesso di aver sbagliato a concedere quel permesso di lavoro presso una cooperativa cattolica di Pescara.

"Il giudice di sorveglianza deve fare un giudizio prognostico sul comportamento del detenuto o, come in questo caso, dell’internato: prevedere il futuro è arduo ma fattibile solo se si conoscono bene gli elementi presenti e i meccanismi che muovono il comportamento del soggetto. In sostanza, il mio compito era dare una valutazione in base agli elementi che avevo e tracciare uno sviluppo causale del suo comportamento. E ho sbagliato. C’è un errore, è evidente..."

 

Ma è stato un errore soggettivo oppure legato ai meccanismi di valutazione?

"Il giudizio prognostico, in definitiva, è sempre una valutazione soggettiva. In fondo, si riferisce al comportamento altrui, che non è mai ben prevedibile. Se fosse perfetto, sarei un chiaroveggente. In realtà, in questo caso c’erano alcuni passaggi che sono risultati fallati".

 

Ed è frequente per il magistrato di sorveglianza oppure è stato un suo personale incidente di percorso?

"Ne ho fatti, come tutti... Spero di averne fatti pochi, ma gli errori si commettono".

 

Ora gli ispettori verificheranno tutta la procedura sul caso D’Agostino.

"Certo, ma si consideri che non potevo tenerlo internato alla Casa di Lavoro di Saliceta San Giuliano. Il termine di valutazione sarebbe stato il gennaio 2009. D’Agostino doveva essere provato all’esterno e non ultimo tra i motivi vi è il fatto che il lavoro si trova quasi solo fuori dalla casa di Saliceta. Era in libertà vigilata. Io dovevo valutare se dopo il periodo di reclusione era in grado di delinquere ancora. L’ho fatto lavorare con la Caritas di Pescara per vedere come si comportava. Per mesi ha lavorato seriamente. Purtroppo non ho potuto prevedere un litigio violento col suo datore di lavoro, Mario Pagliari, né che D’Agostino tirasse fuori una pistola e sparasse. Non è stato un gesto da killer, ma, insomma, la pistola l’aveva e purtroppo la sapeva già usare".

Genova: detenuto domiciliare ottiene un permesso per il mare

 

Secolo XIX, 11 agosto 2008

 

Tutti al mare, anche il detenuto agli arresti domiciliari. Lo ha deciso il Gip del Tribunale di Genova Lucia Vignale, che ha ritenuto di dover concedere il permesso di recarsi in spiaggia per tre ore nel week end a un rapinatore che sta scontando la sua pena ai domiciliari. Il giudice ha ritenuto di dover concedere il permesso straordinario al detenuto perché "il bambino di 3 anni ha diritto alla presenza del padre anche in un ambiente diverso rispetto a quello abitativo": così, il detenuto può accompagnare "dalle 15 alle 18" il piccolo al mare. Domenico (le generalità non sono state rese note per la tutela della privacy del bambino) ha 36 anni ed è accusato di aver fatto da palo durante una rapina, per giunta fallita, alla banca popolare italiana di Genova Quinto. Rapinatore e palo vennero arrestati dai carabinieri subito dopo il colpo.

Rimini: al meeting di C.L. una mostra sul lavoro dei detenuti

 

www.meetingrimini.org, 11 agosto 2008

 

Presentazione della mostra. Libertà va cercando, ch’è sì cara. Vigilando redimere. Martedì 26 agosto, ore 11.15 Salone D7. Partecipano: Angelino Alfano, Ministro della Giustizia; Franco Ionta, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria; Giovanni Maria Pavarin, Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Padova. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà. L’incontro sarà preceduto dalla proiezione di un video internazionale e dalle testimonianze di due detenuti.

Viviamo in una società dove chi sbaglia è dannato: dentro o fuori le sbarre rimarrà sempre prigioniero dei suoi errori, un malvagio da emarginare. Ben diversa è l’esperienza cristiana. In essa un uomo, qualunque delitto abbia commesso, ha sempre una possibilità di cambiare e di redimersi. Non a caso fin dall’inizio del cristianesimo c’è stata un’attenzione profonda al mondo delle carceri: visitare i detenuti è una delle opere di misericordia corporale. Scriveva Sant’agostino: "È necessario perseguire i peccati non i peccatori… è esempio di umanità chi persegue il peccato avendo come fine di liberare/salvare l’uomo". E rivolgeva questo invito: "Diligite homines, interficite errores", "amate gli uomini, condannate gli errori".

Il principale intento della mostra è proprio documentare che, paradossalmente, in un luogo dove tutto sembra finalizzato alla privazione della libertà, può nascere una domanda di verità di sé, inizio di un percorso di riconquista dell’umano. Proprio il riconoscimento dell’errore e la richiesta di perdono agli uomini e a Dio è il principio di un cammino di redenzione.

Si scopre così che in tutto il mondo chi sta espiando una pena può dare testimonianza di libertà, umana e di fede, monito per tutti a scoprire che "omnia gloria filiae regis ab intus", "tutta la gloria della figlia del re viene dal di dentro", cioè dalla coscienza del rapporto col Mistero. Persone colpevoli dei peggiori crimini vivono la reclusione come possibilità di ripresa della dignità umana, imparano che la libertà non dipende dalle circostanze, sperimentano la cella come una "clausura", cioè il modo con cui vivere il rapporto con Cristo.

Analogamente ci sono uomini - magistrati di sorveglianza, guardie, educatori - che vivono con grande umanità e rispetto per le persone il loro lavoro nelle carceri. Ad essi si aggiungono molti fra coloro che svolgono nelle carceri un’attività di caritativa o danno vita ad attività produttive che offrono lavoro ai detenuti.

Il più importante aspetto di queste testimonianze, messo in luce dalla mostra con diversi mezzi espressivi, ma soprattutto dalla presenza di chi è direttamente coinvolto nella vita delle carceri, è la documentazione di una presenza che fa rinascere la speranza in un ambiente dove non si dovrebbe aver più speranza.

Si potrà anche toccare con mano l’alto livello qualitativo del frutto del lavoro di questo "mondo sommerso", lavoro reso possibile dall’iniziativa di cooperative di produzione e lavoro che, scevre da connotati assistenzialisti, sono state capaci di inserirsi con professionalità sul mercato. Queste testimonianze saranno illuminate nella loro più vera prospettiva da documentazioni di tipo storico, artistico, letterario, teatrale, cinematografico, opera di grandi personalità che hanno colto il duplice aspetto di fallimento e di possibile resurrezione dell’umana esistenza nelle carceri.

Infine la mostra metterà a tema anche il ruolo della detenzione nel nostro Paese, a partire dalla costituzione che concepisce la detenzione come un "percorso di redenzione" e il carcere come un luogo in cui "vigilando redimere". Oggi questa funzione rieducativa prevista dalla Costituzione è spesso disattesa. Accade così che nella maggior parte dei casi non è vero che le carceri sono luoghi di recupero e di redenzione dei detenuti. Quale deve essere la strada perché in questi luoghi sia possibile un percorso riabilitativo per chi "libertà va cercando, ch’è sì cara"? O protagonisti o nessuno. A maggior ragione in carcere.

Droghe: Christiane F., 33 anni dopo è ancora "nell’inferno"

 

La Repubblica, 11 agosto 2008

 

L’autrice di "Noi ragazzi dello zoo di Berlino" è ripiombata nell’inferno. Secondo il tabloid BZ, ha cercato di fuggire in Olanda, è senza lavoro e senza soldi.

È ripiombata nell’inferno della droga Christiane F., al secolo Christiane Vera Felscherinow, autrice del romanzo "Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino", che descriveva in maniera autobiografica il dramma di una ragazzina di 13 anni catapultata nel buio della tossicodipendenza e della prostituzione. Dal libro venne tratto anche un film. Il tabloid berlinese B. Z. ha riferito ieri che le autorità municipali di Potsdam-Mittelmark hanno tolto a Christiane, 46enne, la custodia del figlio di 11 anni: la causa è proprio la ricaduta della madre nella dipendenza dall’eroina. Il giornale mette la storia in prima pagina, con una grande foto della protagonista e il titolo "Un altro crollo. Via il bambino".

L’articolo spiega che Christiane è tornata nell’abisso a partire dal febbraio scorso, quando insieme al figlio e al suo compagno tentò di emigrare in Olanda. Non appena l’Ufficio comunale per l’Infanzia venne a conoscenza del proposito, incaricò la polizia di prelevare dall’abitazione della donna il bambino, per assegnarlo in custodia a un istituto. La madre riuscì tuttavia a riprenderselo pochi giorni dopo e a recarsi ad Amsterdam, dove tornò a fare uso di alcool ed eroina.

Rimasta senza risorse, Christiane in giugno è tornata in Germania e, sul treno che la conduceva a Berlino, si è presentata spontaneamente alle forze dell’ordine, chiedendo di potersi riprendere cura del figlio. BZ scrive che negli ultimi tempi la donna frequentava gli ambienti dei tossicodipendenti presso la Kottbusser Tor, nella zona di Kreuzberg.

Un portavoce delle autorità comunali ha confermato che al momento attuale "è escluso" che il bambino possa tornare a vivere insieme alla madre, mentre anche la nonna del minore si è detta "sconvolta" per il ritorno di Christiane alla droga, aggiungendo di non saper più che cosa fare per aiutarla. "Deve tornare a essere padrona della sua vita", ha detto. "Questa è l’unica possibilità che ha di riavere suo figlio".

Da quando scrisse il suo famoso romanzo, diventato un best-seller in Germania e in altri Paesi europei, Christiane F. è a lungo riuscita a vivere dei proventi dei diritti d’autore, dopo essersi sottoposta a una terapia di disintossicazione a base di metadone.

La sua prima esperienza con la droga risale a quando aveva 13 anni; a 14 cominciò a prostituirsi intorno alla Bahnhof Zoo, la stazione berlinese vicina al giardino zoologico che ispirò il titolo del libro, per riuscire a procurarsi il denaro necessario per acquistare la droga. Nel volume descrisse poi le umiliazioni personali e quelle dei ragazzi che come lei erano tossicodipendenti.

Francia: 100 ex terroristi temono fine "dottrina Mitterrand"

di Giovanni Bianconi

 

Corriere della Sera, 11 agosto 2008

 

Se uno chiede quanti sono ancora i "rifugiati" in Francia a rischio estradizione, gli interessati arrivano a mettere insieme qualche decina di nomi e poi rispondono: settanta-ottanta. Al massimo un centinaio. Gli altri ormai sono "scaduti", nel senso che non avevano condanne a vita né troppo elevate e quindi è scattata la prescrizione della pena. Sono tornati liberi, insomma.

Ma quel centinaio che non hanno chiuso i conti con la giustizia italiana - compresi quelli per i quali la prescrizione arriverà di qui a poco - sono ancora qui nelle vesti ufficiali di ex terroristi "latitanti", seppure muniti di regolare permesso di soggiorno concesso dal governo di Parigi. E vivono appesi a un filo, che ogni tanto rischia di spezzarsi con l’arresto di uno di loro. Ora è il turno di Marina Petrella, ex brigatista ergastolana, imprigionata nell’agosto del 2007, estradizione firmata a giugno e ricorso pendente al Consiglio di Stato.

Da una settimana è arrivato l’ordine di scarcerazione per le gravissime condizioni di salute psico-fisica che la costringono in una stanza d’ospedale. Prima, nell’agosto 2002, era toccato a Paolo Persichetti, ex militante dell’Unione dei comunisti combattenti. E nel 2004 è stato il turno di Cesare Battisti, arrestato, liberato, fuggito e ripescato nel 2007 in Brasile, dove è ancora in corso la disputa legale per ottenerne la riconsegna.

A parte il destino di una donna giunta a pesare 40 chili di fronte alla prospettiva di scontare l’ergastolo in patria dopo che la Francia le aveva consentito per quattordici anni di costruirsi una nuova vita in libertà, il caso Petrella rappresenta per la comunità dei "rifugiati" un punto di svolta. A seconda di come si concluderà, avrà effetti decisivi su tutti gli altri che proseguono le loro "normali" esistenze francesi, fatte di lavori e famiglie ormai regolari, ma sempre col rischio di un "incidente" che può interrompere quella regolarità e riaprire vecchie pendenze penali per fatti di 25 o 30 anni fa. Crimini colorati di politica che in Italia non sono stati dimenticati, soprattutto dai familiari delle vittime, e che la Francia ha deciso di nascondere sotto il tappeto quando s’è ritrovata i responsabili in casa propria; salvo dare ogni tanto un colpo di ramazza. Come ha fatto con Marina Petrella.

Se ora verrà estradata, gli altri dovranno chiedersi chi sarà il prossimo; se invece resterà, potrebbe essere la fine di tante preoccupazioni. Anche se l’incognita rimarrà, soprattutto per quel pugno di persone (una decina) condannate all’ergastolo o a pene tanto lunghe da essere ancora lontane dalla prescrizione. S’è aperta così un’altra fase della tanto discussa - celebrata o criticata, a seconda dei punti di vista - "dottrina Mitterrand", sopravvissuta al presidente socialista e rispettata in passato anche dai governi di destra, con la quale si trova ora a misurarsi Nicolas Sarkozy, e che da oltre un quarto di secolo garantisce asilo agli italiani condannati per fatti di terrorismo.

A fasi alterne, con più o meno lunghi intermezzi carcerari per chi è incappato nelle maglie della giustizia locale. Ma che di fatto ha impedito i rimpatri: dei 94 italiani che dal 1982 sono stati arrestati e poi liberati dalla magistratura francese, finora il solo Persichetti è stato riconsegnato materialmente alle carceri italiane. Un topolino partorito dalla montagna di dispute e polemiche che si trascinano da più di 25 anni.

Tutti gli altri (a parte Battisti, e la Petrella ancora sotto giudizio) sono rimasti e hanno ricominciato a vivere la loro vita di post-terroristi. Perché questo aveva chiesto loro François Mitterrand nel 1981, quando promise di non restituirli al Paese d’origine: uscire allo scoperto, mettendo fine al loro status di clandestini, e rinunciare a ogni teoria e pratica della lotta armata. Anche se non esiste una contabilità ufficiale, i "rifugiati" di allora - fuoriusciti dall’Italia e da decine di formazioni terroristiche, non solo Brigate rosse e Prima Linea - erano diverse centinaia.

Oreste Scalzone, giunto qui nell’81 e divenuto una sorta di icona degli "esuli", sostiene che arrivarono a seicento. Mitterrand, in una dichiarazione del 1985, parlò di trecento, "cifra approssimativa". Proprio Scalzone fu arrestato nell’agosto del 1982 e la Chambre d’accusation di Parigi diede "avviso favorevole" alla sua estradizione. Disatteso dal governo che non firmò il decreto per rispedirlo in patria. Con tanto di editoriale di Le Monde, intitolato "Lo Stato e la parola data", a spiegare che il tradimento della promessa presidenziale avrebbe significato non solo una brutta figura sul piano nazionale e internazionale, ma anche il rischio di reimmersione nella clandestinità di qualche centinaio di ex terroristi, con conseguenze imprevedibili per la stessa Francia.

Da allora è cominciata un’altalena di decisioni contrastanti. Alla prima ondata di pareri a sostegno delle estradizioni durata fino al 1985 ne seguì una di segno opposto, perché quasi tutti i condannati non avevano assistito ai processi in Italia; un diritto violato secondo la legge francese, nonostante fossero stati gli stessi imputati a sottrarsi attraverso la fuga. Negli anni Novanta il vento cambiò di nuovo, e la Chambre tornò a sollecitare la riconsegna di quegli italiani riparati qui dopo la scarcerazione in patria dovuta all’eccessiva durata dei giudizi. Ma nonostante gli "avvisi favorevoli" delle corti, solo tre decreti di estradizione furono firmati dai primi ministri di Parigi, di destra o di sinistra che fossero.

Uno nel 1987, abrogato dal Consiglio di Stato; uno nel 1991, corretto da un successivo contro-decreto che sostituiva il precedente; il terzo, nel 1994, nei confronti di Persichetti. Mai eseguito fino al 2002, quando la falsa pista di un suo coinvolgimento nel delitto Biagi firmato dalle nuove Br convinse i francesi a spedirlo a Roma nel giro di ventiquattr’ore. Dopo quella decisione - e l’invio dall’Italia di una lista di dodici condannati da arrestare, compilata sulla base di criteri mai svelati - i casi Battisti e Petrella (nomi contenuti nella lista) hanno animato il dibattito più in Francia che in Italia.

Oltre ai timori dei "rifugiati", ovviamente. Perché è la Francia che ha consentito a queste persone di ricostruirsi una vita alla luce del sole, con tanto di documenti d’identità rilasciati dalle prefetture, e poi improvvisamente deciso di restituirne qualcuno al suo passato. Secondo scelte che paiono casuali: "Come fosse una roulette russa", mormora chi potrebbe essere colpito all’eventuale prossimo giro. Un governo ha tutto il diritto di rinnegare la famosa "dottrina", ma è la retroattività della decisione che diventa poco digeribile per gli interessati e l’opinione pubblica locale, e rischia di mettere un po’ in imbarazzo lo stesso Sarkozy. È quindi alla Francia che gli ex terroristi chiedono di mantenere la "parola data". Perché senza quella "parola" - dicono nei bar parigini dove chiedono di non essere indicati per nome, perché la prudenza non è mai troppa - "non avremmo messo su famiglia o fatto figli. Come Marina". Cioè la Petrella, madre di una bimba francese di dieci anni, presa forse casualmente o forse no in un agosto come questo. E che in una camera d’ospedale aspetta di sapere se avrà ancora il futuro che le era stato garantito. A lei e gli altri.

Stati Uniti: l’11 agosto 1934 fu aperta la prigione di Alcatraz

 

Ansa, 11 agosto 2008

 

Alcatraz, la prigione per antonomasia non è di certo stato il carcere aperto per il maggior numero di anni al mondo, tante altre prigioni hanno festeggiato i propri centenari, ma poche sono diventate famose come questa. Alcatraz è una piccola isola nella baia della città di San Francisco, dallo spagnolo "pellicano", prende il nome proprio da questo animale che popola l’isola in gran numero.

La conosceremo negli anni anche come The Rock (la roccia), ad indicare il masso che erge dall’acqua sul quale fu costruita. Solo l’11 agosto del 1934 diventa un carcere di massima sicurezza, infatti nel 1850 sull’isola sorge un faro, quindi dal 1909 un carcere militare. Nel 1963, dopo solo 29 anni di vita, il carcere viene definitivamente chiuso a causa degli elevati costi di gestione ed oggi Alcatraz è un parco pubblico gestito dal National Park Service. Alla fine il governo federale ne decise la chiusura per gli altissimi costi di gestione, visto che sull’isola mancava anche l’acqua da bere e tutto doveva esservi trasportato dalla terra ferma.

Le dimensioni delle celle, la durezza del trattamento riservato ai detenuti, facevano però da contro altare ad una gestione tutto sommato "buona", anche perché il personale di guardia era sempre ridotto all’osso e la paura di rivolte sanguinose era sempre nell’aria. Famosa anche per molti film che si sono ispirati al luogo e ne hanno fantasticato non poco l’ospitalità, questa piccola isola è oggi uno splendido parco con annessa prigione da visitare con tutta calma, nell’azzurro del mare della California.

 

 

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