Rassegna stampa 15 settembre

 

Giustizia: "tolleranza zero", ma chi pensa a tutelare gli ultimi?

di Sergio Cusani e Sergio Segio

 

Liberazione, 15 settembre 2007

 

Dicono: gli sgomberi dei campi rom servono a ripristinare ordine e legalità; ma lo sgombero senza alcuna alternativa getta sulla strada e nella disperazione centinaia di persone e questo, semmai, produce minore sicurezza.

Dicono: alla solidarietà bisogna accompagnare il contrasto rigoroso dell’illegalità. Ma ben sanno che di solidarietà se ne vede sempre meno, perché, anche a sinistra, è stata messa in mora la cultura della accoglienza e dei diritti, mentre si insiste e si investe solo sulla repressione. Anche di fronte a percorsi di integrazione riusciti, come al campo milanese di San Dionigi, con bambini regolarmente a scuola e adulti al lavoro (sia pure, e non per colpa loro, in nero), la scelta è stata di sgomberare. Alla faccia di quel "Patto di legalità" che a quegli stessi rom era stato fatto sottoscrivere in cambio di percorsi di integrazione. Finiti anche questi sotto le ruspe.

Dicono: applichiamo i principi di Tony Blair, duri con il crimine e duri con le cause del crimine. Ma chiamano crimine anche ciò che crimine non è, come l’accattonaggio, mentre rimuovono e dimenticano le cause.

Dicono: ai cittadini bisogna dare ascolto, chiedono sgomberi e pugno di ferro. Ma i cittadini non sono solo quelli abbienti o che gridano più forte. Sono anche i poveri e i rom e tutti coloro (e non sono affatto pochi) che non reputano giuste le politiche di deportazione.

Dicono: i campi non consentono condizioni igieniche e dignitose. Fingendo di non sapere che anche la maggioranza dei rom vorrebbe case stabili e non baracche, la possibilità di lavarsi e lavorare.

Dicono: la percezione dei cittadini è quella dell’insicurezza. Anche se scarsamente fondata sui fatti, esige ascolto e risposte. Se è per quello, ci dicono gli istituti di ricerca, la percezione (assai più fondata) dei lavoratori è quella di essere sempre più poveri.

Dicono: la paura cresce. È senz’altro vero, ma occorrerebbe chiedersi il perché. I principali motivi stanno nel venir meno di politiche sociali e welfare, nella precarizzazione del lavoro, nell’incertezza del futuro per sé e i propri figli.

Dicono: lavavetri e accattoni, prostitute e immigrati, anche se non direttamente espressioni criminali, rendono invivibili le città. In alcune zone può pure essere. Ma le città sono rese ancor più invivibili dall’inquinamento, dal traffico, dai rifiuti, dal degrado urbano, dalla mancanza di spazi di socializzazione, del verde e così via.

Dicono: il buonismo non aiuta, non si possono creare condizioni di favore per i rom. L’assessore milanese alle politiche sociali è arrivato ad affermare "i rom devono capire che è finito il tempo delle vacche grasse" (sic!). Dimenticando che sinora i rom hanno visto semmai solo topi grossi. E soprattutto dimenticando don Milani: "nulla è più ingiusto che fare parti eguali tra diseguali".

Noi ne diciamo una sola: non ci sono i cittadini, da una parte, e, dall’altra, gli emarginati, i rom. I quali sono cittadini, per di più europei, esattamente come gli altri. Anche i rom hanno paura, specie quando sono vittime di aggressioni continue, come a Pavia o, prima, a Opera alle porte di Milano. Eppure la legge non sembra tutelarli per nulla.

Se l’insofferenza dilaga e la paura cresce è anche perché pochi si assumono l’onere di ricordare verità scomode. Come ad esempio che, curiosamente, gli sgomberi seguono spesso la geografia e la tempistica degli interessi delle speculazioni immobiliari. Succede a Milano, a Sesto San Giovanni o a Pavia.

La situazione di Milano è, non da oggi, tra le più difficili. Non perché la sicurezza sia minore, ma perché maggiore è la strumentalizzazione politica, la debolezza dell’opposizione, il silenzio degli intellettuali, la prudenza delle associazioni.

Certo, c’è anche il problema della sicurezza, ma questa si promuove con l’inclusione e la coesione sociale, non fomentando pogrom e disperazione. Il disagio e i fenomeni di disturbo si contengono con le politiche sociali non con le manette. La legalità va considerata una condizione normale per tutti e per ciascuno, non una clava da agitare contro i più poveri.

Giustizia: pronto il ddl governativo sulla banca-dati del Dna

 

Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2007

 

Anche l’Italia avrà una banca dati del Dna. Dopo mesi di incertezze, legate a ragioni di merito (preoccupazioni per la salvaguardia della privacy, per esempio) e di copertura (solo nelle ultime ore sono stati trovati i fondi necessari, 10 milioni per partire e 6 all’anno in seguito), il disegno di legge è stato diramato ieri mattina.

Il che significa che il provvedimento dovrebbe approdare a uno dei prossimi Consigli dei Ministri, sbloccando così un’impasse che durava almeno dall’autunno scorso. Era il 12 ottobre 2006 quando venne approvato dal Governo un disegno di legge con le modifiche al Codice di Procedura Penale per consentire il prelievo di campioni biologici. A necessario completamento doveva essere varata la banca-dati del Dna, che però è rimasta sinora lettera morta malgrado il ministro dell’Interno, Giuliano Amato, si fosse impegnato all’adozione con gli Accordi di Prum. Accordi che sono tesi a facilitare la circolazione dei dati relativi anche al Dna, oltre che alle impronte digitali, fra sette Paesi dell’Unione (Belgio, Francia, Germania, Spagna, Lussemburgo, Paesi Bassi, Austria)

Il rispetto del Trattato si è rivelato decisiva soprattutto nella prospettiva delle indagini sui reati di terrorismo e criminalità organizzata che assumono sempre più una dimensione internazionale. Ma non solo. La banca dati del Dna è diretta anche, se non soprattutto, a scoprire gli autori di reati che oggi, in larga parte, restano ignoti, come nel caso di furti e rapine (1 milione e mezzo i furti denunciati nel 2005, di cui è rimasta impunita la quasi totalità), a rintracciare persone scomparse, a stabilire l’identità di persone decedute.

L’unica struttura presente in Italia, simile a quella richiesta per il test del Dna, è legata all’identificazione attraverso le impronte digitali, ma a mancare era stato fino a oggi il coordinamento per lo scambio di dati tra le forze di polizia e gli istituti di medicina legale ai quali di solito l’autorità giudiziaria affida l’analisi del Dna "Tutti i risultati ottenuti dall’analisi del Dna - sottolinea la relazione al disegno cu legge - rimangono confinati ai singoli episodi ed eventuali comparazioni di dati vengono effettuate con ricerche manuali".

Due sono i canali principali attraverso i quali verranno raccolte le informazioni utili a ricostruire il profilo genetico: la prima è quella dei reperti biologici trovati sulla scena del reato (sangue, pelle, capelli). Gli elementi acquisiti dalla polizia giudiziaria o dalla magistratura attraverso perizia o consulenza tecnica dovranno essere obbligatoriamente inviati alla banca dati. I profili del Dna estratti dai reperti raccolti nel corso delle indagini penali e rimasti non attribuiti verranno poi confrontati con il profilo del Dna di persone note, che sono state sottoposte a privazione della libertà personale: soggetti cui sia stata applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari; persone arrestate in flagranza di reato oppure nei casi in cui l’arresto è consentito fuori dai casi di flagranza; persone sottoposte a fermo di indiziati di delitto; persone detenute o internate a seguito di sentenza irrevocabile, o sottoposte a misure di sicurezza detentive, a titolo provvisorio o definitivo.

A tutti questi soggetti sarà prelevato un campione di saliva. Una misura troppo invasiva? Per il ministero della Giustizia no, perché a una persona già privata della libertà personale può essere imposta un’altra limitazione. E, di norma, chi entra in carcere viene sottoposto ad altre misure di questo tenore, come la rilevazione delle impronte o il prelievo di sangue per verificare la presenza di infezione da hiv o altre malattie.

In ogni caso, la banca dati non conterrà informazioni generali sul soggetto, ma servirà solo per la sua identificazione. La gestione della banca dati sarà affidata a personale di pubblica sicurezza da individuare con criteri che saranno oggetto di un futuro provvedimento.

L’autorità giudiziaria o le Forze di polizia non avranno accesso diretto alle informazioni sui nominativi: se avranno bisogno di consultare la Banca dati dovranno prima chiedere di effettuare il confronto tra i reperti "ignoti" e i profili della banca, dati Solo se questo sarà positivo, saranno autorizzati a conoscere il nome del soggetto cui appartiene il profilo.

 

Il parere dell’investigatore: il tenente colonnello Luciano Garofano

 

Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca e via fino all’Ucraina. È decisamente più semplice elencare quali sono i Paesi che ancora non dispongono di una banca dati del Dna che non quelli che da anni, avendola, hanno anche visto diminuire la percentuale dei reati. Così, escludendo Polonia e Grecia ormai pronte, fanalino di coda siamo noi, Cipro, la Turchia e la Russia. I tempi però sembra siano davvero maturi.

"La banca dati del Dna è un presidio ormai riconosciuto come assolutamente indispensabile non solo per combattere la criminalità, ma anche come strumento di prevenzione - chiarisce il tenente colonnello Luciano Garofano comandante dei Ris di Parma.

I primi a capirlo e a sperimentarlo sono stati gli inglesi: da 11 anni dispongono della bio-banca che annovera 3 milioni di profili genetici Tracce che provengono dai luoghi di reato, dai soggetti indagati, arrestati o fermati anche solo per un controllo alcol-metrico. Dopodiché il Dna resta negli archivi come una traccia indelebile, per sempre".

La Gran Bretagna è la sola ad adottare questo sistema, le altre nazioni hanno stabilito scadenze più o meno lunghe. Più si conservano le tracce e più si rischiano illeciti? "Il fatto di conservare per un lungo periodo di tempo i campioni si basa anche sul fatto che cambiando le tecnologie, come il tempo ci ha dimostrato, è possibile applicarle su tutte le tracce custodite nella bio-banca e renderle efficienti. Anche la tenuta dei campioni soddisfa tecnicamente una serie di presidi che ne prevengono un uso illecito, tant’è che non se ne registrano".

Quanto la mancanza di una banca dati in Italia ha portato a una perdita di tempo, di soldi e di energie nelle indagini? "L’assenza non ha consentito alle forse di polizia di esprimere l’efficacia che viene da uno strumento come la banca dati. La Gran Bretagna, che dispone del maggior numero di profili genetici, è passata da un tasso di scoperta dei reati dal 26% al 59 per cento. Questo dato ha una doppia chiave di lettura. Da un lato esprime maggiore efficienza, che si traduce anche in una riduzione dei costi per le indagini; dall’altro è nel segno della prevenzione, in quanto la schedatura in una banca dati funziona da deterrente".

 

Il parere dello scienziato: il professor Carlo Alberto Redi

 

È sufficiente un prelievo di saliva. Niente siringhe o altri strumenti invasivi per avere il Dna di un individuo. Che, una volta estratto, viene amplificato con le tecniche di reazione a ca-tena della polimerasi (Per), posto in una gelatina e fisicamente tagliato, in alcuni punti, dagli enzimi. "La tecnica corrente prevede un "taglio" di 16 marcatori prestabiliti, quelli cioè che permettono di caratterizzare correttamente una persona, un parametro ormai standard e consolidato, usato anche per l’identificazione di paternità - spiega Carlo Alberto Redi, direttore scientifico della Fondazione Irecs Policlinico San Matteo di Pavia e componente della "Commissione Biosicurezza, Bioterrorismo e Scienze della vita", che ha fornito un grosso contribuito alla messa a punto del disegno di legge -.

Ma la cosa più importante che va detta su questi 16 frammenti di Dna è che non codifica-no alcuna proteina, il che significa che in nessun modo è possibile rintracciare, attraverso la lo-ro lettura, una suscettibilità o predisposizione verso determinate malattie. Quindi non si corre alcun rischio di discriminazione". Non adesso, ma in futuro?

"Soltanto l’1.2% di tutta la doppia elica codifica proteine, tutto il resto non svela nulla sulla salute dell’individuo. Questo vale oggi come in futuro, anche con il progredire delle tecnologie", precisa Redi. Sgombriamo il campo da un’altra paura: il percorso del campione di Dna, dal prelievo alla banca dati, può essere in qualche modo inquinato?

"Con le procedure standard questo non può accadere - dice con fermezza lo scienziato -. Oggi esistono quattro livelli di controllo e tutta la movimenta-zione dei campioni è tracciatale, per cui anche nell’eventualità remota di un errore umano è possibile risalire al "colpevole".

A parte la certificazione dei laboratori, è senza dubbio fondamentale una corretta formazione del personale. "È l’aspetto sul quale stiamo più lavorando nel Centro interdipartimentale per Scienza e diritto nato cinque anni fa all’internò della nostra Università. Teniamo regolarmente ogni anno corsi sulle procedure di analisi del Dna ai magistrati, anche a livello europeo". Paese strano l’Italia, non abbiamo ancora istituito una biobanca, ma da un punto di vista accademico siamo i più preparati sulle indagini scientifiche, tant’è vero che facciamo lezione anche nel resto d’Europa.

 

Al Garante della privacy restano delle perplessità

 

Il Garante della privacy non ha mai pronunciato un "no" secco di fronte all’ipotesi della banca-dati del Dna. Ha sempre chiesto che fosse accompagnata da regole chiare: una legge che dicesse come deve nascere questo delicato archivio, chi vi può accedere, quali dati deve custodire, a chi va affidato il controllo. Domande a cui lo schema di dise-gno di legge predisposto dal ministero della Giustizia ri-sponde. E, in linea di massima, le risposte non possono dispiacere all’Authority della riservatezza.

Una delle questioni che Francesco Pizzetti, presidente del Garante, ha sempre posto al centro dell’attenzione è stata scelta del materiale da conservare: campioni biologici, in grado di rivelare l’identità della persona e anche la sua storia familiare, o più anonime sequenze alfanumeriche, quelle che il ddl chiama il "profilo del Dna"? La banca dati conterrà quest’ultimo, mentre i campioni biologici, da cui si estrarrà "il profilo", dovranno essere distrutti non più tardi di sei mesi.

Anche il fatto che le modalità di accesso non siano lasciate al caso - identificazione dell’operatore e tracciamento di ogni interrogazione della banca dati - non può che garantire, almeno sulla carta, un utilizzo oculato delle informazioni genetiche. Si tratta di principi generali, che dovranno essere meglio specificati dai regolamenti attuativi, ai quali spetterà anche il compito di identificare le misure di sicurezza con cui blindare il nuovo archivio. Il fatto poi che a controllare il funzionamento della banca dati sia chiamato - come aveva chiesto - lo stesso Garante, dovrebbe ridimensionare certe perplessità

La partita, comunque, è aperta, anche perché la questione della banca dati nazionale dovrà poi essere coniugata con la messa in rete degli archivi del Dna a livello Ue, come previsto dal Trattato di Prum, che il nostro Paese deve ancora ratificare. E qui entrano in gioco altre preoccupazioni, che i Garanti europei della privacy hanno già sollevato. A iniziare dal fatto che, a livello comunitario, nel settore della cooperazione giudiziaria non valgono le tutele della riservatezza.

 

Richieste da giudici e polizia

 

I profili Dna non contengono le informazioni che permettono la diretta identificazione del soggetto cui sono riferiti: (a polizia o l’autorità giudiziaria sé hanno bisogno di consultare la banca dati devono prima chiedere di effettuare i confronto e, solo se positivo, sono autorizzati a conoscere il nominativo del soggetto cui appartiene il profilo

 

Nel mirino anche furti e rapine

 

La Banca dati nazionale del Dna risponde a un impegno assunto in sede internazionale dal ministro dell’Interno Giuliano Amato. Serve non solo per dotare gli investigatori di uno strumento tecnologicamente avanzato per la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo, che assume una prospettiva sempre più internazionale, ma soprattutto per scoprire l’identità degli autori di reati che oggi restano in gran parte ignoti, come furti e rapine, per stabilire l’identità dei cadaveri, per rintracciare persone scomparse

 

Schedati tutti i detenuti

 

La banca dati si alimenterà in due modi. Con i profili del Dna estratti dai reperti biologici -come capelli e macchie di sangue - acquisiti sulla scena del reato dalla polizia giudiziaria ed esaminati dai laboratori specializzati delle Forze dell’ordine. E poi con i profili di persone note sottoposte a carcerazione, anche preventiva. Sono escluse le persone accusate di reati non caratterizzati da violenza o minaccia come quelli fallimentari e tributari.

Polizia Penitenziaria - Uepe: assistenti sociali Catania e Ragusa

 

Blog di Solidarietà, 15 settembre 2007

 

In riferimento alla bozza di Decreto Interministeriale che verrà discussa il 17 c.m. gli operatori dell’Uepe di Catania e Ragusa tornano ad esprimere il loro dissenso per i motivi già esplicitati nei precedenti documenti, fatti pervenire agli intestatari sopra citati.

Non poche sono le perplessità che scaturiscono dalla lettura dettagliata di tale bozza, e non si può fare a meno di premettere qualche considerazione, prima di ribadire le ricadute operative amministrative sull’Esecuzione Penale Esterna dell’Affidamento in Prova al Servizio Sociale con l’introduzione della Polpen negli Uepe.

Ormai siamo tutti a conoscenza che il disagio sociale (risolto con leggi restrittive della libertà personale) è in forte aumento a seguito della riduzione e, possiamo dire nostro malgrado, con l’assoluta assenza di investimenti per il Welfare State da parte dell’attuale politica di governo.

Ciò non passa inosservato agli operatori del settore, al mondo del volontariato, all’associazionismo, a diverse organizzazioni sindacali, ecc., che già hanno formalmente fatto pervenire le loro rimostranze.

Il fatto che i mass media non amplifichino, come sanno fare per i fatti che inducono nell’immaginario "popolare" allarme- sicurezza, non giustifica che le scelte politiche non tengano conto di concetti culturali e professionali elaborati nell’arco di anni di storia.

Si parla di sviluppo e di lavoro teorico-accademico oltre che giuridico e di attività sul campo con azioni di prevenzione e recupero del "deviante".

Tutto ciò è inaccettabile e di fronte ad una politica che cerca consensi popolari attraverso la promozione di un "giustizialismo populistico", si rimane stupiti, un po’ per cultura e un po’ per convinzione professionale, chiedendosi verso dove si stia orientando l’attuale politica: verso la costruzione di una società responsabile e attiva? verso la costruzione di una società sempre più deresponsabilizzata e militarizzata?

Il Decreto in oggetto sembrerebbe rispondere a quest’ultimo orientamento e per stilarlo è stata fatta una interpretazione "molto estensiva" oltre che "adattiva" di tutti gli estremi di legge citati come fondamenti del decreto stesso per raggiungere l’obiettivo prefissato.

A tal proposito si evidenziano i seguenti punti:

Ciò che ha carattere di eccezionalità nelle leggi 121/1981, Dpr 82/199 etc. ("….per eccezionali esigenze di ordine e sicurezza pubblica o di ordine pubblico"….,), con il Decreto sulla sperimentazione della Polpen negli Uepe, diventa ordinario tanto che, per giustificare la scelta politica, si trasforma L’Uepe stesso in un servizio di ordine e sicurezza pubblica.

Si configura un ruolo di Direttore Uepe sempre più assimilabile ad un funzionario di Polizia, piuttosto che ad un funzionario tecnico con l’obbligo di una specifica connotazione tecnico-professionale, inerente al sociale-educativo, oltre che organizzativo di specifici servizi alla persona deviante, come la nostra utenza;

Ciò che è previsto per le misure più restrittive della libertà che vede il detenuto, per esempio nella posizione ex art. 48 Dpr 230/00 o art 47 ter O.P., si estende ai soggetti sottoposti alla misura alternativa dell’Affidamento in Prova al Servizio Sociale, seppure prevedendo anche disposizioni del Tribunale di Sorveglianza e/o del Magistrato di Sorveglianza da dare alla Polizia Penitenziaria negli Uepe;

Si teme per il futuro delle misure alternative, in particolare per l’Affidamento in Prova al Servizio Sociale, viste come possibilità di recupero e inclusione sociale.

I firmatari condividono e sostengono le ragioni espresse dal comitato di solidarietà degli assistenti sociali, dal Casg, dagli operatori dell’Uepe di L’Aquila e di Napoli.

Auspichiamo ancora una volta, che la discussione del 17 c.m. con le forze sociali e politiche esamini tutti gli aspetti finora evidenziati:

di identità degli Uepe, che sosteniamo debbano rimanere a connotazione sociale, giuridici, amministrativi, di investimento finanziario in tutti i settori dell’amministrazione penitenziaria, di organico degli Uepe e degli Istituti Penitenziari; operativo-professionali, gestionali affinché si giunga ad una svolta politica nel settore penitenziario che sia garante dei principi costituzionali della pena, vista come momento di "rieducazione del condannato".

 

Assistenti Sociali Uepe Catania e Ragusa

Napoli: un sardo, malato grave, chiede trasferimento nell’isola

 

Agi, 15 settembre 2007

 

"Un detenuto cagliaritano gravemente ammalato, da 15 anni in carcere, ha chiesto più volte di essere trasferito in Sardegna o di essere avvicinato, anche per breve periodi, per poter svolgere i colloqui con i familiari.

Nessuna richiesta è stata accolta e l’ultimo avvicinamento colloqui risale a oltre due anni fa". Lo denuncia la consigliera regionale socialista Maria Grazia Caligaris (Sdi-Rnp), segretaria della commissione Diritti civili, ribadendo la necessita che il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) rispetti il principio della territorializzazione della pena previsto dalla legge sull’ordinamento penitenziario, rivendicato da un ordine del giorno approvato all’unanimità dal Consiglio regionale e contenuto nell’Intesa sottoscritta dalla Regione sarda con il ministero della Giustizia.

Sergio Schirru 56 anni nato a Cagliari - precisa la consigliera socialista - è detenuto nel centro clinico della casa circondariale di Secondigliano, in provincia di Napoli, dove è stato trasferito, dopo un infarto, il 28 ottobre 2004 dall’istituto penitenziario di Civitavecchia. Oltre che cardiopatico è affetto da diabete mellito del tipo 2 che ha provocato complicazioni, in particolare agli occhi. Per un’emorragia nel 2006 ha perso la vista all’occhio sinistro.

La diagnosi è di retinopatia diabetica preproliferante con intorbidamento emorragico vitreale. Nel marzo scorso ha avuto un’emorragia anche all’occhio destro e gli è stato prescritto il "tegens" un farmaco per dare fluidità alla circolazione del bulbo oculare il cui costo è a suo carico. Dovrebbe inoltre effettuare laserterapia. Sottoposto a regime di alta sicurezza, deve scontare altri 10 anni di carcere, in quanto la fine pena è prevista nel 2018.

"Nelle attuali condizioni", conclude la segretaria della commissione Diritti civili che segnalerà il caso al sottosegretario del ministero di Giustizia Luigi Manconi, "non si comprendono i motivi dell’atteggiamento del Dap che rifiuta a Sergio Schirru il trasferimento e persino l’avvicinamento per colloqui a Cagliari dove vivono la compagna e due figli. Così come non si comprende, nelle attuali condizioni di salute del detenuto, la necessità di mantenere il detenuto in regime di alta sicurezza che prevede restrizioni nella vita quotidiana in carcere".

Lodi: alla "Cagnola" 5 squadre si sfideranno in torneo di calcio

 

Redattore Sociale, 15 settembre 2007

 

Detenuti, poliziotti, agenti di custodia, giornalisti e consiglieri comunali impegnati nell’iniziativa "Cagnola sotto le stelle". "Stiamo cercando di aprire l’istituto alla società civile".

Detenuti, poliziotti, agenti di custodia, giornalisti e consiglieri comunali: domani nel carcere di Lodi si sfideranno nel torneo di calcio "Cagnola sotto le stelle" (Cagnola è il nome della via dove si trova la casa circondariale di Lodi). L’anno scorso la coppa se l’era aggiudicata la squadra degli "Uomini liberi", che è quella dei detenuti. "Stiamo cercando di aprire il carcere alla società civile - spiega Andrea Ferrari, volontario dell’associazione Loscarcere, che ha organizzato il torneo -. Durante l’estate sono venuti i comici di Zelig, il 22 settembre verrà a suonare Van De Sfroos".

Nel campetto del carcere di Lodi giocheranno (dalle ore 9 alle 13; ndr), oltre agli "Uomini liberi", le squadre della polizia di stato di Lodi, degli agenti di custodia, della redazione del Cittadino, dei giornalisti e tecnici Rai e dei consiglieri comunali. "Purtroppo lo sport in carcere viene poco praticato - aggiunge Andrea Ferrari -. Non c’è spazio sufficiente e c’è una sola palestra. Potrebbe invece essere uno strumento importante per migliorare la qualità della vita dietro le sbarre". L’associazione Loscarcere, nata 4 anni fa, aiuta i detenuti anche nella redazione del foglio mensile che viene pubblicato come inserto nel quotidiano "Il cittadino di Lodi". "È uno strumento importante, che permette di mantenere vivo il dialogo fra detenuti e società - sottolinea Andrea Ferrari -. Sono i detenuti a scrivere, noi li aiutiamo solo a reperire i contatti e coordiniamo il lavoro".

India: la Farnesina segue vicenda dei due piacentini detenuti

 

Sesto Potere, 15 settembre 2007

 

Novità sulla situazione dei due ragazzi piacentini detenuti in India vengono comunicate oggi dal presidente del Consiglio provinciale Gabriele Gualazzini.

"Ho parlato con la Farnesina - ci dice la seconda carica dell’Amministrazione provinciale, che sta seguendo con particolare attenzione la vicenda - dal Ministero mi è giunta la conferma che si è tenuta ieri (mercoledì 12 settembre) la prima udienza del processo a carico dei due ragazzi. La seduta è stata aggiornata al 4 ottobre.

La Farnesina mi ha anche informato di aver avuto assicurazioni dalla nostra Ambasciata in India sullo stato di salute dei due ragazzi: Simone e Angelo stanno bene, ed è questo già un motivo di grande soddisfazione. L’Ambasciata ha anche ottenuto, dal direttore del carcere dove i due sono detenuti, in deroga ai regolamenti vigenti, quindi in via del tutto eccezionale, la possibilità di avere con loro un contatto diretto, per poter verificare le condizioni in cui attualmente si trovano.

Al contrario, dal padre di uno di essi , che incontrerò personalmente la prossima settimana a Piacenza, mi giungono notizie diverse sullo stato di salute dei due ragazzi. L’incontro darà modo al padre di dimostrare la propria riconoscenza per lo sforzo messo in campo dall’Amministrazione Provinciale nel cercare di risolvere questo problema e allo stesso tempo permetterà di scambiarci informazioni sullo stato in cui versano i ragazzi, che io provvederò puntualmente a riferire ai miei colleghi di Consiglio".

 

 

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