Rassegna stampa 19 ottobre

 

Giustizia: Cgil; chiediamo un "Piano Marshall" per le carceri

di Mauro Beschi e Frabrizio Rossetti (F.P.-Cgil)

 

Aprile on-line, 19 ottobre 2007

 

Le carceri sono indebitate per circa 200 milioni di euro con costi enormi di gestione ed investimenti risibili per le attività di osservazione, trattamento e risocializzazione. Perché fra un anno non si renda definitivamente vano il ricorso all’indulto, l’unica strada è quella definita nel programma, non certamente quella del pacchetto sicurezza "Amato" prefigura.

"Il numero dei detenuti cresce mediamente di mille unità al mese, per cui tra un anno e mezzo, se non accadrà qualche fatto nuovo torneremo alla situazione di prima dell’indulto"; a queste semplici dichiarazioni del Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Dr. Ferrara occorre saper dare un’immediata risposta.

Risposta che non può ovviamente essere quella che il Guardasigilli si è affrettato a dare, la tesi per la quale senza "l’applicazione di quel provvedimento ci troveremo a quota 78 mila, quindi in una situazione devastante" per un sistema carcerario che non regge più.

Non che non sia giusto ricordare al Paese, alla Politica, al Parlamento la gravissima situazione in cui versavano le nostre carceri dopo la disastrosa gestione Castelli, ma è proprio da quella esperienza che bisogna saper uscire con un vero, organico, credibile piano "Marshall" sulla giustizia, penale e civile.

Il Ministro leghista riconsegnò al Paese più di nove milioni di cause pendenti, più della metà delle quali penali, tempi per i processi che mediamente si attestavano in 100 mesi, fra il delitto e l’appello; l’80% dei reati denunciati che rimanevano senza responsabilità accertate.

Il numero delle persone prese in carico dal sistema penale, prima dell’indulto, è cresciuto di sei volte: dai 35.000 del 1990 ai circa 200.000 del luglio 2006 (62.000 detenuti, 57.000 in misure alternative al carcere, 80.000 condannati in attesa del provvedimento esecutivo).

Le carceri sono indebitate per circa 200 milioni di euro con costi enormi di gestione ed investimenti assolutamente risibili per le attività di osservazione, trattamento e risocializzazione; al luglio 2006 il costo medio del detenuto era di circa 130 euro al giorno, di cui, più o meno, solo 15 euro spesi per "garantire" l’assolvimento del mandato che la Costituzione affida alla pena, la rieducazione.

La situazione, al netto degli effetti deflativi che il provvedimento di indulto ha comunque offerto al sistema carcerario, è rimasta la stessa, anzi, per ciò che attiene l’arretrato giudiziario, il provvedimento di indulto ha ingolfato ancora di più il sistema.

E allora che fare? Semplicemente applicare il programma dell’Unione sulla Giustizia e sulle carceri: riformare il codice penale - la Commissione "Pisapia" ha terminato i suoi lavori. A quando la formale presentazione dell’ipotesi di riforma e l’assunzione del necessario ddl da parte del Governo?; cancellare le cd. leggi vergogna del Governo Berlusconi visto che sono ancora intonse le leggi sulla recidiva (ex Cirielli), quella sull’immigrazione (Bossi-Fini), e quella sulle droghe (Fini-Giovanardi). La cosa inconcepibile è che non sembra enormemente complesso comprendere come queste leggi concorrano in maniera determinante al progressivo aumento della popolazione detenuta, caratterizzandola, sempre più, per la sua marginalità sociale; introdurre sanzioni penali diverse dal carcere per i reati di lieve entità e di minor allarme sociale; ricapitalizzare il sistema carcerario adeguandolo agli standard definiti dal regolamento penitenziario del 2000, mai applicato; valorizzare le professionalità penitenziarie evidenziando sempre più le caratteristiche sociali dell’intervento penale, in termini di reinserimento e rieducazione.

Un piano di interventi, quindi, già definito, concordato ed accessibile al Governo. Perché fra un anno non si renda definitivamente vano il ricorso all’indulto l’unica strada è quella definita nel programma, non certamente quella che il pacchetto sicurezza cd "Amato" prefigura. Le carceri sono già piene di immigrati, di tossicodipendenti, di microcriminali ai quali la Ex Cirelli ha negato qualsiasi possibilità di riscatto. Vogliamo aggiungere a queste fasce di emarginazione sociale le nuove emergenze dei lavavetri, dei posteggiatori abusivi e dei venditori ambulanti? Possiamo continuare a sacrificare un’avanzata idea di legalità e sicurezza in nome di un artato e strumentale bisogno di semplice decoro sociale o urbano?

L’alternativa che Governo e Parlamento hanno davanti è quella, da un lato, di recuperare un analisi realistica e onesta dei problemi della sicurezza e ad essa far corrispondere una organica azione di riforma legislativa, giuridica ed amministrativa (il Programma dell’unione, appunto), oppure continuare nell’autolesionistico rincorrere le campagne di opinione, in un vortice che alimenta reciprocamente allarmi, paure e invocazioni repressive verso il quale nessuna scelta di Governo o intervento della responsabilità pubblica potrà mai risultare soddisfacente, diventare capace di sedare un ansia indotta da poderose domande di identità, da profondi spaesamenti, da anomie legate alla crisi della società globalizzata.

Giustizia: abbiamo i migliori magistrati e il peggiore servizio

 

La Repubblica, 19 ottobre 2007

 

Il presidente della Corte d’Appello di Milano Giuseppe Grechi sfila dal taschino della giacca un foglietto. L’intestazione è della Corte d’appello di Firenze. Parla del destino di una delle migliaia di cause civili pendenti. Poche righe: "per esigenze di ufficio, si differisce la data della prima udienza al 15.02.2012".

"Tra cinque anni questi "disgraziati" inizieranno a discutere della loro causa - spiega Grechi perdendo per un attimo il suo aplomb -. E per avere giustizia, come minimo, dovranno attendere fino al 2018. Ma le sembra giustizia questa?".

Grechi, 50 anni in magistratura, venti dei quali al Csm, non è proprio uno sprovveduto. La sua analisi prende il via dall’esempio di Firenze, per concludere che ormai si è al collasso. O, meglio, "se si parlasse di una società, l’unica cosa che rimarrebbe da fare sarebbe di portare i libri in tribunale".

Perché la disamina del numero uno del palazzaccio milanese è impietosa, da bandiera bianca, da ultima spiaggia. "Se il Consiglio d’Europa ci continua a censurare per la lentezza dei processi, ci considera dei "sorvegliati speciali", e nello stesso organismo c’è l’Albania, che sta meglio di noi, qualcosa, diciamolo, non va", insiste Grechi.

 

Nelle analisi di questa situazione del magistrati, le colpe per questo disservizio sono da ricercare sempre fuori dai Tribunali. Anche lei la pensa così?

"Io sostengo che i giudici italiani sono i migliori al mondo, per professionalità e competenze, ma nello stesso tempo rendono il peggiore servizio al mondo".

 

Ci può spiegare?

"Scrivono sentenze come si faceva nel 1800, quando per sentenza si intendeva un genere letterario. Meravigliose, formalmente impeccabili. Ogni settimana i miei colleghi si presentano con 50 - 100 pagine di motivazioni. Un lavoro perfetto, ma io dico loro: "Se anziché utilizzare settimane per questo lavoro, ci impiegaste due giorni, riusciremmo a fare molto più sentenze". Sembrano non voler capire. Sono anni che lo ripeto.

La grande colpa è la superbia. Parlando recentemente a un convegno, il "Lord Office" inglese illustrava i dati sulla loro Corte di Cassazione, la Camera dei Lord, spiegando che in tutto il 2006 erano state trattate 110mila cause penali e 40mila civili. In Italia siamo sui 4 milioni..."

 

Da noi ci si rivolge di più ai tribunali anche se i processi sono lenti. Non sarà più un problema culturale?

"Assolutamente. Io dico che dovremmo trovare una sorta di cartiera di conciliazione, cercando di impedire ai cittadini di rivolgersi per qualsiasi cosa agli avvocati e nella quale possano trovare consigli per evitare lungaggini inutili".

 

Non ritiene che spesso i magistrati facciano parte di una casta e che loro stessi siano i primi a non voler cambiare lo stato delle cose?

"No, casta è un termine che per definizione non accetto".

 

Eppure, in molti settori, si ritiene ingiusto garantire ai magistrati 45 giorni di ferie all’anno, la chiusura delle aule nel periodo feriale...

"Io parlo per Milano, e le garantisco che se ci fosse il controllo sulle ore di lavoro, si scoprirebbe che la maggior parte dei giudici è in ufficio molto più del dovuto".

 

Ma scusi, in campo penale la via d’uscita per evitare il collasso è stata quella di istituire la funzione dei giudici di pace...

"Certo, ma si è dimostrato un fallimento totale. La soluzione è quella di impedire che certe cause arrivino in Tribunale. Organizziamo strutture simili per il civile, sono sicuro che funzionerebbero come succede anche all’estero".

 

E ai politici non ha proposto questa soluzione?

"Critico con estrema cordialità il ministro Mastella. Da quando si è insediato non è riuscito a riformare strutturalmente la giustizia. Del resto non mi ricordo un responsabile di questo dicastero capace di rivoluzionarlo. Oggi penso che Mastella abbia tatto peggio del precedente governo di centrodestra. Allora ci mancava la carta per fare le fotocopie, adesso non abbiamo nemmeno le macchine di servizio".

 

Presidente, vuole farci credere che senza auto i processi diventano più lenti?

"Dico che oggi, per permettere a un giudice di sorveglianza di andare a sentire un detenuto, è difficile trovare un’auto. E come li mando, in treno, così ci mettono due giorni?"

Giustizia: Cogne; la Franzoni "uccise per conflitto interiore"

 

Quotidiano Nazionale, 19 ottobre 2007

 

Così i giudici nelle motivazioni della sentenza d’appello con cui il 27 aprile scorso la Franzoni è stata condannata a 16 anni: "Il conflitto aveva radice nell’ambito familiare dell’imputata, nella difficile gestione da parte sua dei due figli, caratterizzata da sovraffaticamento e da stress".

Un delitto condotto in modo "efferato" da una madre, Annamaria Franzoni "in conflitto interiore". Sono queste le motivazioni della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Torino, depositate questa mattina. La Corte d’Appello aveva condannato la Franzoni a 16 anni di carcere per l’omicidio del figlio Samuele il 27 aprile scorso.

Nelle 533 pagine di motivazioni, i giudici parlano di "un dolo intenzionale di omicidio che ha superato in un breve momento ogni freno, come è reso evidente dal vero e proprio massacro della testa del suo bambino (che pure tentò un debole atto di difesa, restando ferito a una mano), bambino in effetti privo di qualsiasi possibilità di scampo al cospetto della madre che aveva improvvisamente cambiato ruolo". Dell’omicidio la "causa scatenante risiede probabilmente in un conflitto interiore". Per i giudici d’appello, sarebbe stato uno "scontro di testardaggini" - quello della madre Annamaria e quella del figlio Samuele - a scatenare la furia omicida della Franzoni.

La Corte definisce "l’azione, sotto discontrollo dell’imputata come occasionale reazione inizialmente punitiva (reazione consona alla sua personalità, che presenta tratti narcisistici, e, quindi, la rende molto sensibile verso chi la contrasta, specie in momenti di crisi e di confusione) dell’ostinazione di Samuele, che non voleva assolutamente stare tranquillo nel lettone: reazione che subito esorbitò, in modo furioso, per l’impulso irresistibile di un’intensa testardaggine della Franzoni, contrapposta a quella del figlio".

"Il quadro di riferimento quello di uno ‘scontro di testardaggini’: quello di un bambino ipermotorio e quello di una madre portata a voler raggiungere a tutti i costi i risultati che si è prefissata, e che "non voleva tornare indietro" - continua la Corte - il che può accadere anche ad una madre buona, o meglio, più che buona, certamente "brava" come la Franzoni, e che, tuttavia, in un’unica occasione di (grave) stress, anzi, di patologia per scompenso ansioso (scompenso privo, peraltro, della connotazione di vizio di mente), può far del male alla sua creatura".

La Corte d’Appello ha riconosciuto ad Annamaria le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti e quindi un forte sconto di pena perché soffre di un disturbo psicologico che le provoca forti crisi ansiose. Lo si ricava dalla lettura delle 533 pagine delle motivazioni della sentenza. Per adesso la Franzoni non beneficia dell’indulto: i giudici precisano che la causa è da cercare nel fatto che la donna è ancora indagata a Torino per calunnia nel procedimento chiamato Cogne Bis su una presunta alterazione della scena del delitto. L’indulto potrà eventualmente essere applicato quando la Franzoni al termine di un processo per calunnia, verrà condannata.

 

La replica di Annamaria

 

"Il deposito delle motivazioni rinnova in me una profonda delusione per una giustizia che non ha il coraggio di dire ‘forse sto sbagliando"‘. Sono le dichiarazioni rese da Annamaria Franzoni dopo il deposito della sentenza che l’ha condannata a 16 anni per l’omicidio del figlio Samuele. La donna, attraverso i suoi avvocati torinesi Paola Savio e Paolo Chicco, dice che l’atteggiamento della giustizia rende ormai "sempre più difficile la ricerca della verità". "È giusto - afferma - avere indagato in casa, nella nostra famiglia, ma purtroppo si è rimasti soli dentro questi ambiti, cosicché a oggi non sono ancora state approfondite altre piste. Quindi anche quella del vero colpevole".

"Continuerò per tutta la vita - dice ancora Annamaria Franzoni - a chiedermi perché non ho il diritto di sapere chi ha ucciso il mio Samuele, nella speranza di trovare quanto prima un magistrato che mi ascolti". "Mi è stato tolto un figlio atrocemente - conclude la donna - e sono ormai sei anni che vivo con questo dolore, reso ancora più dilaniante da un’accusa ingiusta".

 

L’arma

 

Anna Maria Franzoni, dopo aver colpito il figlio Samuele "con un oggetto domestico" in preda a una sorta di raptus, prima di chiamare i soccorsi ha nascosto l’arma del delitto, forse nel suo zainetto. Lo si ricava dalla lettura delle 533 pagine della sentenza di condanna.

Secondo i giudici, la donna ha percosso il bambino con "un pentolino, un mestolo o comunque, con buona verosimiglianza, uno strumento appartenente a un genere di cose di utilizzo domestico".

L’arma è stata "forse avvolta in qualche modo" (e qui la sentenza si richiama alla scomparsa di un calzino dalla casa) "e poi o lavata e rimessa a posto", come si ricava da alcuni riferimenti di Annamaria sui tempi di lavaggio dei mestoli carpiti durante alcune conversazioni intercettate dai carabinieri, "o collocata nella borsa per il trasporto esterno previo accurato avvolgimento". La Corte sembra propendere per quest’ultima ipotesi perché cita il ritrovamento di "una traccia latente di sangue della vittima" sul perno della zip della borsa.

 

L’ora della morte

 

"L’esatta ora della morte non era tecnicamente accertabile nemmeno con la più ampia approssimazione". I giudici d’appello affermano di accogliere le tesi del professor Roberto Viglino, che eseguì l’autopsia sul corpo di Samuele, e questo è il principale argomento contro le tesi della difesa di Annamaria, secondo la quale la donna non può aver commesso il fatto perché, nell’ora in cui questo avvenne, stava accompagnando l’altro figlio Davide allo scuolabus.

"Anche a giudizio della Corte - si legge nelle motivazioni - sono condivisibili - in quanto basate su rilievi autoptici, approfonditi esami dei tessuti e del cranio, elementi clinici diagnostici e testimoniali -, le conclusioni cui è pervenuto il prof. Viglino, nel senso che: 1) al momento dei soccorsi Samuele era morto; 2) l’esatta ora della morte non era tecnicamente accertabile nemmeno con la più ampia approssimazione".

Viene poi specificato più avanti che "i consulenti della Difesa non hanno mai indicato un’ ora precisa della morte, ma si sono limitati ad indicare il tempo di sopravvivenza" e per concludere che "in definitiva, va ritenuto privo di fondamento l’assunto del difensore appellante, secondo cui l’orario della morte dovrebbe essere ragionevolmente fissato "al minimo" alle ore 8.29 - 8.31.

E aggiungono i giudici: "Mancando un termine finale di riferimento certo, o anche solo determinabile con una certa ragionevole approssimazione, va ritenuto, altresì, privo di fondamento l’ulteriore assunto della Difesa appellante, secondo cui, detraendo dall’ora della morte, fissata nel modo sopraddetto (8.29 - 8.31 al minimo), il periodo di sopravvivenza, definito con margine di approssimazione di cinque minuti in più o in meno (e così, 12 - 17 minuti), ne deriverebbe la prova che l’aggressione era avvenuta nel periodo di tempo in cui l’imputata era fuori della sua abitazione, di talché era impossibile l’omicidio fosse stato commesso dalla medesima. Quindi, - proseguono i giudici - l’ora dell’aggressione sarebbe il primo elemento a sostegno dell’ipotesi del terzo aggressore e costituirebbe, automaticamente, l’alibi dell’imputata".

Roma: ergastolana in sciopero fame per il trasferimento

 

Prima, 19 ottobre 2007

 

Da oltre una settimana rifiuta cibo e medicine per cercare di ottenere il trasferimento dal carcere di Latina a quello romano di Rebibbia. Protagonista della vicenda, seguita dal Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni, Gioacchina C., una detenuta siciliana di 54 anni. La donna, condannata all’ergastolo, quello che in carcere si chiama "fine pena mai", è da oltre due anni rinchiusa nel carcere di Latina in regime di isolamento diurno.

Data la sua particolare condizione ha seri problemi per usufruire dei suoi diritti più elementari come, ad esempio, l’ora d’aria, che non può condividere con le altre detenute. Visto che il carcere pontino non è attrezzato per questo tipo di esigenze, Gioacchina può usufruire di mezz’ora d’aria solo perché le altre detenute acconsentono, in certe occasioni, a ridurre il loro tempo.

Ma ci sono stati periodi in cui la detenuta siciliana è rimasta chiusa nella sua cella anche per 48 ore di seguito. A questo quadro devono aggiungersi anche le precarie condizioni di salute della donna, affetta da seri problemi di glicemia che si ripercuotono soprattutto sulle coronarie e sulla vista. Per questi motivi, da mesi Gioacchina ha fatto istanza di trasferimento a Rebibbia Nuovo Complesso, dove le condizioni di vita sono migliori e dove, soprattutto, i medici sono sempre presenti. Ma a tutte le sue richieste e a quelle presentate dal Garante dei detenuti, in cui si segnalava anche il progressivo peggioramento delle condizioni di salute della donna, il Dap non ha mai risposto.

Brescia: Soffiantini; se incontro al bar il mio sequestratore

di Davide Carlucci

 

La Repubblica, 19 ottobre 2007

 

Il suo sequestratore? Giuseppe Soffiantini lo incontra ogni mattina al bar: il giudice, infatti, ha imposto a Pietro Raimondi l’obbligo di soggiorno proprio a Manerbio, il paese in provincia di Brescia dove l’imprenditore rapito tra il 17 giugno del 1997 e il 9 feb-braio 1998 tuttora vive.

"Questa cosa proprio non sono riuscito a capirla - ha osservato Soffiantini ieri in un’intervista a "Porta a Porta" - come, cioè, quel giudice abbia scelto proprio Manerbio". Raimondi, il basista della banda accusato del sequestro, era stato condannato a 13 anni e 4 mesi di reclusione ma è rimasto in carcere solo 9 anni. "Proprio lui - aggiunge Soffiantini - che era il primo responsabile del mio sequestro perché ha raccontato un sacco di balle sul mio patrimonio", mettendo così in moto il piano dell’azione criminosa.

Ora l’industriale fa una precisa richiesta: "Che lo mandino insomma da un’altra parte". Quanto ai cinque miliardi di lire che furono all’epoca pagati per il suo riscatto, "sono stati recuperati - ha concluso Soffiantini - solo in minima parte". In un altro passaggio del dibattito, incentrato sul sistema della giustizia e anche sulle scarcerazioni facili, Soffiantini ha pacatamente detto di non essere "un forcaiolo", ma di ritenere che sia comunque fondamentale la certezza della pena.

In effetti, Soffiantini ha dato prova di grande umanità nei confronti dei suoi ex rapitori. Qualche mese fa si mise a disposizione per aiutare uno di loro, Giovanni Farina, a pubblicare le sue poesie, scritte nel carcere di massima sicurezza di Ascoli Piceno. Sì, proprio Farina: fu lui, come ricostruirono gli inquirenti, a tagliargli l’orecchio per convincere la famiglia a pagare i cinque miliardi di riscatto.

"Vorrei chiarire - spiegò Soffiantini al Giornale di Brescia - che non intendo compatire o perdonare nessuno. Ho sempre detto e ribadisco che il perdono in terra spetta agli uomini della giustizia e in cielo al Signore. Io sono cattolico , non insegno niente a nessuno, non perdono e noti condanno. Credo che la pena vada espiata fino in fondo. Ma un conto è morire in carcere, uri conto è dare un senso alla propria giornata".

Roma: il 22 ottobre conferenza stampa dell'Ass. Antigone

 

Comunicato stampa, 19 ottobre 2007

 

Lunedì 22 ottobre alle ore 12.00 presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati in via della Missione 4 l’Associazione Antigone organizza una conferenza stampa nella quale verranno illustrati i punti di dissenso nei confronti del preannunciato pacchetto sicurezza del Governo che dovrebbe andare in discussione in Consiglio dei Ministri la prossima settimana.

In particolare, in materia di custodia cautelare, di sospensione condizionale della pena, di previsione di nuove fattispecie criminali che vanno a colpire immigrati e poveri, di nuovi poteri di polizia ai sindaci verranno spiegati gli effetti pericolosi sul sistema giuridico, penale e penitenziario. Se il pacchetto sicurezza, così come proposto, dovesse essere approvato, il nostro sistema penitenziario non potrebbe sostenerlo.

Hanno assicurato la loro presenza e il loro intervento: Cesare Salvi (Presidente Commissione Giustizia Senato), Giovanni Russo Spena (Capogruppo PRC Senato), Maria Luisa Boccia (Senatrice PRC), Nuccio Iovene (Senatore SD), Marco Boato (Deputato Verdi), Sergio D’Elia (Deputato Rosa nel Pugno).

Immigrazione: Masella (Prc); chiudere i due Cpt dell'Emilia

 

Romagna Oggi, 19 ottobre 2007

 

I recenti casi di suicidio di due giovani extra comunitari verificatisi al Centro di permanenza temporanea di Modena dove "ieri pomeriggio, sempre nella stessa struttura, si è verificato un tentativo di suicidio", hanno indotto Leonardo Masella capogruppo di rifondazione comunista a presentare un’interrogazione alla Giunta regionale. La vicenda di Modena - stigmatizza il consigliere - "riconferma che i Cpt sono carceri speciali dove sempre più frequentemente vengono accertati episodi di maltrattamenti fisici e abusi, negazione di cure mediche, sovraffollamento, somministrazione eccessiva e abusiva di sedativi e tranquillanti e dove viene fortemente e ingiustificatamente compresso il principio dell’inviolabilità personale."

Il consigliere rimarca "l’inefficienza, l’inadeguatezza e l’illegalità di tali luoghi di detenzione, contrari ai principi di solidarietà e di accoglienza degni di un Paese Civile" e "considerando illegittimo il mantenimento di simili strutture nel nostro territorio", chiede all’esecutivo di viale Aldo Moro quali iniziative intenda intraprendere per programmare la chiusura dei due Cpt presenti in Emilia-Romagna, come previsto - sottolinea - da una serie di atti regionali e nazionali.

In proposito Masella cita il Programma di governo 2005-2010 della Regione Emilia-Romagna dove, per quanto riguarda la "politica migratoria" viene stabilito che "si considera conclusa l’infelice esperienza dei centri di permanenza temporanea e si chiede al Governo e al Parlamento che venga superata". A sostegno della sua richiesta, Masella ricorda anche che nelle linee di indirizzo del Programma nazionale dell’Unione (2006/2011) si afferma "l’intenzione di abrogare la legge Bossi -Fini" e "che ci si avvia verso il superamento dei Cpt". L’esponente di Prc vuole poi sapere quali iniziative la Giunta stia mettendo in atto per ripristinare la possibilità di visita ispettiva nei Cpt, (fino alla loro chiusura) per i consiglieri regionali, "in coerenza con le competenze di osservazione e monitoraggio" che la Corte costituzionale "di fatto" ha riconosciuto alle Regioni (con la sentenza n.300 del 2005) "validando l’impianto normativo" della legge regionale ‘Norme per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri’ (L.r. 5/2009). La possibilità di ingresso dei consiglieri regionali e dei componenti della Giunta all’interno dei Centri - riferisce ancora Masella - è stabilita nel Programma triennale 2007-2008 per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri.

Droghe: Torino; Caritas diocesana contraria alle narco-sale

 

Notiziario Aduc, 19 ottobre 2007

 

"C’è un’indicazione almeno di buon senso che chiede alla politica di non accontentarsi di compiere le scelte più facili, meno onerose, più attrattive del solo consenso". Con un lungo documento firmato dal direttore dell’Ufficio salute, don Marco Brunetti, e dal direttore della Caritas, Pierluigi Dovis, la Diocesi di Torino ha affrontato il tema della narco-sale. Nei giorni scorsi 20 consiglieri comunali del centro sinistra con un documento ne hanno sollecitato la creazione a Torino. Il documento non è una bocciatura esplicita - il parere tecnico è affidato agli operatori cattolici impegnati sul campo - ma un richiamo perché "non è possibile pensare a iniziative che cerchino di affrontare il problema senza contestualmente prevedere il prima, il durante e il dopo". "Nessuno ha bisogno di polemiche basate sull’ideologia, di fronte a un fenomeno che coinvolge più persone", ma "serve progettualità, tenendo presente che la questione delle tossicodipendenze è diventata ‘complessa e articolata".

"Bisogna valutare le iniziative anche in merito al valore educativo che esse rivestono. I valori che la Costituzione e una sana concezione di uomo portano avanti chiedono di non smentire con fatti troppo semplificati e superficiali i contenuti proposti da campagne formative e preventive. Non bisogna inoltre lasciarsi trascinare dalla sola questione di ordine pubblico". Infine "c’è un fronte etico che nella cura della persona umana chiede di saper tracciare con chiarezza i confini tra legalità e illecito, senza formule di possibile complicità indiretta e senza confusione tra mezzi e fini".

Cina: una denuncia di Amnesty sulla detenzione preventiva

 

Vita, 19 ottobre 2007

 

Amnesty International ha reso nota ieri una lettera aperta al Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo, chiedendo la fine della "rieducazione attraverso il lavoro", una forma di detenzione imposta senza accusa, processo o revisione giudiziaria per un periodo che può arrivare anche a quattro anni.

Secondo fonti di stampa ufficiali, entro la fine del mese il Comitato permanente dovrà esaminare una nuova normativa, la "Legge per correggere i comportamenti illegali", che dovrà prendere il posto del sistema della "rieducazione attraverso il lavoro".

Negli ultimi mesi, la polizia di Pechino ha preso a pretesto la preparazione dei Giochi olimpici per "ripulire la città", estendendo l’uso di varie forme abusive di detenzione amministrativa, come la "riabilitazione forzata dalla droga" e la stessa "rieducazione attraverso il lavoro". Questa politica, secondo Amnesty International, mette in forte dubbio la serietà dell’impegno a migliorare la situazione dei diritti umani, assunto dalla Cina all’epoca dell’assegnazione delle Olimpiadi.

Amnesty International ritiene che siano centinaia di migliaia le persone detenute nelle strutture per la ‘rieducazione attraverso il lavorò. Secondo la legge, questa pena è inflitta a coloro che la polizia giudica non abbiano commesso reati sufficientemente gravi per essere puniti ai sensi del codice penale: autori di reati minori, seguaci di movimenti religiosi messi al bando e persone che hanno espresso critiche nei confronti del governo.

Il tema della riforma della "rieducazione attraverso il lavoro" è nell’agenda legislativa cinese da oltre due anni. Amnesty International chiede al Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo di garantire che qualsiasi normativa sostituisca quella oggi in vigore sia perfettamente in linea con gli standard internazionali sui diritti umani, compreso il diritto a un giusto processo e la libertà dagli arresti arbitrari.

A meno di 300 giorni dall’inizio delle Olimpiadi, se le autorità cinesi vogliono davvero onorare l’impegno a migliorare la situazione dei diritti umani, ecco un’occasione d’oro: porre fine a queste pratiche detentive abusive - ha dichiarato Catherine Baber, direttrice del Programma Asia - Pacifico di Amnesty International.

 

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Contatti

"Ristretti News. Notiziario quotidiano dal carcere"
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