Rassegna stampa 11 novembre

 

Cagliari: un detenuto di 19 anni si impicca a Buoncammino

di Carla Frogheri

 

Il Sardegna, 11 novembre 2007

 

Un diciannovenne in attesa di processo si impicca in cella. Si chiamava Massimo Floris. Il direttore: casi imprevedibili. Sentirsi abbandonati per molti detenuti è devastante. Così si era tolto la vita anche Licurgo Floris.

La solitudine che annebbia la vista, il cielo oltre le sbarre delle finestre che sembra ogni giorno più grande. E che basta un nulla perché si frantumi all’improvviso, facendo precipitare ogni speranza di una vita possibile. Di un futuro fuori dal carcere. Di tornare al mondo che si è lasciato varcando il portone di ferro.

Buoncammino non è un’isola felice. La detenzione si conta in giorni e il tempo trascorre dilatando le settimane che mancano alla scarcerazione. I detenuti si aggrappano alle lettere degli amici e dei parenti come fiere, voraci di quello che arriva da fuori, notizie per considerarsi ancora vivi, ancora dentro un sistema. Il venire a mancare di questo può bastare, purtroppo, per rinunciare a credere. Può portare una persona più fragile a decidere di non voler più stare in cella, e in certi casi quella cella è la vita.

Il terrore di trovarsi da solo e di dover passare chissà quanto tempo dentro, hanno guidato la mano ieri di Massimo Floris, diciannove anni appena compiuti e in carcere per una rissa avvenuta un anno fa all’uscita di un bar a Sant’Anna Arresi. Si è impiccato in cella nel primo pomeriggio, accanto alla sua branda, approfittando di essere da solo perché i suoi compagni, con cui divideva gli spazi, erano usciti per l’ora d’aria. Un dolore, il suo, covato in silenzio, che non aveva avuto il coraggio di confessare neppure agli altri detenuti con cui passava ogni momento della giornata. Anzi, sempre con loro e con tutti si era sempre mostrato sereno, senza mai dare problemi di nessun genere.

Il ragazzo era in cella da poco, trasferito a Buoncammino per il processo che sarebbe cominciato presto. E che avrebbe ricostruito la dinamica e i precedenti di quell’aggressione avvenuta quando lui era solo diciottenne e aveva preso a coltellate un giovane di ventiquattro anni, finito in ospedale per lesioni importanti ma che non avevano danneggiato organi vitali. La sua morte ha sconvolto il carcere. "Era uno tranquillo, era arrivato solo da qualche tempo e anche per un fatto da poco, non credo avrebbe avuto una condanna grave", lo ricorda il direttore di Buoncammino Gianfranco Pala. "È stato un gesto imprevedibile, incontrollabile", continua.

"In genere stiamo sempre molto attenti alle condizioni psicofisiche dei detenuti. I casi cosiddetti a rischio sono sempre molto controllati, stiamo attenti e vediamo se ricevono visite nei giorni di colloquio, se scrivono e se ricevono posta, come si relazionano con gli altri detenuti. Se ci rendiamo conto che un detenuto è depresso o si sta lasciando andare interveniamo subito con un supporto psicologico". E conclude: "Purtroppo nel caso di questo ragazzo non ce lo aspettavamo minimamente. Stiamo attenti ma non possiamo conoscere i problemi personali e familiari di ogni detenuto. Se loro non esternano un disagio è impossibile. Purtroppo alcune volte i detenuti si sentono come abbandonati. È la solitudine gioca un ruolo devastante".

È andata così anche per Licurgo Floris, condannato a trent’anni per il delitto di Gisella Orrù, e che il 22 ottobre scorso ha approfittato dell’assenza di una guardia penitenziaria per impiccarsi nella hall di Buoncammino. La consapevolezza che la sua famiglia si stava sfasciando e la prospettiva angosciante di tornare dentro, in Toscana, dopo un periodo di semilibertà e di lavoro in un cantiere, lo avevano indotto alla disperazione. E sempre un momento di sconforto aveva portato Dario Scudu - in cella con l’accusa di essere il carceriere delle slovacche costrette a prostituirsi e liberate dai carabinieri lo scorso aprile - a tagliarsi la gola con un lamierino ricavato da scatolette, un paio di settimane fa. Si è salvato per miracolo perché non è riuscito a recidere l’arteria "Spesso si tratta anche di gesti simbolici, azioni estreme per richiamare l’attenzione", spiega ancora il direttore del carcere. "Abbiamo gli assistenti sociali e ci serviamo anche del supporto dell’esterno. Ma forse non basta"..

 

"Osservatorio sui detenuti: non si può più aspettare"

 

La morte di Massimo Floris non può passare inosservata. Maria Grazia Caligaris, consigliere regionale dello Sdi-Ps accusa le istituzioni di essere in parte responsabili del terribile gesto,visto che "a quasi due anni dal protocollo d’intesa tra ministero e Regione resta lettera morta e non è stato ancora istituito l’Osservatorio regionale sulle condizioni dei detenuti in attesa di giudizio". Per la consigliera, anche segretaria della Commissione Diritti Civili, "un costante monitoraggio avrebbe potuto forse evitare il nuovo suicidio". E per questo ha presentato un’interrogazione su questo ritardo. "Non bastano le attenzioni delle guardie carcerarie né la sensibilità dei dirigenti degli istituti di pena", ha aggiunto. Occorrerebbero "quegli strumenti individuati da esperti come utili a impedire situazioni di crisi". Ovvero proprio quel protocollo siglato il 7 febbraio dello scorso anno tra il sottosegretario alla Giustizia Luigi Vitali e Soru.

 

"Ti lascio". E lui si impicca alle sbarre, di Marco Noce

 

L’Unione Sarda, 11 novembre 2007

 

Prima di annodare un lenzuolo alle sbarre e di impiccarsi in una cella di Buoncammino, ha scritto sulla propria pancia il messaggio d’addio: il nome della sua ragazza e la frase "L’ho fatto per te". Massimo Floris, 19 anni, di Sant’Anna Arresi, in attesa di giudizio da sei mesi per aver accoltellato un compaesano, aveva ricevuto una lettera con cui la fidanzata gli diceva che il loro rapporto era finito. Oggi i funerali.

Si è ucciso impiccandosi in cella, a Buoncammino, Massimo Floris, 19 anni, di Sant’Anna Arresi. Sulla pelle della pancia, il suo messaggio d’addio, dedicato alla ragazza che lo stava lasciando: "L’ho fatto per te". Era accusato di tentato omicidio. Non aveva carta per il messaggio d’addio. Così l’ha scritto sulla sua pelle. La pancia usata come un foglio, poche lettere tracciate con una biro: un nome di ragazza, e poi la frase "L’ho fatto per te". Lei, 17 anni, l’aveva lasciato: gliel’aveva comunicato in una lettera che lui aveva letto poche ore prima. Alle quattro di giovedì pomeriggio, rimasto da solo, Massimo Floris ha preso il lenzuolo dalla sua cuccetta, ne ha annodato un capo alle sbarre della cella e si è passato l’altro attorno al collo. Poi s’è lasciato cadere. Era di Sant’Anna Arresi. Aveva 19 anni. Gli ultimi sei mesi li aveva passati a Buoncammino, carcere del malessere, carcere dei troppi suicidi tentati e riusciti.

In attesa di giudizio. Detenuto in attesa di giudizio. Era accusato di tentato omicidio: lo scorso 31 maggio aveva piantato un coltello in pancia a un ragazzo alto un metro e novanta e di cinque anni più grande di lui, Manuel Orrù, un vicino di casa con cui non correva buon sangue. Un suicidio organizzato con cura: i quattro compagni di cella fuori per l’ora d’aria, lui che aveva detto di non stare bene ed era rimasto in cella. Un turno sguarnito, quello del pomeriggio, con un solo agente a sorvegliare due piani, venti celle più venti. Massimo Floris, che godeva fama di detenuto tranquillo, ha aspettato il passaggio dell’uomo in divisa, ha lasciato che andasse all’altro piano, poi ha fatto l’ultimo salto.

La lettera. Un suicidio annunciato, in una lettera spedita a casa: una lettera rimasta sulla credenza per due giorni, in una busta chiusa. Sua madre, Anna, non aveva voluto aprirla per rispetto: Massimo l’aveva indirizzata non a lei ma a una sorella. L’hanno aperta giovedì sera, quella lettera. C’era scritto che se la ragazza l’avesse lasciato, lui si sarebbe ucciso.

Ora, in casa, oltre al dolore smisurato per la morte di un ragazzo che aveva, che avrebbe dovuto avere davanti tutta una vita, per babbo Pietro, mamma Anna e per Daniela e Veronica, sorelle maggiori di Massimo, c’è il tormento di quella lettera: se l’avessimo aperta, forse, avremmo fatto in tempo a evitare la tragedia.

Ma c’è un’altra persona che soffre le pene dell’inferno. È la ragazza, quella ragazza cui il giovane suicida ha dedicato il suo ultimo messaggio.

La ragazza. "Stavano insieme da qualche mese quando Massimo è stato arrestato", piange Chiarina Floris, zia paterna del ragazzo: una storia nata da poco e interrotta bruscamente quel 31 maggio. Massimo era stato rinchiuso in carcere, lei era anche andata a trovarlo. Poi, però, qualcosa era cambiato. L’amore che sembrava possibile si era pian piano consumato, troppe barriere fra lui e lei, troppe sbarre e muri di cinta fra il futuro di un ragazzo accusato di tentato omicidio e quello di una ragazza che deve scegliere cosa fare della propria vita. Nei giorni scorsi, Massimo aveva capito che lei l’avrebbe lasciato e aveva lanciato la sua ultima richiesta d’aiuto: aveva resistito a tutto, alla gravità delle accuse (lui che aveva detto di aver tirato fuori il coltello per reagire al brutale pestaggio cui lo stavano sottoponendo, in due contro uno), all’orrore della vita da detenuto ("Non fare l’errore che ho fatto io - aveva scritto a un amico qualche settimana fa - fai da bravo perché qui si sta troppo male"), alla separazione forzata dalla famiglia e dagli amici.

La storia d’amore. Sapeva, però, di non poter sopportare la fine di quella storia d’amore. E ha deciso di togliersi la vita, lasciando un peso davvero troppo grande sul cuore di una ragazza di 17 anni che gli aveva voluto bene. Ieri, dopo l’autopsia, il corpo di Massimo Floris è stato restituito alla famiglia che l’ha riportato in paese. Oggi, alle 15, nella chiesa di Sant’Anna, l’ultimo saluto.

Giustizia: sulla settimana "xenofoba" della politica…

di Graziella Mascia (Deputata Prc-Se)

 

Liberazione, 11 novembre 2007

 

Sarà il parlamento a sancire una modifica strutturale al decreto sulle espulsioni, ma già possiamo dire che ha vinto lo stato di diritto e ha perso il partito dei sindaci.

Una vittoria doppiamente importante, per due ragioni. La prima riguarda la vita di migliaia di persone, che avrebbero pagato le conseguenze di un decreto inefficace sul piano della sicurezza, ma distruttivo sul piano dei rapporti sociali e di convivenza civile, come si è visto nei giorni scorsi.

La seconda riguarda la politica e la sua credibilità: questa esperienza concreta dimostra come si possa dar voce a istanze sociali, culturali e giuridiche, dentro le istituzioni, per tradurle concretamente in provvedimenti legislativi.

L’Italia, con un governo di centro sinistra, è stata per alcuni giorni additata come paese che non rispetta le direttive europee, e in cui si manifestano fenomeni xenofobi e razzisti. Ora ci sono le condizioni per rimediare, facendo, allo stesso tempo, passi avanti per discutere insieme quale è l’Europa che vogliamo costruire.

La legge chiarirà che le espulsioni sono misure eccezionali e individuali, che possono essere motivate solo da ragioni legate alla sicurezza del paese, e che devono essere comunque garantire da un percorso giurisdizionale come impone la nostra costituzione.

Ora che si è ripristinata la calma, e che il nostro governo può interloquire con autorevolezza col governo della Romania e con l’Unione europea, la sinistra, con maggiore autorevolezza, può rispondere alle accuse che ci sono state rivolte. L’esperienza di questa settimana dice a tutti una cosa: che l’emergenza produce disastri culturali, senza peraltro placare né il bisogno reale, né quello percepito, che viene dai quartieri degradati, e che la destra cavalca.

Le politiche di accoglienza non appartengono al buonismo di qualche sacerdote e di una sinistra idealista, ma rappresentano l’unica vera alternativa alle politiche repressive della destra. Infatti, per affrontare alla radice le ragioni del fenomeno migratorio, che è strutturale e irreversibile, non si può che guardare all’insieme del mondo e dell’Europa. E quando migliaia di cittadini si spostano per necessità, è necessario lavorare sulle cause e sugli effetti. In che modo? Non ci sono scorciatoie, il terreno è sempre quello dell’unificazione dei diritti verso l’alto in tutto il territorio europeo. Diversamente nessuno può fermare le ondate migratorie dettate dal bisogno.

E per quanto ci riguarda, va sottolineata l’altra verità, e cioè che i dati statistici, e non il nostro sentimentalismo (che sarebbe comunque cosa buona), dimostrano chiaramente che i fenomeni di illegalità non sono l’effetto dell’immigrazione, ma della clandestinità, cioè dello sfruttamento e del lavoro nero. Quindi è sempre il terreno dei diritti su cui agire.

La contrapposizione tra la sinistra e il partito dei sindaci nasce esattamente da questo, dalla critica di irresponsabilità a chi ha voluto spostare i riflettori, per non rispondere delle proprie difficoltà. Anche qui parlano i fatti e le esperienze. E parla molto anche l’ignoranza, o la strumentalità di chi moltiplica la confusione. E la confusione in questi giorni è arrivata al punto di moltiplicare i numeri, come se fossimo in presenza di un’invasione di rom, che a loro volta, si dice, sarebbero rumeni. Lo splendido articolo di Barbara Spinelli, rimette a posto le cose sulla storia del popolo rom: una minoranza perseguitata, di cui è bene discutano i governi europei, perché ognuno renda conto delle discriminazioni cui ancora sono sottoposte queste popolazioni, da noi come in Romania.

I dati relativi al nostro paese, forniti dalla comunità di Sant’Egidio, confermano che parliamo di 300 mila persone, di cui metà cittadini italiani, e nella maggior parte stanziali. E allora il sindaco di Roma dovrebbe dire dove sono finiti quei cittadini dei campi in cui ha mandato le ruspe: i nuovi insediamenti di Ostiense non sono, per caso, quelli che stavano a Ponte Mammolo da oltre due anni, e sgomberati nei giorni scorsi?

È ora di dire la verità, di rivendicare senza titubanze i nostri principi costituzionali. Oggi siamo più forti, perché abbiamo verificato concretamente che quando la sinistra, tutta insieme, si batte per i diritti fondamentali che ci sono propri, può farcela. E abbiamo verificato che non siamo soli, che un largo schieramento di intellettuali, giuristi, ed esponenti di tutte le associazioni, cattoliche e non, che sono la spina dorsale di questo paese, non rinuncia ai fondamenti di democrazia e di civiltà che devono caratterizzare il nostro vivere insieme.

Giustizia: per favore non chiamateli "reparti per detenuti"

 

Ristretti Orizzonti, 11 novembre 2007

 

Ho letto su "Ristretti" della visita dell’Assessore alla Salute della Regione Puglia al "reparto per detenuti" dell’Ospedale di Lecce. In realtà si tratta di squallide stanze blindate, prive di personale sanitario e di polizia penitenziaria dedicate, che vengono aperte per ospitare detenuti che nessuno vuole in ospedale . situazione che spesso porta a dimissioni affrettate se non indotte.

Gli unici reparti in Italia degni di questo nome sono a Palermo, Milano, Roma e Viterbo e si chiamano Unità Operative di Medicina Protetta. Vi lavorano medici, infermieri, psicologi, e agenti di polizia a tempo pieno. Sono sempre aperti e forniscono - con grande fatica e a dispetto di tanti - una buona assistenza ospedaliera. Non è vero che costano perché sono tutti in attivo dal punto di vista del rapporto costi/D.R.G. prodotti, senza parlare del risparmio in termini di numero di agenti impegnati. Chi vuole può chiedere notizie o venire a fare una visita.

Cara redazione di Ristretti conto su di voi per fare chiarezza e anche per lanciare una campagna rivolta agli Assessorati alla Sanità e ai Prap per la chiusura delle stanze blindate a favore della realizzazione di veri e propri reparti ospedalieri come chiede la Legge (magari uno per regione o per macroarea), dove essere accompagnato in ospedale per una persona detenuta voglia significare ricevere cure adeguate e non scaricarsi da responsabilità.

 

Giulio Starnini, Direttore U.O. Medicina Protetta

Malattie Infettive dell’Ospedale Belcolle di Viterbo

Giustizia: detenuti italiani all’estero, una vergogna nazionale

 

Il Legno Storto, 11 novembre 2007

 

Sapevate che ci sono circa 3000 detenuti italiani all’estero? Sapete che alcune volte sono stati arrestati per ragioni futili? E sapevate che a volte il nostro governo fa poco o niente per aiutare questi nostri connazionali? Benvenuti all’inferno delle prigioni straniere, dove quale che sia la ragione dell’arresto le condizioni sono a volte così disumane da rasentare l’animalesco o anche peggio, visto che neanche gli animali si comportano tanto male con i propri simili.

È veramente incredibile la fragilità della condizione umana. Partiamo rilassati per un viaggio all’estero e poi possiamo improvvisamente scoprire di trovarci all’inferno, in celle sovraffollate da terzo mondo dove le malattie, le sofferenze, le torture fisiche e psicologiche sono così diffuse da farci rabbrividire.

E solo lì nel buio del sudiciume del carcere straniero scopriamo che la lenta burocrazia italiana può anche uccidere. Intendiamoci, alcune persone arrestate sono veramente criminali, a volte incalliti. Ma la stragrande maggioranza non lo è e comunque nessuno merita un trattamento disumano.

Ma che fa il governo italiano per cambiare questa situazione? A volte interviene, anche rapidamente. Ma a volte la lentezza è estenuante e le persone sono del tutto abbandonate a se stesse. Sembra quasi che ci sai un approccio del tipo: "Sei tu che sei voluto andare lì, ora veditela da solo".

Ripeto: lungi da noi voler giudicare la colpevolezza o meno delle persone. Ma stiamo discutendo la disumanità del trattamento e la futilità delle accuse. Il governo si deve adoperare immediatamente per far cessare l’ingiustizia della detenzione o come minimo chiedere il trasferimento immediato del detenuto nelle carceri italiane dove scontare la detenzione.

Due esempi mostrano come l’approccio adottato dal nostro governo a volte sia completamente differente da quello seguito da un paese, gli Stati Uniti, molto spesso preso ad esempio in Italia.

Mentre il governo americano ad esempio interviene sempre, comunque e anche in casi di palese colpevolezza di imputati statunitensi, ciò a volte non accade nel caso italiano.

Esempio? In Brasile l’anno scorso c’è stato un tragico incidente aereo della compagnia Gol dove sono morte 154 persone a causa (come accertato in seguito) della interferenza di un piccolo aereo Legacy guidato da piloti statunitensi. Stiamo parlando di uno dei maggiori disastri aerei della storia del Sudamerica. Ebbene il governo americano ha fatto letteralmente di tutto per la liberazione di questi piloti, che alla fine sono tornati in patria salutati come eroi dalla stampa locale.

Caso diverso per Simone Righi a Anna Fiori, una tranquilla coppia di emiliani che ha la malaugurata idea di viaggiare con i propri cani in Spagna.

Davvero? Quale pericolo può esserci? C’è il pericolo di farsi ammazzare i cani, di protestare per questo e di essere rinchiuso in prigione da più di un mese in un carcere spagnolo in attesa dell’intervento delle autorità italiane.

Esagerato? Per nulla. La coppia emiliana aveva lasciato i cani in una "pensione" per qualche giorno durante il proprio viaggio a Cadice. Purtroppo Simone e Anna non sapevano che la pensione era praticamente un campo di sterminio per cani. Quando l’hanno scoperto era troppo tardi. Allora hanno partecipato ad una manifestazione di protesta. In questi casi si sa che la polizia a volte interviene con la mano pesante, specialmente con gli stranieri. Simone già era furioso per la morte dei suoi cani e lo scontro con la Guardia Civil è stato inevitabile. L’arresto è avvenuto con le seguenti accuse: attentato alle autorità, agli agenti e funzionari pubblici, resistenza e disobbedienza, e secondo il codice penale spagnolo prevedono pene dai 2 ai 4 anni di reclusione. Anche Angela Giovanna Fiori è accusata di attentato alle autorità. Risultato: cornuto e mazziato. E le autorità italiane? L’angoscia della famiglia con l’appello della sorella di Simone, è ancora in attesa di risposta.

Niente male la differenza con gli Stati Uniti, vero? Ma qualcuno dei nostri politici fa qualcosa a riguardo? C’è solo una lodevole iniziativa dell’onorevole Marco Zacchera (An) al riguardo, uno dei pochi che si interessano al problema. Intendiamoci: qui stiamo trattando di un problema di vite umane ed italiane e le divisioni politiche dovrebbero essere superate, ma ciò purtroppo non accade nel nostro paese e chi ne soffre sono i nostri concittadini detenuti all’estero. Pertanto pensa bene prima di viaggiare all’estero, mio caro lettore, e soprattutto verifica come il nostro governo opera nel paese dove vai. Non si sai mai, potresti finire in una prigione da incubo per un pezzo senza nessuno che ti visiti per mesi.

Sicilia: un vademecum per sopravvivere dentro il carcere

di Francesco Pira

 

Affari Italiani, 11 novembre 2007

 

"Prendilo e portalo nel canile". Non è un invito perentorio rivolto al cane Bobby ma un ordine che si sente spesso dentro un carcere, dove per canile s’intende :"la camera di attesa prima dell’assegnazione della cella". Lì dove il cellulare è "il mezzo di trasporto per le traduzioni e i trasferimenti dei detenuti" e non il telefonino di ultima generazione. O ancora i ferri sono "le manette o schiavettoni per serrare i polsi", lo scopino "è il detenuto addetto alle pulizie", o lo spesino è quello incaricato di "raccogliere le richieste di acquisto degli altri detenuti".

Termini a noi sconosciuti ma che fanno parte del vita quotidiana di chi finisce in carcere. E così in Sicilia, sì nella Sicilia dei pizzini di Bernardo Provenzano, il Garante dei Diritti dei Detenuti, Salvo Fleres, Deputato Regionale e Giornalista, Lino Buscemi, Dirigente dell’Ufficio, avvocato e docente di comunicazione pubblica, Paolo Garofalo, funzionario regionale, hanno pubblicato "L’ora d’aria" un vademecum ben fatto, tascabile ed utile, stampato a spese della Regione Sicilia e distribuito a tutti i detenuti "residenti" nell’isola. Lino Buscemi, Consigliere Nazionale dell’Associazione Italiana della Comunicazione Pubblica come il sottoscritto, me lo ha consegnato a Bologna al Compa, il Salone Europeo della Comunicazione Istituzionale.

"È stato un lavoro pazzesco - mi ha raccontato - ma sono contento perché è un lavoro utile". Un volumetto ben fatto per chi sta dentro e per chi sta fuori ma non riesce a capire come vive chi sta dentro. Un atto di civiltà dell’informazione e della comunicazione che parte da una regione, quella in cui ho avuto l’onore di nascere (per alcuni è un grande limite), è che è l’emblema nel mondo della criminalità organizzata, ma è anche una terra che ha dato alla luce un paio di Premi Nobel, Pirandello e Quasimodo, e tante brave persone non sottomesse e alienate. Ma torniamo a questo "Vademecum sulla vita penitenziaria".

Comprende nella prima parte, le origini storiche ed i significati della vita detentiva; nella seconda, la carcerazione; nella terza la vita nell’Istituto di pena; nella quarta, le pene alternative; nella quinta, un focus per i detenuti stranieri; nella sesta, la terminologia penitenziaria; nella settima, l’appendice legislativa; nell’ottava, i consigli utili; nella nona, gli indirizzi utili ed i siti internet. Un risposta forte a chi ha dimenticato l’articolo 27 della Costituzione Italiana che recita testualmente, nel quarto comma: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

Un libro che si occupa delle difficoltà del detenuto durante la detenzione ma anche di quello che accade dopo. Dice Fleres: "un detenuto che abbia finito di scontare la sua pena e che sia tornato in libertà in un contesto sociale nel quale il reperimento di un lavoro è già difficile, anche per chi non deve portare il peso aggiuntivo della fortissima diffidenza che quasi sempre accompagna un ex galeotto, rischia di restare un disoccupato permanente, anche se provvisto della migliore buona volontà".

Ci viene da dire un grazie sincero ai tre autori di questa piccola opera. Per noi "uomini e donne libere", parole, leggi, abitudini penitenziarie sarebbero rimaste sconosciute. Ad esempio mai avremmo capito che bilancetta è "il piccolo armadio della cella. Ogni detenuto ne ha assegnata una" o che gli internati sono i "soggetti sottoposti a misure di sicurezza detentiva". "Abbiamo voluto aprire - mi ha sussurrato ancora Lino Buscemi - il carcere a chi sta fuori". E dobbiamo ammettere che i tre autori ci sono riusciti. Del resto come scrive autocitandosi Salvo Fleres: "Chi ha commesso un crimine è condannato a scontare la propria pena con la privazione della libertà, giammai della dignità".

Perugia: caso Bianzino; ieri un corteo per chiedere la verità

 

Asca, 11 novembre 2007

 

Un corteo per chiedere "verità sulla morte di Carlo Bianzino" un uomo di 44 anni arrestato il 12 ottobre scorso e morto in carcere in circostanze che hanno indotto il Pm. Giuseppe Petrazzini ad aprire una inchiesta, si è tenuto nel pomeriggio a Perugia, con la partecipazione di oltre 1.000 persone, numerose giunte anche da fuori regione.

Uno striscione con scritto "verità e giustizia per Aldo", sorretto anche dall’ex moglie, ha aperto il corteo (da piazzale del Bove al centro storico), dopo che i due figli del falegname di Pietralunga avevano ringraziato i partecipanti ed annunciato la vendita di un Cd "per Aldo". Alla manifestazione ha partecipato la ex moglie di Bianzino, così la compagna con la quale venne arrestato per coltivazione di piantine di marijuana e numerosi giovani dei centri sociali; era presente anche il consigliere comunale del Pdci di Perugia Faina.

Durante il percorso è stato letto un comunicato dal titolo "verità e giustizia per Aldo Bianzino", in cui tra l’altro si ricostruiscono i fatti tra il 13 e 14 ottobre. Si chiede come sia morto Aldo, perché, chi è stato dopo l’accusa di omissione di soccorso per chi doveva sorvegliarlo assieme ad altri detenuti. "Non ci basta una inchiesta aperta su un omicidio contro ignoti - hanno scritto in una nota gli organizzatori della manifestazione -; vogliamo che nessuna certificazione falsa e nessuna omissione omertosa incida sulla certezza della verità.

Vogliamo che la responsabilità della morte di Aldo sia assunta collettivamente, non sia attribuita solo all’istituto penitenziario, ma al suo sistema carcerario". Tra le altre richieste avanzate dagli organizzatori della manifestazione "giustizia per Aldo", anche l’abrogazione della legge Fini-Giovanardi, e "vivere la nostra sicurezza, la nostra vita" che è anche "sicurezza sul lavoro - hanno detto - sicurezza di avere un reddito.

Un paese che tortura (i familiari e gli amici di Bianzino sono convinti che Aldo sia stato picchiato in carcere con gravi lesioni a seguito delle quali è deceduto) chi coltiva una pianta e criminalizza gli stili di vita - conclude la nota - difficilmente può essere chiamato un paese civile".

Il caso Bianzino era approdato anche in Parlamento con la risposta del Ministro Giulio Santagata; sono in corso l’inchiesta della magistratura perugina (Pm. Giuseppe Petrazzini), una dell’istituto di pena e della direzione centrale, mentre anche sul piano politico da una parte c’è stata la solidarietà di An (il consigliere Zaffini è andato in carcere per un incontro) all’agente penitenziario indagato, dall’altra dure critiche da parte della sinistra e dai Verdi ad An ed in particole al consigliere Zaffini.

Da registrare infine un incontro con l’attuale compagna Roberta Radici, da parte dell’assessore regionale alle politice sociali Damiano Stufara. "La Regione farà pressione sulle autorità competenti per far emergere al più presto la verità su questa triste vicenda". Stufara, dopo aver espresso a nome della Giunta regionale il cordoglio per la morte di Aldo Bianzino; ha anche annunciato, azioni per trovare, in collaborazione con il Comune di Pietralunga, soluzioni "per un sostegno immediato alla famiglia, valutando - ha detto rivolgendosi a Roberta Radici - tutte le possibilità per assicurare a lei ed a suo figlio piena collaborazione e per rispondere alle vostre esigenze immediate".

"Chiedo giustizia per Aldo e per tutte le persone che si trovano a vivere la stessa condizione - ha detto Roberta Radici, che era accompagnata dal figlio e da alcuni amici -. All’improvviso ci siamo ritrovati senza compagno e senza nessuna fonte di sostentamento. Non sarà una cosa da poco abituarsi e accettare questa nuova situazione che ha anche dei risvolti pratici, visto che io e Aldo non eravamo sposati e quindi per lo Stato io non ho nessun diritto".

Perugia: blog di Beppe Grillo; Cristo si è fermato a Capanne

 

www.beppegrillo.it, 11 novembre 2007

 

Le droghe sono vietate ovunque in Italia tranne che in Parlamento. Il cittadino non parlamentare che fa uso di hashish è un delinquente da punire. Aldo Bianzino è stato arrestato per coltivazione di canapa indiana nel suo orto. Era un falegname. Viveva con la famiglia a Pietralunga, sulle colline vicino a Città di Castello. Nel carcere di Capanne è stato pestato a morte. Il medico legale ha riscontrato 4 ematomi cerebrali, fegato e milza rotte, 2 costole fratturate. Lascia una moglie e un figlio, aveva 44 anni e non aveva mai fatto male a nessuno. Un fisico esile, capelli biondi come quelli di un altro falegname finito in croce. Aldo è invece finito prima in cella di isolamento e poi al cimitero. È stata aperta un’inchiesta per omicidio volontario dal giudice Petrazzini. Il blog seguirà attentamente i prossimi avvenimenti e si recherà a Pietralunga. La morte di Aldo ha due cause. La prima è la detenzione per chi fa uso di canapa indiana. La seconda l’impunità di chi disonora la divisa e si comporta peggio dei criminali.

La prima ragione è assurda, riempie le carceri di tossicodipendenti e di consumatori occasionali. Giovanardi, compagno di partito di Mele donne-coca-champagne, su questo non è d’accordo, lui vuole quattro anni di carcere per un grammo di hashish. L’uso di canapa indiana va liberalizzato. Ci sarebbero meno pusher, meno finanziamenti alla criminalità organizzata, non più carceri che scoppiano. La stessa Cassazione ha ribadito che la mini coltivazione domestica di canapa non costituisce reato se essa "non si sostanzia nella coltivazione in senso tecnico-agrario ovvero imprenditoriale". Siamo al ridicolo.

La violenza istituzionale sta diventando un vizio mortale, dopo Aldrovandi, Bolzaneto e Scuola Diaz. Riporto dal sito Il Pane e le Rose: "Dunque Aldo è stato sottoposto ad un pestaggio mortale da parte di guardie carcerarie, mentre si trovava in isolamento, probabilmente in conseguenza del fatto di aver dato in escandescenze. Il pestaggio da parte di personale dipendente dal Ministero di Grazia e Giustizia emerge, ancora una volta, essere una pratica corrente all’interno del Carcere per i detenuti che creano problemi. Esso è praticato da personale specializzato che utilizza tecniche professionali finalizzate ad evitare denunce sulla base di superficiali riscontri medico legali.

Dobbiamo immaginare nella loro compiutezza formale i dispositivi che stanno dietro questa pratica: vi sarà un manuale - riservato - dove viene descritta la procedura da seguire nel pestaggio; vi saranno percorsi di formazione con esperti che insegnano la tecnica ed i gesti più opportuni e ne supervisionano la messa a regime, un percorso di training, una valutazione attenta delle attitudini e delle capacità di chi è chiamato ad applicare materialmente, nel lavoro di tutti i giorni, la tecnica". Se quanto riportato fosse vero, suggerisco che il "massaggio carcerario" sia praticato anche alla popolazione parlamentare che fa uso di droga in aula, in ufficio o negli alberghi della capitale.

 

Beppe Grillo

Perugia: caso Bianzino; il Sappe risponde a blog di Beppe Grillo

 

Comunicato Sappe, 11 novembre 2007

 

Egregio Signor Grillo, leggiamo spesso i suoi interventi sul suo blog www.beppegrillo.it, compreso uno degli ultimi che riguarda la morte di Aldo Bianzino avvenuta nel carcere di Capanne a Perugia (Cristo si è fermato a Capanne, del 9 novembre scorso).

Seguiamo anche noi la vicenda di Aldo Bianzino, sin dal 23 ottobre, quando abbiamo appreso la notizia. Una morte come quella di Aldo, avvenuta per cause ancora da accertare, ci impone di fermarci e di riflettere. Ce lo impone la nostra coscienza, ma lo facciamo anche per lavoro: siamo il sindacato più rappresentativo del Corpo di Polizia Penitenziaria con oltre dodicimila iscritti su circa quarantaduemila tra uomini e donne che lavorano ogni giorno negli Istituti penitenziari.

Le morti che avvengono in carcere non sono tutte uguali. Ci sono quelle che avvengono per cause naturali, comunque tragiche, ma inevitabili e che interessano da vicino solo i familiari e i conoscenti della persona che è venuta a mancare.

Ci sono i suicidi, che interessano anche i pochi "addetti ai lavori", come noi poliziotti, come i neo garanti dei detenuti e le associazioni che si occupano di carcere (anche qualche politico, ma sospettiamo più per "passerella" che per profondo interessamento).

Ci sono poi le morti come quelle di Aldo che gettano un’ombra sulle Istituzioni e soprattutto sulle persone che vi lavorano. Queste ultime sono quelle più dolorose per chi ha un profondo senso dello Stato, soprattutto se lo Stato lo rappresenta e lo tutela ogni giorno come gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria.

È doloroso inoltre constatare che delle reali condizioni di vita e di lavoro all’interno degli istituti penitenziari italiani ci si interessa - spesso e con tutti gli onori della cronaca - solo quando la notizia è "appetibile". E su un evento come quello avvenuto ad Aldo Bianzino ci stanno girando intorno in parecchi. Ci si gira intorno, ma mai varcando quella soglia di "mistero" e "incertezza" che aleggia intorno al carcere, come purtroppo avviene anche ora nella tragica vicenda di Aldo Bianzino.

Come considerare se non "superficiali" le dichiarazioni che Lei ha riportato nel suo blog che accusano a priori la Polizia Penitenziaria? Come non considerare se non "superficiali" i riferimenti alle "guardie carcerarie" e al "ministero di grazia e giustizia"?

Il Ministero da qualche anno si chiama "Ministero della Giustizia" e gli Agenti di Polizia che operano presso gli istituti penitenziari italiani, hanno cambiato denominazione da "Corpo degli Agenti di Custodia" a "Corpo di Polizia Penitenziaria".

Quest’ultimo è un cambiamento avvenuto nel 1990 e non è stato solo di facciata. È stato il frutto di un profondo cambiamento di mentalità cominciato nel nostro Paese dal dopoguerra (forse anche prima) che ha avuto fondamentali passaggi come la riforma introdotta dalla Legge 354/75 e quella della Legge 395/90.

Ignorare o far finta di ignorare questi cambiamenti non è più ammissibile e chi voglia far davvero luce su quanto avviene nei nostri Istituti penitenziari, non può continuare a chiamarci "Guardie carcerarie", altrimenti è lecito presumere che un simile appellativo sia solo frutto di un pregiudizio.

Far riferimento a fantomatiche squadre di personale addestrato a compiere pestaggi chirurgici all’interno degli Istituti penitenziari, non solo è una volgare accusa nei confronti di tutte le oltre quarantaduemila persone che lavorano nella Polizia Penitenziaria, ma di certo non aiuta né ad accertare se ci sono responsabili della morte di Aldo Bianzino e quindi ad assicurarli alla giustizia, né tantomeno a prendere coscienza che il carcere è un problema che va affrontato tutti i giorni e non solo in occasione di eventi, sia pure tragici, come quello avvenuto a Capanne.

Noi appartenenti alla Polizia Penitenziaria affrontiamo il problema carcere 365 giorni l’anno, 24 ore su 24, nonostante le disastrose carenze di personale, nonostante la disinformazione che grava sul nostro operato, nonostante non si perda occasione di accusarci di tutti gli errori e gli orrori di quello che avviene in carcere. Siamo i primi ad addolorarci della morte di Aldo Bianzino e a chiedere che la giustizia faccia il suo corso, ma intanto chiediamo che chi voglia davvero occuparsi di carcere, lo faccia con serietà e onestà, senza attingere a pregiudizi o retaggi che appartengono al passato e che sono usati solo per gettare discredito gratuito nei confronti di chi lavora negli Istituti penitenziari italiani ogni giorno.

Signor Grillo, le saremmo grati se vorrà pubblicare integralmente questa lettera nel suo blog, sperando che questo nostro intervento possa aggiungere un ulteriore tassello alla presa di coscienza da parte dei cittadini, di tutto quel che avviene negli Istituti penitenziari d’Italia. La saluto con cordialità.

 

Il Segretario Generale del Sappe

Dott. Donato Capece

Roma: Garante; Br Diana Blefari in gravi condizioni di salute

 

Comunicato stampa, 11 novembre 2007

 

La brigatista rossa Diana Blefari Melazzi, in carcere con il 41 bis per l’omicidio di Marco Biagi, in gravissime condizioni di salute mentale. Il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni: "in tutta Italia sono cinque le donne detenute con il 41 bis, un regime disumano che i giudici americani hanno addirittura equiparato alla tortura".

Sono gravissime le condizioni di salute mentale di Diana Blefari Melazzi, l’esponente delle Brigate Rosse che nel carcere di Rebibbia sta scontando, in regime di 41bis, l’ergastolo per l’omicidio del giuslavorista Marco Biagi. La denuncia arriva dal Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni che, negli ultimi mesi, ha costantemente seguito l’evolversi della situazione. "Alla Blefari Melazzi - ha detto Marroni - è stato rinnovato per la terza volta il 41 bis senza tenere in considerazione la sua malattia. Schizofrenica e già inabile psichicamente, figlia di una madre con la stessa malattia morta suicida, dal momento dell’arresto la donna ha conosciuto un progressivo deterioramento delle sue condizioni".

Arrestata il 22 dicembre 2003, Diana Blefari Melazzi era ricercata da quando venne scoperto il covo di via Montecuccoli a Roma, di cui era intestataria. Riconosciuta come "la compagna Maria" - che Cinzia Banelli indicò fra le staffette che seguirono il professor Biagi la sera dell’omicidio - alla Blefari sono stati attribuiti il noleggio del furgone usato per la preparazione dell’omicidio e la partecipazione al pedinamento del professore a Modena.

Sul suo portatile fu rivenuto anche il file con la rivendicazione dell’omicidio. Le sue condizioni attuali sono giudicate dal Garante Marroni "sconcertanti": nel suo delirio la Blefari Melazzi ritiene che la struttura carceraria (agenti e detenute comprese) agiscano contro di lei. Il suo stato è progressivamente peggiorato un anno e mezzo dopo l’arresto. Le detenute dell’alta sicurezza, sezione attigua al 41 bis, ascoltano quotidianamente le sue urla e i suoi lamenti.

Per lunghi periodi la donna non mangia e si chiude al mondo, rifiuta i farmaci e trascorre intere giornate a letto, al buio e senza contatti neanche con i familiari e l’avvocato. Inviata due volte all’osservazione psichiatrica di Sollicciano sembra migliorare, ma una volta tornata a Rebibbia le sue condizioni peggiorano di nuovo.

Gli avvocati hanno chiesto una perizia psichiatrica ma il Tribunale non ha ancora sciolto la riserva sulla possibilità di eseguirla A complicare le cose, fanno notare dall’Ufficio del Garante dei detenuti, la circostanza che sul regime del 41 bis le direzioni delle carceri non hanno potere, dal momento che la misura è disciplinato direttamente dal ministro di giustizia, dalla Direzione Distrettuale Antimafia e dalla polizia specializzata nella criminalità organizzata.

"La vicenda della Blefari Melazzi è emblematica di come le donne vivono il 41 bis - ha detto il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio Angiolo Marroni -, un regime disumano che anche i giudici americani hanno equiparato alla tortura. In tutta Italia in 41 bis ci sono attualmente 5 donne: 2 a Rebibbia e 3 all’Aquila una delle quali, colpita da ischemia cerebrale, è ricoverata in ospedale.

Chi è sottoposto a questa misura, uomini o donne in egual misura, vive isolato, in condizioni disastrose a livello di salute mentale, con poche possibilità di socializzare e di vivere in condizioni di normalità. Sulle vicende dei detenuti sottoposti a tale regime abbiamo più volte sollecitato le istituzioni, in particolare Ministero e Dap, senza ottenere risposte. Il 41 bis è una norma che forse, e sottolineo forse, può andare bene in momenti di grave emergenza democratica ma che, ritengo, oggi non abbia nulla a che fare con i principi inviolabili che reggono uno Stato come il nostro".

Cosenza: intervento del Papa per il detenuto paraplegico

 

Asca, 11 novembre 2007

 

Dopo l’appello recapitatogli, nel settembre scorso, dal leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, è intervenuto il Pontefice, attraverso la Segreteria di Stato del Vaticano, per il caso del giovane detenuto pugliese, Andrea B., 25 anni, in attesa del processo e del primo grado di giudizio, disabile al 100%, costretto alla sedia a rotelle, da tempo paralizzato nel lettino di una cella del carcere di Foggia (dove si trova attualmente, dopo il trasferimento dalla casa circondariale di Reggio Calabria), che chiede di "essere curato per eliminare i forti dolori che l’affliggono e che da 9 mesi aspetta di essere sottoposto ad un esame di risonanza magnetica".

Corbelli è stato informato telefonicamente dell’intervento del Vaticano, dopo il suo appello. La Segreteria di Stato del Vaticano dopo aver ricevuto la lettera-appello di Corbelli, indirizzata al Papa, ha subito attivato gli Uffici preposti della Santa Sede per avere informazioni su questo caso. A metà settembre, dopo un appello dello stesso leader di Diritti Civili, era intervenuto anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che aveva chiesto una immediata relazione al Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) su questo caso.

"Mi è stato comunicato dall’Ufficio del Vaticano che si occupa delle carceri che dalle informazioni da loro acquisite risulta che il detenuto Andrea B. viene curato, naturalmente compatibilmente con le sue condizioni di salute. Il giovane è paraplegico e ha una pallottola conficcata nella spina dorsale. Ringrazio Papa Benedetto XVI - conclude Corbelli - per il suo pronto intervento".

Noto: permesso a detenuti per attività recupero ambientale

 

Comunicato stampa, 11 novembre 2007

 

Quattro detenuti della casa di reclusione di Noto in Permesso Speciale in attività di recupero ambientale. In occasione di Salvalarte Sicilia 2007, nelle giornate di sabato 10 e domenica 11 Novembre, presso il sito archeologico del "Castelluccio", facente parte del territorio di Noto, volontari delle varie associazioni, provvederanno a liberare il sentiero, una antica Regia Trazzera che conduce alla grotta dei Santi, ed all’interno dell’area del villaggio preistorico sistemare l’accesso ad una delle tombe più rappresentative della necropoli del Castelluccio ed infine apporre la segnaletica per il Castello medievale.

Tale iniziativa sociale, coordinata dalla Direzione dei Beni Archeologici della Soprintendenza di Siracusa, unitamente alle associazioni Legambiente Noto, Club Val di Noto, l’Amministrazione Comunale dei Servizi Sociali del Comune di Noto, cittadini volontari, si inserisce l’Amministrazione Penitenziaria della Direzione della Casa di Reclusione di Noto e la Magistratura di Sorveglianza di Siracusa, la quale ha autorizzato quattro detenuti della casa di reclusione di Noto, a fruire di Permessi Speciali ai sensi dell’articolo 30 comma 2 dell’Ordinamento Penitenziario, che prevede la concessione di Permessi Speciali per particolari eventi nel sociale.

Tale impiego di detenuti per utilità nel sociale, è il frutto del protocollo d’intesa tra il Dap ed il mondo del volontariato del settore ambientale, regionale, comunale e provinciale. I detenuti per i quali si apriranno le porte del carcere, sono stati preparati con dei corsi sul recupero del patrimonio ambientale, e gli stessi sono stati scelti per il loro comportamento intra-murario, per il breve fine pena.

Il progetto ha visto coinvolta l’Area Trattamentale ed il Corpo di Polizia Penitenziaria che hanno collaborato per la buna riuscita dell’iniziativa. Il carcere, non solo inteso come luogo di custodia dove scontare la pena, ma luogo preposto al reinserimento futuro del detenuto nella società libera.

L’osservazione, il trattamento, la legge Gozzini, norme che mirano alla riabilitazione del condannato; un percorso difficile e laborioso, che viene svolto dalla Polizia Penitenziaria e dall’equipe di osservazione all’interno delle mura dell’ istituto. In questo caso il sociale, come volàno per ben 4 detenuti a cui viene offerta l’occasione di fruire per la prima volta di tali benefici, un impegno nel sociale che li condurrà fuori dalle mura del carcere, per avviarli ad un riscatto , ben motivati per un futuro reinserimento degli stessi nella vita sociale.

Si ringraziano il Dap - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ed il Prap di Palermo per aver consentito alla Casa di Reclusione di Noto di aver preso parte a tale progetto di iniziativa sociale.

 

Il Dirigente della Casa di Reclusione di Noto

D.ssa Angela Lantieri

Droghe: rapporto Ministero della Salute sull'attività dei Ser.T.

 

Notiziario Aduc, 11 novembre 2007

 

Progressivo invecchiamento negli ultimi 15 anni dei tossicodipendenti in cura ai Servizi territoriali; aumenta il consumo di cocaina anche se più del 70% degli assistiti entra nei Sert per aver consumato eroina; più ingressi degli adolescenti in cura nei servizi (da 87 casi del 1991 a 327 casi dello scorso anno).

Sono alcuni dei dati salienti del rapporto sull’attività dei Sert 2006 a cura del ministero della salute, che è stato alla base della relazione al Parlamento di questa estate.

Over 40 sono il 27%. Lo studio afferma che la percentuale delle persone in cura di età 20-24 è diminuita (28,6% nel 1991, 11,0% nel 2006) e quella relativa alla fascia di età più avanzata (superiore ai 39 anni) è regolarmente aumentata (2,8% nel 1991, 27,5% nel 2006). In termini assoluti questa fascia è passata da 2560 persone a 47.206. I giovanissimi sotto i 15 anni sono passati dallo 0,1% del totale degli assistiti (87 persone ) allo 0,2 (327 ragazzi).

79% ospiti rientrati o già assistiti. Nel corso del 2006 sono stati presi in carico dai 514 Servizi pubblici per le tossicodipendenze considerati nel rilevamento (su 544 attivi) 171.353 tossicodipendenti. I nuovi utenti dell’anno scorso rappresentano il 20,9% ( 35.766) del totale dei soggetti presi in carico; il resto degli ospiti 135.587 pari al 79,1% del totale, è rappresentato da utenti rientrati o già in carico dagli anni precedenti.

86% utenti sono maschi. distinguendo l’utenza per sesso, i maschi sono 148.396 (86,6%) e le femmine 22.957 (13,4%) con un rapporto M/F pari a 6,5. Questo valore, costante negli anni più recenti, conferma che la tossicodipendenza è una patologia prevalentemente maschile.

Eroina rimane al top. Il consumo di eroina rimane il principale motivo della cura dei tossicodipendenti nei Sert ma è aumentato quello di cocaina. ‘Per quanto riguarda le sostanze stupefacenti per le quali ci si è rivolti o si è stati segnalati dalle Prefetture ai Sert l’eroina resta la droga più presente con il 71,3% degli utenti in carico. Al secondo posto la cocaina con il 14% e al terzo la cannabis con il 9,6%. Negli ultimi 15 anni la situazione si è modificata perché nel 1991 l’eroina rappresentava il 90,1% dei casi e la cocaina solamente l’1,3%.

90% utenti Trento per eroina; 60% in Lombardia. Nella provincia autonoma di Trento risultano eroinomani almeno il 90,7% degli utenti; viceversa l uso di tale sostanza è inferiore alla media nazionale in 5 regioni con un minimo in Lombardia (60,6%). L assunzione di cannabinoidi è piuttosto elevata nella Provincia autonoma di Bolzano, in Veneto, in Friuli Venezia Giulia, in Liguria, nelle Marche, in Molise e in Puglia (rispettivamente 14,6%, 12,0%, 12,1%, 12,2%, 11,6%, 11,1% e 15,6%), mentre quella di cocaina soprattutto in Lombardia (26,1%) ma anche in Emilia Romagna (14,2%), nel Lazio (16,6%) e in Campania (15,3%).

Droghe: Giovanardi (Udc); 4 anni per un grammo? stia dentro

di Giacomo Galeazzi

 

La Stampa, 11 novembre 2007

 

Carlo Giovanardi, quattro anni di carcere per un grammo di hashish. Colpa della legge che porta il suo nome e quello di Fini, protesta Rifondazione che ne chiede l’abrogazione. Cosa replica?

"Non vedo lo scandalo nella condanna del marocchino recidivo. Sono tre volte che lo beccano, adesso stia dentro. La Fini-Giovanardi, poi, non c’entra nulla: il giudice ha applicato la normativa precedente. Già il tossicodipendente non subisce nessuna sanzione penale, al massimo il ritiro della patente. Pure lo spacciatore dovrebbe farla franca? Il grammo per lo spacciatore è motivo di condanna sia prima che dopo la nostra legge. Anzi la Fini-Giovanardi ha specificato che la quantità è un indizio con cui il magistrato può distinguere tra consumatore e spacciatore. Ma, aldilà della quantità, se la polizia pesca il marocchino che spaccia un grammo alla volta non è mica un consumatore. E giustamente finisce in carcere. Le vigenti tabelle relative alla quantità di stupefacente oltre la quale scattano le sanzioni penali previste dalla nuova legge sono improntate a buon senso e misura. Sono state definite da illustri tossicologi".

 

Ma la condanna è avvenuta per una quantità minima?

"È un mercante di morte recidivo, merita una sanzione severa in base al testo unico in vigore da vent’anni. Anche senza la Fini-Giovanardi, questo qui finiva in galera lo stesso. La nostra legge ha solo fatto piazza pulita di casi vergognosi: magari a gente trovata con un chilo di eroina o cocaina veniva riconosciuto dal giudice l’"uso personale", mentre altri andavano in carcere per un grammo. I nostri parametri sono serviti ad abolire tale disparità. È una questione di buon senso. Se ti becco con un pacchetto di sigarette in tasca, presumo che sei un fumatore. Però se sotto la giacca hai, legate con uno spago, venti stecche, e siamo a Napoli, il giudice non ha motivo di pensare che sei un contrabbandiere?".

 

Non è un eccesso di rigore?

"No, guardi che su questo litigammo anche con Muccioli che voleva una presunzione assoluta, cioè che chiunque venga trovato con una quantità di droga superiore alla soglia per definizione è uno spacciatore. Ciò, invece, grazie alla nostra legge, è un indizio importante per il giudice che però deve dimostrare che è uno spacciatore. Se mi trovano con un milione in contanti si presume che è una tangente, salvo se dimostro che ho vinto al Totocalcio o l’ho ereditato dalla zia. Non è che se lo spacciatore vende una dose alla volta non può essere condannato. Quindi se recidivo va dentro per un grammo. Rifondazione comunista ha preso un abbaglio clamoroso. Ma la vergogna sa qual è?".

 

Quale?

"Non c’è Paese al mondo in cui si trova chi difende gli spacciatori. Negli Stati Uniti e in Francia vanno in galera anche i consumatori. I ragazzi italiani devono sapere che se vanno a Parigi e New York e li pescano con la droga in tasca vanno dritti in galera. In Italia c’è una legge molto civile che non criminalizza i consumatori, ma se andiamo a difendere anche gli spacciatori diventa impossibile pensare di fermare la criminalità. Dopo la modica quantità di droga, avanti di questo passo finiremo per introdurre anche il modico furto, la modica rapina, la modica prostituzione, il modico stupro. Una deriva terribile".

 

Tutto questo per un grammo?

"Guardi che io lo dissi già un anno fa, quando realizzammo le tabelle delle quantità. È pretestuosa la polemica di chi accusa la legge Fini-Giovanardi di portare più tossicodipendenti in carcere. La legge non dice questo anche se c’è ancora molta gente che lo sostiene, non avendo letto bene il provvedimento. Anzi, per i tossicodipendenti sono stati introdotti maggiore prevenzione e maggiori possibilità di recupero. La linea dura invece è riservata agli spacciatori e all’attività della criminalità organizzata. Per gli spacciatori di morte ci vuole la linea dura dell’Italia. Dunque, il giudice di Torino ha fatto bene il suo lavoro".

 

 

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